«E senza veruno scrupolo la storia universale
prende principio dalla monarchia degli assiri»
G.B. Vico, La scienza nuova, § 3
Prima di trarre conclusioni penso sia opportuno ripercorrere – con un massimo di concisione – tutte le convergenze tra Assiria e imperi successivi, convergenze storiche o letterarie o semplicemente tipologiche trattate nei paragrafi precedenti.
Il re assiro è delegato del dio, dal quale riceve il mandato di estendere il regno centrale e cosmico a danno della periferia caotica, con beneficio per tutti (dio, re, assiri, stranieri). Perciò egli mette a punto tutto un sistema di comunicazione dal dio al re e viceversa, per essere sicuro in ogni momento di agire correttamente. La conquista della periferia avviene mediante azioni belliche (di guerra al tempo stesso santa e giusta) alle quali le divinità assire prendono parte attiva; ed è preceduta da una sua esplorazione, attraverso vie difficili e mai percorse prima da alcun re. Si scopre così che la periferia, abitata da genti strane e ostili, è però una ricchissima miniera di risorse materiali e umane, rimaste inutilizzate fino all’intervento assiro. Le meraviglie esotiche vengono centralizzate (con specimen o riproduzioni) nella capitale imperiale in parchi botanici e zoologici, ma anche in harem e in biblioteche, a dimostrare il compimento della missione. I nemici catturati sono sottoposti a supplizi pubblici con lo stesso scopo. A conquista avvenuta il re erige una stele o un rilievo rupestre nel punto estremo raggiunto, meglio se in vista dell’Oceano che tutto circonda. Iscrizioni celebrative e titolatura regia sottolineano in tutti i modi possibili l’attuazione del mandato divino mediante la conquista imperiale. Ma la giustificazione teologica è affiancata (sia pure in misura minore) da quella giuridica, imperniata sulla pretestuosa motivazione difensiva e sul «giuramento» e sulla sua violazione da parte dei ribelli. E la loro punizione è affiancata (in misura molto minore) dal benevolo perdono dell’imperatore.
Sul piano istituzionale l’impero assiro «esporta despotismo» e sottopone i popoli conquistati agli stessi gravami contributivi degli assiri di vecchia data. L’impero si accentra sulla capitale (politica, amministrativa, monumentale), sul sistema provinciale, sulle deportazioni, sulla rete di comunicazione. La prosperità imperiale si addensa sul nucleo interno ma lascia i nuovi territori in stato di sotto-sviluppo. Non c’è unificazione religiosa (stante la concezione politeistica), né linguistica (che avviene a vantaggio dell’aramaico dei deportati). Nella misura in cui la gran parte di queste caratteristiche dell’ideologia assira si ritrovano in imperi successivi, lo slogan «impero prototipo» trova una sua giustificazione pur con le limitazioni e qualificazioni sulle quali tornerò tra breve. Ben diversa – come già detto sin dall’inizio – è invece la grande differenza nelle condizioni materiali e nelle pratiche attuative, in un percorso propriamente storico che cercherò di delineare sommariamente al cap. 28.
Al termine dell’analisi credo siano facilmente condivisibili alcune conclusioni. La prima è che l’élite dirigente assira (personalizzando: i sovrani e gli scribi) elaborò e pubblicizzò un’ideologia imperiale (e imperialistica) complessa ma organica. Lo fece allo scopo di conseguire auto-legittimazione e consenso. Lo fece esprimendo i rapporti politici mediante il «codice» teologico come lo strumento più efficace e coerente alla mentalità e alla religiosità dell’epoca. Lo fece nei modi, più ripetitivi che non razionalmente coerenti, tipici delle abitudini e capacità della cultura di allora. Così non esiste un «manifesto teorico» o men che meno un «manuale» assiro di politica imperiale. Dobbiamo ricostruirlo noi oggi, da un punto di vista inevitabilmente «altro». Esistono solo testi di utilizzo pratico, come il rituale o gli inni d’intronizzazione, o per altro verso i trattati di «vassallaggio». Esistono soprattutto le iscrizioni celebrative assire, sulle quali la nostra ricostruzione si basa in massima parte. In esse i vari aspetti dell’ideologia imperiale tendono a cristallizzarsi in una serie di motivi letterari, che vengono ripetutamente utilizzati in maniera abbastanza ossessiva: come la «via difficile», l’«uno contro i molti», la «priorità eroica», la «stele ai confini del mondo», e tanti altri. Questi topoi fanno parte del «mestiere» dello scriba che anche al più alto livello è abituato a servirsi (o meglio è stato addestrato a servirsi) di una serie fissa di espressioni, di termini tecnici, consegnati ai repertori costitutivi di quella «scienza delle liste» che è tipica della tradizione scolastica mesopotamica.
Ho detto «termini tecnici», ma i termini del linguaggio politico tanto tecnici non sono né vogliono esserlo; e sono quelli relativi alla «signoria» e alla «regalità», al «potere» e alla «gloria», alla «forza» e alla «confidenza», alla «conquista» e alla «sistemazione», o aggettivi qualificativi del «difficile» o del «penoso», del «diritto» o del «solido», e tanti altri; o verbi come quelli di «temere» e di «aiutare», di «sistemare» o di «distruggere», e anche metafore come quella del giogo o quella dell’aureola, insomma tutta la terminologia che abbiamo analizzato nei capitoli precedenti1. Nella classificazione della neo-lingua del «Grande Fratello» orwelliano sarebbero termini di tipo B: né afferenti alla vita quotidiana (tipo A) né utilizzabili nella trattatistica scientifica (tipo C), ma sommamente adatti alla manipolazione del pubblico. Se o quanto poi la manipolazione sia basata su un’inversione speculare dei significati (secondo lo slogan: «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza»), questo in Assiria non è di norma vero, e comunque non è mai del tutto vero. Però il concetto orwelliano di base mi pare renda bene intenti e modalità della comunicazione politica: «Il linguaggio politico... è costruito in modo da far apparire veritiere le menzogne e rispettabile il crimine»2.
Ma – per tornare alla questione posta all’inizio di questo saggio – il meccanismo ideologico posto in essere dall’impero assiro ha avuto una qualche influenza sugli imperi dei periodi storici successivi? E se sì, quanto significativa? E soprattutto per quali vie si può essere esercitata tale influenza? Ripeto che si tratta di percorsi dell’apparato ideologico, giacché le condizioni materiali sono mutate drasticamente dalla remota antichità orientale ai giorni nostri. Ora, eventuali analogie tra l’Assiria e imperi che non potevano avere mai avuto con essa alcun contatto, diretto o mediato che fosse, come quelli dell’America pre-colombiana (Aztechi e Inca), ma anche la Cina, non possono essere spiegati che come somiglianze tipologiche: le «forme semplici» dell’imperialismo trovano espressioni altrettanto semplici che possono ripetersi in diversi «casi primari» a distanza di tempo e di spazio. Ma anche queste coincidenze (o convergenze) tipologiche e non storiche hanno una loro funzione nel chiarire i meccanismi di base che hanno portato all’elaborazione di analoghi principi ideologici in corrispondenza ad analoghe forme di dominazione politica.
Ci sono invece casi di innegabili influenze storiche, dirette o mediate, tra imperi entrati in contatto (in quanto coevi) oppure in sequenza. Ciò pone il problema di individuare un «impero prototipo» e le «traiettorie dell’imperialismo» (ma queste le tratterò al paragrafo seguente). Diciamo subito, a scanso di equivoci, che l’individuazione di un impero prototipo non può avvenire nel segno dell’unicità: né in senso storico né in senso storiografico. Non può esserci storicamente un impero modello originario perché la concezione imperialistica si forma progressivamente e segue itinerari diversi e variamente intrecciati3. E la storiografia, specie quella moderna, può risalire più o meno indietro nel tempo per individuare un modello che risponda ai suoi intenti. Su questo aspetto storiografico è evidente come gli storici moderni facciano più volte riferimento al modello dell’impero romano, ma assai raramente risalgano magari ad Alessandro o agli Achemenidi; mai comunque agli Assiri. Ancora di recente, Woolf4 cita spesso per Roma paralleli di imperi moderni, e anche alieni (Cina, Aztechi), ma meno spesso quelli anteriori e orientali (Alessandro, Achemenidi) e mai l’Assiria.
L’impero romano come prototipo specie di quello britannico è teoria risalente già ad età vittoriana, con Seeley, e si ritrova poi spesso5. Per Bryce, che analizza somiglianze e differenze tra impero romano e dominio inglese in India (ovviamente con gli strumenti del suo tempo, dal fattore razziale alla missione civilizzatrice), il modello romano si impone perché gli imperi precedenti non si dedicavano a stabilire «peace and good order» ma solo a tassare i sudditi. Per Mann e per Doyle (entrambi 1986) Roma sarebbe il primo impero territoriale della storia6. Il citatissimo Doyle sa che ci sono imperi da Sumer e dall’Egitto alla Cina, ma poi si limita a selezionare i cinque casi a lui meglio noti: impero ateniese, romano, ottomano, spagnolo, britannico, e poi (nella seconda parte del libro) si dilunga sull’imperialismo coloniale (in Africa) del XIX secolo, che è il suo vero oggetto di interesse. Dunque più che i percorsi dell’imperialismo studia il colonialismo con la premessa del modello romano. Quanto a Jean Tulard7, individua due gruppi di imperi, quelli derivati dall’impero romano, nei due percorsi orientale (da Bisanzio alla Russia) e occidentale (da Carlo Magno al Sacro romano impero germanico, all’austro-ungarico, al napoleonico, e al Terzo Reich); e gli altri, extra-europei, accomunati solo dal fatto di non derivare da Roma: Assiri, Achemenidi, Cinesi, Arabi, Mongoli, Selgiuchidi e Ottomani, Indiani, Pre-Colombiani. Dunque l’impero-prototipo è Roma, il resto (prima e dopo) interessa poco o nulla, donde la scelta del titolo del suo volume «da Roma a Berlino». Lo stesso vale anche per Münkler, che analizza gli imperi da Roma agli USA, ma con fugace citazione dell’Assiria come impero paradigmatico8.
Si noti che anche David Mattingly, che pur fatica9 a dimostrare che l’impero romano era effettivamente un impero (contro la reticenza dei modernisti), poi confronta – magari contrappone – spesso Roma e modernità, ma cita pochissimo gli imperi pre-romani e quelli orientali (islamici, cinesi, e tanto meno l’Assiria).
Ovviamente, se l’impero-prototipo è quello romano, allora parecchi imperi sono tagliati fuori dal percorso di trasmissione, che si limita all’ambito europeo (classico-medievale-moderno). Invece elementi di impero-prototipo già presenti in Assiria (o magari in Akkad!), possono innescare percorsi più ampi che includono anche gli imperi asiatici (non però la Cina e i suoi derivati Giappone e Corea). Dunque l’eurocentrismo sceglie Roma, la globalizzazione post-colonialista dovrebbe scegliere l’Assiria. In certi casi la stessa globalizzazione non serve a inserire nei percorsi di diffusione imperi rimasti piuttosto isolati (come quelli cinesi antichi), per non parlare di quelli dell’America pre-colombiana. Per questi c’è solo la comparazione tipologica, non storica. Infine, da quando è emersa la Cina come potenza economica mondiale, al vecchio confronto tra impero britannico e romano si è sostituito quello tra impero romano e cinese coevo (dinastia Han).
Ci sono però casi in cui la trasmissione di un motivo ideologico, anziché avvenire di secolo in secolo, di impero in impero, è assicurata dal prestigio di un testo sacro, può risalire molto indietro nel tempo, o viceversa proiettarsi molto avanti nel tempo, adattandosi a nuovi scenari religiosi e culturali, fino a rendere problematica una distinzione tra un contatto dovuto a citazione o allusione consapevole, e un contatto dovuto al semplice (e inconsapevole) inserimento in una stessa eredità culturale. Questo vale in particolare – nel senso che interessa direttamente l’assunto di questo lavoro – per quei topoi di origine assira che possono essere penetrati nel testo biblico, e tramite il testo biblico possono poi essere riemersi in ambienti lontanissimi nel tempo e nello spazio, come quelli della cristianità medievale, ambienti che ovviamente non avevano più nozione alcuna dell’Assiria e tanto meno della sua ideologia imperialistica.
Voglio in proposito presentare un caso che mi pare esemplare (anche se tutt’altro che unico): quello delle Laudes Regiae della cristianità medievale (sulle quali resta fondamentale il classico studio di Ernst Kantorowicz del 1946).
Le Laudes Regiae, messe a punto in ambito carolingio (prima metà dell’VIII secolo), e poi diffuse soprattutto in ambito normanno e francese, hanno un celebre refrain di carattere bellicoso e imperialistico – Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat – che potrebbe essere riferito tale e quale ad Aššur. Questo di per sé potrebbe benissimo essere un echeggiamento del tutto casuale. Ma il carattere bellicoso è connesso con l’ispirazione che le Laudes traggono dalle acclamazioni di ambito militare tardo-romano e bizantino (trionfo dei generali vincitori), e si noti la stretta connessione temporale con la vittoria di Carlo Martello sugli Arabi (Poitiers 732) e la regalità di ispirazione biblica di suo figlio Pipino (il novello David). Ora, nella sezione laudativa, molti degli epiteti divini (come gloria, auxilium, fortitudo, arma invictissima) richiamano i concetti assiri dell’intervento divino a sostegno dell’azione regia: la gloria (la sfera semantica di tanattu e lītu), l’aiuto (rēṣūtu), la forza (emūqu), l’arma (kakku), oltre ovviamente a rex regum («re dei re», šar šarrāni). E si noti che l’epiteto di «muro» protettivo (murus inexpugnabilis) per tramite vetero-testamentario (il «muro bronzeo inaccessibile» di Ger. 15, 20) risale addirittura all’epiteto del faraone come «muro di bronzo». Infine la dossologia finale «A lui solo il regno, la gloria e la potenza» (ripresa dal Vangelo di Matteo, e confluita nel Messale Romano) risale all’affermazione assira (rivolta al sovrano) «tuo è il regno, (dunque) tua è la gloria e la vittoria» in una profezia assira (SAA 9, n. 1.8: 21-23), per il tramite di echeggiamenti biblici come la «Profezia di Nathan» (I Cron. 28, 11-12)10. Mi pare troppo per pensare ad un puro caso, una pura convergenza tipologica: un percorso dall’Assiria ai profeti biblici, poi da questi a tutto il filone giudeo-cristiano, percorso magari in parte sotterraneo ma in parte per esplicite citazioni letterarie, mi pare ipotesi del tutto ragionevole. Quanto poi al rapporto tra potere e gloria, è facile osservare che i due concetti sono funzionalmente collegati nell’ideologia antica (assira e biblica), mentre sono contrapposti nel libro omonimo di Graham Green Il potere e la gloria (il potere è quello del regime poliziesco, la gloria è quella del sacerdote seppur indegno): tipico caso in cui la trasmissione si riadatta a mutati tenori etico-culturali.
Si possono proporre, almeno per più rapidi cenni, altri esempi di trasmissione di concetti-base dell’ideologia assira (o anche più ampiamente vicino-orientale) nella tradizione giudeo-cristiana (e in parte anche islamica) per il tramite biblico. Si pensi alla fortuna che il concetto di «timor di Dio» ha avuto nei secoli e millenni successivi. Si pensi a come il concetto della «fede» derivi da quello tipicamente assiro della «fiducia», la tukultu di cui si è ampiamente detto nei capitoli analitici (e questa derivazione meriterebbe uno studio dedicato11). Si pensi alla storia dell’espressione della «retta via»12, dal Levante di età amarniana alla formulazione evangelica e da questa al nostro linguaggio corrente.
Il fatto è che le ideologie antiche, quella assira in particolare, ritengono di attribuire al re qualità divine, mentre in realtà sono le qualità del potere umano ad essere attribuite agli dèi. Gli dèi, creature ideali, ipostasi o metafore del potere, vengono immaginati sulla scorta del modello della regalità umana. Ora i profeti e i salmisti dell’Israele in esilio, non potendo attingere a un’ideologia imperiale loro propria (i due regni locali erano ormai estinti, e del resto non avevano mai avuto un ruolo imperialistico), sembrano aver attinto all’ideologia regia e imperiale assira e babilonese, trasformando così un’ideologia imperiale in un’ideologia teologica – o in altri termini attribuendo a Yahweh epiteti e motivi derivati da quelli imperiali. Questo punto, a mia conoscenza, non è mai stato affrontato in maniera sistematica e dettagliata, come pure sarebbe interessante fare. Però mi pare legittimo indicare due vie di trasmissione dell’ideologia imperialistica assira. La prima via è quella delineata sopra, da impero a impero, con lo snodo centrale di quello achemenide nell’innervare sia il filone vicino- e medio-orientale sia quello occidentale. L’altra via è quella religioso-letteraria, derivata dal confluire di motivi assiro-babilonesi nell’Antico Testamento e da questo trasmessi in tutto il filone giudaico-cristiano (e in buona misura anche in quello coranico) fino a ridosso della modernità, col rimbalzo della celebrazione divina sulla celebrazione imperiale.
1 Per una prima sistemazione cfr. Liverani 1979, seguito da Machinist 1993.
2 Orwell 1954, p. 177.
3 A partire da Akkad, cfr. ora Foster 2016. Sulle influenze dell’impero di Akkad sulla stessa Assiria, cfr. da ultimo Ulanowski 2015; Pongratz-Leisten 2015, pp. 142-144; sul modello di Akkad per il regno neo-babilonese, cfr. Beaulieu 2003.
4 Woolf 2012.
5 Seeley 1883; e vedi, ad esempio, Bryce 1914, Mann 1986, Doyle 1986, Tulard (ed.) 1997, Münkler 2005, e da ultimo De Donno 2011.
6 Mann 1986, pp. 254-260; Doyle 1986, pp. 135-137.
7 Tulard (ed.) 1997, pp. 12-14.
8 Münkler 2005, trad. it. pp. 86-87.
9 Mattingly 2011, pp. 1-13.
10 Liverani 2007.
11 Gli studi correnti si basano sull’Antico Testamento e/o sulla giurisprudenza della Roma antica.
12 Liverani 2008c.