šarru dannu, šarru rabû, šar kiššati,
šar māt Aššur, šar kibrāt erbetti
(«re forte, re grande, re della totalità,
re di Assiria, re delle quattro parti del mondo»)
Nel capitolo precedente abbiamo considerato le iscrizioni reali nella loro struttura e intenzionalità di base, nonché nelle parti «narrative» o meglio celebrative di argomento sia bellico sia edilizio. Un discorso a parte merita la titolatura, che anche conosciamo soprattutto (e quasi esclusivamente) dalle iscrizioni reali stesse. Il materiale è abbondantissimo, e non consente di farne qui uno studio sistematico, per il quale ci si può ancora riferire all’ottimo repertorio di Marie-Jean Seux1, che purtroppo ora richiede il faticoso trasferimento delle sue citazioni nelle edizioni oggi di uso corrente. Ritengo qui utile fornire una presentazione essenziale, con riferimento soprattutto a quei titoli ed epiteti che abbiano una valenza «imperialistica», trascurando dunque quelli o troppo generici o relativi ad altre caratteristiche della regalità, come il vanto di una lunga discendenza dinastica, o gli epiteti «pietistici», o quelli relativi al benessere interno del paese e all’esercizio della giustizia, o quelli relativi all’attività edilizia.
Come in tutti gli ambiti di regalità, non necessariamente imperialistica, di ogni periodo storico, la titolatura è adottata e almeno parzialmente diffusa in occasioni pubbliche, di carattere rituale, festivo, o altro, a scopo di legittimazione del ruolo del regnante e di celebrazione delle sue imprese. Questo duplice intento implica l’esistenza di un «pubblico» di riferimento, che il potere ha interesse a convincere della sua legittimità e dei suoi successi. Nel caso assiro, i titoli di base e le qualificazioni più sintetiche e ricorrenti potevano e dovevano essere accessibili e dunque note alla popolazione, almeno quella urbana che aveva occasioni di partecipazione cerimoniale. Mentre le formulazioni più elaborate appaiono adatte solo ad un pubblico competente, dunque all’élite politica della classe scribale-amministrativa, del clero, della corte palatina (centrale o provinciale che fosse). Si ripete dunque anche per la titolatura quella differenziazione (già vista al cap. 9) tra élite e popolazione comune, la prima interessata a ricevere (e capace di ricevere) un indottrinamento più approfondito, la seconda che poteva (e doveva) accontentarsi di alcune assicurazioni di carattere generale.
La titolatura di base medio- e neo-assira si inserisce in una più lunga tradizione, ereditando titoli già attestati in ambito paleo-babilonese e trasmettendoli poi alla dinastia caldea (e oltre, selettivamente, all’Iran achemenide). La trasmissione doveva basarsi soprattutto sulla continuità della tradizione scribale, nonostante la povertà della titolatura babilonese di età cassita (coeva alla fase medio-assira) e anche post-cassita (coeva alla fase neo-assira). Ma è interessante notare come certi elementi propriamente «imperialistici» della titolatura assira risalgano fino all’epoca della dinastia di Akkad. I prototipi antico-accadici potevano essere noti sia mediante la tradizione letteraria (che aveva Sargon e Naram-Sîn a protagonisti e modelli della regalità) sia anche mediante la lettura diretta di iscrizioni antico-accadiche, note o perché ritrovate, in quanto iscrizioni di fondazione, durante lavori di restauro di vecchi edifici templari – secondo una prassi già evidente con Šamši-Adad I e che poi culminerà con Nabonedo2 –, o magari anche perché ancora visibili, in quanto iscrizioni rupestri, in luoghi ove i re assiri aggiunsero le loro stele accanto quelle più antiche.
In tutta la tradizione mesopotamica (già sumerica e poi accadica) i titoli e gli epiteti regi erano collocati nella prima parte del testo, collegati al nome stesso del re e anche al suo rapporto con le divinità cui il testo stesso era indirizzato. Ma nelle iscrizioni assire divenne ben visibile anche il rapporto (che nella tradizione anteriore era assai meno evidente) col prosieguo dell’iscrizione, cioè con la sua parte narrativa, di argomento bellico o edilizio. In un certo senso la titolatura sintetizza, o meglio anticipa, le qualità del re che verranno poi palesate e dimostrate analiticamente dalla parte narrativa.
Vedremo più avanti come certi epiteti alludano palesemente ai rispettivi motivi politico-letterari che articolano il racconto e scandiscono il processo di conquista imperiale – come gli epiteti che richiamano il superamento della «via difficile», o soprattutto quelli che riguardano la vittoria sui nemici, l’annessione di terre e genti all’impero, la ricezione di tributi. Ho già avuto modo di mostrare come certi titoli abbiano bisogno di essere «meritati», e dunque fondati su imprese che il prosieguo dell’iscrizione ricorda. Il caso più evidente è quello dell’assunzione da parte di Sennacherib del titolo di «re delle quattro parti del mondo» solo con l’esecuzione di spedizioni nelle quattro direzioni3; ma già Tukulti-Ninurta I aveva assunto il titolo di «re del Mare Inferiore e Superiore» solo dopo aver conquistato Babilonia, che gli dava accesso al Mare Inferiore (il Golfo Persico dove mai personalmente arrivò), avendo già prima raggiunto se non proprio il lago di Van (considerato parte di quel Mare Superiore che era sostanzialmente il Mediterraneo), almeno la terra di Nairi che si affacciava su quel lago4.
Negli Annali di Tiglath-pileser I (RIMA 2, n. 87.1), un modo originale di collegare epiteti e narrazione venne adottato col far precedere il resoconto di ogni campagna da una breve sequenza di epiteti auto-celebrativi, di tono e formulazione analoghi a quelli della titolatura vera e propria:
«Tiglath-pileser, uomo valoroso, che ha aperto l’interno delle montagne, che ha sottomesso i ribelli, vincitore di tutti i superbi». (ii 85-88; precede la prima campagna)
«Tiglath-pileser, re forte, rete dei ribelli, vincitore della battaglia dei criminali». (iii 32-34; precede la seconda campagna)
«Tiglath-pileser, re forte, conquistatore delle regioni nemiche, oppositore della totalità dei re». (iv 40-42; precede la terza campagna)
e così via.
Con Adad-nirari II, e poi con Assurnasirpal II (in formulazione pressoché identica), ricorre un elenco, che a noi oggi appare esagerato se non ridicolo, di epiteti auto-celebrativi:
«Io sono re, io sono signore, io sono potente, io sono importante, io sono lodevole, io sono magnifico, io sono forte, io sono fortissimo, io sono fiero, io sono radioso, molto radioso, io sono eroico, io sono valoroso, io sono un leone, io sono maschio, io sono il primo, io sono sublime, io sono impetuoso». (RIMA 2, n. 99.2: 14-15; e cfr. n. 101.1: i 32-33)
Questo elenco, collocato dopo la titolatura vera e propria e prima della narrazione, intende palesemente enunciare le qualità che hanno permesso al re di conseguire i successi vantati. Il passaggio dall’elenco alla narrazione è più evidente in Adad-nirari, che narra anche le sue prime imprese in forma analoga («colui che fece ecc. ecc.».), per passare poi ad una narrazione scandita per eponimi (dunque per anni).
Ancor più evidente è lo schema narrativo come sviluppo degli epiteti in Esarhaddon, il quale dismette lo schema del racconto campagna per campagna – che era stato lo schema classico e quasi obbligato fino a Sennacherib –, e inizia la celebrazione delle singole imprese in forma epitetica: «il conquistatore di Sidone, ecc.» (RINAP 4, n. 2: i 14), «il saccheggiatore di Arzâ ecc.» (i 57), «il calpestatore della gente di Ḫilakku ecc.» (ii 5), «l’annientatore di Barnakku ecc.» (ii 16), «il disperditore della gente di Mannea ecc.» (ii 20) e così via, con l’epiteto iniziale che si amplia in una vera e propria narrazione.
Ma veniamo ad un esame della titolatura, che formalmente si presenta sia come un elenco di sostantivi o di participi attivi, sia come una sequenza di frasi relative introdotte da ša «(io sono) colui che» ha fatto la tal cosa, o che ha la tale qualità: soluzione questa che consente una assai più ampia e flessibile formulazione. Iniziamo però dai titoli di base, rinviando per le occorrenze alle pagine del repertorio di Seux (1967). Alcuni sono tecnicamente precisi, formali, ufficiali: i tradizionali iššakku «vicario (di Aššur)» e šangû «sacerdote (di Aššur)», e il più comune šarru «re»5; meno tecnici sono bēlu «signore», malku «regnante» e rubû «principe», anche etellu «signore». Ma questi epiteti nella loro genericità potrebbero riferirsi (e sono infatti riferiti) anche a re minori o nemici, e dunque richiedono precisazioni: il re assiro è dunque bēl bēlē «signore di signori» o bēl šarrāni «signore di re» o šar šarrāni «re di re», o anche etel kal malkī «signore di tutti i regnanti». Oppure è bēl gimri o bēl kiššati (o šar kiššati) «signore della totalità»6, o ancora bēl mātāte «signore delle terre (tutte)». Anche il titolo di «re grande» (šarru rabû) allude al ruolo egemonico sugli altri re ovviamente piccoli7. Altri titoli sono allusivi a funzioni amministrative (aklu «soprintendente», šakkanakku «governatore», šatammu «amministratore») o più spesso cultuali (šabrû «addetto templare», il già citato šangû «sacerdote»). Frequenti rē’û «pastore» che allude ad un benevolo rapporto con la popolazione, e ardu «servo» (del tal dio) che invece allude alla sua fedeltà al volere divino. Tutti questi titoli di base sono poi spesso corredati da aggettivi qualificativi (ovviamente di carattere laudativo).
Altri epiteti sono invece metaforici, e abbondano quelli relativi alla foga bellica del re, che è «fuoco» (girru) inestinguibile, è «fiamma» (nablu) ardente e furiosa, è «fulmine» (verbo barāqu) e «tuono» (verbo šagāmu), è «diluvio, inondazione» (abūbu) di norma impetuoso, è «maroso» (edû); è poi ovviamente «arma» (kakku, anche kašūšu) del dio, qualificata come implacabile, è «collare/guinzaglio» (rappu) che imbriglia i nemici, «rete» (šuškallu) che li avvolge e cattura. Il re è infine un «leone» (lābu), un «drago» (ušumgallu) variamente qualificato come forte, sublime, furioso.
Venendo alle qualità del re, variamente espresse dagli epiteti e dalle frasi relative di cui si è detto, conviene articolarle con riferimento alla sequenza dei motivi ideologici che sostanziano la narrazione delle campagne, per mostrare in forma più dettagliata come gli epiteti siano strettamente correlati alle imprese vittoriose del re.
Un primo motivo è che il re è stato scelto dagli dèi: è stato «visto» (verbo amāru) da loro, ovvero «guardato» (verbo palāsu, anche nīš ēnē «sguardo (benevolo)»), cioè individuato, «scelto» (verbo nasāqu) come adatto al ruolo regale, è stato «nominato, chiamato» (verbo nabû e sost. nibītu), «designato» (verbo qabû), «selezionato» (verbo atû), anche «destinato» (šīmta šâmu) a occupare quel ruolo, anzi da essi «cercato» (ba’ītu), è il loro «desiderio» (ḫišiḫtu, irištu, anche bibil libbi), il re è per definizione «amato» (narāmu) dagli dèi, è il loro «favorito» (migru). Epiteti, questi, spesso ricorrenti durante tutto il periodo. Al culmine dell’impero (con Esarhaddon e Assurbanipal) si dirà che il re è «creatura» (binûtu) degli dèi, anzi delle loro mani (dunque formato, ma non generato). Una volta individuato l’uomo giusto, gli dèi lo «innalzano» (verbo našû) alla regalità, gli danno (verbo nadānu) lo scettro di giustizia, simbolo della sua «signoria» (mētellūtu), gli conferiscono (verbo šutlumu) la forza necessaria, o la regalità impareggiabile.
Ovviamente la scelta è basata sulle qualità della persona che dovrà regnare. Non è facile distinguere le qualità innate dell’individuo, dunque anteriori alla sua designazione (e anzi determinanti per la designazione stessa), da quelle emerse dall’azione stessa del re, dalla sua realizzazione del mandato divino. Ma forse questa distinzione è solo nostra, non era allora avvertita. Come che sia, alcune di tali qualità afferiscono alla sfera dell’intelletto: il re è «intelligente» (ḫāsisu), «aperto» d’ingegno (pet ḫasīsi) e di comprendonio (pet uzni), di vasto animo (šadlu karši), capace di «apprendere» (aḫāzu). Il re è «saggio» (eršu, anche lulīmu), è «esperto» (itpēšu), dunque è «prudente» (pitqudu) e «affidabile» (na’du, applicato però anche al combattimento). Egli «apprende» (verbo lamādu) ogni sapere (Esarhaddon), «conosce» (verbo idû e sostantivo mūdû) ogni lavoro (Sennacherib), ma conosce anche e soprattutto il timor di dio e la battaglia.
Ancor più frequenti sono gli epiteti relativi alle qualità belliche: la forza e il coraggio8. Il re è ovviamente «forte» (dannu), anzi «fortissimo (dandannu), e l’epiteto šarru dannu «re forte» è un vero e proprio titolo di antica ascendenza accadica. Il re assiro è poi un «prode» (uršānu), eroico e implacabile; è «capace in battaglia» (lē’û qabli / tamḫāri / tāḫāzi), «valoroso» (qardu, qitrudu), è un «eroe» (qarrādu); è «feroce» (ekdu), è «intrepido» (dāpinu) e «marziale» (dappānu), è «valoroso» (ālilu). Gli si applica tutta una serie di superlativi: è «impetuoso» (šitmuru), «superbo» (šitrāḫu), «grandissimo» (šurbû), «prestigioso» (šurruḫu). È un «giovane uomo» (eṭlu) variamente qualificato come «superiore» (gešru), «completo» (gitmalu), «affidabile» (nādu) e «valoroso» (qardu). Insomma, è un essere «importante», «di peso» (kabtu), «elevato, sublime» (ṣīru), è «il primo» di tutti (ašarēdu), sia quando va in battaglia sia rispetto ad altri regnanti.
Altri epiteti stanno a dimostrare come il re, una volta ricevuto il mandato divino, ponga ogni cura nel realizzarlo correttamente. Sono particolarmente indicativi tre termini (o sfere semantiche): il re «confida» (takālu) negli dèi, mentre il paese «confida» nel suo re; il re è uno che «teme» (palāḫu) gli dèi, vanto questo frequentissimo; e il re è uno che «osserva, mantiene» (naṣāru) il giuramento o la parola del dio, che contraccambia garantendo (sempre naṣāru) la sua regalità. Eseguendo il mandato divino, il re «rende contento» (ṭâbu D) il cuore di Aššur e al tempo stesso del paese tutto; e il suo comportamento e l’esercizio della sua regalità sono «buoni», cioè apprezzati (sempre ṭābu) dagli dèi del cielo e della terra, che ricambiano facendogli «conseguire» (maṣû) i suoi desideri.
L’attuazione del mandato divino si concretizza innanzi tutto nell’esplorare la periferia (cfr. cap. 4). Il re assiro è per definizione quello che «va» (verbo alāku, spesso alla forma ripetitiva «va senza interruzione, non cessa mai di andare»), «percorre» (verbo etēqu, anche kabāsu propriamente «calpestare») la via difficile, specie in montagna, «avanza» (verbo šadāḫu), «attraversa» (verbo ebēru), «apre» (verbo petû) vie di montagna. Lo fa per ordine (ina qibīti) o confidando nell’assicurazione (ina tukulti) di Aššur e dei grandi dèi. Avanza senza sosta per mari e monti (Assurnasirpal II), percorre le quattro parti del mondo (Salmanassar III), percorre vie impraticabili e spaventose, attraversa paludi (Sargon II), apre montagne remote, valichi innumerevoli (Sargon II), va «dritto» da oriente a occidente (Esarhaddon). E lo fa sempre senza mai avere avversario adeguato, quasi andasse in giro proprio per scovare un oppositore, ma senza mai incontrarne uno veramente degno. Per effetto del suo andare, il re è colui che «vede» (verbo amāru) terre remore e difficili fin nel loro interno (Sargon II), è colui che giunge a vedere le sorgenti dei grandi fiumi (Assurnasirpal II e Salmanassar III).
All’esplorazione segue l’azione militare, che ha il suo momento eroico nella battaglia, lo scontro col nemico che il re vince da solo, certo grazie all’aiuto divino ma anche alle sue qualità. Il re è egli stesso la personificazione dell’«assalto irresistibile» (tīb lā me’û / lā maḫar). È tipicamente colui «che non teme» (lā ādiru) la lotta o il combattimento, mentre i nemici ovviamente ne sono terrorizzati. Il re è dunque colui «la cui furiosa battaglia la totalità dei principi di tutte le terre teme, e davanti al quale come pipistrelli raggiungono recessi (nascosti), e come ghiri si nascondono in paesi inaccessibili» (Tiglath-pileser I). Grazie all’arma conferitagli dal dio, o anche mediante il suo «splendore terrificante» (melammu e simili) il re «colpisce» (na’āru) i nemici, li «abbatte» (napāṣu), li «fa a pezzi» (daqāqu D) come vasi di coccio, li «falcia» (ḫaṣāṣu) come canne, ne «fracassa» (šebēru) le armi, li «abbatte» (maqātu Š), li «spiana» (sapānu) come un’alluvione, li «mette in fuga» (parādu Š), gli «taglia» (makāsu) la testa, li «sopraffà» (saḫāpu D), li «calpesta» (dâšu e kabāsu) in fuga o caduti o inginocchiati a supplicare, ne «disperde, dissolve» (parāru D, sapāḫu D, anche naḫarmutu) la composita alleanza, insomma li «annienta» (ḫalāqu D), li «estirpa» (nasāḫu), li «stermina» (šagāšu). È più che evidente che il re assiro «non ha eguali né rivali» (šānina / māḫira lā išû). Non solo i nemici «tremano» (ḫâlu) di paura, anche terre e montagne tremano.
Alla vittoria consegue la conquista. Numerosi sono gli epiteti e le frasi relative basati sui due verbi «prendere» (ṣabātu) e «conquistare» (kašādu). Il re «prende» cioè cattura i nemici ma anche «prende» cioè occupa terre dovunque (eliš u šapliš «in alto e in basso»). Analogamente «conquista» sia le persone (i nemici, i ribelli) sia le loro terre (città e montagne). La conquista realizza il mandato divino: il re «ingrandisce» (rabû Š) o «estende, amplia» (rapāšu D) il confine della terra di Aššur. E si noti che se di norma è il re a ingrandire il paese, non mancano precisazioni per cui è il dio ad ampliare il dominio (la «signoria» bēlūtu) del re su tutti i regnanti delle quattro parti del mondo (Esarhaddon). Comunque il re è colui che «domina» (bêlu) tutto, l’universo, le montagne remote, le totalità dei regnanti e delle popolazioni. Per fare solo un paio di esempi, Sargon è «colui che dal Levante al Ponente domina le quattro parti del mondo e vi istalla governatori»; e Assurbanipal è «colui che dal Mare Superiore al Mare Inferiore domina, e tutti i regnanti si sottomettono ai suoi piedi». Il passo di Sargon evidenzia come la conquista implichi la gestione delle terre conquistate, dunque il re diventa «la guida» (verbo redû) di tutte le terre, «l’amministratore» (verbo šapāru) delle loro genti, colui che «dà ordine e sicurezza» (taqānu) alle genti precedentemente turbate. Coloro che erano stati superbi ora sono diventati «docili» (verbo rabābu), tutti coloro che erano stati ribelli (lā māgiru) e superbi, ora sono stati messi d’accordo (magāru). E il passo di Assurbanipal evidenzia come la conquista porta alla sottomissione: il re è «colui che sottomette» (verbo kanāšu Š) i recalcitranti, i ribelli, che vengono fatti inginocchiare ai suoi piedi (šuknušu ana šēpēšu; anche kamāṣu).
Nello «stabilire, istaurare» (šakānu) il nuovo ordine, il re assume epiteti come «istauratore di pace e di gioia» o di «benessere», egli è colui che «istalla» (sempre šakānu) i governatori (šaknu), colui che «stabilisce un comando unificato» (pâ ištēn šakānu) per tutti i sudditi, vecchi e nuovi. Il nuovo ordine implica che tutti siano sottomessi alle stesse contribuzioni (tasse e lavoro), dunque il re è «colui che impone loro il giogo della signoria» (nīr bēlūti emēdu), metafora che configura i sudditi come animali aggiogati al carro del vincitore (analogo anche la’āṭu «imbrigliare»). Molto frequente è l’epiteto del re come «colui che riceve» (maḫāru) tributi (in genere «pesanti») e doni nella sua capitale, da tutti i paesi del mondo. Ci sono poi anche le deportazioni, e il re è «colui che deporta (verbo šalālu) il nemico cattivo in alto e in basso» (Salmanassar III), «colui che scambia (verbo šupēlu) le genti dei paesi alti e bassi» (Tiglath-pileser III). Danni più seri delle deportazioni e della corvée sono le distruzioni conseguenti alla vittoria e alla conquista: il re è colui che «brucia» (qamû) i cattivi o i nemici, che «incendia» (napāḫu Š) le loro terre, «annienta» (abātu D), «distrugge» (napālu) e «demolisce» (naqāru) le loro città. Il re si vanta di essere «implacabile» (lā gāmilu, lā pedû).
Assai meno sottolineata negli epiteti è la fase ricostruttiva. Il re è certamente un «costruttore» (bānû, frequente durante tutto il periodo), un «facitore» (verbo epēšu), un «rinnovatore, restauratore» (verbo edēšu D), un «consolidatore» (verbo kânu D), un «completatore» (verbi šalāmu D e šuklulu), ma si riferisce sempre a costruzioni dell’Assiria (templi e palazzi, anche città, anche statue e arredi divini), non dei paesi conquistati. In fondo le ricchezze procacciate mediante la conquista rendono possibile lo sviluppo edilizio assiro, e inoltre l’appoggio divino va ricompensato mediante il restauro dei templi e la cura degli arredi sacri. Si notino anche gli usi del verbo tāru «tornare indietro», che alla forma intensiva (turru) significa «restituire», sia nella restituzione degli dèi babilonesi, sia nelle espressioni mutēr gimilli māt Aššur «vendicatore dell’Assiria» applicato all’uscita dalla crisi, e māta ana ašrīšu turru «rimettere a posto il paese» (si tratta ancora dell’Assiria). Anche l’epiteto «colui che raddrizza, rimette in ordine» (muštēširu, participio Št di ešēru «esser dritto») si applica alla gente assira, agli insediamenti assiri, al paese assiro. I destinatari di questa propaganda sono gli Assiri, interessati alla prosperità del paese, e non alla ripresa dei paesi conquistati.
Altrettanto trascurata negli epiteti è la gloria del re, che compare in pochi passi. Tukulti-Ninurta I «ha reso celebre (wapû Š) la sua vittoria per il futuro»; la signoria di Sennacherib è «celebrata (verbo nâdu) più di tutti i re che siedono in trono». Ma tutto l’apparato celebrativo (epiteti compresi) è la pratica attuazione della gloria regale: potremmo dire che non ha bisogno di sottolineare se stessa.
Restano da accennare due questioni. La prima è lo sviluppo diacronico della titolatura, in rapporto allo sviluppo della regalità e dello stato assiro9. Il re è dapprima solo il vicario del dio (iššak dAššur)10, diventa propriamente «re» (šarru) con Šamši-Adad I, che assume i titoli di šar kiššati e šarru dannu di derivazione accadica (titoli noti al re assiro dal ritrovamento di un’iscrizione accadica); ma Šamši-Adad è un caso a sé, piuttosto estraneo allo sviluppo assiro. Una prima svolta si ha con il regno medio-assiro: Aššur-uballit I distingue l’aspetto religioso da quello geo-politico; da un lato si qualifica come «sacerdote di Aššur» (šangû dAššur); ma dall’altro è «re della terra di Aššur» (šar māt Aššur), vale a dire dell’Assiria come stato regionale, non più come dominio del dio. Con Tukulti-Ninurta I, a seguito della conquista di Babilonia, iniziano gli influssi babilonesi: da qui il titolo universalistico «re delle quattro parti» (šar kibrāt arba’i)11, o almeno egemonico «re dei re» (šar šarrāni) o «signore dei signori» (bēl bēlē) rispondenti all’assetto pluralistico del Tardo Bronzo.
Ma alcune innovazioni di Tukulti-Ninurta permangono nella fase propriamente imperiale. Il re assiro non è più soltanto «favorito» o «amato» dagli dèi; è paragonato a vari dèi; è figlio «adottivo» di divinità, «non conosce padre né madre» (nell’inno di Assurbanipal), gli dèi lo trattano come un figlio. Inoltre ha l’aureola luminosa (melammu) come hanno gli dèi. È stato detto12 che la natura del re assiro è ambigua, parte dall’essere solo il delegato di Aššur, ma poi diventa qualcosa di più. Si sono già visti (cap. 2) due termini che meritano un’attenzione particolare, non titoli ma semmai epiteti, o meglio metafore: il re assiro è «immagine» (ṣalmu) e «ombra» (ṣillu) del dio.
La seconda questione è la derivazione neo-assira del titolo «re dei re» o «signore dei signori», ovvi modelli per l’iranico šah-in šah, trasmessosi poi da achemenidi13, ad arsacidi14, a sasanidi15, e da questi all’India gupta e moghul16, agli Ottomani, alla stessa Roma17. Si pensi in particolare ai titoli achemenidi come «re dei re», «re di questa terra/di tutte le terre», «re delle terre di tutte le genti»18; o a quelli indiani di rājadhirāja «re dei re», mahārājadhirāja «re dei grandi re», che riprende anche il «re grande» come mahārāja «grande re», adhirāja «re superiore»19. Si dirà che siano titoli abbastanza ovvi da poter risultare anche da idea indipendente, ma in questo caso la catena di trasmissione storica appare convincente. Comunque si tratta di titoli allusivi ad una situazione di egemonia, con un re di rango superiore che domina re di second’ordine.
1 Seux 1967; Id. 1980-83; anche Oded 1992, pp. 113-115, 153-154, 163-164 e passim; paralleli biblici in Paul 1986. Sulla titolatura medio-assira cfr. ora Sazonov 2011.
2 Rinvio a Liverani 2014a, pp. 208-209.
3 Liverani 1981.
4 Liverani 1990a, pp. 48-49; Cifola 2004.
5 Cfr. da ultimo Machinist 2011; anche Pongratz-Leisten 2015, pp. 198-202 (šarru), 202-205 (šangû), 210-214 (rē’û).
6 Sazonov 2011, pp. 250-255; sui titoli universalistici cfr. ora anche Pongratz-Leisten 2015, pp. 145-151 e 175-181.
7 Artzi e Malamat 1993.
8 Sul titolo «eroico» c’è ora il dettagliato studio di Gaspa 2007. Chapman 2004 sottolinea gli aspetti di genere (epiteti maschilisti), in verità scontati giacché i re erano maschi e la guerra era allora attività esclusivamente maschile. Si veda anche Miglus 2008.
9 Si vedano Grayson 1971 e Machinist 2011; anche Cifola 1995.
10 Seux 1965b.
11 Seux 1965a; Glassner 1984; Sazonov 2011, pp. 255-257.
12 Machinist 2011.
13 Ahn 1992, pp. 262-271; Kuhrt 2007, pp. 469-487. Schmitt 1977 ammette il precedente assiro ma tramite intermediazione urartea.
14 Dabrowa 2010, p. 131.
15 Gnoli 1987; Wiesehöfer 1996, pp. 165-166; McDonough 2011.
16 Embrie e Wilhelm 1967, trad. it. pp. 196-207 e 134.
17 Bang 2011a-b; cfr. anche Wolski 1993; Rubin 1998.
18 Ahn 1992, pp. 217-221 e 258-271.
19 Derrett 1973; Fussman 1980.