16.
«Exporting Despotism»

pâ ištēn ušaškinšunūti

(«imposi loro un comando unificato»)

Tutti ricordiamo come la missione politica dell’imperialismo americano – ai tempi di Bush padre – fosse sintetizzato nello slogan «Exporting Democracy», che intendeva giustificare l’intervento politico-militare contro quei regimi che non governassero con struttura parlamentare. La preferenza per la democrazia sull’assolutismo o «despotismo» (visto come un residuo del passato) era cosa ovvia in Occidente, nell’Occidente post-illuministico, ma era tutt’altro che estendibile all’Oriente, dove i governi monocratici non erano imposti dall’alto, ma condivisi dalla popolazione, e i tentativi di democratizzazione avvenivano o in nome della religione (si pensi alla fine della monarchia pahlavi in Iran) o per mano dell’esercito (si pensi alla Turchia kemalista). Inoltre la formula della «esportazione» era inevitabilmente marcata dalla sua origine e connotazione commerciale, e faceva immancabilmente balenare l’idea di interessi e ritorni finanziari e commerciali alla base della mission americana.

Questa connotazione non si attaglia alla formula capovolta, «Exporting Despotism», poiché nella visione ideologica assira la componente commerciale gioca un ruolo assolutamente modesto. Gli si addice benissimo, invece, l’idea che una certa forma di governo sia dotata di valore assoluto, e vada dunque estesa a tutto il mondo. L’aspetto cosmico, di «completamento della creazione», risalta in primo piano nell’attuazione dell’espansione imperiale assira. D’altronde è stato giustamente notato1 come la «esportazione di libertà e democrazia» sia un controsenso, trattandosi di valori che presuppongono auto-determinazione, e non si possono né imporre né «esportare». In questo senso, viceversa, «esportare» e imporre il despotismo è procedimento del tutto coerente.

L’idea che la regalità – la vera regalità, quella fondata sul mandato divino, e dunque sul funzionale rapporto tra il dio-mandante e il re-esecutore – non possa che essere unica, è molto risalente nella storia mesopotamica. Ne è «carta di fondazione»2 la Lista Reale Sumerica, probabilmente redatta (nella sua forma finale) per legittimare la pretesa della dinastia di Isin di essere erede e continuazione della III dinastia di Ur. Anche le liste successive, da quella assira a quelle babilonesi, hanno sempre mantenuto il principio della successione diretta, forzando la realtà (e allungando la cronologia) col mettere in sequenza dinastie che erano state in tutto o in parte coeve, ma anche escludendo dalla sequenza canonica dinastie non meno importanti di quelle incluse. Si tratta ovviamente di un principio ideologico, perché nella realtà dei fatti il mondo mesopotamico, e vicino-orientale in genere, è stato di solito frammentato, dapprima tra un alto numero di città-stato, poi tra diversi regni di estensione regionale, il cui rapporto era stato, in entrambi i casi, piuttosto quello della coesistenza e dell’equilibrio, che non quello dell’unificazione.

È però sintomatico come l’Assiria già col suo medio regno, a partire da Aššur-uballit I, appena liberatasi dall’egemonia mitannica, abbia non solo rivendicato una posizione di primo piano nel consesso delle potenze dell’epoca, ma abbia anche emesso segnali evidenti nel senso della sua missione imperiale – missione che andava a sovvertire l’equilibrio (la «fratellanza») su cui si fondava quel consesso. Sintomatica è la diversa connotazione assunta dal titolo di «re grande» (šarru rabû). Nell’ambito di quell’equilibrio pluralistico in cui l’Assiria si era inserita, il titolo valeva a distinguere due tipi di regalità: i «grandi re» (una mezza dozzina in tutto) erano autonomi, e dominavano su una quantità di «piccoli re» (il titolo šarru iru è più raramente attestato, ma il rapporto è sempre chiarissimo) ad essi sottomessi. Re legittimi gli uni e gli altri, ma disposti su due livelli ben gerarchizzati. Nella visione universalistica invece il titolo di «re grande» viene associato a titoli che sottolineano la capacità di prevalere su tutti (dal basilare «re forte», šarru dannu, di origine assai risalente, a epiteti come «re senza pari» o simili), e a titoli che definiscono l’universalità del suo dominio: «re della totalità» (šar kiššati) e «re delle quattro parti (del mondo)» (šar kibrāt arba’i). I re medio-assiri certamente rivendicarono il titolo di «grande re», che usarono come mittenti di lettere internazionali, e che gli venne riconosciuto a malincuore dal re hittita, in questa lettera indirizzata ad Adad-nirari I dopo la conquista di anigalbat (ex Mitanni):

«Tu insisti a parlare della vittoria su Wasašatta e della conquista del paese di urri. In effetti l’hai conquistato con un’azione militare, hai vinto il mio [allea­to] e sei diventato un grande re. Ma perché mi parli in termini di fratellanza e di andare a vedere il Monte Amano? È fratellanza questa? Che significa andare a vedere l’Amano? E perché io dovrei scriverti in termini di fratellanza? Quelli che sono in buoni rapporti si scrivono in termini di fratellanza, ma io perché mai dovrei scriverti in termini di fratellanza? Siamo forse figli di una stessa madre?». (WAW 8, n. 24)3

Si è già visto (cap. 8) come la pretesa assira di andare al Monte Amano, in territorio hittita e a ridosso del Mediterraneo, e cioè ai confini del mondo, magari per lasciarvi una stele iscritta, venga intesa dal re hittita per quello che effettivamente era: una pretesa universalistica che non si conciliava affatto con la coesistenza pluralistica implicata dal termine di «fratello».

Ma i re medio-assiri non usarono il titolo di «re grande» nella loro titolatura ufficiale, preferendo sottolineare la continuità dinastica e la forza militare. «Re grande» ricompare solo con Aššur-bel-kala4 per diventare poi di uso comune, fino alla sequenza classica di «re grande, re forte, re della totalità, re d’Assiria, re delle quattro parti». Se il passaggio da una mentalità pluralistica ad una imperialistica non era facile, e richiese una fase di adattamento, però l’intento risulta chiaro già nella fase in cui era praticamente irrealizzabile. A noi che conosciamo quel che poi accadde, e cioè l’effettiva realizzazione dell’impero «universale» neo-assiro, possono sembrare ovvie le pretese e le intenzioni formulate in fase medio-assira, ma in realtà si tratta di ambizioni tanto più sfrenate in quanto allora piuttosto utopiche. Possiamo comunque dire che i re assiri, già quelli medio-assiri, presero terribilmente sul serio il fatto di essere gli esecutori materiali della volontà del dio Aššur, e il fatto che l’unica legittimità del loro mandato divino comportava, come una conseguenza necessaria, l’estensione tendenzialmente mondiale del loro dominio.

Questo processo doveva eseguire operazioni differenti a seconda della diversità delle condizioni locali. Laddove ci fossero già dei re, occorreva eliminarli per imporre l’unica regalità legittimata, quella dipendente dal volere di Aššur. Non vale la pena citare esempi, che sono innumerevoli; basterà accennare a qualche esplicita dichiarazione di inadeguatezza dei re nemici: il re di Tabal si comporta (follemente) come se fosse uguale al re assiro (RINAP 1, n. 47: Rev. 14’-15’); Marduk-apal-iddina fa il re di Babilonia, ma lo fa contro la volontà divina e dunque arbitrariamente (Sargon II, Ann. 21, in ISKh, pp. 89 e 314); Yaubi’di di Hama, che non era un regnante (ma un «malvagio hittita») decide da solo di farsi re, dunque senza avere alcun avallo divino (Sargon, Prunk 33, in ISKh, pp. 200-201 e 345). Comunque, in tutti questi casi di regni preesistenti – che sono la maggioranza – l’affermazione dell’impero universale può riutilizzare le cellule statali già esistenti, solo sostituendo le loro illegittime strutture (i loro re, i loro palazzi, le loro amministrazioni, la loro fiscalità) con quelle assire, legittimate dalla loro dipendenza divina e unificate su dimensione «mondiale».

Laddove invece non ci fosse già una struttura di regno, ma solo un’organizzazione di auto-governo tribale o di chiefdom, dunque una forma politica di tipo «caotico» anziché «cosmico», si doveva introdurre ex novo un’amministrazione gerarchizzata e dipendente dal governo centrale. È questo il caso teologicamente più rilevante, perché all’intento di estendere la regalità assira unisce quello di affermare la regalità tout court. Si ricordi che la regalità era «discesa dal cielo» in tempi ormai remoti, era dunque un’istituzione e un dono divino, e automaticamente qualificava chi ne fosse privo come incivile e ribelle. Abbiamo visto (cap. 5) come i barbari incivili siano tali sia per mancanze socio-tecnologiche (non hanno casa, non hanno città ecc.), ma anche per carenze politico-religiose: non eseguono i rituali, non obbediscono ai governanti. Sono dunque colpevoli di essere estranei, e recalcitranti, alla struttura gerarchica propria della regalità, basata sulla stratificazione dio/re/governatori e ufficiali/popolazione comune. La popolazione barbara, non obbedendo a governatori e ufficiali, tanto più non ha connessione col livello regale e con quello divino. Il passo famoso di Sargon II (su cui tornerò al cap. 21), riferendosi ai deportati messi al lavoro nelle grandi imprese edilizie, ben definisce il ruolo di questa gerarchizzazione nell’esercizio del potere:

«Sudditi delle quattro parti del mondo, di lingue diverse, di espressioni intraducibili, abitanti di montagne e pianure, ma tutti soggetti alla luce degli dèi, signori della totalità, che io avevo deportati per ordine del mio signore Aššur e per la potenza del mio scettro, io li sottoposi ad un comando unificato (pâ išten ušaškin) e li insediai. Assiri, capaci di insegnar loro il timor di dio e del re, io assegnai loro come scribi e sorveglianti». (Prunk XIV, 49-53, in ISKh, pp. 78-80 e 311; e numerosi passi paralleli)

Si tratta qui dei deportati, che devono essere addestrati innanzi tutto alla struttura gerarchica, al lavoro coatto, e al timor di dio.

Vediamo però qualche caso in cui la conquista assira, anziché istruire all’obbedienza gerarchizzata i deportati (introdotti nel pae­se centrale), celebra la «esportazione del despotismo» nelle terre stesse conquistate:

«Le genti di Ulluba, che stanno di fronte all’Assiria, che avevano progettato in cuor loro di ribellarsi, che non avevano mai trainato il giogo dei re miei predecessori e non avevano prestato loro servitù – quei nomadi (alamu) che non portano doni, che non riconoscono autorità, nella loro presunzione si aggiravano come cervi e stambecchi sulle montagne: costoro progettarono il male, fecero discorsi ostili all’Assiria... [segue la punizione]». (Tiglath-pileser III, RINAP 1, n. 37: 16-21)

«Io, Tiglath-pileser (III) re d’Assiria, di mia mano conquistai tutte le terre dal levante al ponente, istallai governatori in posti dove i carri dei re miei predecessori non erano mai passati. Marciai dal grande mare del Sol Levante fino a Tiro e Biblo sulla riva del grande mare del Sol Ponente, ed esercitai signoria sulle (quattro) parti (del mondo)». (ibid. n. 35: ii 18’-24’)

«Non c’era rivale che le mie armi non potessero fronteggiare, non c’era re che mi affrontasse che potesse eguagliarmi. Quelli che avevano sempre ignorato i re miei predecessori, rispondendogli sempre con parole ostili, per comando di Aššur mio signore vennero consegnati nelle mie mani». (Esarhaddon, RINAP 4, n. 1: v 1-9)

L’opposizione tra il regime monarchico, che qualifica l’impero centrale e legittimo, e il regime tribale/locale (che definire «democratico» sarebbe improprio e anacronistico) ha i suoi precedenti. Tra questi mi limito a citare un passo hittita, in cui il tentativo di adottare la monarchia, non per effetto della conquista da parte del regno centrale, ma per processo autonomo, viene condannata come innaturale e velleitaria. È Muršili II, che si riferisce ad un capo dei montanari Kaškei:

«Piḫḫuniya governò non secondo l’usanza di Kaška: mentre fra i Kaška non c’era il potere di un solo uomo, all’improvviso Piḫḫuniya si mise a governare come fosse un re». (Del Monte 1993, pp. 69-70)

Ma è soprattutto l’ideologia colonialista degli imperi moderni (otto-novecenteschi) ad affermare che tra i grandi benefici che la conquista imperiale porta alle popolazioni sottomesse, e che spaziano dalla tecnologia alla religione, c’è anche quello politico-organizzativo di sostituire l’organizzazione gerarchica portata dall’Occidente al caos decisionale e lavorativo, caratteristico dei regimi pre-coloniali. Se mai le genti locali provano a unificarsi e a organizzarsi in proprio – penso al caso degli Zulu con Shaka, o a certi tentativi maghrebini, dallo stato teocratico di ‘Abd el-Qader in Algeri alla repubblica del Rif marocchino di ‘Abd el-Karim –, questi tentativi sono da condannare come pretenziosi e destinati al fallimento, soprattutto perché messi in atto dal mondo caotico per opporsi alle forze del cosmo in espansione.

La posizione assira sull’unicità della legittima regalità è chiara, anche e soprattutto nelle formulazioni generali, come quella che introduce gli Annali di Salmanassar III:

«Quando Aššur, il grande signore, mi scelse nel suo cuore risoluto e nei suoi occhi santi, e mi designò come pastore dell’Assiria, egli mi diede in mano l’arma possente che abbatte i ribelli, mi pose in capo la corona sublime, e severamente mi ordinò di signoreggiare e sottomettere tutti i paesi non sottomessi ad Aššur». (RIMA 3, n. 102.1: 12-13 e passi paralleli)

Più in dettaglio, è opportuno analizzare alcune espressioni caratteristiche della missione imperiale considerata come unificazione decisionale e amministrativa sotto l’unico potere dell’imperatore. La prima e più tipica e ricorrente è ana pî ištēn turru, «ridurre ad una sola bocca», o anche pâ ištēn šakānu, «stabilire una sola bocca»5. La «bocca» in questione è quella che emette il comando, dunque quella del re (o se vogliamo del dio Aššur) e dei suoi delegati di vario ordine e grado; non è quella dei sudditi. E non è neanche un’allusione all’unificazione linguistica (sulla quale cfr. cap. 25), dove il linguaggio è semmai lišānu, «lingua» (in senso anatomico), e non , «bocca». Dunque la traduzione adottata da RIMA «to bring under one command» è da preferirsi a quella del CAD «to make unanimous, to achieve consensus». L’espressione è usata eccezionalmente anche con riferimento a coalizioni nemiche, da Tukulti-Ninurta I (RIMA 1, n. 78.1: iii 36-37 e iv 36) a Sargon II (Prunk 34 in ISKh, pp. 201 e 345) e ad Assurbanipal (Prism A iii 106 e iv 99, BIWA, pp. 40 e 45, 233 e 235); ma di norma si riferisce all’unificazione imperiale assira. L’espressione è già adottata da Tukulti-Ninurta I e da Tiglath-pileser I:

«Da GN1-8 fino a GN9-15, su tutte queste regioni che gli dèi mi assegnarono, io stabilii un commando unificato per i (precedenti) nemici». (RIMA 1, n. 78.2: 35-36; n. 78.9: 26’-27’; n. 78.23: 83)

«Conquistai in tutto 42 paesi coi loro governanti ... e stabilii per loro un comando unificato». (RIMA 2, n. 87.1: vi 46; n. 87.2: 7’)

e le attestazioni si moltiplicano con Assurnasirpal II:

«Ricevetti (da Zamua) cavalli, argento e oro. Su tutto il paese io stabilii un comando unificato, e stabilii a loro carico un tributo di cavalli, argento e oro, grano e paglia». (RIMA 2, n. 101.1: ii 46-47)

«Paesi forti, montagne pericolose, re nemici implacabili... io sottomisi e stabilii un comando unificato». (RIMA 2, n. 101.1: 132 e passi paralleli)

«Nel paese di Zamua, nella città di Tukulti-Aššur-abat, io insediai su di loro (un governatore), e stabilii per tutto il paese un comando unificato». (Donbaz e Galter 1997, p. 183: Rs. 4’)

La formula declina con Salmanassar III, che usa solo quella del «computare come genti della mia terra» (itti/ana nišē mātīya manû) riferendosi ai deportati in un solo episodio, quello della vittoria su Bit-Adini (RIMA 3, p. 22: ii 74-75 e passi analoghi). Tale espressione sarà poi ripresa soprattutto da Tiglath-pileser III in fase di conquista e provincializzazione. Vedremo in dettaglio (al cap. 19) come quest’espressione si applichi in primo luogo ai deportati (per esempio: «I restanti 6000 soldati, che erano fuggiti di fronte alle mie armi, ma poi si erano sottomessi, io li presi e li computai come gente della mia terra», RIMA 2, p. 14: 85-88 e numerosi passi analoghi), per estendersi poi a popolazioni intere, oggetto di deportazioni incrociate o anche lasciate nelle nuove province. Evito qui di riportare i passi pertinenti, che sono tutti raccolti da Oded nella sua monografia6. L’espressione allude a un’annessione di carattere amministrativo, un processo di applicazione ai nuovi sudditi delle norme e soprattutto dei gravami già validi per gli Assiri di vecchia data (e c’è anche la variante «computai come Assiri», cfr. cap. 21). L’uso della formula dura fino a Sargon II, per poi cadere del tutto.

È invece inizialmente tipica della fase della «riconquista» un’altra formula, quella di «(ri)portare entro il confine della mia terra» (ana miir mātīya turru), a partire da Adad-nirari II («Signoreggiai il vasto paese di anigalbat tutto quanto, lo riportai entro il confine della mia terra, e stabilii su di loro un commando unificato», RIMA 2, p. 153: 5). La formula implica un recupero (turru è letteralmente «far tornare») di quanto già prima conquistato e poi andato perduto. In seguito però, in fase non più di recupero ma di ampliamento, la formula sarà applicata anche a nuove annessioni (con turru nella sfumatura «convertire in, conferire lo status di»):

«(La tribù di) Puqudu e le città GN1-3... ridussi entro il confine di Assiria (ana miir māt Aššur utirra), computai nelle mani del mio eunuco governatore di Arrapa, deportai la popolazione di GN4 tutta quanta e la insediai in Assiria». (Tiglath-pileser III, RINAP 1, n. 47: 13-14)

«Deportai Gunzinanu di Kammanu e Tarulara di Gurgum, che avevano alienato tutti i loro paesi, (che) io ricondussi entro il confine di Assiria». (Sargon II, Stier 26-27, in ISKh, pp. 64 e 304)

«Introdussi dentro di esse (due città elamiche) i miei soldati di guarnigione, e le ricondussi entro il confine di Assiria». (Sennacherib, RINAP 3/1, n. 22: iv 59-60)

«Gli abitanti di GN1-16... insediai dentro di essa (la nuova Sidone),... e la ridussi entro il confine di Assiria». (Esarhaddon, RINAP 4, n. 1: iii 12)

Può apparire alquanto paradossale che le due formule più propriamente unificatorie (quelle con pû ištēn e con manû) perdano la loro centralità già con Salmanassar III e poi coi re successivi, in fase di provincializzazione, mentre a mantenersi viva, anche a impero espanso e consolidato, è la formula che per significato e origine è propria della «riconquista». Forse le allusioni all’unificazione del comando e della registrazione amministrativa erano diventate troppo ovvie, mentre era l’acquisizione di territori a rimanere privilegiata sul piano della comunicazione di propaganda e di auto-celebrazione regia.

Anche Roma, in un certo senso, esportò centralizzazione a danno delle autonomie locali, ad esempio a danno delle «democrazie» greche7; ma non come missione ideale, bensì per convenienza real-politica. Del resto, è opinione diffusa che la sua ideologia imperiale sia iniziata sotto Augusto, a impero già ben avviato. Possiamo dunque distinguere un’ideologia «imperiale», di tipo statico, intesa a celebrare i benefici di un impero già formato, rispetto ad un’ideologia «imperialistica» dinamica, intesa a motivare le risorse umane per la conquista, come è quella assira. Di conseguenza, la contrapposizione tra «pace interna» e «guerra esterna», tipico dell’Islam (dar es-salām / dar el-arb) ben si attaglia anche all’Assiria: la conquista porta benefici ai conquistati, che passano dallo stato di guerra a quello di pace; il «perdono» coincide con l’ammissione al mondo interno. In certo senso dunque il processo di conquista imperiale «estende la pace». O almeno si vanta di farlo.

1 Ad esempio da Smil 2009, p. 53, che cita Schroeder 2003, p. 29.

2 Michalowski 1983.

3 Però Mora e Giorgieri 2004, n. 20, intendono come domanda retorica/ironica: «sei (con ciò) forse diventato un grande re?».

4 Seux 1967, pp. 298-300; Cifola 1995.

5 Su cui si vedano Uehlinger 1990, pp. 438-482, e Machinist 1993, pp. 87, 95-96.

6 Oded 1979, pp. 81-89; cfr. anche Cogan 1974, pp. 50-57; Pečirková 1987, pp. 168-175; Machinist 1993, pp. 86, 92-93.

7 Ad esempio Nicolet 1978, pp. 902-903.