19.
Da tributari a deportati

šarru ša ultu ṣīt šamši adi ereb šamši

mušpel nīšē māti elīti u šupālīti

(«il re che da dove il sole sorge a dove tramonta

scambiò le genti dei paesi alti con quelli dei paesi bassi»)

È stata formulata di recente1 una tipologia molto varia (e alquanto modernizzante), basata su Inca e Aztechi, delle possibili risposte o reazioni delle popolazioni minacciate e poi soggiogate al dominio imperiale: depressione (Blistering), emulazione, resistenza, esodo, controllo dell’informazione, appropriazione, complicità, assimilazione. I popoli travolti dall’imperialismo assiro non avevano tante scelte: prima della sconfitta c’era solo la resa o la fuga (o una velleitaria resistenza), e dopo la sconfitta c’era solo l’assimilazione forzata.

Da parte imperiale, una volta distrutto l’ordinamento precedente e una volta istallato il governatore nel nuovo palazzo, il resto del territorio e la popolazione assoggettata non sembrano ricevere un’attenzione specifica. Degli abitanti in genere, vinti e pacificati, si proclama che sono diventati «come gli Assiri» (cfr. cap. 21), politicamente e legalmente assimilati, e questa sembrerebbe a prima vista una buona notizia per gli interessati. Sennonché questa assimilazione si traduce all’atto pratico in due processi: l’asservimento fiscale, con tasse e tributi che gravano ovviamente sulla base produttiva; e la deportazione incrociata che altera profondamente la struttura sociale, il grado di asservimento, la capacità di auto-identificazione.

Dunque i nuovi Assiri pagheranno contribuzioni come gli altri, saranno soggetti alla leva militare e alla corvée lavorativa, e si accorgeranno ben presto che esser diventati membri dello stato centrale è cosa bella ma onerosa. Nell’VIII secolo, al culmine della potenza imperiale, le campagne assire mostrano segnali di crisi demografica e produttiva, sia per le perdite umane in guerra, sia per la crescita abnorme della capitale. Le tendenze incrociate, alla crescita per le città, al calo per le campagne, ben mostrano come la gestione dell’impero vada a vantaggio dell’élite dirigente, mentre i suoi costi umani gravano sulla popolazione comune. E una crisi ancor maggiore, nonostante il tentato rimedio delle deportazioni in entrata, riguarda le zone periferiche, con poche eccezioni.

Il processo di asservimento cui sono sottoposte le popolazioni coinvolte nell’espansione imperiale si può semplificare in due grosse fasi, diversamente collocate nel tempo a seconda della posizione geografica: quella tributaria e quella delle deportazioni2.

In entrambe le fasi, per quanto resti evidente la gravosità economica ed esistenziale per i dominati, l’ideologia assira introduce qualche forma di convincimento o di attenuazione. La rilevanza di queste giustificazioni ideologiche grosso modo aumenta man mano che i dominati passano da una posizione di esterni ad uno di interni, perché in quanto fornitori di risorse umane essi devono essere possibilmente motivati e fatti partecipi. Ma la sua efficacia resta sempre modesta.

Per quanto riguarda il peso contributivo, il periodo forse più critico, è quello che precede la conquista e l’annessione: è il periodo, e può anche durare un paio di secoli, tra il primo giuramento di sottomissione e la definitiva annessione. I sudditi dei regni «vassalli», oltre a sostentare il palazzo reale locale, devono contribuire al tributo dovuto al sovrano assiro. Il tributo è a carico del re locale, ma questi non può che rivalersi sui suoi sudditi per mettere insieme le risorse necessarie. Forma ed entità del tributo assumono valenze opposte sul piano ideologico e su quello materiale.

Sul piano ideologico, e anzi strettamente lessicale, il «campo semantico» del tributo è contiguo a quello del dono, e i due termini sono di norma associati, come biltu u maddattu: il primo termine (dal verbo wabālu «portare», dunque letteralmente «apporto») indica il gravoso tributo, il secondo (dal verbo nadānu «d(on)are», quindi letteralmente «dazione») indica almeno inizialmente una contribuzione formalmente spontanea3. L’endiadi corrisponde perfettamente all’articolazione del tributo in una parte principale e una serie di contribuzioni aggiuntive, effetto della formalizzazione della prassi, risalente al secondo millennio, di aggiungere al tributo dovuto anche delle integrazioni volontarie e personalizzate (destinate al re stesso, alla regina e al principe ereditario, ai principali membri della corte). L’elenco del tributo di Ugarit al sovrano hittita (XIV-XIII secolo) è molto esplicito in questo senso (WAW 7, n. 28 a-b). Ed ecco un elenco di tributo assiro dell’VIII secolo, proveniente da una città levantina, in una lettera che il principe ereditario Sennacherib invia al padre Sargon:

«Due talenti d’argento, 20 mine d’argento in sostituzione dell’avorio, 50 tuniche, 10 toghe, 3 anfore di pesce congelato, 20 ceste con 1000 pesci, come tributo (maddattu), (più) una corona d’oro, 20 coppe d’argento, 4 toghe di bisso, 15 tende arabe, 10 tuniche, 10 toghe grandi, come dono (namurtu) per il re («il palazzo»); 3 mine d’argento, 2 tuniche e 3 toghe, come tributo, più 10 mine d’argento, 5 tuniche e 5 toghe come dono alla regina; 3 mine d’argento, 2 tuniche e 2 toghe come tributo al principe ereditario [seguono i doni al visir, al capo dell’esercito, e agli altri alti funzionari di corte]». (SAA 1, n. 34; Bär 1996, pp. 21-26)

Qui la distinzione è tra un tributo di base chiamato genericamente maddattu e le contribuzioni aggiuntive definite specificamente nāmurtu (da amāru nel senso di «calcolare»). Senza dubbio in origine l’aggiunta dei doni (per quanto obbligatori) serviva a personalizzare il tributo, a inserirlo nelle regole dell’ospitalità, col re vassallo che ogni anno si recava personalmente alla corte dell’imperatore dove incontrava i re e i suoi familiari e collaboratori, a ciascuno dei quali deve ovviamente portare un dono. Ma poi il tributo, esatto per via amministrativa e ormai privo di un rapporto personale, verrà semplicemente articolato in un corpo principale e in aggiunte altrettanto onerose4. Ho mostrato altrove, a proposito degli Annali di Assurnasirpal II5, come i chiefdoms montani, aggiungendo dei calderoni in bronzo – allusivi ad un rapporto di commensalità cerimoniale – ai caprovini che costituiscono il grosso del loro tributo, abbiano inteso nobilitare il rapporto tributario con un tocco di cerimonialità consenziente. Il re assiro è tipicamente «colui che riceve il pesante tributo delle quattro parti del mondo» (Tukulti-Ninurta I, RIMA 1, n. 78.24: 19-20), «colui che riceve/accetta le loro regalie (a’tē)» (ibid. n. 78.1: iv 37 e passi paralleli, dove a’tu è una mancia degradante per chi la dà), «colui che riceve tributo e dono da tutti i popoli» (Tiglath-pileser I, RINAP 1, n. 35: 30), e simili. La distinzione achemenide6, secondo cui i popoli sottomessi con le armi pagano tributo, mentre quelli sottomessi spontaneamente inviano doni, non trova precisa analogia in ambito assiro.

Sul piano materiale, l’onerosità del tributo richiesto sembra tale da rendere difficile, se non impossibile, la sua effettiva fornitura, specie su tempi prolungati. Il tributo (come il bottino) è spesso qualificato con termini come «pesante» (kabtu), «grande» (ma’du), «innumerevole» (ana lā manī), e simili. A leggere certe quantificazioni, si rimane impressionati. Il tributo che Salmanassar III preleva da Patina è solo uno tra i tanti (e neppure il più pesante) nel corso di una sua campagna in Siria:

«Ricevetti da Qalparuda di Patina (come tributo una tantum) 3 talenti d’oro, 300 talenti d’argento, 300 talenti di ferro, 1000 calderoni di bronzo, 1000 vesti di lino multicolore, sua figlia con ricca dote (di) 20 talenti di lana tinta di porpora, 500 bovini e 5000 ovini. E come tributo annuale imposi su di lui 10 mine di argento, 100 tronchi di cedro, 100 carichi di resina di cedro, e li ricevetti annualmente ad Aššur». (RIMA 3, n. 102.2: ii 21-24)

Il sommario complessivo dei soli esseri animati (uomini e bestiame) ricavati dalle prime venti campagne comprende «110.610 prigionieri, 9.920 cavalli e muli, 35.565 bovini, 184.755 ovini» (ibid. n. 102.10: iv 34-40) – e siamo solo all’inizio dell’espansione imperiale. In seguito si preferisce dire semplicemente «il tributo (dovuto) alla mia signoria», o anche «come per gli Assiri», senza stare a quantificare, come cosa ormai notoria e di routine. Si noti che molto spesso invece di far riferimento al tributo, si allude al «pesante giogo di Aššur», oppure «della mia signoria» (nīr bēlūtīya), e si può osservare come le due espressioni si alternino; nel senso che se si usa l’espressione metaforica non c’è bisogno di quella descrittiva, e viceversa. Così la ricorrente allusione al «giogo» è in pratica un’allusione al tributo, o più in generale al carico di risorse materiali, che il vincitore pone a carico dei vinti. D’altronde la metafora del giogo è presente anche a Roma7.

Nell’esigere tributo si direbbe che l’Assiria cerchi di «tirare la corda» fino al limite della resistenza, non solo per acquisire più beni possibili, ma anche contando sulla rottura della corda stessa. Ogni tentativo di ribellione viene punito con l’aumento del tributo, con le espressioni ricorrenti «tributo e dono rafforzai» (udannin), da Adad-nirari II in poi (RIMA 2, n. 87.1: vi 34-35), oppure «aumentai (ātir) più di prima e posi a loro carico (muḫḫīšunu aškun)», da Assurnasirpal II in poi (RIMA 2, n. 101.1: i 96; ii 11; ii 79; iii 48, ecc.), e ancora fino ad Esarhaddon (RINAP 4, n. 1: iii 14-15; iv 17-18). La conseguenza, pressoché inevitabile, è che una delle principali motivazioni per l’intervento punitivo, che porta all’annessione, è appunto la sospensione del pagamento del tributo: anche qui da Adad-nirari II (RIMA 2, n. 99.2: 85-86) e fino a Sargon II (ad esempio, Muttallu di Kummu, Ann. 398-401 in ISKh, pp. 177 e 337-338).

L’altro onerosissimo elemento che grava sulle popolazioni, è quello della deportazione8, pesantissima non solo in termini economici e di status legale (di asservimento), ma anche e soprattutto in termini esistenziali, di sradicamento, per non dire poi dei tanti deportati deceduti in corso di trasferimento. L’utilizzo dello strumento della deportazione subisce una netta evoluzione nel corso del tempo, in rapporto alla struttura complessiva del sistema imperiale. In una prima fase, basata sul dominio indiretto, gruppi umani vengono trattati (catturati e trasferiti) come fossero una parte del bottino o del tributo, come risorse umane che si aggiungono alle risorse materiali. Si tratta di gruppi elitari (i membri della corte) o di uomini validi per l’esercito. Del primo caso, specialmente le figlie del re vinto, con la loro ricca dote, ho già fornito alcuni esempi (cap. 6), e la documentazione si infittisce specialmente con Assurnasirpal II e con Salmanassar III. Del secondo caso, numerosi sono gli esempi di soldati deportati e immessi nell’esercito assiro, e proseguono ancora a impero ormai al culmine9. Ne cito solo qualcuno tra le innumerevoli semplici menzioni:

«Presi con me carri, cavalieri e fanti di GN (e procedetti oltre)». (Assurnasirpal II, che allude a truppe ausiliarie, RIMA 2, n. 101.1: iii 58, 63, 68-69, ecc.)

«I suoi soldati catturati in bottino, (numerosi) come cavallette, vennero confinati nell’esercito del mio paese». (Šamši-Adad V, in RIMA 3, n. 103.1: iv 34-36)

«50 carri, 200 cavalieri e 3000 fanti reclutai tra di loro (le truppe di Karkemiš) e aggiunsi alla mia guardia regale (kiir šarrūti)». (Sargon II, Ann. 75, in ISKh, pp. 94 e 316)

«Gli ausiliari (urbī) aramei e caldei, che (stavano) dentro a Uruk, Nippur, Kiš e ursagkalamma, insieme agli abitanti colpevoli, deportai e computai come bottino». (Sennacherib, RINAP 3/1, n. 1: 52 e passi paralleli)

«Selezionai tra i suoi soldati, esperti di combattimento, e aggiunsi alla mia guardia regale: carristi, cavalieri, ingegneri, truppe pesanti e truppe leggere, porta-scudi, esploratori, agricoltori e pastori. Li aggiunsi in gran numero alle (già) consistenti forze di Aššur e alle guardie dei re miei predecessori. Il resto li distribuii come pecore e capre tra palazzo, nobili, corte, e abitanti di Ninive, Kalu, Kalzu e Arbela». (Esarhaddon, RINAP 4, n. 33: iii 14’22’)

Sia l’utilizzo di elementi locali come truppe ausiliarie, sia la preferenza per soldati stranieri (ritenuti fedeli perché sradicati e comunque non coinvolti nelle trame interne alla corte) nel corpo di guardia del re, hanno numerosi paralleli in diverse organizzazioni imperiali. Tra le deportazioni massicce della fase proto-imperiale si cita spesso quella di Tukulti-Ninurta che «deportò» 28.800 Hittiti» (RIMA 1, n. 78.24: 23-25, già citato al cap. 4), ma si tratta della rivisitazione tarda di un episodio del primo anno, con la sconfitta di alcuni paesi ad ovest dell’alto Eufrate (perciò «hittiti») e la cifra indica il totale della popolazione sottomessa ma ovviamente rimasta al suo posto.

Tuttavia è nella seconda fase, quella dell’annessione diretta e della provincializzazione, che le deportazioni comportano non più solo la cattura di membri dell’élite palatina o di specialisti della milizia, ma lo spostamento di popolazioni intere; e così il numero delle persone coinvolte aumenta a dismisura. Si può calcolare10 che nei tre regni della fase di provincializzazione (Tiglath-pileser III, Sargon II e Sennacherib) siano state deportate più di un milione di persone (su un totale di un milione e duecentomila), solo sommando le cifre riportate e conservate, cioè senza contare le cifre in rottura testuale e quelle omesse in narrazioni meno interessate ad una quantificazione precisa. La cifra reale potrebbe essere forse il doppio o il triplo di quella ora accennata, e una proiezione statistica è arrivata a indicare un totale (forse eccessivo) di 4.500.000 persone deportate11; che nel modesto popolamento dell’epoca costituiscono una cifra enorme (sarebbe però azzardato proporre qui una percentuale). L’interpretazione «buonista» e giustificativa delle deportazioni assire da parte di Saggs (1982) mi pare del tutto fuori luogo.

Si è spesso detto come le deportazioni possano essere o unidirezionali o incrociate. Quelle unidirezionali, tipiche dell’impero neo-babilonese, spostano gente dal paese conquistato al paese centrale dell’impero, allo scopo di ripopolare il paese centrale, ma abbandonando la periferia ad una crisi senza ritorno. Le deportazioni incrociate, tipiche dell’impero neo-assiro, spostano genti dal paese conquistato verso altre province (oltre che verso il paese centrale), e contemporaneamente da queste verso il paese di recente conquista12. Lo scopo principale è dunque quello di distruggere l’unità etnico-politica del paese conquistato, di sostituire l’auto-identificazione locale con quella imperiale multietnica, mantenendo però le province in stato di produttività. La ben diversa efficacia dei due tipi di deportazione risulta evidente quando si confronti la sorte dei deportati di Israele a seguito della conquista assira con la sorte di quelli di Giuda a seguito della conquista neo-babilonese. I deportati dagli Assiri persero ogni identità e visibilità (è la questione delle «dieci tribù scomparse»), assimilati nel gran mare imperiale, mentre quelli dei Babilonesi mantennero una loro unità in Babilonia, intorno alla loro élite politica e religiosa. E ancora: il territorio del nord rimase più o meno abitato (da una mistura di rimanenti e deportati alieni, che saranno i Samaritani), mentre il sud rimase quasi spopolato ad accogliere gli esuli di ritorno. Vediamo comunque qualche esempio di deportazione incrociata:

«Insediai 600 prigionieri di GN1-2 e 5.400 di GN3 nelle città di GN1-7 del paese di Unqi. Insediai (tot) prigionieri Gutei di GN1, 1.200 di GN2 e 6.208 di GN3-4 nelle città di GN1-4 sulla riva del mare... Li considerai come genti di Assiria (itti nišē māt Aššur amnušunūti) e imposi loro lavoro forzato (ilku tupšikku) come per gli Assiri (kī ša Aššurī)». (Tiglath-pileser III, RINAP 1, n. 14: 3-10)

«La gente di GN1-3... a motivo del peccato da loro commesso, io li sradicai (assu) dalle loro sedi e le insediai in Siria (atti) di Amurru... La gente delle città di GN1-2, (pur se) cresciuti come cani nel mio palazzo, si rivolsero per secessione alla terra di Kakme. Io li sradicai dalle loro sedi e li portai a Damasco di Amurru... Le tribù (arabe) di GN1-4, arabi remoti abitanti del deserto... io abbattei, e i superstiti li deportai e insediai a Samaria». (Sargon II, Ann. 66-67, 76-78, 120-123, ecc., in ISKh, pp. 91-95, 110 e 315-316, 320)

«Deportai via la gente, vecchi e giovani, maschi e femmine, (più) cavalli e muli e asini, cammelli, bovini e ovini senza numero... Presi Elenzaš come mia città regale e come fortezza di quel distretto, cambiai il suo nome in Kar-Sennacherib, vi insediai gente di (altri) paesi da me conquistati». (Sennacherib, in RINAP 3/1, n. 4: 27-30)

Si noti, nel primo degli esempi citati, lo spostamento di montanari (Gutei) sulle città della costa mediterranea, come nel già citato epiteto dello stesso re come «colui che scambia (verbo šupēlu) le genti dei paesi alti e bassi» (cap. 10).

Praticando deportazioni incrociate, l’Assiria mostrava interesse a mantenere tutte le province (incluse quelle del nucleo storico) ugualmente insediate e produttive, anche se si è già detto come il peso contributivo fosse tale da renderne inevitabile il declino demografico e produttivo. Ma mostrava soprattutto interesse a evitare che le vecchie case reali, le vecchie classi dirigenti, potessero coltivare progetti di recupero se non di rivincita. Ci fu anche una diversa selezione dei deportati nelle loro destinazioni, in base al loro rango e alla loro specializzazione lavorativa. La popolazione comune (sostanzialmente contadini) venne utilizzata come manodopera agricola o nei progetti edilizi; gli specialisti vennero concentrati piuttosto nella capitale. Di questo le iscrizioni celebrative non parlano, come non parlano di fenomeni di emigrazione volontaria dalle campagne verso le città, dalle province verso la capitale. Su questo punto la divaricazione tra iscrizioni celebrative e documenti di archivio13 resta insanabile, giacché la celebrazione regia non è interessata alle iniziative individuali dei vinti: tra i tanti individui dal nome straniero che compaiono nei documenti d’archivio14, quanti erano stati deportati, quanti erano emigrati volontariamente? Una volta avviato dall’alto, e una volta divenuto inarrestabile, il processo di mescolamento e di delocalizzazione prese vigore aggiuntivo anche per impulsi dal basso.

Non esiste invece in Assiria un moto centrifugo, propriamente coloniale, di spostamento di popolazione del nucleo imperiale verso la periferia, a costituire colonie di dimensione cittadina (già in antico: Greci e Fenici) oppure regionale (tipico del colonialismo europeo proto-moderno e moderno15). L’Assiria non ha bisogno di terra (che allora era sempre sovrabbondante) ma di manodopera (che era sempre carente): dunque importa persone, non ne esporta. Inoltre la colonizzazione (antica e moderna) s’indirizza verso aree geografiche demograficamente rarefatte e culturalmente arretrate, mentre l’Assiria conquista zone di livello demografico e tecnico-culturale analogo al suo.

1 Stark e Chance 2012.

2 Le pagine di Yamada 2000, pp. 225-272, su bottino e tributo in Salmanassar III sono valide anche più in generale. Cfr. anche Elat 1982b; Karlsson 2013, pp. 155-162.

3 Problemi in parte analoghi presenta la terminologia egiziana (ỉnw), cfr. da ultimo Hallmann 2006, pp. 29-252 e passim.

4 Su terminologia e tipologia del tributo rinvio agli esaurienti studi di Postgate 1974 e di Bär 1996; sinteticamente Klengel 1997; ormai obsoleto Martin 1936.

5 Liverani 1992, ripreso in Id. 2014a, pp. 188-189.

6 Briant 1996, pp. 78-80 e 406-417, e bibliografia alle pp. 957-958.

7 Nicolet 1978, p. 906, cita Cesare ad Alesia.

8 Oded 1979; anche Röllig 1996. Sui precedenti medio-assiri, cfr. Saporetti 1970; Freydank 1975 e 1980; Garelli et al. 1982.

9 Oded 1979, pp. 48-50; cfr. anche Na’aman 1991; Zawadzki 1995; sulle raffigurazioni, Reade 1972.

10 Sulla base dei dati di Oded 1979, con tabella riassuntiva a p. 20.

11 Oded 1979, pp. 20-21 nota 5.

12 Ivi, pp. 27-32.

13 Sulla generalizzata «servitù della gleba» nei testi amministrativi, cfr. Fales 1973 e 2001, pp. 170-178.

14 Rinvio agli studi di Zadok (1995 e 1997) citati al cap. 25 nota 15.

15 Ma cfr. Brunt 1971, pp. 159-165 e passim su commercianti italici e veterani romani.