1.
Dio lo vuole

ina qibīt Aššur bêlu rabû narkabāte abē adkī

ana māt GN lū alik māt GN rapašta lū akšud

(«per ordine di Aššur, il grande signore, mobilitai carri e truppe,

andai contro il paese di GN, e conquistai il vasto paese di GN»)

In ogni epoca gli imperatori, per quanto (onni)potenti, raramente sono stati considerati degli dèi. Banalmente parlando, la nascita e la morte dei re, umane e materiali, mal si addicono alla sfera divina e inducono semmai a forme peculiari di divinizzazione. Nella remota antichità vicino-orientale fa notoriamente eccezione l’Egitto, dove il faraone veniva considerato un dio1, concezione che si trasmise poi ai regni ellenistici2. In tutt’altro contesto, anche i sovrani Maya e Aztechi erano considerati di natura divina3.

La Mesopotamia conobbe un mezzo millennio di re divinizzati – da Naram-Sîn di Akkad fino a Hammurabi di Babilonia, circa 2250-1750 –, o che almeno facevano comporre inni in loro onore e facevano scrivere il proprio nome preceduto dal determinativo dei nomi divini. La natura propriamente divina di questi re di ambito sumerico, accadico e paleo-babilonese è sempre rimasta ambigua e limitata, non solo nel tempo ma anche nella sua effettiva funzionalità4; e del resto anche in Egitto il rapporto tra il faraone e le divinità vere e proprie è simile a quello mesopotamico: il re costruisce i templi e assicura le offerte cultuali, e in cambio gli dèi gli assicurano il potere universale5.

La divinizzazione degli imperatori romani era controversa, tra scetticismo filosofico e credulità popolare e influenze egiziane6, e in seguito l’affermarsi dei monoteismi «etici» (giudeo-cristiano e islamico) rese inaccettabili simili ambizioni. Nonostante le evidenti sopravvivenze «orientali», l’imperatore (basileus) bizantino esercita il suo potere per delega divina, è il rappresentante del dio in terra7. Nel cristianesimo medievale si formalizza la teoria dell’origine divina del potere politico8, sintetizzabile nelle formule rex dei gratia e imperator dei gratia9, ma certo una natura divina del re stesso è impensabile. Anche in Cina il «mandato celeste»10 è conferito dal cielo (la sfera sovrumana, se non proprio divina) al re giusto e virtuoso, per essere revocato se sconfitte o carestie o alluvioni segnalano che non lo è più11. Si noti che una vera e propria divinizzazione del sovrano è ostacolata in Cina dalle concezioni filosofiche12, come altrove lo è dalle concezioni religiose: Assiria, Achemenidi, imperi cristiani e islamici.

Il re d’Assiria non era considerato un dio, né in vita né dopo la morte, e per conferirgli una qualche connessione con la sfera divina si ricorreva alle metafore come «immagine» (almu)13, o anche come «ombra» (illu) del dio14. Su quest’ultima c’è soprattutto la citazione di un proverbio, nella lettera dell’aruspice-capo Adad-šum-uur:

«Si suol dire così: ‘L’uomo è ombra di dio’. Ma l’uomo non è che ombra d’uomo. Il re, lui sì, è la vera sembianza (muššulu) del dio». (SAA 10, n. 207: Rev. 9-13; la traduzione, per quanto ovvia, è stata spesso fraintesa)

Pur nel suo zelante encomio cortigiano, il funzionario non può arrivare a dire che il re è divino. Per curiosità, anche il sultano ottomano è «ombra di Dio in terra»15.

A rigor di termini il re assiro inizialmente non si attribuisce neppure il titolo di «re» (šarru), come farà poi a partire da un certo momento16. La formulazione ricorrente, specie nel rituale medio-assiro di intronizzazione, è «Aššur (il dio cittadino e poi nazionale) è re, il Tale (il re umano ora insediato) è il suo delegato»17. Si usa il termine iššakku (derivato dal sumerico ensi) che significa qualcosa come «amministratore delegato». Il termine richiama quello arabo-islamico di «califfo» (alīfa) che indica il «vicario» o «delegato» o «rappresentante (di Dio)», e anche la formula di intronizzazione evoca la famosa šahada «Non c’è Dio se non Allah, e Muhammad è profeta di Allah». Più precisamente, i primi califfi sono delegati di Muhammad, che a sua volta è l’inviato di Allah (alīfat rasūl Allah); ma ben presto (già con la dinastia umayyade) diventano delegati direttamente di Allah (alīfat Allah). In ogni caso il califfo esercita il suo ruolo, ed esegue la sua missione, come delegato della divinità18.

Si noti poi che «Aššur» è il nome sia del dio sia della città sia del paese tutto (la scrittura distingue mediante gli appositi «determinativi»), e la formula «iššakku di Aššur» inizialmente si riferiva al dio, e dunque iššakku significava «delegato» o «rappresentante» del dio; poi si riferì alla città e dunque il termine indicò il re come un «governatore» locale19. La formula risale ai primordi della regalità assira, quando il regno era una piccola – benché ambiziosa – città-stato, ed è usata nei sigilli dei primi re ilulu (verso il 2000, RIMA 1, n. 27.1) e Erišum I (ca. 1940-1910, RIMA 1, n. 33.1: 35-36)20. Poi compare nel rituale medio-assiro d’intronizzazione (probabilmente di Tiglath-pileser I, 1114-1076), quando l’Assiria era ormai diventata uno stato regionale di grande potenza e dinamismo21. Infine, è ancora citata nell’inno d’intronizzazione di Assurbanipal, l’ultimo grande imperatore (668-631) al massimo dell’espansione territoriale (SAA 3, n. 11: 15). Il re assiro è poi anche definito «sacerdote» (šangû)22, sostanzialmente con analoghe implicazioni ma con assai minore specificità.

Dunque il re agisce per delega o mandato divino, e questo mandato viene ben sintetizzato nello stesso rituale di intronizzazione con le parole: «Col tuo giusto scettro allarga il paese! E Aššur ti darà autorità e obbedienza, giustizia e pace!»23; e la formulazione dell’inno di Assurbanipal: «(Gli dèi) gli conferiscano il giusto scettro per allargare il paese e il suo popolo!» (SAA 3, n. 11: 17) chiaramente deriva da quella del rituale24. Questo mandato di allargare il paese richiama quello romano della propagatio finium imperii, dove l’imperium, che indica dapprima il potere di comando del popolo romano, diventa poi la sua concretizzazione territoriale25.

È possibile che la sostanza di questa formulazione debba qualcosa al modello egiziano del Nuovo Regno, coevo al regno medio-assiro. All’inizio dell’espansione egiziana in Levante, questa venne giustificata in quanto intesa a «estendere i confini dell’Egitto» e a «eliminare la violenza dalle alte-terre». E l’epiteto di Tukulti-Ninurta I come «allargatore del confine» (murappiš miri) sembra ricalcare quello del grande Tuthmosi III «allargatore dei confini d’Egitto» (sws t3šw Kmt)26. Ancora in età medio-assira, Adad-nirari I si attribuisce l’epiteto di «allargatore di confine e frontiera» (murappiš miri u kudurri: RIMA 1, n. 76.1: 15), e Tiglath-pileser I si vanta di aver «allargato il confine dei territori» (miir mātāte ruppušu: RIMA 2, n. 87.1: 48-49). Sin da allora, dunque, la «missione» basilare del re assiro è quella di allargare (ruppušu), ingrandire, il paese centrale, di portare sempre più avanti le sue frontiere e di stabilire ordine, giustizia e pace. È implicita la distinzione tra un paese centrale ordinato e pacificato, grazie all’attiva sollecitudine del dio nazionale, e una periferia che lo diventerà man mano che sarà annessa all’impero – un po’ come nella distinzione islamica tra un dar es-salam «mondo di pace» interno e un dar el-arb «mondo di guerra» esterno.

Questa «missione» si comprende appieno se inquadrata nell’opera di creazione, o meglio di organizzazione, del mondo, quale concepita nell’antica Mesopotamia. Ovviamente la creazione delle strutture fisiche del mondo è opera diretta della divinità. Quest’azione diretta culmina nella creazione della regalità, che – come dice già la Lista Reale Sumerica – «discese dal cielo» per essere attribuita ad una sequenza di dinastie cittadine. Una volta che l’umanità ebbe la guida dei re, a costoro venne affidata non solo la «manutenzione» dell’opera divina, ma anche il suo completamento. Il completamento della creazione27 ha due aspetti: la messa a punto di dettagli della tecnologia e dell’ordinamento politico, e l’espansione del cosmo (il paese centrale ove già regna l’ordine) a spese del caos (la periferia ancora in stato di disordine)28. Così i re assiri, sulla scia di quelli sumero-accadici che li avevano preceduti, si fanno un vanto da un lato di aver restaurato templi crollati o a rischio di crollo, di aver scavato canali e incrementato la produttività agricola, di aver messo a punto tecniche artigianali più sofisticate, e così via; e dall’altro lato di aver esteso l’ordine assiro ai paesi circostanti, specie a quelli montani particolarmente atti a rappresentare la periferia. Vedremo più avanti (cap. 4) come la «mappa mentale» mesopotamica sia quella di una pianura irrigata, urbanizzata e densamente abitata, circondata da montagne impervie e politicamente depresse.

Oltre al mandato divino generale e permanente, comunicatogli il giorno dell’intronizzazione (e probabilmente ripetutogli ad ogni capodanno), il re ha bisogno dell’approvazione divina per ogni singola azione che si appresta a compiere, anche e soprattutto per quelle azioni nelle quali il mandato divino si concretizza. Così all’inizio di ogni campagna militare il re assiro deve consultare presagi appositamente provocati, soprattutto l’esame del fegato delle vittime sacrificali (lo vedremo meglio al cap. 2). Solo se il responso sarà positivo, la spedizione potrà partire. L’operazione è necessaria e dunque talmente abituale, ripetitiva, che anche la sua menzione nel resoconto (annalistico o altro) della campagna non può certo mancare, per quanto si riduca ad un accenno stereotipo. La frase ricorrente, all’inizio del racconto, ina tukulti dAššur u ilāni rabūti significa qualcosa come «confidando in Aššur e nei grandi dèi», o meglio «avendo ricevuto assicurazione positiva da Aššur e dai grandi dèi», e in concreto significa «avendo ricevuto assicurazione (mediante procedura mantica) da Aššur e dai grandi dèi».

Altra formula tipica dell’assicurazione divina, è «va’, non temere, io sarò al tuo fianco»29, e in un testo letterario come il Poema di Tukulti-Ninurta vediamo come questa assicurazione si concretizzi nello schieramento dell’esercito assiro che si avvia alla battaglia: in testa c’è il dio Aššur, seguito dagli altri «grandi dèi» (Enlil, Anu, Sîn, Adad, Šamaš, Ninurta e Ištar), poi viene il re e infine la truppa dei soldati. Il re inizia il combattimento scagliando una freccia che uccide un nemico, poi le truppe si lanciano all’assalto e completano l’opera30. La formula della prima crociata Deus vult (Dieu le veut, Deus lo volt) e quella dell’ordine teutonico (e poi dell’impero tedesco) Gott mit uns, derivato dal grido di battaglia romano Deus nobiscum, rendono benissimo il concetto: noi vinceremo sia perché stiamo eseguendo il volere divino, sia perché dio stesso combatte con noi e per noi. I nemici sono «senza dèi» o perché i loro sono dèi minori rispetto a quelli assiri, o meglio perché vengono abbandonati dai loro stessi dèi consapevoli del «peccato originale» dei loro protetti, colpevoli di opporsi all’unico vero e giusto regno che è quello assiro. Il topos dell’abbandono è molto risalente nel tempo, lo si trova già pienamente formulato nelle «Lamentazioni» per il collasso della III dinastia di Ur verso il 2000. Nel già citato Poema di Tukulti-Ninurta lo si applica alle città babilonesi: la cui sconfitta non poteva realizzarsi senza che gli dèi babilonesi avessero deciso di abbandonare al suo destino il loro re, macchiatosi di ingiusto comportamento. I montanari non hanno che dèi «minori», ma i Babilonesi hanno gli stessi «grandi dèi» degli Assiri, e devono necessariamente essere stati abbandonati.

L’introduzione agli Annali di Tiglath-pileser I fornisce un’esposizione esplicita di come il mandato divino (l’allusione al rituale d’intronizzazione è chiara) sia stato eseguito e compiutamente rea­lizzato:

«Aššur e i grandi dèi che esaltano la mia regalità, che mi diedero in sorte potere e potenza, mi ordinarono di ampliare il confine della loro terra. Mi misero in mano le loro potenti armi, diluvio in battaglia, e io spadroneggiai su terre, montagne, città e principi ostili ad Aššur, e conquistai i loro distretti. Mi confrontai in battaglia con 60 regnanti, ed ottenni vittoria su di loro. Non ho rivale in lotta né eguale in battaglia. Ho aggiunto terre all’Assiria e genti alla sua popolazione, ho allargato il confine della mia terra e ho governato tutte le loro terre». (RIMA 2, n. 87.1: i 46-61; passo citato anche da Cancik-Kirschbaum 1997)

Anche Assurnasirpal II introduce i suoi Annali con analoghe dichiarazioni, alludendo al positivo responso oracolare (tukultu) che precede ogni campagna:

«Quando Aššur, il mio grande signore, chiamò il mio nome per fare la mia signoria superiore a quella di tutti i re delle quattro parti del mondo, e pose la sua arma spietata nelle mie mani regali, mi comandò di governare e sottomettere le terre e le montagne. Confidando (ina tukulti) in Aššur mio signore, io marciai per vie difficili, su montagne impervie, con la massa delle mie truppe, senza incontrare resistenza». (RIMA 2, n. 101.1: i 40-43)

Il motivo diventerà sempre più ripetitivo e abbreviato, e c’è anzi da notare che la sottolineatura del mandato divino sembra affievolirsi man mano che un re, a seguito delle sue vittorie, acquista autostima e sicurezza. Ho già notato altrove31 come le allusioni all’aiuto divino da parte di Assurnasirpal II siano molto più frequenti nella prima metà della sequenza delle sue campagne (media 2 volte a campagna) che non nella seconda metà (media 0,6 volte a campagna), e come la titolatura di Sennacherib all’inizio del regno privilegi i titoli di pietà religiosa, che vengono poi abbandonati per titoli più eroici e per un atteggiamento più indipendente. Ma il caso forse più clamoroso è quello di Salmanassar III32. Nelle recensioni annalistiche redatte nei primissimi anni di regno, il racconto delle singole campagne è preceduto da un preambolo sostanzialmente analogo a quello di Assurnasirpal:

«Quando Aššur, il grande signore, mi scelse nella fermezza del suo cuore e nei suoi occhi puri, e mi chiamò ad essere il pastore dell’Assiria, mi mise in mano la potente arma che abbatte i ribelli, mi mise in capo l’alta corona, e mi ordinò con veemenza di dominare e di conquistare tutte le terre non (ancora) sottomesse ad Aššur». (RIMA 3, n. 102.1: 11-13, con la sola prima campagna; passi paralleli in n. 102.2 con 6 campagne e n. 102.5 con 9 campagne)

Ma questo preambolo scompare poi a partire dal decimo anno, e il resoconto delle campagne segue direttamente la titolatura del re (n. 102.6 con 16 campagne, n. 102.8 con 18 campagne, n. 102.10 e 102.11 con 20 campagne, n. 102.14 e 102.16 con 31 campagne). Forse la necessità di risparmiare spazio per far posto ad un numero crescente di campagne può essere stato un fattore, ma resta significativo che dovendosi rinunciare a qualcosa si sia rinunciato proprio al passo teologicamente più rilevante, alla dichiarazione iniziale e programmatica relativa al mandato divino del quale le campagne sono poi la logica applicazione.

Tiglath-pileser III sembra talmente concentrato sul suo protagonismo da ridurre al minimo i riconoscimenti dovuti ad Aššur. Negli Annali (dove la parte inziale manca, e dunque non sappiamo se ci fosse un preambolo e di che tipo), ogni campagna inizia con lo stereotipo e rapido accenno al consenso oracolare (tukultu): «Aššur mio signore mi diede conferma (oracolare: utakkilanni) e io andai contro GN»; ma poi nella narrazione delle imprese non si riconosce di norma al dio né mandato né apporto operativo. Gli unici accenni alla paternità divina dei successi, che comunque sono conseguiti dal re, si riferiscono non già a vittorie sul campo ma a sottomissioni spontanee:

«Iranzu re di Mannea udì del valore e della vittoria di Aššur mio signore, che io avevo compiuto ripetutamente contro tutte le terre montane, e lo splendore terrorizzante (namurratu) di Aššur mio signore lo sopraffece... (e decise di sottomettersi)». (RINAP 1, n. 17: 10-11; idem in n. 24: 4)

Evidentemente la sottomissione preventiva e «da lontano» non può essere opera diretta del re e va attribuita al dio33. C’è solo un passo (n. 15: 8-9) in cui il re narra l’erezione di un piccolo monumento celebrativo (una «freccia» di ferro) con su iscritte «le potenti azioni di Aššur mio signore». Nelle stele a vista ci può essere un accenno di preambolo (n. 35: 31-34; ma non in altre stele) ma poi si omette ogni accenno al responso oracolare. Infine, i testi di tipo riassuntivo sembrano ignorare completamente il ruolo di Aššur (salvo un accenno alla tukultu in n. 51: 2).

Sargon II, forse anche per differenziarsi dal suo predecessore, presta maggiore attenzione al ruolo di Aššur, e del resto gli indirizza la famosa lettera sull’ottava campagna (TCL III, in Mayer 1983), e restaura i privilegi fiscali della città santa34. Però, a giudicare dagli Annali, anche Sargon sembra seguire la tendenza ad affievolire il riconoscimento divino a favore di un crescente accentramento autocelebrativo. Nei primi anni, le maggiori vittorie sono precedute dall’espressione tipica «alzai le mie mani (in preghiera) ad Aššur mio signore» (anno 4°, 5°, 6° e 7°, in ISKh, pp. 92-93.96.106 e 315-316.319: ll. 69.73.81-82.102-103), o dalla più semplice «al comando (ina zikir) di Aššur mio signore» (anno 2°: l. 54); ma queste espressioni vengono poi dismesse. C’è solo un monumento celebrativo, una stele che raffigura il re ma attribuisce ad Aššur la vittoria (anno 7°: ll. 108-109), c’è uno «splendore terrificante» che porta al presunto suicidio del re vinto (anno 8°: ll. 164-165), e c’è un riepilogo che attribuisce ad Aššur le conquiste (anno 9°: l. 202). Una svolta significativa si ha però col 12° anno: l’intervento in Babilonia, stante il prestigio delle locali divinità Marduk e Nabû, viene preceduto dall’abbandono di Babilonia (finita in mano al caldeo Marduk-­apal-iddina) da parte degli dèi babilonesi, secondo il motivo già accennato:

«Marduk, il grande signore, vide le cattive azioni dei Caldei, che aveva in odio, ed emise dalle sue labbra il decreto che scettro e trono della regalità gli fossero tolti. Me, Sargon, umile re, scelse fra tutti i principi e innalzò la mia testa». (ISKh, pp. 137 e 327: ll. 260-262)

Conseguentemente, la conquista di Babilonia viene attribuita al responso oracolare (tukultu) e al comando (qibītu) sia di Aššur sia di Marduk e Nabû (ll. 304 e 341 con Šamaš al posto di Nabû), e in seguito la terna divina si ritroverà riferita anche alla presunta sottomissione della lontana Dilmun (Bahrein, nel Golfo Persico), come conseguenza della conquista di Babilonia (Prunk: 145, in ISKh, pp. 232 e 353; XIV: 21, ibid. pp. 77 e 309), o anche in contesti più generali (all’inizio delle iscrizioni su toro e su lastre pavimentali). Nella grande iscrizione riassuntiva si ha anche una menzione dello «splendore terrificante», che sopraffà la lontana Nubia, ancora in connessione con la potenza di Aššur, Nabû e Marduk:

«Quando il re di Meluḫḫa (la Nubia), [...] un luogo inaccessibile, [...] i cui padri, sin da giorni lontani e fino ad oggi, non avevano mai mandato ai re miei padri dei messaggeri ad informarsi della mia salute, quando egli udì da lontano della potenza di Aššur, Nabû e Marduk, rimase terrorizzato dallo splendore terrifico (pulu melammu) della mia regalità, e fu preso da angoscia...». (Prunk: 109-111, in ISKh, pp. 221-222 e 348)

Ovviamente la Lettera ad Aššur per la sua stessa formulazione mette in evidenza il ruolo del dio, e all’inizio della marcia fa riferimento al responso oracolare («Secondo la grande tukultu di Aššur, Šamaš, Nabû e Marduk», l. 13); ma poi nel prosieguo del racconto questo ruolo viene del tutto trascurato.

Sennacherib inizia le sue iscrizioni celebrative con un preludio relativo al dio Aššur35, che nelle prime redazioni ha una forma breve strettamente standardizzata:

«Aššur, la grande montagna, mi assicurò una regalità senza pari e ingrandì le mie armi al di sopra di (quelle di) tutti i regnanti». (RINAP 3, n. 1: 4 e passi paralleli in n. 2-4, 8-9, 42, 44, 213)

e poi viene progressivamente ampliato con aggiunte che alludono a ulteriori conquiste e vittorie:

«(Idem +) Sottomise ai miei piedi tutte le ‘teste nere’ dal Mare Superiore del sol calante al Mare Inferiore del sol levante». (n. 15: i 14-22)

«(Idem, idem +) I principi recalcitranti temevano la mia battaglia, abbandonavano le loro sedi e come pipistrelli dei crepacci volavano via verso luoghi ignoti». (n. 16: i 15-26 e passi paralleli in n. 17 e 22-24)

«(Idem +) Mi conferì lo scettro di giustizia per allargare i confini e l’arma implacabile per abbattere i nemici. Sottomise ai miei piedi i principi delle quattro parti, da est ad ovest, ed essi trainarono il mio giogo». (n. 37: 4-13; analogo in n. 38: 5-13; n. 43: 4-6; n. 46: 2-3; n. 49: 5-7; n. 50: 5-8; n. 136: i 10-16; n. 155: 4’-7’; n. 230: 5-8)

Altrettanto ricorrente è l’invito che al termine dell’attività edilizia – che in Sennacherib è particolarmente sviluppata, trattandosi dell’ampliamento di Ninive – viene rivolto ad Aššur e/o a tutti i grandi dèi e dee dell’Assiria, di entrare nel palazzo appena inaugurato e di ricevervi ricche offerte (n. 1: 92 e passi paralleli ai n. 2, 15-18, 42, 46, 164). Nel corso della narrazione, però, il riconoscimento del ruolo divino diventa più selettivo. Le allusioni al consenso oracolare (nelle due forme ina tukulti Aššur o Aššur utakkilanni) sembrano tanto ricorrenti nelle campagne in Babilonia e contro l’Elam quanto sono assenti nelle altre campagne (c’è solo una menzione per la battaglia di Elteke in n. 23: iii 1-2), anche se appare inverosimile che il re non abbia consultato presagi alla partenza di una qualunque campagna. Una particolare insistenza sul consenso e sull’aiuto divino è riferito alla battaglia di alulê, sempre nel settore babilonese:

«Ad Aššur, Sîn, Šamaš, Bêl, Nabû, Nergal, Ištar di Ninive e Ištar di Arbela, dèi che sono il mio affidamento (ilāni tiklīya), io mi rivolsi per vincere il forte nemico, ed essi subito ascoltarono le mie preghiere, e mi vennero in aiuto». (n. 22: v 62-67 e n. 23: v 53-56; cfr. anche n. 222: 48-51 e n. 230: 59-61 e 113-114)

E si noti che si tratta di una battaglia il cui esito viene altamente decantato ma che probabilmente si rivelò un parziale insuccesso36. Evidentemente, quando si tratta di Babilonia e non di una qualunque gente della periferia montana, la fattiva presenza divina risulta necessaria.

La stessa specificità areale vale anche per l’espressione ina emūqi Aššur, «con la forza di Aššur», che introduce sempre l’intervento in Caldea (n. 8: 9 e passi paralleli nei n. 9, 15-17, 22-23; anche n. 34: i 47 sulla battaglia di alulê). Le immagini di tutti gli dèi assiri sono elencate in alcune iscrizioni (n. 10: 3-4; n. 11: 3-4; n. 12: 3-4; n. 13: 3-4; anche n. 153 e 158; e cfr. le descrizioni più articolate in n. 36: 1-16 e n. 160), ma si tratta sempre di iscrizioni dedicatorie di templi (mai in quelle del palazzo). L’influenza del luogo risulta anche confrontando la maggior presenza del dio nelle iscrizioni della sua città santa di Aššur (RINAP 3/2, n. 164-209) rispetto alle iscrizioni della capitale politica Ninive: si vedano in particolare i cilindri di fondazione dell’Ešarra (il tempio di Aššur, n. 166). Infine, l’allusione allo «splendore terrificante» è usata per l’episodio di Luli re di Sidone narrata nei testi annalistici (n. 4: 33-34 e passi paralleli in n. 15-17, 22-23, 140), ma si tratta di quello del re (puli melammi bēlūtīya) e non di quello del dio! Invece nei testi iscritti sui colossi (n. 42: 7-10 e n. 44: 17-20), posti come geni tutelari all’ingresso di templi e palazzi, lo «splendore terrificante» è quello del dio.

Sarebbe improprio parlare di un Sennacherib con tendenze «laiche», e però è evidente il contrasto rispetto al suo successore Esarhaddon, col quale si torna ad evidenziare al massimo grado il ruolo di Aššur, delle altre grandi divinità assire, e anche delle divinità babilonesi Nabû e Marduk giacché a Esarhaddon si deve la decisione di ricostruire Babilonia distrutta da Sennacherib. Analizziamo in proposito la principale redazione delle sue imprese, l’iscrizione di fondazione dell’arsenale (ēkal mašarti) di Ninive (RINAP 4, n. 1, la cosiddetta «Ninive A»). Qui la menzione dell’intera lista «Aššur, Sîn, Šamaš, Bêl, Nabû, Ištar di Ninive, Ištar di Arbela» compare ben 12 volte (con lievi varianti): gli dèi nominano Esarhaddon alla regalità sin da piccolo (i 5-7), il padre lo designa erede per ordine degli dèi (i 9-10), il padre fa giurare fedeltà all’erede designato alla presenza degli dèi (i 17-19), gli dèi constatano la malvagità degli oppositori e li abbandonano (i 45-49), mentre nascondono Esarhaddon in luogo sicuro (i 38-39, senza lista dei nomi), Esarhaddon invoca gli dèi prima dello scontro con i rivali (i 59-60) e ancora a vittoria ormai conseguita (ii 16-17), gli dèi lo insediano sul trono paterno (ii 45-47) e puniscono i trasgressori del giuramento (ii 55-57), poi nel corso delle sue campagne Esarhaddon confida negli dèi (iii 28-29), conquista i nemici con la forza degli dèi (iv 78-79) o grazie alla loro volontà (v 33-35, riassuntivo di tutte le campagne), e il re li invita nel nuovo palazzo (vi 44-45).

Come si vede, l’aiuto divino è soprattutto dichiarato nella fase decisiva dell’accesso al trono contro i fratelli suoi oppositori, e con forte accentuazione sulla questione dei presagi (anche in i 13-14 con menzione di Šamaš e Adad cui è affidato quel settore), dei giuramenti (adê) e della loro violazione, su cui si basa la legittimazione di Esarhaddon (cfr. i 50-52 sul popolo assiro fedele al giuramento), e sul fatto che i ribelli sono «senza dèi» e dunque predestinati alla sconfitta:

«Io meditai e pensai dentro di me così: ‘Le loro azioni sono arroganti, essi confidano nel loro parere, ma cosa possono fare senza dèi?’. Io (invece) invocai Aššur, re degli dèi, e Marduk il misericordioso, per cui il tradimento è un abominio, con benedizioni, suppliche ed espressioni umili, ed essi accolsero le mie parole». (i 33-37)

Altre menzioni di aiuto divino sono più specializzate: Aššur e Marduk come massimi esponenti del mondo divino accolgono la preghiera di Esarhaddon e gli forniscono il loro sostegno (i 35), la bellicosa Ištar lo aiuta in battaglia (i 74), Sîn e Šamaš nell’attraversamento del Tigri (i 85), Šamaš e Adad soprintendono ai presagi (i 35), il re entra a Ninive il giorno della festa di Nabû (i 87-ii 1).

Al termine della lunga narrazione dell’avvento al trono, gli dèi definiscono le linee direttive del regno, con evidente allusione al rituale d’introduzione, e conferiscono al nuovo re gli strumenti utili per la sua azione, ciascuno secondo la sua specializzazione:

«Aššur, padre degli dèi, m’incaricò di ripopolare le rovine e di ampliare il confine dell’Assiria. Sîn, signore della corona, decretò come mio destino potenza eroica e pienezza di cuore. Šamaš, luce degli dèi, innalzò il mio nome onorato al massimo grado. Marduk, re degli dèi, diffuse il terrore della mia regalità sulle regioni estreme, come una densa nebbia. Nergal, il più forte degli dèi, mi diede in regalo coraggio, splendore e terrore. Ištar, la signora della battaglia e della guerra, mi diede in dono il forte arco e la freccia impetuosa». (ii 30-39)

Di queste linee direttive (che riesumano il vecchio «sommario introduttivo»), le singole campagne, la cui narrazione segue, non sono che la concreta realizzazione, e l’intervento divino è segnalato a più riprese. Abdi-Milkutti re di Sidone tenta di scrollarsi il giogo di Aššur (ii 67), ma per ordine di Aššur (ii 72) Esarhaddon lo cattura, e con l’aiuto di Aššur (iii 10) ne conquista tutto il territorio. In ossequio a Bêl e Nabû (ii 66-68) il re assiro restituisce ai Babilonesi i campi che erano stati sottratti dai Caldei. Per ordine di Aššur (iv 61) attraversa Bazu e sconfigge i nemici. Non mancano le sottomissioni spontanee – o per meglio dire preventive – per ordine di Aššur (i Gambulu in iii 74), per lo «splendore terrorizzante» di Aššur (i Medi in iv 37), per lo splendore di Aššur (Elamiti e Gutei in v 27-29). Il re restituisce agli Arabi le loro effigi divine non senza avervi prima iscritto sopra «la potenza di Aššur» (iv 13-14).

L’episodio di Sidone espone chiaramente, come meglio non si potrebbe, la contrapposizione tra la fiducia (sempre il verbo è takālu) che i nemici ripongono nelle proprie forze, o in giuramenti nel nome di «dèi minori», o in ostacoli naturali, e la fiducia che il re assiro ripone in Aššur e nei grandi dèi assiri:

«Sanduarri re di Kundi e Sisû, un nemico pericoloso che non temeva la mia regalità, abbandonò gli dèi e si affidò a montagne impraticabili. Lui e Abdi-Milkutti re di Sidone si basarono sul vicendevole aiuto (ana reṣūti aameš iššaknū), pronunciarono tra di loro il nome (cioè il giuramento nel nome) dei lori dèi, e confidarono nelle loro proprie forze (ana emūqi ramānīšunu ittaklū). Ma io confidai in Aššur, Sîn, Šamaš, Bêl e Nabû, i grandi dèi miei signori. Lo assediai, lo catturai come un uccello da dentro la montagna, e gli tagliai la testa». (RINAP 4, n. 1: iii 20-31 e passi paralleli)

Come la narrazione delle varie campagne era stata preceduta dal passo programmatico citato sopra, così essa è chiusa da un passo riassuntivo e sommamente autocelebrativo, che comunque termina col ribadire il ruolo determinante del mandato divino:

«Per comando di Aššur mio signore, chi mai potrebbe rivaleggiare con la mia regalità? E chi mai, tra i re miei padri, ebbe un dominio altrettanto esteso del mio? Fin dal fondo del mare i nemici dicono: ‘Dove mai potrebbe andare (a rifugiarsi) una volpe di fronte al(la luce del) sole?’». (v 21)

Per Assurbanipal si potrebbe fare un’analisi del tutto analoga, che rinuncio a riportare qui in dettaglio per non appesantire troppo l’esposizione. Basti dire che il testo più completo, che è il Cilindro Rassam, cilindro di fondazione per il restauro della bīt redūti, la residenza del principe ereditario (è il Prisma A in BIWA, pp. 14-75 e 209-257 per la traduzione), riporta una dozzina di volte la lista completa degli dèi, lista ancor più lunga di quella di Esarhaddon: «Aššur, Mullissu, Sîn, Šamaš, Adad, Bêl, Nabû, Ištar di Ninive, Ištar di Arbela, Ninurta, Nergal, Nusku», sia nella parte introduttiva relativa all’intronizzazione sia nel resoconto di parecchie delle campagne. E innumerevoli (almeno il doppio) sono le menzioni della sola coppia «Aššur e Ištar», con la differenza che la lista lunga è impiegata di preferenza con riferimento al generale mandato divino, mentre la coppia Aššur-Ištar è preferita per le occasioni di specifici scontri militari (Ištar è la dea della battaglia). Non mancano menzioni dell’intervento divino a determinare sottomissioni spontanee, e anche a determinare punizioni extra-belliche (su queste rinvio al cap. 14), né mancano allusioni al mancato rispetto del giuramento divino da parte dei ribelli (cap. 13).

Ma c’è un punto che va notato particolarmente. Assurbanipal non è certo stato il primo (né l’unico) re assiro ad aver celebrato campagne militari alle quali non aveva preso parte personalmente37, ma è il primo a darne esplicita notizia e giustificazione:

«Ištar udì i miei disperati lamenti e mi disse: ‘Non temere!’ e rese il mio cuore fiducioso dicendo: ‘Per la preghiera a mano alzata che tu hai pronunciato, con gli occhi pieni di lacrime, io ho avuto pietà di te’. In quella stessa notte un veggente ebbe un sogno mentre dormiva, e al risveglio me ne informò: ‘Ištar che risiede in Arbela è entrata, con faretre da ambi i lati, un arco in mano e una spada sfoderata per la battaglia. Tu stavi di fronte a lei, ed essa ti parlò come una madre ... dicendoti: ‘Tu hai deciso di fare guerra, e io andrò dovunque tu vorrai’. Tu le rispondesti: ‘Dovunque andrai, io verrò con te, o Signora delle Signore!’, ma essa replicò: ‘Resta qui nel tuo posto, mangia cibo, bevi birra, fa festa e celebra la mia divinità, mentre io stessa andrò a compiere il lavoro, facendoti realizzare il desiderio del tuo cuore! Il tuo volto non dovrà impallidire, le tue gambe non dovranno cedere, la forza non ti dovrà mancare nel bel mezzo della battaglia!’». (Prisma B. v 46-70, in BIWA, pp. 100-101 e 225)

In questo caso, dunque, non si ha il solito meccanismo per cui c’è un mandato da parte della divinità e un’esecuzione da parte del re: è la divinità stessa a condurre la campagna e a realizzare la vittoria, è lei a combattere non «con noi» ma «per noi». Dal solito «vai sicuro, io ti starò accanto» si finisce con un assai poco eroico «inutile che tu vada, ci penso io».

Non credo sia possibile fare una statistica, ma una constatazione – che è più di una semplice impressione – s’impone come evidente. Nella fase formativa dell’impero, i re assiri sono molto attenti a riconoscere il ruolo divino nel definire la politica imperiale e l’aiuto divino nel realizzarla. Poi all’apice del successo, a impero ormai in fase di completamento e organizzazione gestionale, l’autocelebrazione prende almeno in parte il sopravvento sul riconoscimento del ruolo divino. Ma infine, con il concretizzarsi delle difficoltà che porteranno alla crisi finale, gli ultimi due grandi re tornano ad accentuare la loro dipendenza dall’azione divina, e a cercare affannosamente l’avallo oracolare per le loro imprese. Non senza motivo, le manifestazioni di ansia, l’acquisizione di previsioni astrali (cfr. SAA 8 e 10), la pratica delle «profezie» (cfr. SAA 9 e Nissinnen 1998) hanno un picco durante i loro due regni.

C’è persino un testo – del tutto atipico nell’ambito delle iscrizioni reali – in cui Assurbanipal esplicitamente lamenta i suoi problemi politici e personali, noi diremmo «psico-fisici», e non se ne dà ragione, secondo la sindrome allora diffusa del cosiddetto «giusto sofferente» (se il mio comportamento è corretto, perché dio mi punisce?):

«[Dopo un elenco di costruzioni e restauri templari] Ho fatto il bene per gli dèi e per gli uomini, per i morti come per i vivi. (E allora) perché malattia, afflizione, crisi e perdite mi si legano? Discordia civile e crisi familiare non si allontanano da me. Disordine e cattiveria mi assediano. Infelicità e cagionevolezza fiaccano il mio corpo. Finisco le mie giornate in pena e lamenti. Sono turbato (persino) il giorno della festa del dio cittadino. La morte mi assedia. Notte e giorno cado in depressione e ansia. Sono esausto, o mio Dio: dà (tutto ciò) al malvagio, e fammi vedere la tua luce! Quanto ancora, o Dio, mi tratterai così? Sono trattato come uno che non onora dèi e dee!». (SAACT 10, n. 19: Rev. 2-13)

La parte finale della parabola, nel diverso rapporto tra principio teologico e intento autocelebrativo, tra pietà e coraggio eroico, è in parte determinata da peculiarità personali (la nevrosi di Esarhaddon, la cagionevolezza e poi l’età avanzata di Assurbanipal); ma è almeno in parte determinata dall’evoluzione storica generale, in quel declino – avvertito anche su basi più materiali38 – che annuncia e precede il crollo finale.

Tornando ora al rapporto regalità e divinità nel mondo dell’antico Oriente, le vecchie sintesi di Labat, Engnell, Gadd e Frankfort39 sono ormai superate ed erano comunque estranee al problema dell’imperialismo (e poco interessate all’Assiria, salvo Labat). Ma nel corso degli studi va almeno segnalato come l’intervento divino negli eventi umani, che era tradizionalmente considerato una peculiarità di Israele, secondo l’approccio teologico per cui Yahweh si rivela nella storia, mentre gli dèi antico-orientali si rivelano nella natura40, subì una svolta salutare con la monografia di Albrektson41, che dimostrò la stretta parentela tra la teologia biblica e quella antico-orientale: in entrambi gli ambienti dio agisce mediante il re, dio dispone e il re esegue42, salvo che poi nell’Israele esilico e post-esilico la mancanza del re va a tutto vantaggio del ruolo divino. Comunque in entrambi gli ambiti il dio agisce direttamente mediante fenomeni naturali (carestie, alluvioni, pestilenze43), ma agisce mediante il re negli eventi politico-militari44. La proposta di Albrektson è stata recepita favorevolmente in ambito assiriologico45. Ma il debito della teologia biblica verso l’ideologia imperiale assira potrebbe – e dovrebbe – essere approfondito: nei «dizionari teologici» dell’Antico Testamento alcuni paralleli assiri con i termini-chiave sono spesso segnalati, ma manca una sintesi comparativa (che avrebbe il suo interesse, ma che prenderebbe lo sviluppo di un altro volume intero), forse ostacolata dalla persistenza della «originalità/diversità» di Israele rispetto al contesto vicino-orientale. Chiaramente, il canale antico-testamentario è di efficacia fondamentale nel diffondere nel tempo e nello spazio elementi ideologici di origine neo-assira, specie nella tradizione giudeo-cristiana e dunque nella direzione dell’Occidente europeo.

L’altro canale di confronto, diretto invece ai successivi imperi orientali, è costituito dall’ideologia imperiale persiana46: il re achemenide non è dio (semmai è il dio che è immaginato come un re), ma è figlio di dio, delegato/sostituto del dio, legittimato da delega divina (oltre che da ereditarietà, efficienza di azione), agisce «secondo la volontà di Ahuramazda» (vašnā Auramazdāka), cioè secondo la «missione» divina di estendere il regno/impero (xšașa) in dimensione universale. Ma è sintomatico come Bruce Lincoln, nel sintetizzare l’ideologia reale achemenide in una forma che è del tutto analoga a quella assira («the king is theorized as God’s chosen, who reunites the world and restores its perfection by process that others, lesser-minded types might describe as conquest, domination, and tribute»)47, ometta ogni considerazione riguardo all’influenza dell’eredità assira sulle concezioni achemenidi. Queste sono tanto più rilevanti al nostro assunto, in quanto si trasmetteranno ai successivi imperi iranici e islamici.

1 Dopo il classico Posener 1960, si vedano anche Kemp 1978; Gundlach 1992 a-b; Grimal 1986; Frandsen 2008; Goebs 2011.

2 Virgilio 1999, pp. 100-115.

3 Freidel 2008.

4 Si vedano ora gli studi di Selz, Michalowski e Bernbeck, raccolti da Brisch (ed.) 2008; anche Cancik-Kirschbaum 2007, e da ultimo Vacín 2015. Sull’Assiria, Ornan 2007.

5 Kemp 1978, p. 10.

6 Hopkins 1978, trad. it. pp. 198-228. Il processo «da imperatore a di(v)o» e il culto dell’imperatore sono ben analizzati da Gradel 2002.

7 Haldon 2009.

8 Carlyle 1903-21, trad. it. I, pp. 167-180, 230-238; II, pp. 131-140.

9 Ullmann 1961, trad. it. pp. 147-176.

10 Si veda di recente Loewe 2008, pp. 735-737.

11 Cfr. il testo della «Regola» di Hu Huan, del XIV sec. d.C. in Santangelo 2014, pp. 266-267.

12 Puett 2008.

13 Cfr. Frahm 2013 e SAA 10, n. 196.

14 Si veda Machinist 2011: il re non è divino, ma il confine tra regalità umana e divina è flessibile (cfr. anche Röllig 1981; Lambert 1998; Pongratz-Leisten 2011, pp. 140-144; Ead. 2015, pp. 219-228); in particolare p. 418 su almu e illu.

15 Peirce 1993, p. 5.

16 Sull’evoluzione diacronica dell’ideologia regale assira si vedano Liverani 2011b e Machinist 2011; anche Karlsson 2013, pp. 232-261, limitatamente ad Assurnasirpal II e Salmanassar III.

17 Müller 1937, pp. 8-9: I 29; se ne veda l’analisi critica di Kryszat 2008. In generale sull’ideologia regale assira si veda Pečirková 1988.

18 Cfr. Rosenthal 1968, pp. 21-61; Lewis 1988, trad. it. pp. 51-59.

19 Postgate 2011; Liverani 2011b.

20 Pongratz-Leisten 2015, pp. 105-108 (ilulu) e 110-112 (Ititi; ma PA è waklu).

21 Si veda il commento di Garelli 1975, spec. pp. 116-118.

22 Su questo titolo (a preferenza di iššakku) insiste Garelli 1975 e 1980. È vero (con Karlsson 2013, pp. 86-87) che l’ideogramma ŠID vale sia iššakku sia šangû, però normalmente il primo è reso con ENSI e il secondo con SANGA.

23 Müller 1937, pp. 12-13: II 34-36.

24 Livingstone 1997, pp. 165-166; Fales 2010, pp. 77-78; cfr. anche Grayson 1973a; Oded 1992, pp. 10-27 (dettagliato ed esaustivo) e 169-176; Cancik-Kirschbaum 1995 e 1997; Tadmor 1999; Bedford 2009, pp. 47-59; Machinist 2011, pp. 408-409; Karlsson 2013, pp. 102-111; Galter 2014 (pp. 329-330 su «allargare il paese», e tutto sull’ideologia assira dell’impero universale); Pongratz-Leisten 2015, pp. 214-217 (inno di Assurbanipal) e 435-441 (rituale di intronizzazione). Si noti poi (con Pongratz-Leisten 2015, pp. 218-270) che se il mandato viene da Aššur, poi il modello divino del re eroico combattente è dato soprattutto da Ninurta.

25 Si veda fra l’altro Richardson 2008, p. 106.

26 Rinvio a Liverani 1990a, pp. 56-57 per le citazioni. Si veda anche Galán 1995, pp. 104-132; Id. 2000; e cap. 5 nota 19.

27 Qualcosa di analogo nel mondo islamico, si veda Crone 2004.

28 Si veda Maul 1999, dettagliatamente Crouch 2009, pp. 21-28 e passim. In genere sull’ideologia imperiale assira si veda Liverani 1979; anche Garelli 1981; Lanfranchi 1995 e 1997; Tadmor 1999; Machinist 1993 e 2011. Per «cosmo vs. caos» nel mondo antico si può vedere Cohn 1993, dove però l’approccio storico-religioso e la prospettiva apocalittica non lasciano spazio alle ideologie politiche e imperialistiche.

29 Il motivo è già presente alla fine del III millennio nell’Inno X di Šulgi (Klein 1981, pp. 138-139: l. 49).

30 Foster 1993, I, p. 225: 31-49.

31 Liverani 2014a, pp. 182-183, con rinvio a studi precedenti.

32 Liverani 2016b.

33 Sull’intervento divino diretto si veda Weinfeld 1983. Correttamente Weeks 1983 nota come la sconfitta/sottomissione del nemico sia di norma attribuita al re quando c’è scontro campale, al dio quando avviene «da lontano».

34 Saggs 1975.

35 Il Legitimationspassus di Frahm 1997, p. 248.

36 Cfr. Grayson 1965 sulle battaglie di esito problematico.

37 Liverani cds a.

38 Cfr. Liverani 2008a.

39 Labat 1939; Engnell 1943; Gadd 1948; Frankfort 1948.

40 Cfr. in sintesi Wright 1952.

41 Albrektson 1967.

42 Ivi, pp. 42-52.

43 Ivi, pp. 16-41.

44 Cfr. ivi, pp. 53-67 sul comando divino, ina qibīt dAššur.

45 In particolare Roberts 1967 (la posizione contraria di Lambert 1970 è basata su evidenti preconcetti religiosi); ma si veda ormai Holloway 2002.

46 Briant 1996, pp. 217-265; ma resta fondamentale Ahn 1992 (pp. 255-296 su xšașa). Sulla titolatura sasanide (e sulla problematica divinità del re) si veda anche Sundermann 1988.

47 Lincoln 2008, p. 233; 2012, pp. 167-186.