34.

La mia camera aveva tutta l’allegria di una segreta e il fascino di una tomba. Non sarei riuscita a rimanere lì, ma anche l’idea di andarmene non mi attirava. Scappare di casa sarebbe stata una bazzecola rispetto all’avventura in Messico e un’esperienza noiosa dopo il mese passato nel cimitero di macchine. Ma il bisogno di cambiare a poco a poco si fece strada nella mia mente.

Trovato. La risposta mi giunse improvvisa come una collisione. Sarei andata a lavorare. Non sarebbe stato difficile convincere mamma; dopotutto a scuola ero un anno avanti e mia madre era una che credeva fermamente nell’autosufficienza. Sarebbe stata addirittura contenta di vedermi così intraprendente, così simile a lei. (Le piaceva parlare di sé come di un’autentica «ragazza che si è fatta da sola».)

Una volta stabilito di trovare un lavoro, restava solo da decidere per che tipo di mestiere fossi più portata. Il mio orgoglio intellettuale mi aveva impedito di scegliere tra le materie scolastiche dattilografia, stenografia e altri corsi per segretaria, perciò il lavoro d’ufficio era escluso. Per le fabbriche di materiale bellico e i cantieri navali era necessario un certificato di nascita, e il mio avrebbe rivelato che avevo quindici anni e quindi non potevo lavorare. Così era escluso anche un mestiere ben pagato nel campo della difesa. Sui tram le donne avevano sostituito gli uomini come bigliettaie e conducenti, e mi piaceva l’idea di andare su e giù per le colline di San Francisco in una divisa blu scuro a far biglietti dal mattino alla sera.

Come previsto, mamma non fece difficoltà. Il mondo girava così alla svelta, si facevano così tanti soldi, a Guam e in Germania moriva così tanta gente che frotte di sconosciuti diventavano buoni amici dall’oggi al domani. La vita costava poco e la morte era del tutto gratuita. Come avrebbe potuto trovare il tempo di pensare alla mia carriera scolastica?

Alla sua domanda su che cosa avevo intenzione di fare risposi che avrei trovato un lavoro sui tram. Scartò la proposta dicendo: «Non accettano persone di colore sui tram».

Vorrei poter affermare di aver provato una rabbia improvvisa seguita dal nobile proposito di rompere quella tradizione restrittiva. Ma a dire la verità la mia prima reazione fu di delusione. Mi vedevo già vestita con un bel completo di serge blu, un fascio di biglietti in mano e un sorriso gioioso che avrebbe reso più raggiante la giornata lavorativa dei passeggeri.

Dalla delusione salii piano piano la scala delle emozioni fino all’indignazione più sprezzante e infine a quella testardaggine che fa serrare la mente come le mascelle di un bulldog furioso.

Avrei lavorato su un tram e indossato un completo di serge blu. Mamma mi dimostrò il suo appoggio con uno dei suoi soliti consigli stringati: «È quello che vuoi fare? Allora la sola cosa che può fermarti è un insuccesso. Metticela tutta. Te l’ho detto tante volte: “Non posso è come non m’importa”. Non c’è posto per nessuno dei due».

Tradotto, significava che niente era impossibile e niente doveva lasciare indifferente un essere umano. Era l’incoraggiamento più esplicito che potessi sperare.

Negli uffici dell’azienda tranviaria di Market Street l’impiegata sembrava sorpresa di vedermi tanto quanto io ero sorpresa di trovare l’interno sudicio e arredato in modo squallido. Mi ero immaginata superfici lucide e pavimenti con la moquette. Se non avessi incontrato resistenza, forse avrei deciso di non lavorare per una società che ostentava tanta miseria. Fatto sta che spiegai alla segretaria di essere venuta per un lavoro. Mi chiese se ero stata mandata da un’agenzia, e quando risposi di no mi disse che accettavano solo persone inviate dalle agenzie.

Le feci notare che i giornali del mattino avevano pubblicato un elenco di annunci per conducenti e bigliettaie. Assunse un’espressione stupita che la mia natura sospettosa non mandò giù.

«Desidero fare domanda per l’impiego offerto nell’annuncio del Chronicle di questa mattina e vorrei vedere il direttore del personale». Mentre parlavo con tono sprezzante e guardavo la stanza come se avessi avuto un pozzo petrolifero in cortile, mi sentivo le ascelle punzecchiate da milioni di aghi dalla punta rovente. L’impiegata vide una via di fuga e ci si tuffò.

«È fuori. È fuori tutto il giorno. Ripassi domani e, se c’è, sono sicura che potrà vederlo». Poi si girò facendo ruotare la sedia sulle viti arrugginite. Dovevo considerarmi congedata.

«Posso sapere come si chiama?»

Si voltò per metà, mostrandosi sorpresa di trovarmi ancora lì.

«Come si chiama? Chi?»

«Il direttore del personale».

Eravamo saldamente unite dall’ipocrisia di dover recitare la commedia fino in fondo.

«Il direttore del personale? Oh, è Mr. Cooper, ma non sono sicura che domani lo troverà. È... Oh, ma può sempre provare».

«Grazie».

«Non c’è di che».

E uscii da quella stanza ammuffita passando nell’atrio ancora più ammuffito. Una volta in strada rividi me e la segretaria percorrere passi fin troppo familiari, sebbene io non mi fossi mai trovata in una circostanza simile e con ogni probabilità neanche lei. Sembravamo delle attrici che, pur conoscendo la commedia a memoria, erano ancora capaci di piangere come la prima volta per le vecchie tragedie e ridere con spontaneità delle situazioni comiche.

Quello spiacevole incontro non aveva niente a che fare con me, con il mio io, e nemmeno con quella sciocca impiegata. Si trattava di un sogno ricorrente, architettato anni prima da stupidi bianchi, che tornava a perseguitarci di continuo. Io e la segretaria eravamo come Amleto e Laerte nell’ultima scena, costrette a batterci fino alla morte a causa del male fatto da un avo a un altro avo. Anche perché la tragedia doveva pur finire in qualche modo.

Non mi limitai a perdonare l’impiegata, ma la vidi come un’altra vittima dello stesso burattinaio.

Una volta sul tram, pagai la corsa e la bigliettaia mi lanciò la solita occhiata sprezzante dei bianchi. «Avanzare lungo il tram, prego, avanzare». E fece leggermente tintinnare le monete.

Il suo accento nasale del Sud troncò la mia riflessione spingendomi a esaminare a fondo i miei pensieri. Tutte bugie, tutte comode bugie. La segretaria non era innocente, e nemmeno io. Tutta la messinscena che avevamo interpretato in quella sudicia stanza aveva a che fare proprio con me, nera, e con lei, bianca.

Non avanzai lungo il tram ma rimasi accanto alla bigliettaia lanciandole occhiate furiose. La mia mente urlava così forte che avevo le vene pulsanti e la bocca contratta come una prugna secca.

AVREI OTTENUTO QUEL LAVORO. SAREI DIVENTATA UNA BIGLIETTAIA E AVREI FATTO BIGLIETTI DAL MATTINO ALLA SERA. CI SAREI RIUSCITA.

Le tre settimane successive furono un nido d’ape di determinazione con qualche spiraglio per lasciar entrare e uscire le giornate. Le organizzazioni nere alle quali chiesi aiuto mi fecero rimbalzare di qua e di là come un volano sul campo da gioco. Perché insistevo con quel particolare impiego? C’erano altri lavori richiestissimi e pagati quasi il doppio. I funzionari subalterni con cui riuscii a ottenere un colloquio mi presero per matta. Forse lo ero davvero.

Il centro di San Francisco divenne freddo ed estraneo, e le strade che avevo amato sentendole familiari adesso erano viottoli sconosciuti che si snodavano con intenzioni malvagie. I vecchi edifici, le cui facciate grigie in stile rococò mi richiamavano alla memoria i cercatori d’oro, Diamond Lil, Robert Service, Sutter e Jack London, erano diventati imponenti strutture che si erano unite con il perfido scopo di tenermi fuori. Andavo alla società tranviaria con la frequenza di un dipendente. La lotta si estese. Non ero più in conflitto solo con l’azienda di Market Street, ma anche con l’atrio di marmo del palazzo che ospitava i suoi uffici, con gli ascensori e i loro addetti.

In questo periodo di tensione io e mamma compimmo i primi passi del lungo cammino verso una matura ammirazione reciproca. Non chiedeva mai resoconti e io non le fornivo particolari. Ma ogni mattina preparava la colazione e mi dava i soldi per il tram e il pranzo come se stessi andando al lavoro. Comprendeva la logica perversa della vita, secondo la quale è nella lotta che si trova la gioia. Sapeva che non ero in cerca di gloria e dovevo esaurire ogni possibilità prima di rinunciare.

Una mattina, mentre uscivo di casa, disse: «Dalla vita otterrai quello che hai investito. Metti tutto il cuore nelle cose che fai, prega, e poi aspetta». Un’altra volta mi ricordò: «Aiutati che Dio t’aiuta». Aveva una scorta di aforismi che scodellava a seconda delle occasioni. Stranamente, benché fossi stanca dei cliché, il suo modo di esporli li rendeva per certi aspetti nuovi, facendomi riflettere. Non potrei mai dire con esattezza come ottenni il posto. So solo che un giorno, noioso come tutti gli altri, ero seduta nell’ufficio dell’azienda tranviaria e aspettavo come al solito di essere ricevuta. L’impiegata mi chiamò al banco e mi allungò un fascio di carte. Erano moduli per la domanda di lavoro. Disse che andavano compilati in triplice copia. Ebbi poco tempo per chiedermi se avessi vinto o meno, poiché per rispondere alle domande dovetti subito far ricorso alla mia abilità nel mentire. Quanti anni avevo? Elencare i precedenti impieghi, dall’ultimo fino al primo. Quanto guadagnavo, e perché avevo lasciato il posto? Dare due referenze (non parenti).

A un tavolino, la mia mente e io intrecciammo una serie di mezze verità e spudorate bugie. Mantenni una faccia priva di espressione (un’arte antica) e scrissi in fretta la favola di Marguerite Johnson, anni diciannove, ex dama di compagnia e autista di Mrs. Annie Henderson (una signora bianca) di Stamps, Arkansas.

Dovetti fare esami del sangue, test attitudinali, test di coordinazione fisica e test di Rorschach, poi una splendida mattina fui assunta come la prima dipendente nera dei tram di San Francisco.

Mamma mi diede i soldi per far confezionare su misura il completo di serge blu, e imparai a compilare gli abbonamenti, a dare il resto giusto e forare i tesserini settimanali. Il tempo passò in un lampo e ben presto mi ritrovai a dondolare in fondo a una vettura sferragliante, sorridendo con dolcezza e invitando i passeggeri a me affidati ad «avanzare, prego».

Trascorsi sei mesi su e giù per le ripide colline di San Francisco, con il tram che vibrava in salita e filava veloce in discesa. Scampanellando in Market Street, con le sue misere case per marinai senza tetto, oltre la tranquillità del Golden Gate Park e davanti alle abitazioni chiuse e in apparenza disabitate del Sunset District, sentivo di non avere più tanto bisogno del senso di protezione che mi dava il ghetto nero.

I miei turni di lavoro erano distribuiti talmente a casaccio da farmi subito pensare che i miei superiori li avessero scelti con cattiveria. Quando le accennai i miei sospetti, mamma disse: «Non preoccuparti. Chiedi quel che vuoi avere, e paga per quel che ottieni. E non ti lamentare».

Rimaneva sveglia per portarmi alla rimessa dei tram alle quattro e mezzo del mattino o venirmi a prendere quando mi davano il cambio poco prima dell’alba. Conoscendo i pericoli della vita, era convinta che sarei stata al sicuro sui mezzi pubblici, però «non avrebbe mai affidato la sua bambina a un tassista».

Alla ripresa delle lezioni, in primavera, ricominciai a occuparmi della mia istruzione. Il fatto di essere più saggia, più grande e indipendente, avere un conto in banca e dei vestiti comperati con i miei soldi mi dava una certezza: quella di avere appreso e fatto mia la formula magica che non mi avrebbe negato la vita spensierata dei miei coetanei.

Neanche per sogno. Nel giro di poche settimane mi resi conto che io e i miei compagni percorrevamo strade diametralmente opposte. Loro provavano interesse ed entusiasmo per le partite di football, mentre poco tempo prima io ero corsa giù lungo una montagna messicana buia e sconosciuta alla guida di un’auto. Loro pensavano solo a chi fosse degno di diventare presidente dell’associazione studentesca e quando avrebbero tolto l’apparecchio per i denti, mentre io avevo dormito per un mese nella carcassa di un’auto e avevo fatto le ore piccole su un tram.

Senza volerlo, ero passata dalla condizione di chi ignora di essere ignorante a quella di chi sa di essere consapevole. E la cosa peggiore era che non sapevo di che cosa fossi consapevole. Mi rendevo conto di sapere molto poco, ma ero certa che quanto dovevo ancora imparare non me l’avrebbero insegnato alla George Washington High School.

Cominciai a saltare le lezioni per andare a passeggiare nel Golden Gate Park o gironzolare tra i banchi scintillanti dei grandi magazzini. Quando mamma scoprì che marinavo la scuola, mi disse che se un giorno non avevo voglia di andare dovevo solo chiederlo e sarei potuta rimanere a casa, sempre che non ci fossero compiti in classe e il profitto rimanesse alto. Non voleva ricevere la telefonata di una bianca e sentirsi riferire qualcosa su sua figlia che lei non sapeva. E non voleva trovarsi costretta a mentire a una bianca perché io non ero abbastanza adulta da parlare chiaro. Da allora smisi di saltare le lezioni di nascosto, ma niente poté rischiarare quelle che ormai per me erano lunghe e tetre giornate di scuola.

Essere lasciati soli in bilico sulla corda dell’incoscienza giovanile significa sperimentare l’intensa bellezza della libertà assoluta e la minaccia di una perenne indecisione. Pochi sopravvivono all’adolescenza, sempre che qualcuno ci riesca. Quasi tutti si arrendono alla pressione vaga ma micidiale esercitata dal conformismo dell’età adulta. È più facile morire ed evitare i conflitti che sostenere una lotta costante con le forze superiori della maturità.

Fino a pochi anni or sono ogni generazione riteneva più conveniente ammettere la propria colpevolezza di fronte all’accusa di essere giovane e ignorante, e trovava più facile accettare la pena impartita dalla generazione precedente (che a sua volta aveva confessato lo stesso delitto qualche anno prima). L’ordine di crescere subito era più sopportabile dell’orrore senza volto di una meta che vacilla, la gioventù.

Le ore gloriose in cui i giovani si ribellavano contro il sole che tramontava avrebbero ceduto il passo a periodi di ventiquattro ore chiamati “giorni”, classificati con un nome e un numero.

Proprio nel momento in cui viene assalita dalle forze della natura, la ragazza nera si ritrova in mezzo a un fuoco incrociato di pregiudizi maschili, odio immotivato da parte dei bianchi e impotenza dei neri.

Il fatto che la donna nera americana sviluppi un carattere eccezionale viene spesso guardato con stupore, avversione e persino ostilità. Raramente viene accettato come l’inevitabile conseguenza della lotta vinta dai sopravvissuti, una vittoria che merita rispetto se non accoglienza entusiastica.