È notevole che la maggiore fra le opere politiche di Niccolò Machiavelli — i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio — offra, per quanto concerne la data di composizione e la struttura letteraria, altrettanti punti interrogativi, che l’industria e la sagacia degli interpreti non sono fin qui riuscite a risolvere in forma del tutto positiva. Composti, per certo, post res perditas, e, con ogni probabilità, in un periodo che, dal 1513 (o 1512), non si estende oltre il 1519 e, forse, addirittura, il 1517, al pari del Principe, dell’Arte della guerra, della Mandragola, delle Istorie fiorentine, i Discorsi appartengono, dunque, all’epoca della «sfortuna» politica dell’autore che, perso l’ufficio nel 1512 in seguito alla caduta della Repubblica «democratica» di Pier Soderini e al ritorno dei Medici, a «servire» da politico la sua città non sarebbe stato chiamato più. Non può escludersi, tuttavia, del tutto che ad un «commento» liviano Machiavelli pensasse già negli anni del segretariato, o, almeno, che la meditazione che, in quel medesimo periodo, lo impegnava e aveva ad oggetto non solo i moderni, ma anche gli antichi, tendesse a volte a strutturarsi nella forma di una libera glossa al testo dello storico latino (si pensi allo scritto Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellata, del 1503); né, per conseguenza, appare del tutto indegna di considerazione l’ipotesi che dei pensieri delineati ante res perditas, il quondam segretario conservasse appunti e materiali che poi, messosi al lavoro dei Discorsi, naturalmente elaborò e svolse. L’idea, per contro, che qualcuno ha avanzata in tempi recenti, secondo cui la cultura classica, che costituisce il fondamento della (presunta) svolta repubblicana dei Discorsi, sarebbe il risultato non delle esperienze politiche e intellettuali compiute e maturate nella prima parte della sua vita, ma degli «ozi» culturali seguiti alla composizione del Principe, — questa sì che è un’idea assurda; e tale che non meriterebbe di essere discussa se, quasi suo malgrado, non offrisse l’occasione di richiamare, e chiarire, alcuni punti preliminari, di varia, ma essenziale, importanza. E si cominci allora con l’osservare che, come la struttura «culturale» del Principe (così simile, sotto vari riguardi, a quella dei Discorsi) sta lì a dimostrare, ciò che Machiavelli scrisse nei primi tempi della sua «sfortuna» politica implica non solo l’immediato riferimento alle letture compiute e alle conoscenze acquisite prima dell’assunzione in Cancelleria e, quindi, durante gli anni del segretariato; ma implica altresì che la «svolta» repubblicana dei Discorsi non richiese una cultura nuova, — il ritrovamento di testi prima non considerati, o la diversa luce di un diverso criterio interpretativo: e non perché questa — la «svolta repubblicana» — si determinasse, dopo la composizione del Principe, sul fondamento della medesima «cultura», dei medesimi testi e autori. La ragione è, in effetti, ben altrimenti semplice, e radicale. Ed è che, nella vita e nel pensiero di Machiavelli, non si dà alcuna «svolta» repubblicana. Fautore della «libertà» e della «repubblica», e convinto, per conseguenza, della superiorità delle «leggi» e dei liberi «ordini» rispetto a qualsiasi tipo di principato, egli fu sempre, nel periodo del segretariato come in quello seguito alla catastrofe del Soderini e della Repubblica democratica; ed è il Principe che richiede di essere spiegato, nella sua genesi specifica e nelle sue tesi teoriche, nel quadro di questo tenace, costante e più profondo orientamento del suo pensiero.
Se questo è vero, non è facile tuttavia decidere quando, con esattezza, in quali anni e mesi della sua vita, Machiavelli abbia atteso, post res perditas, alla composizione dei Discorsi. La «lite» filologica che, dagli inizi degli anni cinquanta, per vario tempo occupò e divise i principali studiosi, italiani e stranieri, del suo pensiero, è stata, anche di recente, commentata con qualche commiserazione da chi, non avendovi partecipato, con tanto maggiore convinzione ha potuto esprimere le sue riserve sulla modestia e la scarsa concludenza dei risultati raggiunti. E certo, fra i sostenitori della tesi tradizionale (che poneva l’inizio dei Discorsi avanti la composizione del Principe e il seguito negli anni successivi), i fautori della idea che Discorsi, I.1-18 costituisse, in origine, un abbozzo di de republica, rimasto incompiuto e quindi collocato in testa al vero e proprio commento liviano, e quanti, infine, si persuasero che l’opera non fu iniziata se non nel tardo 1515, o addirittura agli inizi del 1516, per essere compiuta già nel 1517, la disputa si è chiusa alla pari, senza vincitori e senza vinti: come facilmente constaterà chi si volga all’ascolto della opinio communis, che si esprime in manuali, voci d’enciclopedia e altri luoghi siffatti. La incontrovertibile «verità dei fatti» non è stata raggiunta. Ma non per questo sarebbe giusto convenire senz’altro con il giudizio denigratorio che è stato testé riferito; e non solo perché, ad opera di quanti alimentarono la controversia sulla data dei Discorsi i passi essenziali e i luoghi comunque utili a una datazione interna sono pur stati messi in una luce che, per l’innanzi, non li avvolgeva con pari intensità e chiarezza, ma anche perché la discussione delle date, e quindi del cruciale rapporto che quest’opera intrattiene con il Principe, ha contribuito a rilevare, e a mettere a nudo, la persistenza, nella testa dei disputanti (o meglio, di alcuni di essi), di non pochi pregiudizi «ideologici»: ossia la sotterranea, e quasi inconfessata, volontà di mettere fra parentesi il Principe, di considerarlo come un «episodio» presto riassorbito e ricomposto nelle forme più accettabili del «pensare repubblicano». Il che sarà poco, ma non è niente, e a qualcosa è pur servito e può ancora servire.
Del resto, e con questo si torna allo specifico profilo cronologico, per merito dei disputanti fu dato maggior risalto che prima non avesse a quel luogo della «dedica» dell’opera a Zanobi Buondelmonti e a Cosimo Rucellai, nel quale, riandando con il pensiero alle «conversazioni» degli Orti Oricellari, subito dopo aver osservato che nel suo libro gli era accaduto di «esprimere» quanto aveva imparato «per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo», Machiavelli si rivolge ai suoi amici per mettere in chiaro che quel libro egli era stato «forzato» a scriverlo, dal momento che per sé medesimo mai l’avrebbe «scritto». Un passo, questo, molto importante e che giova tener presente: anche se, forse, non convenga prendere alla lettera, o secondo la lettera più ovvia, quasi che con il termine «scrivere» Machiavelli intendesse la materiale scrittura e non piuttosto l’atto del ridurre in forma di «libro» una materia da lungo tempo trattata e, tuttavia, non sistemata. Un passo che, per altro (e, anzi, proprio per questo) dà bene l’idea di come, con ogni probabilità, quest’opera laboriosa passasse dalla forma di una libera meditazione politica sul passato romano (e sul presente fiorentino, italiano ed europeo) a quella di una trattazione, libera bensì anch’essa, ma pur disposta, con qualche cura formale intorno ad alcuni nuclei di più forte evidenza strutturale. E del resto, è ben vero che alle conversazioni degli Orti Machiavelli esplicitamente fa risalire la genesi dell’opera in quanto tale; ma il suo contenuto, la viva materia concettuale che egli vi elaborò, le fondamentali categorie interpretative del mondo antico e moderno, — tutto questo non è messo in relazione con le sue frequentazioni del celebre giardino della famiglia Rucellai, perché in modo esplicito, e con intenzione, è invece assegnato alla «lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo».
Anche i Discorsi, dunque, come il Principe, furono scritti in un arco di tempo relativamente breve: forse, in questo conclusivo periodo di rielaborazione e sistemazione del materiale, fra il tardo 1515 e il 1517. E impegnarono Niccolò Machiavelli, nella prima fase del suo «esilio» dalla politica attiva, in una riflessione che, non meno di quella eseguita nel Principe, attinse il fondamento o, se si preferisce, l’estremo limite, delle sue possibilità concettuali e, per gli anni a venire, orientò il giudizio da lui di volta in volta recato sulle cose fiorentine, italiane ed europee. Chi pensi al nesso, fondamentale e ancora assai scarsamente illuminato, che, nella viva realtà del suo pensiero, lega ai Discorsi le Istorie fiorentine, comprenderà, d’altra parte, che questa, che ora è stata formulata, non è una qualsiasi ovvietà. È, al contrario, una proposta di indagine e di nuovo studio. Non soltanto, o non tanto, al Principe, infatti, deve guardarsi quando ci si faccia ad indagare l’ultima, grande, opera di Machiavelli; ma sopra tutto ai Discorsi e alla geniale teoria delle lotte sociali e politiche che, nei primi capitoli del primo libro, egli vi delineò.
Se al primo dei due quesiti può rispondersi, alla meno peggio, così, assai più deludente è la soluzione che, allo stato attuale delle conoscenze, può fornirsi al secondo, relativo, come si ricorderà, alla struttura letteraria dell’opera. Per quanto occorra ribadire che, anche a prescindere dalla valutazione di I. 1-18 (che in qualche modo costituisce un blocco in sé compiuto), il «commento» liviano non presenta i caratteri di un’opera tecnica, sarebbe tuttavia difficile toglier valore e significato al fatto che è pur sempre alla prima deca dello storico latino che le considerazioni di Machiavelli si riferiscono. E poiché è così, legittimo appare il quesito relativo ai «precedenti», al «genere», alla tradizione letteraria alla quale Machiavelli s’ispirò per concepire e delineare il suo libro. Ma a un quesito siffatto, e proprio in quanto lo si formuli con rigore e concretezza, non è possibile dare risposta; e non perché il quesito sia in sé difettoso o artificioso, ma perché sono le cose stesse che, qui ed ora, impediscono di fornire ad esso la conveniente risoluzione. Studiosi insigni hanno opinato che fra i «precedenti dei Discorsi» possano contarsi i Rerum memorandarum libri di Francesco Petrarca; altri pensò ai Miscellanea di Poliziano, suggerendo per altro che, ove il rapporto specifico rivelasse, come in effetti rivela, piuttosto differenze irresolubili che non analogie, è tuttavia pur sempre a quella lezione di alta filologia che, almeno per una parte, deve farsi risalire, in forma mediata, l’opera di Niccolò Machiavelli, — il suo Livio. Ma i Rerum memorandarum hanno ben poco in comune con i Discorsi; e la loro citazione è utile solo perché consente di mettere in rilievo la differenza di maturità che, nell’analisi storica, le due opere rivelano. Del Poliziano, e in genere della grande filologia umanistica, si è detto in che senso possano costituire un precedente. Ad altro, francamente, non si riesce a pensare. Esempi di trattati sul «principe» ce n’è tanti, come si sa. Ma dei Discorsi non c’è esempio che valga a ricondurre quest’opera nell’ambito di un «genere». Non è un caso che, postisi alla ricerca delle analogie, studiosi recenti si siano rivolti agli Essays di Montaigne: e se ne siano accontentati!
Comunque sia di ciò, è invece certo ( e con questo può, sia pure molto in breve, passarsi all’analisi del contenuto concettuale del libro) che nei Discorsi Machiavelli dette forma compiuta ed estremamente determinata a un’idea che da molto tempo, e già, dunque, quando era segretario della seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina, aveva visitato la sua mente, dettandogli, ad esempio, il paragone con i Romani antichi, che domina il già ricordato scritto del 1503 sulla Valdichiana ribellata. Il paragone suppone in effetti, nel suo pensiero, qualcosa di più del fatto determinato sul quale sorge e al quale conferisce questa specifica fisionomia. Presuppone non soltanto un’idea dell’esemplarità romana alla quale, dalla giovinezza fino agli ultimi giorni della sua vita, Machiavelli, in sostanza, rimase fedele; ma altresì una concezione della storia e della sua «uniformità», che del «paragone» fonda, o pretende almeno di fondare, in termini incontrovertibili, la possibilità pratica e politica. La teoria dell’«imitazione» degli antichi «ordini» romani, che Machiavelli discute e delinea sopra tutto nel secondo libro, e che qui tocca, comunque, il suo punto di maggiore intensità, è dunque la conseguenza che, linearmente, egli deduce da queste premesse; e non è ora il caso di illustrarla e commentarla nelle sue articolazioni, nella sua difficoltà concettuale e, da ultimo, nel significato che assume nella storia interna dell’opera, perché gioverà piuttosto osservare che essa non vive soltanto nei pensieri specifici che la costituiscono, nelle tesi in cui prende forma e nelle parole che la determinano, ma tende invece a trascendere questi suoi aspetti in un atteggiamento generale della mente politica, che non «pensa», in realtà, se non nei termini di un confronto, eseguito con puntualità, fra presente e passato, fra la storia fiorentina, italiana ed europea e la storia di Roma, assunta come criterio di interpretazione e di discriminazione del «bene» e del «male» politici. Per questo il «commento» liviano si pone, fin dall’inizio, e in sostanziale coincidenza dei piani, come interpretazione della storia antica e, attraverso questa, di quella moderna e contemporanea: in modo tale che, senza alcun artificio, i Discorsi realizzano l’unità fra ciò che è trascorso e ciò che è «attuale» e sta davanti agli occhi, — la perfezione del passato, anzi di quel «passato», essendo lo specchio ideale entro il quale, come in una radiografia concettuale, la storia del presente lascia trasparire la struttura del suo particolare «essere». Deve avvertirsi, per altro, che, assunta nello specchio ideale che consente la individuazione e la comprensione dei suoi elementi costitutivi, la storia moderna e contemporanea non ripete, di quella passata, la «perfezione»; ché, al contrario, accanto ed entro il tema dell’identità, fondamentale è in Machiavelli quello della diversità (fra passato e presente): con la conseguenza che, come l’uniformità si rifrange nella differenza e nell’alterazione, così, insieme alla sua perfezione assiologica, lo «specchio» restituisce anche il profilo di ciò che ha deviato dalla sua misura e dal suo criterio. In tal modo al tema della «perfezione» si accompagna quello della degenerazione, o, che si preferisca, della decadenza; e alla grandezza romana tiene dietro il declino, quindi la dissoluzione, di cui la storia fiorentina è, in sostanza, un peculiare ed anche esemplare episodio. Alla radice, insomma, della più complessa ed elaborata fra le costruzioni politiche che sia dato trovare nell’opera di Machiavelli, agisce la grande quaestio della decadenza nella quale, raggiunta l’, la civiltà antica fu travolta; e, deve subito precisarsi, tale questione è bensì quella che concerne l’Impero, che, per varie e complesse ragioni, i «barbari» assassinarono, ma è, prima ancora, quella che riguarda la Repubblica. Per il «repubblicano» autore dei Discorsi, per ciò stesso che condusse al tramonto l’antica libertas e l’antica virtus, l’Impero è infatti esso stesso decadenza, declino, avvio all’imperfezione e alla catastrofe.
Motivi vari del pensiero storico e politico che, sui modelli classici, gli umanisti fiorentini avevano elaborato nel corso del Quattrocento, sono presenti nella concezione che, in questa opera, Machiavelli delinea della storia di Roma; che, in ascesa costante fino al tempo dei Gracchi e delle contese sorte a causa della legge agraria (Discorsi I. 37), subito dopo cominciò a declinare attraverso lo scatenamento delle guerre civili e, quindi, l’azione liberticida di Cesare, duramente condannato, per questo, nel capitolo decimo del primo libro. Ma nessuno, prima di lui, era salito così in alto nella contemplazione della logica intrinseca a questa storia, che egli contribuì in modo decisivo a configurare come identica alla logica stessa che regge le cose umane; nessuno aveva, con altrettanta forza, stretto il vincolo fra ascesa e decadenza, facendone l’autentico criterio del pensare storico e politico; e nessuno aveva saputo produrre un’interpretazione similmente rivoluzionaria dell’atto inaugurale dell’età repubblicana, — le lotte fra i patrizi e i plebei e l’istituzione del tribunato della plebe. Tradizionale suonava, nella storiografia antica e in quella umanistica, la deplorazione delle contese civili: tradizionale, per contro, l’esaltazione dell’autentica virtù politica in termini di pace sociale e politica, di concordia ordinum o, per dirla alla greca di μóvoια. E, beninteso, anche Machiavelli ha occhi per vedere, e condannare, la forza distruttiva che, in determinate situazioni politiche, sociali, costituzionali, procede dallo scontro delle classi. Ma, con audace paradosso, egli distinse; e sulla distinzione fondò il suo concetto della società, dello stato, della politica. Non è infatti il contendere politico e sociale che, di per se stesso, sempre e comunque, produca decadenza e corruzione delle leggi e degli ordini, perché ogni storia, cittadina e statuale, ha, alla sua origine, questo grande evento costitutivo delle lotte dei patrizi e dei plebei, dei «nobili» e degli «ignobili», dei «popolari» e dei «grandi»: con la conseguenza che se in ogni manifestazione di questa «legge» intrinseca alle cose dovesse vedersi decadenza e corruzione, niente altro che questo si darebbe nella storia, e tutto sarebbe negatività, male, errore politico e sociale. Al contrario, sono la decadenza e la corruzione del contendere sociale e politico, ossia del quadro costituzionale, che qualificano come decadenza e corruzione il contendere sociale e politico; e questo significa allora che c’è contesa e contesa, e che altre furono le lotte che, alla caduta della monarchia e all’alba della repubblica, si combatterono a Roma fra i patrizi e i plebei, altre quelle che, nella medesima città, si combatterono al tempo dei Gracchi e nell’età del declino repubblicano, in un quadro politico e sociale del tutto mutato, — divenuti gli «ordini» e le leggi ormai impotenti a racchiudere in sé, dominandola, mediandola e facendone così materia di nuova vita, la violenza ormai sfrenata dei contrasti.
Il concetto che queste ultime parole adombrano è, in effetti, fondamentale nel pensiero machiavelliano; che, solo quando e in quanto questo punto sia stato colto, potrà essere, fino in fondo, compreso. E lasciando ora da parte gli aspetti particolari della teoria, e anche, se si vuole, le difficoltà alle quali dà luogo, è certo che, per comprenderla alla radice, è alle premesse generali che occorre risalire. Occorre, in altri termini, risalire alla tesi secondo la quale, e già lo accennammo, in ogni città agiscono, ex origine, le due forze contrastanti, i due «umori», dei «popolari» e dei «grandi»: di questi ultimi, il cui fondamentale «desiderio» è di dominare e di «opprimere», e degli altri che, di fronte al pericolo della distruzione, nella loro stessa debolezza trovano l’energia di una difesa radicale ed estrema, e così, insieme a quelli stessi che li opprimono e offendono, contribuiscono alla costituzione degli ordini e al ritrovamento di leggi adatte alla libertà. Non converrà ora dissertare sul punto se la creazione delle leggi e degli ordini sia la conseguenza dell’intervento razionale di un legislatore, che studia e provvede, o non piuttosto il risultato stesso del conflitto, che la storia, e non il logos, media e risolve; né occorrerà ricordare che, come già in Polibio, che alla razionalità del legislatore (Licurgo) attribuisce la costituzione di Sparta e alla logica obiettiva delle cose quella di Roma, anche in Machiavelli questa dicotomia si ripresenta, senza mediazione. Assai più, in questa sede, importa osservare che, considerato nella sua elementare e insuperabile originarietà, il contrasto degli «umori» è bensì pericoloso. Ma è inevitabile, tale che non si può non affrontarlo e non considerarlo come il primo, e più urgente, dei problemi politici e costituzionali; e tanto più, poi, in quanto, come Machiavelli spiega nel cruciale quarto capitolo del primo libro, dalle lotte che, all’inizio dell’età repubblicana, i patrizi sostennero con i plebei, nacque non già la fine precoce della repubblica, bensì al contrario l’incremento della libertà; e con questa, l’incremento della potenza che, a sua volta, costituì la condizione dalla quale, più tardi, la res publica dovette cedere, resisi i contrasti ingovernabili nel suo quadro, al princeps e al nuovo ordine imperiale.
C’è quindi, come si diceva, contrasto e contrasto; e la diversità, anzi la ragion d’essere della diversità, sta nella non identità dei tempi in cui essi si esprimono e si realizzano. Quando i tempi siano «sani», e non corrotti, i contrasti generano «libertà», potenza, conquista: quando siano corrotti, e non sani, e di questa corruzione e non sanità del corpo sociale e politico i contrasti partecipino, allora certo la corruzione ne viene incrementata fino alla distruzione della forma politica entro la quale si determinano. Ma al tempo della prima repubblica romana, non la corruzione regnava, ma la sanità. E questa è allora la ragione per la quale, postosi dinanzi alle lotte romane e considerando che da esse era pur nato, con il tribunato della plebe l’istituto atto a risolvere, in termini di medietà e di mistione, la struttura aristocratica (il Senato) e monarchica (i consoli) dello stato, il suo giudizio fu, in consapevole opposizione alla communis opinio (o a quella, almeno, che egli presenta come tale) altamente positivo. Aggiungendosi a quei due fondamentali istituti della giovane repubblica romana, il tribunato della plebe ebbe per effetto di rendere «mista» per eccellenza, ossia conforme al modello classico che Machiavelli contemplava nei frammenti del sesto libro di Polibio, una forma politica che, fino a quel punto, non aveva realizzata che una «mistione» parziale e imperfetta. Gli sembrava in effetti che dalle vicende di quel contrasto sociale e politico (che, in ogni caso, si svolse sempre nel segno della civiltà e della sostanziale moderazione politica) fosse derivato il principio costituzionale che, rendendo i plebei sul serio partecipi della res publica, conferì a questa la sua forza specifica. E gli sembrava altresì che proprio in questo punto nevralgico, — nella mistione degli organi costituzionali e nella funzione di «guardia della libertà» che, in questa, fu assegnata al tribunato della plebe, avesse la sua origine il destino imperiale di Roma.
Nei frammenti del sesto libro delle Storie di Polibio (che, fra i primi in Occidente, egli conobbe, e, primo, utilizzò e mise a frutto nel quadro di una compiuta costruzione teorica e politica) Machiavelli aveva letto che la «costituzione» è l’autentica «fonte» (πηγ) della grandezza, oppure della miseria, degli stati, e che alla bontà ed eccellenza di quella di Roma erano da attribuirsi i successi che questa città aveva conseguiti, al suo tempo, in una così vasta area del mondo. Ma, sebbene lo ponesse con grande chiarezza e con altrettanta forza ne stringesse i termini, al nesso specifico che lega la costituzione e la conquista Polibio non seppe dare il conveniente risalto dinamico; e non riuscì a far intendere perché mai da una costituzione giudicata eccellente nella capacità di armonizzare i contrasti interni e di realizzare, in tal modo, la pace sociale, la μóvoια o concordia ordinum, dovesse necessariamente svolgersi l’altra capacità di conquistare il mondo. In Machiavelli, per contro, il criterio della grandezza e l’origine dell’impero sono individuati non nell’eccellenza della costituzione, astrattamente concepita nella perfezione delle sue corrispondenze interne; ma nella sua capacità di mantenere il contatto con le cose che di continuo mutano, e di continuo, mutando, propongono la loro sfida alle costruzioni politiche degli uomini. In Polibio, il primum è individuato nella costruzione intellettuale degli ordini; e di questa intellettuale perfezione la storia non è che conseguenza. In Machiavelli, il primum è individuato nelle cose e nella loro incessante mutevolezza; o, se si preferisce (ed è più giusto, senza dubbio, dire così) nella plastica capacità che la costituzione deve darsi di controllare all’origine il movimento della realtà e di fare della novità che di continuo essa introduce nel quadro delle leggi e degli ordini il fondamento sul quale questi riformulano sé medesimi. Il nesso fra costituzione e realtà sociale e politica diviene così, nelle sue analisi, il nesso fra costituzione e conquista, costituzione e armi. E in questa prospettiva, che mantiene il principio della mikté, ma lo reinterpreta con grande forza, l’antica e statica dottrina della μóvoια, o concordia ordinum, viene come trasvalutata e risolta in una dottrina diversa, nella quale il dinamico compenetrarsi delle opposte determinazioni del corpo sociale dà luogo all’energica accentuazione del ruolo del popolo, che non può infatti non esser posto al centro del quadro costituzionale quando la conquista sia affissata come la suprema necessità della politica, e questa, la necessità della conquista, debba concretamente esser resa possibile. Necessità, e possibilità, della conquista. La precisazione è essenziale, perché i due termini si intrecciano bensì, nella visione di Machiavelli, ma, certo, non si identificano in un nesso a priori. Se la necessità della conquista è scritta con caratteri di bronzo nelle cose stesse della storia, nel loro ritmo che, appunto, è necessario e non può essere diverso da quel che è, la sua possibilità, ossia la traduzione costituzionale del suo esser necessaria, dipende invece soltanto dalla qualità intrinseca alla πoλιτεíα: che solo ove sia stata pensata in vista di quel necessario carattere delle cose potrà far fronte alla loro sfida, e non esserne travolta.
In tal modo, e lo si vede bene se la linea dei primi, straordinari, capitoli del primo libro dei Discorsi venga seguita non solo nelle particolari analisi che Machiavelli vi compie, ma altresì, e sopra tutto, nella logica che governa la ricerca e consente la costruzione, l’indagine di Machiavelli isola, e poi connette con la forza della necessità, tre temi essenziali: l’originaria (storica o naturale che sia) conflittualità intrinseca ad ogni «corpo» sociale e politico; la risoluzione dei contrasti, intesa non come soppressione, ma, al contrario, come espressione giuridica e politica delle sue ragioni obiettive; la necessità della conquista e la sua «possibilità» che, soltanto quando la seconda condizione sia stata rispettata, diviene effettiva. E il paradosso della concezione che Machiavelli costruisce, — il paradosso e anche, al limite estremo, la difficoltà che nel suo quadro concettuale non riesce ad essere risolta in forma a pieno persuasiva, è che, pensando in questi termini energicamente dinamici la «sostanza» dello stato libero e «bene ordinato», i «buoni ordini» e la libertà divengono, in concreto, strumenti di una impresa conquistatrice che ha, nel suo punto culminante, la trasformazione inesorabile della res publica nell’impero, e della libertà nel dispotismo. Quanto più sia forte e bene ordinata, tanto meglio la repubblica realizza la consumazione della sua forma specifica, e ne prepara il capovolgimento. Il particolare destino che caratterizzò lo svolgimento della storia di Roma diviene il carattere permanente, universale ed eterno (se si vuol raccogliere la suggestione previchiana che talvolta si fa avvertire al fondo di queste pagine) dello svolgimento al quale, di necessità, gli stati liberi sono sottoposti. E Machiavelli che del paradosso, e dell’antinomia che gli è intrinseca, solo in parte è consapevole (e non riesce, comunque, ad indicare un chiaro criterio di risoluzione), certo non sarebbe d’accordo se gli si obiettasse che la sua costruzione presuppone l’indebito trasferimento di una vicenda pur sempre particolare (la storia di Roma) nella cadenza universale dell’assoluta necessità della storia politica degli stati. Per lui, infatti, quella di Roma non è una storia particolare, ma, cadute ormai le vecchie concezioni provvidenzialistiche, classiche e cristiane, è essa stessa la storia universale, realizzante l’essenza di ciò che, nel profondo delle cose, si costituisce come il loro destino.
L’impero è insieme il coronamento della repubblica, e il principio della sua dissoluzione. Ma nell’indagare, sia pure nelle forme traverse e mediate che tuttavia, quando i Discorsi siano letti con qualche attenzione, e al metodo delle libere associazioni culturali si sostituisca infine quello della schietta intelligenza delle cose, non è impossibile decifrare, — nell’indagare, dunque, le «cagioni» della decadenza di Roma, Machiavelli scende al concreto; e dopo aver fornito il criterio, e la formula, della «decadenza», si produce in analisi determinate. Si premetta tuttavia che, pensatore repubblicano e discepolo ideale degli storici latini, Machiavelli pone come centrale il problema della decadenza non già dell’impero, ma piuttosto della repubblica. Da questa, infatti, non da quello, è per lui realizzato il valore autentico; e di questa, dunque, della repubblica, non di quello, dell’impero, è mosso a chiedersi perché sia stata travolta nella catastrofe. Da questo punto di vista, il pensatore che, per le ragioni obiettive della sua propria cronologia, non poteva non porsi oltre e al di là dell’estrema rovina del mondo antico, non solo della repubblica, dunque, ma anche dell’impero, si faceva, per altro verso, contemporaneo di Livio,— dello storico che, consapevole del rischio immanente nella imponente mole dell’orbis romanus, sopra tutto alla crisi della repubblica, e dei suoi valori, teneva fisso lo sguardo. E il gioco di queste corrispondenze è non solo affascinante, ma altresì della più grande e decisiva importanza; e si deve saper coglierlo quando s’intenda penetrare nel complesso rapporto che Machiavelli istituì con il mondo e la storia di Roma.
Riprendendo il filo principale del discorso, deve dirsi, per altro, che se la decadenza si produce quando, e a misura che, il nesso vivente che le leggi e gli ordini stringono con la realtà sociale e politica dei contrasti, disciplinandola e, in questo atto, essendone stimolati e resi dinamici, tende ad irrigidirsi e quindi a spezzarsi, a perdere la sua intrinseca capacità di «corrispondenza» e di reciproca espressione, e a disporre i suoi termini in guisa tale che, chiusi ciascuno in se stesso, gli «ordini» corrompono le leggi che, a loro volta, si sovrappongono alla realtà sociale e non riescono più ad esprimerne il movimento profondo, — nel concreto la decadenza della repubblica romana ebbe origine dagli «scandoli» che nacquero dalla legge agraria e dal degenerare, che ne conseguì, dei contrasti e delle lotte sociali. I conflitti — si deve infatti ribadire e, insieme, specificare — sono positivi quando la «materia» non sia corrotta, e l’ambizione della plebe si volga non alla conquista violenta dell’intero potere, bensì, piuttosto, alla rivendicazione del suo diritto ad esistere e a contare nella struttura della società e dello stato. Ma sono negativi, ed anzi esiziali all’armoniosa espressione della «libertà», quando, via via corrottasi la materia degli stati, l’ambizione prende il sopravvento sulla moderazione, conducendo al di là del segno le aspirazioni dei contendenti. Che è appunto quel che accadde a Roma con i contrasti sorti dalla legge agraria, e dalla volontà che ad essa si desse valore retroattivo. Alimentati da un odio resosi sempre più implacabile e che, fra i plebei da una parte e i patrizi da un’altra, scavò un abisso non più colmabile ora che i secondi vedevano i primi tendere non solo agli «onori» e ai «gradi» (politici), ma, direttamente, alla «roba», e cioè alle ricchezze, tali contrasti si espressero in forme di così aperta violenza che, a differenza di quanto era accaduto agli inizi del vivere libero, nemmeno dinnanzi al sangue ci si fermò: con la conseguenza che, divenuta ingovernabile, poco alla volta la repubblica cedette a coloro che da Lucio Sulla a Giulio Cesare contribuirono alla sua fine.
Se questo è, nelle grandi linee, lo schema concettuale che la straordinaria intelligenza e l’impareggiabile prosa di Machiavelli ad ogni passo traducono in un vivente organismo di indagini ed analisi storiche e politiche, varie conseguenze possono esserne tratte ad illustrazione di altri, e non meno importanti, suoi aspetti. E si consideri, innanzi tutto, che a questa delineazione di ciò che deve intendersi per sanità e, quindi, per decadenza del corpo sociale e politico deve riferirsi chi voglia intendere la questione teorica del «principato», e, più in particolare, della genesi del famoso libro che Machiavelli dedicò a questo tema. È ben vero, infatti, senza dubbio possibile, che il Principe nasce dalle cose stesse della storia fiorentina e italiana non meno che dalla volontà politica di intervenire in e sopra di esse per orientarle, con l’unico strumento possibile (il principe) verso una soluzione positiva, che le sottraesse al gorgo della decadenza e della decomposizione. Ma vero è anche, e non meno, che la «corruzione», che Machiavelli contemplava nelle cose e giudicava non superabile se non con il ricorso allo strumento principesco usato con «perfetta» virtù, era, a sua volta, l’esatto riscontro della «corruzione» che, mediante la separazione degli ordini e delle leggi dalla realtà sociale, le libere repubbliche producono e quindi subiscono fino a morirne: tal che è in questo quadro di positività discendente e declinante che la soluzione del problema principesco deve essere ricercata. Ma questo dei «gradi» della corruzione, come altrove lo abbiamo definito, e del principato che, per un verso la riflette su di sé e, per un altro, deve superarla, è un problema troppo complesso per essere discusso in questa sede; e perciò il modesto consiglio è che il lettore interessato a quest’ordine di questioni cerchi le pagine nelle quali è stato trattato.
Le «tesi» che qui sono state passate in rapida rassegna costituiscono, in prevalenza, la materia del primo libro dei Discorsi, che, per molti versi, è il più importante dei tre; e nel loro motivo fondamentale stanno altresì alla radice del Discursus florentinarum rerum che, intervenendo nel dibattito politico contemporaneo, l’antico segretario scrisse fra il 1519 e il 1520, in un momento, dunque, di rinnovata e forte creatività intellettuale (a questi anni, grosso modo, appartengono anche la Mandragola e l’Arte della guerra), e quindi, da ultimo, di alcuni fra i concetti direttivi delle Istorie fiorentine. Ma i Discorsi non sono un astratto trattato di «scienza politica»; e al pari del Principe, anche se in modo diverso, meno diretto e vibrante di immediata passione pragmatica, nascono dalle delusioni e dalle speranze, dai moti vari e complessi del sentimento politico. Si è detto, incominciando, che, alla loro origine, agisce, con estrema energia, il tema dell’antichità classica, e sopra tutto romana, l’esempio, cioè, della più grande esperienza politica, militare, costituzionale di cui le «istorie» avessero consegnata a Machiavelli la «notizia»; e si è detto altresì, con buon fondamento, che l’idea del ricorso agli «antiqui ordini», nonché agli «antiqui uomini», costituisce come l’atmosfera culturale e umana dalla quale quest’opera è per intero avvolta. Ma nel secondo libro, assai più che nel primo, nel terzo e in ognuna delle altre sue scritture politiche, il ricorso agli antichi non è soltanto una cadenza specifica della sua musica, il Grundakkord della sua consapevolezza politica, storica e culturale: è altresì, o piuttosto, se si vuole, diviene, una teoria specifica, un nesso peculiare di concetti, all’interno del quale la tesi dell’uniformità intrinseca alle cose storiche e naturali sta come la premessa maggiore di un sillogismo che, nella conclusione, presenta, necessariamente dedotto, il principio dell’imitazione, o meglio della «possibile» imitazione del mondo antico e delle sue forme. Non è questa, purtroppo, la sede nella quale la teoria dell’imitazione possa essere, in quanto tale, studiata nella sua interna connessione logica; che, d’altra parte, come altrove cercammo di far vedere, non riesce, presa com’è (e proprio nella premessa-uniformità e differenza) a sfuggire al morso della contraddizione e dell’antinomia. Ma, anche in questa sede, può e deve invece osservarsi che, considerata nel suo generale significato storico e politico, la teoria dell’imitazione sembra bruciare, o almeno corrodere, il suo fondamento ottimistico (la storia è uniforme, dunque l’imitazione è possibile), nel fuoco di una polemica che, proprio dalla colpa della sua mancata esecuzione e realizzazione, trae il suo motivo essenziale: con la conseguenza che una dottrina che, come questa, culmina nel riconoscimento di una sorta di compresenza attuale delle epoche, proprio nell’inattualità finisce invece per ritrovare il suo più significativo suggello. In realtà, attraverso la teoria dell’imitazione, Machiavelli dava voce ad una «mitizzazione» del passato romano, che ha dentro di sé, e se ne nutre, l’opposto motivo della più spietata condanna del presente, reo di non aver imitato l’antico nelle cose aspre e forti nell’atto stesso in cui lo idoleggiava in quelle «delicate e molli». E, nel secondo libro, la condanna suona infatti con veemenza sorda e ossessionante, quasi che soltanto mercé il ricorso a questo tema, e all’inattualità che lo costituisce, allo scrittore riuscisse di riprendere in qualche modo contatto con il suo tempo (e con la materia stessa della sua delusione, storica e politica).
Si avrebbe torto, d’altra parte, se, al di là delle analisi specifiche che il secondo libro svolge, e che, com’è noto, hanno ad oggetto l’«augumento» che il popolo romano fece dello «imperio suo», si mancasse di cogliere una tonalità, culturale e, in qualche caso, addirittura «filosofica», che in queste pagine si rivela fondamentale. Il pensiero va, in modo specifico, al tema del Cristianesimo che, osservando come gli antichi popoli con altra energia combattessero in difesa della loro «libertà» e in «qualità» assai diverse da quelle celebrate dalla «nostra religione» collocassero l’ideale, Machiavelli dice di voler interpretare, non «secondo l’ozio», ma secondo la virtù, e poi, in concreto, abbandona, senza alcun rimpianto, fra le verità che per lui non sono tali. Già nel secondo capitolo di questo secondo libro, l’interpretazione del Cristianesimo secondo la virtù sottintende, e implica, la sua confutazione; perché è bene nella inversa categoria dell’ozio, quale Machiavelli, in queste pagine, e con grande abilità, la «costruisce», che è dato ritrovare il suo autentico valore storico e, anzi, addirittura la sua essenza. Ma nel quinto capitolo, dedicato al tema della «oblivione delle cose» nel quadro, si badi, dell’eternità del mondo, — in questo capitolo così spesso, e miserevolmente, frainteso, l’accettazione dell’antica dottrina peripatetica, che così grande scandalo aveva sollevato quando, senza mai essere scomparsa dall’orizzonte filosofico, era tuttavia tornata in grande stile con il suggello dell’Aristotele eterodosso, o radicale o, addirittura, averroista, — questa accettazione toglie le ultime illusioni alla tesi che Machiavelli ponesse e intendesse se stesso come uno scrittore cristiano (sia pure «reinterpretato»). La sottile dichiarazione che egli fa a favore di questa dottrina anticreazionistica, e l’ironizzazione, appena velata, del fallito tentativo cristiano di ripetere ai danni della cultura latina ciò che i Romani bene avevano saputo fare ai danni di quella etrusca, che dalla forza imperiosa di quelli era stata spenta in ciascuna delle sue «istituzioni» e, in particolare, nella lingua; la probabile polemica antisavonaroliana che, come riteniamo di aver altrove dimostrato, alimenta questo testo straordinario, brevissimo, ma altrettanto ricco di risonanze culturali e di balenanti allusioni, — tutto questo dimostra che Machiavelli collocava se stesso e il suo pensiero al di fuori di ogni confine cristiano; e che, almeno in questo, non ebbe torto I. Gentillet a considerarlo un maledetto miscredente.
Il terzo libro dei Discorsi è dedicato a sottolineare l’importanza che i «grandi uomini» ebbero nella vita di Roma. Ma lo svolgimento concreto non rispetta il programma; e, nell’insieme, la riuscita di questo libro è da considerare assai meno felice di quanto non sia quella dei due precedenti, e, in special modo, del primo. Contiene bensì capitoli di grande importanza: a cominciare dal primo, dedicato, com’è noto, al tema (non ancora del tutto chiarito nella sua genesi) del «ritorno a’ principii», e per non parlare, fra gli altri, di quello sulle congiure (che è il sesto e, come dimostra anche la sua indipendente tradizione manoscritta, ha quasi la fisionomia di un piccolo trattato a sé stante), o del ventiquattresimo, nel quale il fenomeno della «prolungazione degli imperi» è indicato come una delle «cagioni» della risoluzione, e si dica pure della «decadenza» della repubblica e del divenire, Roma, «serva». Ma, nell’insieme, il terzo libro manca di autentica organicità, e dunque non possiede unità ed è privo di svolgimento: a meno che, come altra volta fu proposto, un motivo unificante non sia ravvisato nella vena auto-biografica, ossia nella tendenza che, qua e là, Machiavelli vi dimostra a ritornare sugli anni di Pier Soderini e del suo segretariato, per ripensare, nel quadro generale della teoria politica, gli errori dai quali non solo la Repubblica democratica, ma la sua stessa vita, fu travolta.
Prima di concludere questa rapida presentazione, due temi debbono essere, anche qui molto in breve, ribaditi o delineati. Il primo concerne la struttura «culturale» dell’opera, la trama dei suoi riferimenti, la stratificazione delle «letture» che l’hanno resa possibile e che un occhio esercitato indovina, talvolta con fatica, sotto la superficie di una prosa mirabile e personalissima, tesa, inoltre, per questa parte, piuttosto a nascondere che non a rivelare. Nella gran maggioranza dei casi, se non sempre, le «fonti» debbono infatti essere «indovinate»: perché, appunto, Machiavelli non le dichiara. E questa è senza dubbio una delle ragioni per le quali, tramontata la troppo breve stagione tardo-ottocentesca degli studi dedicati alla «utilizzazione dei classici», questo grande conoscitore degli antichi fu preso come uno scrittore tanto geniale quanto ignaro, con poche eccezioni, della cultura greca e latina, e, anzi, tanto più geniale quanto più ignaro: quasi che gli si dovesse credere quando, in un noto colloquio, egli stesso confidava a Paolo Giovio di aver ricevuti da Marcello Virgilio di Adriano Berti i flores che aveva sparsi, per ornarvele, sulle «pagine volgari» delle sue opere, e anche minimamente fosse plausibile che il segretario della seconda Cancelleria della Repubblica di Firenze, ossia l’uomo che, dà giovane, aveva trascritto per intero (e non male!) un testo «difficile» come il lucreziano de rerum natura, avesse, come fu detto di Shakespeare, little latin, poco latino (il caso del greco, come si sa, e con buona pace di Costantino Triantafillis, è diverso).
In realtà, chi legga i Discorsi, ma anche il Principe e l’Arte della guerra, avverte subito, se proprio non «partecipi» lui pure, della particolare «genialità» che, a sua maggior gloria, si vorrebbe attribuire a Machiavelli, che il fondamento classico di queste opere è assai più solido, e in alcuni casi, più ampio di quanto le «apparenze» non suggeriscano. E facilmente si convincerà che un autentico commento dei Discorsi è cosa ardua, che, con il possesso dell’anzi detta consapevolezza, richiederà, a chi si accinga ad eseguirlo, ancora molti anni di ricerche, studio, riflessione. Per questo, le annotazioni che, in questa edizione, Giorgio Inglese ha apposte al testo meritano lode. Esperto sul serio, e non per estrinseci «affidamenti» editoriali, di testi machiavelliani (e relativa critica), lettore filologicamente sagace e agguerrito, egli è anche consapevole che il suo lavoro di oggi rappresenta il primo passo di un cammino che, vecchi (ormai) studiosi di Machiavelli, gli auguriamo di potere un giorno vittoriosamente concludere.
Il secondo tema riguarda la connessione, e la qualità della connessione, che può notarsi fra la teoria delle lotte sociali e politiche delineata nel primo libro dei Discorsi, e la trascrizione che, in chiave storiografica e interpretativa, Machiavelli ne dà, o cerca di darne, nelle Istorie fiorentine. È questo un tema che si vorrebbe definire nuovo, o relativamente nuovo, nella critica machiavelliana: — nuovo, almeno, nel senso che «rade volte, o mai», accade di incontrare nei critici e negli interpreti la consapevolezza che, nel trascrivere in termini di storia fiorentina le categorie politiche elaborate nei Discorsi, Machiavelli non ebbe affatto la vita facile, ma incontrò, per contro, gravi difficoltà, che il lettore attento delle sue pagine non può non far sue, assumere sopra di sé e cercar di risolvere. Quante volte, in effetti, cercando di cogliere, con Machiavelli, il punto della differenza che, nelle Istorie, si cerca di individuare fra le lotte romane e quelle fiorentine, positive le prime e «cagione» di libertà e grandezza, negative le seconde e «cagione» di permanente instabilità e infelicità, lo studioso del suo pensiero, o di questo suo aspetto essenziale, non è stato fermato da un senso di disagio, di una difficoltà nascente da qualcosa di oscuro e di irrisolto, da un dubbio che, subito dopo esser stato vinto, risorge ed impone un margine di incertezza che non si riesce a interamente riassorbire. In realtà, quando ci si pensi a fondo, appare sempre meglio chiaro che il disagio, la difficoltà, il dubbio e il conseguente margine di incertezza, non potranno esser superati e risolti se non ci si renda conto che tutto questo in tanto appartiene all’interprete in quanto, in primo luogo, appartiene a Machiavelli che non riesce a trattenere il «caso» fiorentino entro i limiti della teoria elaborata nei Discorsi. Non è in questa sede, beninteso, che possa tentarsi di sciogliere questo nodo, così stretto e anche intricato; un nodo che richiede molta pazienza e analisi molteplici. Ma, avvertendo che questa pazienza dovrà presto essere esercitata in specifiche indagini testuali, occorre aggiungere che la ragione profonda della difficoltà, del disagio e del dubbio, dei quali qui si parlava, sta nelle cose stesse della storia fiorentina e nel richiamo soltanto parziale che esse facevano di quelle romane. Nel pensare queste ultime, che si erano espresse nella lotta dei due «ordini» della nobiltà e del popolo, Machiavelli si serviva, ed era ovvio, di uno schema binario, che altresì riteneva di poter cogliere riflesso in ogni situazione della storia umana. Nelle sue analisi, i «grandi», o patrizi, sono e restano i grandi e i patrizi, i plebei sono e restano i plebei; e dalla prima età repubblicana fino alla sua «risoluzione» entrambi rimangono tali, senza incrinature, specificazioni, differenziazioni. Ma, sebbene Machiavelli non rilevasse la differenza e, per certi versi, scrivesse come se non esistesse, nell’analisi delle «cose» fiorentine, la realtà stessa si mostrava diversa. I termini fondamentali del rapporto (i «grandi», da una parte, il popolo, da un’altra) non rimanevano fermi in se stessi, perché piuttosto si articolavano dividendosi; e questo processo di differenziazione, che riguarda il popolo, ma anche, in ultima analisi, l’antico ceto magnatizio, era tale che, interpretato con il criterio binario suggerito dalla storia di Roma, la sua caratteristica solo in parte riusciva ad essere fermata, e per il resto sfuggiva alla presa. Donde il disagio intrinseco ad un’analogia, che di continuo lasciava insorgere l’eccezione e la differenza. Per l’interpretazione dell’ultima opera di Machiavelli, il punto è, come è facile comprendere, di importanza fondamentale; e converrà studiarlo e indagarlo bene, perché costituisce, forse, il principio di un’autocritica (l’inadeguatezza del criterio formulato nei Discorsi a comprendere la peculiarità della storia fiorentina) che, tuttavia, non giunse fino alla piena trasparenza e chiarezza concettuali.
GENNARO SASSO