1. L’uomo della svolta

Alcibiade, figlio di Clinia e di Dinomache, del demo di Scambonide, nacque intorno al 450. La madre apparteneva alla grande famiglia aristocratica degli Alcmeonidi, la stessa di Clistene, il fondatore della democrazia ateniese, e di Pericle. Il padre morì nel corso della battaglia di Coronea, in Beozia, nel 447: fu Pericle, come parente prossimo (era figlio di Agariste, sorella di Megacle, il nonno materno di Alcibiade), ad accoglierlo nella sua casa come tutore.

Come il futuro oligarca Crizia, Alcibiade fu tra i frequentatori di Socrate. Senofonte, in un celebre passo dei Memorabili (I, 2, 12), afferma che tra le accuse rivolte a Socrate vi fu quella di essere stato il maestro di Crizia e di Alcibiade, che fecero danni gravissimi alla città: «Crizia fu il più avido di guadagno, il più violento, il peggiore assassino fra gli oligarchici, Alcibiade il più privo di autocontrollo (akratestatos) e di senso del limite (hybristotatos), il più violento fra i democratici». Il giudizio di Senofonte coglie in Alcibiade soprattutto la tendenza a oltrepassare il limite imposto alla natura umana, tendenza che gli impedì di accettare il ruolo che di volta in volta gli veniva assegnato dall’ondivago favore popolare e lo spinse a muoversi costantemente in una prospettiva autopromozionale, non sempre rispettosa della legalità democratica.

Non gli mancavano certo le qualità per farsi strada nella politica: ricchezza, bellezza, cultura (in misura enormemente superiore nel quadro dei «nuovi politici», spesso di origini non aristocratiche, la cui rozzezza era sbeffeggiata dai comici), talento, competenza militare e capacità oratorie. Spinto dalla sua tradizione familiare verso la parte democratica, alla democrazia non ebbe un profondo attaccamento ideologico; stando a Tucidide, così egli si sarebbe espresso davanti agli Spartani, a cui doveva giustificare il suo tradimento, a proposito della sua famiglia, gli Alcmeonidi:

noi siamo sempre stati ostili ai tiranni, e tutto quello che si oppone a un dominatore è chiamato democrazia, e da questo fatto restò a noi la guida del popolo. Inoltre, quando una città era governata da una democrazia, spesso era necessario adattarsi alla situazione. [...] Noi eravamo alla testa di tutti i cittadini, convinti che dovevamo conservare quella forma di governo per cui la città era grande e libera, e che ci era stata tramandata, giacché noi, che avevamo un po’ di intelligenza, sapevamo che cosa fosse la democrazia e io stesso non meno degli altri, in quanto ne ho subito i torti più grandi, potrei insultarla. Ma su una riconosciuta pazzia non si potrebbe dire nulla di nuovo: e il cambiare quella forma di governo non ci parve sicuro quando voi ci assalivate come nemici (VI, 89, 4-6).

La posizione di Alcibiade sulla democrazia è ben chiara: non siamo di fronte né all’adesione ideologica di Pericle, né al rifiuto netto che sarà di Crizia, e neppure al trasformismo di un Teramene. La democrazia è, per Alcibiade, un male necessario per Atene, profondamente radicato nella sua storia costituzionale, che la tradizione familiare alcmeonide lo portava ad accettare, forse senza profonda convinzione ma nella prospettiva della conservazione del potere personale e familiare. Questo atteggiamento spiega il rapporto di odio-amore tra Alcibiade e la città democratica: scrive Aristofane, nelle Rane (405), ormai alla fine della parabola politica di Alcibiade, che la città «lo ama, lo odia, e vuole averlo» (v. 1425), e aggiunge che chi alleva un leone in città deve poi adeguarsi ai suoi modi (vv. 1432-33).

In odore di tirannide per la sua paranomia (la quasi naturale «illegalità», ovvero la tendenza a non conformarsi alle leggi e alle consuetudini: Tucidide VI, 15, 4; Plutarco, Vita di Alcibiade, 16, 2), in contatto, per la sua estrazione sociale, con le «eterie» aristocratiche (società segrete di carattere per lo più oligarchico, che riunivano persone legate da amicizia, relazioni sociali e comuni interessi politici) e i circoli oligarchici, Alcibiade non esitò a cercarne l’appoggio, né a cercare quello del nemico, rovesciando i principi tradizionali dell’etica politica: fu però in democrazia che ottenne i maggiori riconoscimenti, tanto che sia gli oligarchi del 411 sia lo stesso Crizia, suo compagno alla scuola di Socrate e a lungo suo sostenitore, lo giudicarono pericoloso per un governo oligarchico. La «considerazione» di cui godeva, derivante dalla tradizione familiare e dai talenti personali (Tucidide parla, rispettivamente, di axioma e di axiosis, distinguendo tra la stima legata al proprio retroterra sociale e quella acquisita personalmente), cui si aggiungeva la generosità nell’uso delle ricchezze, induceva il popolo all’indulgenza verso i suoi comportamenti anomali: bizzarrie, eccessi, talora violenze (Plutarco, Vita di Alcibiade, 16, 4). La sua parabola politica, che lo condusse due volte in esilio e lo vide circondato da appassionati sostenitori e da aspri avversari, si gioca sulla relazione con il demos: una relazione che nella generazione dei «nuovi politici» tende a deteriorarsi, passando dal rapporto libero e paritario fra soggetti politici, leader e assemblea, tipico dell’epoca di Pericle, al rapporto di reciproco interesse tra i demagoghi (che aspiravano a divenire prostatai, cioè «capi» e guide riconosciute, del popolo) e la massa popolare, che caratterizza l’epoca dei successori. Ma se Cleone, il più significativo di questi successori, eroe negativo di Tucidide, si muove ancora nel solco del sistema democratico, da cui si attendeva di poter trarre maggior vantaggio, con Alcibiade entriamo già in una prospettiva di spregiudicatezza ideologica e di valorizzazione del potere personale che anticipa l’epoca della crisi democratica di fine secolo. Plutarco (Vita di Alcibiade, 2, 1) descrive il suo carattere come incostante e incoerente, guidato dall’ansia di prevalere (philonikon/philoproton); proprio l’ambizione e il desiderio di gloria (philotimia/philodoxia), insiste il biografo, più ancora dei piaceri cui pure era incline, lo spinsero precocemente alla megalopragmosyne, a «iniziative troppo grandi», per opera di adulatori che solleticavano il suo desiderio di mettere in ombra gli altri strateghi e demagoghi, e persino l’autorità e la fama di Pericle (Vita di Alcibiade, 6, 4). Plutarco è spinto a queste osservazioni dal desiderio di porre in contrasto, nella formazione della personalità di Alcibiade, l’influenza positiva di Socrate con quella negativa dei «corruttori»: ma non c’è dubbio che egli coglie nel segno nell’individuare nell’ambizione il motore, nel bene e nel male, dell’agire politico di Alcibiade. L’introduzione di personalismi di questo genere nel confronto democratico ebbe gravi effetti destabilizzanti, la cui influenza sulla crisi della democrazia fu enorme.

1.1. Gli esordi

Il modo in cui Tucidide ci presenta per la prima volta Alcibiade è indicativo dell’opinione, come sempre lucida e disincantata, che lo storico ha su di lui, beninteso a partire da una notevole ammirazione personale. Lo sfondo è la parte finale della prima fase della guerra del Peloponneso (431-421). Quando, nel 421, dopo la morte di Brasida e di Cleone ad Anfipoli, prevalse in Atene e Sparta il partito della pace e fu siglata la pace di Nicia, Alcibiade fu tra coloro che cercarono di farla fallire, approfittando delle tensioni nate per la mancata osservanza di alcune clausole dell’accordo. Fra coloro che volevano rompere l’accordo, dice Tucidide,

vi era Alcibiade di Clinia, uomo che per età sarebbe stato considerato giovane in un’altra città, ma che era onorato per la rinomanza dei suoi antenati. Questi non solo pensava che fosse meglio accostarsi ad Argo, ma si opponeva ai patti soprattutto perché la superbia lo spingeva a gareggiare con altri, in quanto i Lacedemoni avevano trattato la pace attraverso Nicia e Lachete, senza tener conto di lui per la sua giovinezza e senza onorarlo per la sua antica prossenia che, sebbene rinnegata da suo nonno, egli pensava di aver rinnovato coi servigi resi ai prigionieri dell’isola (V, 43, 2-3).

È interessante notare quali motivazioni Tucidide offre della presa di posizione di Alcibiade contro la pace. Prima di tutto, una motivazione politica: egli riteneva che fosse meglio per Atene accostarsi alla democratica Argo piuttosto che a Sparta. In questo, Alcibiade appare esponente del partito pericleo della guerra, indebolito da dieci anni di conflitto senza esiti. Ma, soprattutto, egli agiva per motivi personali: era offeso per la scarsa considerazione in cui era stato tenuto dagli Spartani, nonostante la tradizionale amicizia della sua famiglia e nonostante l’aiuto fornito agli opliti spartiati fatti prigionieri a Sfacteria nel 425 e poi detenuti ad Atene fino alla liberazione. Plutarco presenta la questione in modo analogo: Alcibiade era «seccato oltre misura e invidioso» (Vita di Alcibiade, 14, 2)4 per la considerazione in cui Nicia era tenuto da concittadini e nemici. «Considerando dunque da ogni lato di non esser tenuto nel debito conto» (Tucidide V, 43, 3), Alcibiade, eletto stratego per l’anno 420/195, appena raggiunta l’età legale dei trent’anni, fece fallire le trattative con Sparta e promosse con successo, nonostante l’opposizione di Nicia, l’alleanza di Atene con gli Argivi, i Mantineesi e gli Elei, sostenendo una stabile forza antispartana, di ispirazione democratica, nel Peloponneso. Ma nel 418, a Mantinea, gli Spartani e i loro alleati si scontrarono con la coalizione guidata dagli Ateniesi e la sconfissero. La prima iniziativa politica di Alcibiade finì dunque con un fallimento: ma egli riuscì ad evitare l’ostracismo alleandosi con Nicia e facendo convergere i voti sul demagogo Iperbolo, l’ultimo ateniese ad essere ostracizzato, nel 417 (Plutarco, Vita di Alcibiade, 13, 7-8).

Le motivazioni di carattere personale che Tucidide attribuisce al giovane Alcmeonide inducono alla riflessione: la volontà di primeggiare tra gli altri uomini politici e di promuovere le proprie personali ambizioni fa di Alcibiade il primo rappresentante di quella generazione postpericlea che Tucidide ritiene responsabile della crisi della democrazia e della sconfitta in guerra di Atene. E questo nonostante lo storico non addebiti ad Alcibiade colpe in merito alla gestione della politica estera: se in II, 65, 7 egli accusa i successori di Pericle di aver ampliato il fronte di guerra, e sembra con ciò alludere alla spedizione di Sicilia voluta da Alcibiade, subito dopo (II, 65, 11) si affretta a precisare che l’errore fu non tanto nel progetto quanto nell’insufficienza dei mezzi impiegati; e in VI, 15, 4, stigmatizzando le discutibili abitudini private di Alcibiade, afferma che però, sul piano pubblico, egli aveva «curato nel modo migliore le questioni relative alla guerra». Furono proprio i comportamenti privati, non gli errori politici, a minare la credibilità di Alcibiade, a fargli perdere il potere e a determinare, in ultima analisi, la rovina della città, finita in mano a governanti incapaci. Un giudizio lucido, che insiste sull’inscindibilità di etica e politica: per l’uomo politico democratico il senso della misura è una qualità imprescindibile, la cui assenza può vanificare il suo intero operato.

In seguito Alcibiade svolse un ruolo, che Tucidide tace, nella drammatica vicenda di Melo, assurta a simbolo dell’imperialismo ateniese. Nel 416 Nicia allestì una spedizione contro l’isola di Melo, che, essendo colonia spartana, intendeva mantenere la propria neutralità nella guerra; già nel 426 Nicia aveva tentato di sottomettere i Meli, che, «pur essendo isolani, non volevano assoggettarsi né entrare nella lega» (Tucidide III, 91, 2) e avevano fornito contributi volontari a Sparta. Melo capitolò nell’inverno del 415 e fu trattata con estrema durezza: gli uomini vennero uccisi, le donne e i bambini venduti come schiavi, e nell’isola fu insediata una cleruchia (una colonia militare di cittadini ateniesi) di 500 uomini.

Nel lungo dialogo che fa svolgere tra Ateniesi e Meli prima della capitolazione, Tucidide (V, 85-113) propone un’amara riflessione sugli esiti dell’imperialismo ateniese, ormai volto solo all’utile immediato e indifferente ad ogni valore. Fin dall’inizio, infatti, gli Ateniesi rifiutano di prendere in considerazione argomenti di carattere etico o giuridico: essi sostengono che la disparità esistente fra le parti impone di discutere esclusivamente sul terreno dell’utile, e l’utile coincide con l’interesse del più forte. Alla fine i Meli, «pii contro ingiusti», si affidano alla «sorte inviata dalla divinità» (V, 104), ritenendo la loro speranza non irragionevole; ma gli Ateniesi ribattono che l’esercizio del dominio da parte del più forte sul più debole è una necessità naturale, che non può essere in contrasto con la legge divina.

Nella Contro Alcibiade, la IV orazione del corpus dei discorsi di Andocide, di cui sono estremamente controverse paternità e datazione, si afferma che Alcibiade sosteneva che i Meli dovessero essere ridotti in schiavitù (Andocide IV, 22); la notizia è ripresa da Plutarco (Vita di Alcibiade, 16, 6), secondo il quale gli Ateniesi consideravano Alcibiade come «il principale responsabile del massacro di tutti i Meli in età di portare le armi», in quanto aveva appoggiato la proposta fatta in questo senso. La fonte primaria della notizia è molto ostile ad Alcibiade e il silenzio di Tucidide potrebbe far sospettare dell’autenticità: tuttavia, la presa di posizione di Alcibiade può essere considerata in linea con la sua volontà di portare avanti la contrapposizione con Sparta e con la sua difesa dell’impero come strumento di potenza. Alcibiade si prese come schiava una donna di Melo, da cui ebbe un figlio: le fonti sottolineano il contrasto tra questa vicenda privata e la dura scelta politica dell’Alcmeonide.

1.2. La spedizione di Sicilia: un’impresa autopromozionale

Nell’inverno del 416/5 la città elima di Segesta, con la quale nel 418/7 (in base ad una più sicura lettura del testo epigrafico, datato in precedenza al 458/7 o al 454/3) era stato stabilito un trattato, richiese l’intervento ateniese contro Selinunte e Siracusa, prospettando i rischi di un asse Sparta/Siracusa e la possibilità di finanziare la spedizione con le ricchezze custodite nel tempio segestano di Afrodite.

Gli Ateniesi risposero positivamente e decretarono di inviare in Sicilia Alcibiade, Nicia e Lamaco, con il titolo di strateghi autokratores («con pieni poteri»), per aiutare i Segestani, riportare in patria gli abitanti di Leontini cacciati dai Siracusani e trattare gli affari di Sicilia «nel modo che a loro sembrasse più utile per gli Ateniesi» (Tucidide VI, 8, 2). Cinque giorni dopo l’assemblea si riunì nuovamente per discutere sui preparativi: in questa occasione Nicia, scelto per guidare la spedizione contro la sua volontà, tentò di distogliere gli Ateniesi dall’impresa. L’assemblea vide lo scontro tra Alcibiade e Nicia (Tucidide VI, 9-14 e 16-18).

Nicia, notoriamente desideroso di mantenere la pace con Sparta, era molto ostile ad impegnarsi nuovamente in un’impresa militare, che riteneva peraltro di incerto esito. Si trattava di impelagarsi in una situazione di pace malsicura, in una guerra che riguardava stranieri (gli Elimi non erano di stirpe greca), trascurando i nemici che pure restavano in Grecia e la necessità di rafforzare l’impero, che presentava qualche falla (i Calcidesi di Tracia, ribelli nel 424, non erano ancora stati ridotti all’obbedienza, e la zona era di grande importanza strategica). Si inseguiva il sogno di un impero lontano, che sarebbe stato assai difficile controllare; sarebbe stato meglio difendersi in patria dalle insidie dell’oligarchia spartana; il benessere economico da poco recuperato non doveva essere messo a rischio per dei barbari infidi. Tutti argomenti ragionevoli, che in parte concordano col famoso giudizio di Tucidide (II, 65, 7 e 11), il quale contrappone la prudenza di Pericle all’avventurismo dei suoi successori. Ma forse più interessanti, nella nostra prospettiva, sono gli attacchi al proponente dell’impresa, Alcibiade:

Se qualcuno, lieto di essere stato scelto a comandare, vi esorta a partire badando solo al suo interesse privato (tanto più che è troppo giovane per comandare), al fine di essere ammirato per il suo allevamento di cavalli e per le spese che sostiene, al fine di trovare qualche vantaggio nella carica – neppure a costui permettete di farsi bello personalmente a costo di un pericolo per la città, ma pensate che costoro rovinano gli interessi pubblici e sperperano le loro sostanze, mentre questa decisione è importante e non tale da essere presa da un giovane e trattata frettolosamente (Tucidide VI, 12, 2).

L’attacco ad Alcibiade è patente: non deve essere permesso a uno stratego troppo giovane e ambizioso, preso da interessi privati e incurante del bene pubblico, di prendere decisioni di tale gravità. Il discorso sembra mettere in evidenza anche uno scontro generazionale, tra Alcibiade e i suoi giovani sostenitori, da un lato, e il maturo Nicia che si rivolge ai più anziani, esortandoli alla prudenza, dall’altro. Un aspetto, quello del contrasto tra generazioni, che ha un suo ruolo nella crisi democratica di fine V secolo.

Il dibattito assembleare, dopo il discorso di Nicia, prese tuttavia una piega sfavorevole al prudente stratego: la maggioranza degli interventi che seguirono era favorevole alla spedizione. Tucidide ricorda allora l’impegno di Alcibiade nel caldeggiare la continuazione dell’impresa, che si inseriva perfettamente nella tradizione politica democratica fin dai tempi di Temistocle: ed è interessante notare che il giudizio di Tucidide coincide in alcuni punti con quello di Nicia. Alcibiade, egli dice, era mosso da una parte dall’ostilità nei confronti di Nicia, da cui dissentiva politicamente, dall’altra dalla smania di diventare stratego e di conquistare la Sicilia e Cartagine, per ottenere vantaggi personali in ricchezza e gloria:

Onorato dai cittadini, aveva aspirazioni troppo superiori a quanto consentissero le sue ricchezze, sia per l’allevamento di cavalli sia per le altre spese, e soprattutto questo fatto rovinò poi la città degli Ateniesi. Giacché i più, temendo la grande eccentricità della sua persona e la grandezza delle vedute che si manifestavano successivamente in ciascuna delle imprese cui si accingeva, gli si fecero nemici come se aspirasse alla tirannide e, adiratisi con le sue maniere per quanto riguardava il suo procedere di privato cittadino, sebbene pubblicamente avesse curato nel modo migliore le questioni relative alla guerra, ne affidarono il governo ad altri, e non tardò molto che rovinarono la città (VI, 15, 2-4).

Anche per Tucidide, come per Nicia, la vita privata di Alcibiade interferiva troppo con la sfera pubblica; ma la rovina della città è da imputare non tanto all’Alcmeonide quanto ai suoi nemici, incapaci di distinguere tra le sue eccentricità e la sostanza della sua abilità politica.

Alcibiade replicò a Nicia dichiarandosi pienamente degno del comando ed erede di una tradizione familiare aristocratica che giustificava la passione per i cavalli (probabilmente al 416 appartengono le vittorie olimpiche che gli diedero fama) e le splendide coregie (allestimenti di opere teatrali) sostenute come forma di promozione non solo di se stesso ma anche della città, e osò addirittura accampare il diritto di non sentirsi alla pari degli altri, ma superiore; rivendicò il valore della politica estera seguita fino a quel momento, nonostante gli apparenti fallimenti; spiegò i motivi per cui riteneva che l’impresa sarebbe stata facile; respinse la contrapposizione generazionale prefigurata da Nicia in favore dell’unità della comunità cittadina ed esortò gli Ateniesi a non assumere una condotta troppo prudente, più adatta alla celebre e contestata flemma degli avversari spartani.

Il suo discorso, che puntava sull’ampliamento dell’impero e sulla ripresa di quel dinamismo che aveva caratterizzato l’Atene di Pericle, contro la politica immobilistica di Sparta, convinse l’assemblea; le parole di Alcibiade, del resto, avevano dietro di loro un’abile propaganda che già da tempo aveva preparato l’opinione pubblica, come racconta Plutarco (Vita di Alcibiade, 17, 4): «Molti, seduti nelle palestre e nei luoghi pubblici, disegnavano per terra la forma dell’isola e la posizione geografica di Cartagine e della Libia».

Alcibiade, come si è detto, venne nominato stratego con pieni poteri insieme a Nicia e Lamaco. Sappiamo da un documento epigrafico (Tod I, 77, ll. 1-3) che si era discusso se affidare soltanto a lui l’impresa, conferendogli una strategia autocratica unica – fatto insolito nell’esperienza ateniese –, ma Plutarco (Vita di Alcibiade, 18) scrive che gli Ateniesi preferirono evitare di far partire Alcibiade solo e senza alcun controllo: qualche dubbio sulla sua persona serpeggiava, a quanto sembra, nell’assemblea. Vennero allestite una flotta di 134 navi e una forza di 5100 opliti e 1500 frombolieri e arcieri: uno sforzo militare enorme, di fronte al quale è difficile capire perché Tucidide (II, 65, 11) affermi che la spedizione fu un grave errore non tanto sul piano strettamente militare, quanto per non aver dato agli strateghi mezzi sufficienti. È chiaro invece il motivo per cui lo storico afferma che sull’esito della spedizione pesarono le divisioni fra uomini politici, che indebolirono l’azione di Atene.

1.3. Lo scandalo delle Erme e dei Misteri: Alcibiade in esilio

Mentre si procedeva ai preparativi, una notte vennero mutilate le Erme, colonnine raffiguranti il dio Ermes collocate in diversi luoghi di Atene, pubblici e privati. L’episodio, a detta di Tucidide, fu enfatizzato perché «sembrava un presagio infausto per la spedizione, e che fosse avvenuto in seguito a una congiura ordita per giungere a una rivoluzione e all’abbattimento della democrazia» (VI, 27, 3); «sembrava (al demos) che ogni atto fosse stato compiuto in vista di una congiura oligarchica e tirannica» (VI, 60, 1). L’inchiesta che seguì fu ispirata a un irrazionale giustizialismo: Tucidide dice che gli Ateniesi, «fidandosi di persone disoneste, avevano preso e incarcerato onestissimi cittadini, pensando che fosse più utile esaminare il fatto e scoprire la verità, piuttosto che, per la bassezza del delatore, lasciar sfuggire un accusato, anche se costui sembrava un buon cittadino» (VI, 53, 2). Nel corso dell’inchiesta emersero accuse anche a carico di Alcibiade: Tessalo, figlio di Cimone, lo denunciò per aver parodiato i Misteri eleusini. Tucidide sembra ritenere tali accuse infondate ed ingrandite ad arte dai nemici di Alcibiade (VI, 28, 2); ma la sua ambizione e la sua tendenza alla trasgressione, che appariva in contrasto con lo stile di vita democratico, contribuivano a renderlo sospetto di scarsa sensibilità democratica e di aspirazione alla tirannide. Dell’azione furono responsabili, pare, gruppi politici diversi: probabilmente, contro Alcibiade si verificò una convergenza fra uomini di estrazione oligarchica, moderati conservatori come Nicia e persino democratici radicali. Alcibiade chiese di essere giudicato subito, ma si preferì lasciarlo partire: a detta di Tucidide, i suoi nemici «volevano che ritornasse richiamato da un’accusa ancora maggiore (accusa che facilmente avrebbero costruito durante la sua assenza)»; probabilmente, si temeva anche che il morale dei soldati ne risentisse e che alcuni contingenti alleati, legati personalmente ad Alcibiade, abbandonassero l’impresa (Tucidide VI, 29, 3; 61, 5). Pur riconoscendo le anomalie del temperamento di Alcibiade, che lo facevano ritenere inadatto alla democrazia, Tucidide è insomma convinto dell’infondatezza delle accuse, che ritiene di carattere politico.

Nel giugno del 415 la flotta giunse a Catania; poco tempo dopo arrivò da Atene la nave Salaminia, che avrebbe dovuto riportare Alcibiade ad Atene perché fosse giudicato. La nave di Alcibiade seguì la Salaminia fino a Turi; qui egli fece perdere le sue tracce e si recò nel Peloponneso. Gli Ateniesi lo giudicarono colpevole, lo condannarono a morte in contumacia e confiscarono i suoi beni.

Alcibiade prese la sconcertante decisione di recarsi a Sparta, dove giunse nell’inverno del 415/4. Tucidide riporta il discorso con cui egli si rivolse all’assemblea (VI, 89-92). Prima di tutto si difese dalle accuse che avrebbero potuto nuocergli presso gli Spartani: da una parte, quella di aver fomentato l’accordo tra Argo, Mantinea, l’Elide e Atene in chiave antispartana, azione da ritenersi giustificata dal disonore che gli era venuto dall’avere gli Spartani preferito i suoi avversari; dall’altra, il legame con la democrazia, giustificato come elemento di tradizione familiare e come necessità politica per chi vivesse in Atene. In secondo luogo, Alcibiade diede agli Spartani una serie di consigli sulla conduzione della guerra: accorrere in aiuto dei Siracusani, per evitare la conquista della Sicilia e dell’Italia da parte di Atene e i conseguenti pericoli in madrepatria; occupare stabilmente l’Attica fortificando Decelea; di conseguenza, incrinare la solidità dell’impero ateniese.

Si trattava di un vero e proprio tradimento: non è un caso che Alcibiade abbia sentito il bisogno di giustificarsi espressamente su questo punto, temendo di essere malgiudicato. Il tradimento era ovviamente malvisto, a maggior ragione a Sparta; e in genere l’etica greca richiedeva all’esule di non danneggiare la patria e di mantenere una rigorosa neutralità, indipendentemente dalla fondatezza e dalla legittimità del provvedimento di esilio che lo aveva colpito. L’Alcibiade di Tucidide, invece, proclama apertamente la legittimità del ricorso da parte dell’esule, in caso di bando ingiusto, a qualsiasi mezzo per rientrare in patria, compreso l’attacco in armi alla patria stessa. Di più: rigetta la responsabilità della sua azione proditoria sugli Ateniesi, che gli hanno fatto ingiustizia (adikia: l’idea dell’ingiustizia subita, che fa di Alcibiade la vittima, ritorna con insistenza nel discorso), lo hanno trasformato da amico in nemico e reso estraneo alla patria, costringendolo a comportamenti inaccettabili per la morale comune, ma giustificati dalla situazione estrema. Nel suo discorso Alcibiade riformula il concetto di amor di patria secondo schemi del tutto nuovi rispetto all’etica tradizionale, affermando che il vero amante della patria (philopolis) è colui che non indietreggia di fronte a nulla, divorato dal desiderio di riconquistare a qualsiasi costo il proprio ruolo nella vita della polis: «ama giustamente la patria non quello che non la assale dopo averla ingiustamente perduta, ma colui che con tutti i mezzi, per l’amore che le porta, cerca di riprenderla» (Tucidide VI, 92, 2-4).

In realtà, Alcibiade fu spinto a Sparta dal risentimento per non aver ottenuto in patria il riconoscimento e l’affermazione che si attendeva; quella che egli propone è una prospettiva del tutto personalistica, che pone al centro di ogni cosa l’individuo e non la comunità, il privato e non il pubblico. Una morale individualistica di questo genere non era inconsueta nell’epoca postpericlea, caratterizzata, secondo Tucidide, dall’affermazione di uomini politici indifferenti al bene comune e guidati dall’ambizione di primeggiare e dalla sete di guadagno. Invocare l’amor di patria a giustificazione del tradimento della patria svela uno sguardo «sofistico» e un ribaltamento paradossale della prospettiva etica tradizionale, oltre che segnare la distanza rispetto alla visione del cittadino patriottico (philopolis) che Tucidide attribuisce a Pericle (II, 60, 5).

Racconta Plutarco (Vita di Alcibiade, 23) che Alcibiade «fece della demagogia» a Sparta, cercando di accattivarsi le simpatie dei più con l’adozione di uno stile di vita laconizzante. «Egli possedeva», dice il biografo, «un’arte tutta particolare nell’accalappiare le persone conformandosi e adeguandosi alle abitudini e ai costumi altrui»: un vero e proprio camaleonte, aggiunge Plutarco, che quando percepiva che, seguendo la propria natura, avrebbe urtato gli altri, si adeguava alla situazione. Il biografo ritorna ancora sulla straordinaria capacità di Alcibiade di suscitare simpatie a proposito dei rapporti con Tissaferne (Vita di Alcibiade, 24). Queste vicende delineano la figura di un affascinante affabulatore, «capace di conformarsi ai tempi con grande abilità» (Cornelio Nepote, Vita di Alcibiade, 1, 3) o, come si direbbe oggi, di «riciclarsi» con successo in situazioni molto diverse. La scena politica ateniese vede con Alcibiade i primi esempi di trasformismo, un fenomeno che segnerà la vita politica degli anni successivi.

1.4. La fine della spedizione di Sicilia e le prime misure «di emergenza»

Intanto la spedizione era rimasta nelle mani di Nicia e di Lamaco, mentre, da parte siracusana, Ermocrate organizzava la difesa con grande energia. Nonostante Alcibiade avesse sperato di poter sfruttare le divisioni della Sicilia, con le sue città ricche di popolazione numerosa ma etnicamente mista, e politicamente instabili, gli Ateniesi trovarono in genere una fredda accoglienza. Una prima vittoria sul campo non venne adeguatamente sfruttata; nel 414 Siracusa fu presa d’assedio e gli Ateniesi conquistarono le fortificazioni della collina delle Epipole; ma Lamaco morì in uno scontro e con l’arrivo dello spartano Gilippo e delle sue truppe il blocco delle Epipole fu spezzato. Da questo momento la situazione volse al peggio per Atene; i Siracusani riportarono la vittoria in uno scontro navale al capo Plemmirio; Nicia, angosciato, chiese di essere sostituito, adducendo motivi di salute, e che gli fossero inviati rinforzi, con una lettera di cui Tucidide ci ha conservato il testo (VII, 11-15).

Nel 413 giunsero i rinforzi sotto la guida di Demostene, ma la situazione era ormai compromessa. Le fortificazioni costruite dagli Ateniesi erano cadute in mano di Gilippo e la flotta era bloccata nel porto grande; nel tentativo di riprendere le Epipole gli Ateniesi furono gravemente sconfitti. Nell’agosto del 413 fu decisa la ritirata su Catania, ma Nicia, per gli scrupoli religiosi determinati da un’eclissi di luna (27-28 agosto 413), esitò a partire e i Siracusani ebbero il tempo di bloccare la flotta nel porto. Distrutta la flotta, i soldati ateniesi tentarono di ripiegare verso Camarina; Demostene, rimasto indietro, si arrese, mentre Nicia fu intercettato presso il fiume Assinaro e sconfitto.

In autunno, dopo un drammatico dibattito assembleare – sul quale siamo ben informati da Tucidide e, attraverso Diodoro e la Vita di Nicia di Plutarco, dal grande storico siracusano Filisto, che fu testimone della vicenda –, gli strateghi Nicia e Demostene furono condannati a morte, contro il parere di Gilippo, al quale Nicia si era affidato, e per istigazione dei Corinzi; i prigionieri ateniesi furono trattenuti nelle Latomie, le cave di pietra di Siracusa, in condizioni durissime. Nella spedizione, fortemente voluta da Alcibiade e rimasta invece nelle mani di Nicia che l’aveva osteggiata, Atene aveva perso due dei suoi migliori strateghi, Lamaco e Demostene, la flotta e migliaia di uomini fra opliti ed equipaggi delle navi: gli Ateniesi, prima increduli poi sgomenti quando la notizia giunse in città, «non avevano speranza di potersi salvare» (Tucidide VIII, 1, 2). Si temeva un attacco congiunto dei nemici dalla Sicilia e dalla Grecia, «insieme agli alleati di Atene, che avrebbero defezionato».

La democrazia ateniese mostrò tuttavia una grande capacità di reazione. Si decise di allestire una nuova flotta procurandosi legname e denaro, di mettere al sicuro l’impero e soprattutto l’Eubea, la grande isola prospiciente le coste attiche, di grande importanza strategica ed economica per Atene, di tagliare qualche spesa amministrativa per ridurre i costi. Tucidide nota che gli Ateniesi erano disposti a «comportarsi come si deve», come è solito fare il popolo: un riconoscimento della capacità del demos di mantenere i nervi saldi e di fare appello a tutte le risorse esistenti. Tuttavia, un provvedimento segnala una svolta molto significativa, che anticipa futuri, inquietanti sviluppi: fu nominato un collegio di dieci anziani, i probuli (numero e nome vengono da Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29, 2), il cui compito era appunto di probouleuein, cioè di esprimere delibere preventive, sulla situazione presente. I probuli costituivano (così almeno ritiene Tucidide) una magistratura pienamente democratica, eletta dall’assemblea secondo il sistema decimale previsto dalla riforma di Clistene, secondo cui ognuna delle dieci tribù doveva fornire un magistrato; ma il fatto che si sia sentita la necessità di affiancare alla boule e all’assemblea un collegio di anziani con funzioni probuleumatiche rivela una certa sfiducia nelle istituzioni democratiche. I probuli restarono in carica nei due anni successivi ed ebbero, forse, qualcosa a che fare con il colpo di Stato del 411, come vedremo più avanti. Con la sconfitta di Sicilia la democrazia mostra dunque, e dal suo interno, i primi segni di crisi istituzionale.

1.5. La questione del richiamo di Alcibiade

La disfatta di Sicilia determinò una grave crisi nell’impero, come avevano previsto gli Ateniesi: l’Eubea, Lesbo, Chio, Eritre presero contatto con Sparta per preparare la ribellione. Gli Spartani compresero, consigliati da Alcibiade (Cornelio Nepote, Vita di Alcibiade, 4, 7), che le rivolte andavano sostenute e che bisognava colpire Atene nell’impero: a questa politica essi erano incoraggiati anche dal satrapo persiano Tissaferne, che offriva loro finanziamenti per la guerra contro Atene.

Presso Tissaferne si trovava, a quest’epoca, proprio Alcibiade, costretto a fuggire da Sparta per dissensi privati con il re Agide: aveva sedotto la moglie del re, Timea, e si diceva che il piccolo Leotichida, nato dalla regina, fosse suo figlio (Plutarco, Vita di Alcibiade, 23, 7-9). Alla corte del satrapo Alcibiade tentava di danneggiare gli Spartani e di ottenere così il richiamo in patria. Nel 412 la flotta ateniese si trovava di stanza a Samo, rimasta fedele ad Atene e divenuta la base per le operazioni nell’Egeo; Alcibiade contattò gli antidemocratici ateniesi là presenti, forse ritenendo di poter trovare più facilmente appoggio presso i nemici di quella democrazia che lo aveva esiliato, e promise di procurare ad Atene, in cambio del rientro in patria, l’amicizia di Tissaferne e il denaro del re; Atene avrebbe però dovuto instaurare un regime non democratico.

Avremo modo di parlare del colpo di Stato del 411, che instaurò l’oligarchia dei cosiddetti Quattrocento, e dei suoi protagonisti: quel che ora mette conto ricordare è la spregiudicatezza con cui Alcibiade, che aveva cercato nella democrazia la sua affermazione, come aveva spiegato agli Spartani, tentava ora di recuperare spazio appoggiandosi ai nemici di essa. Alcuni degli antidemocratici erano ben consapevoli di tale spregiudicatezza e ne diffidavano; Frinico, per esempio, disse chiaramente che le proposte di Alcibiade non gli piacevano: egli non credeva che all’Alcmeonide importasse dell’oligarchia o della democrazia, ma che perseguisse il proprio interesse personale, volendo rientrare in Atene (Tucidide VIII, 48, 4-7).

Il nome di Alcibiade fu comunque molto sfruttato nella propaganda dei congiurati. Qualche resistenza su di lui si manifestò nell’assemblea del popolo ateniese in cui Pisandro fece le prime proposte in senso antidemocratico: ma l’opinione pubblica ateniese, anche se forse dubitava dell’affidabilità di Alcibiade, era convinta delle sue capacità, e il miraggio di poter ottenere aiuti e denaro attraverso la sua mediazione risultò attraente per molti. Ma fu anche a causa della posizione ambigua di Alcibiade, che cercava di apparire indispensabile sia al satrapo che agli Ateniesi, che le trattative con Tissaferne fallirono; i contatti degli oligarchici con Alcibiade si interruppero; i congiurati, del resto, pensavano, forse non senza ragione, che egli «non sarebbe stato utile all’oligarchia» (Tucidide VIII, 63, 4).

Alcibiade non era certo tipo da scoraggiarsi. Tramontata l’alleanza con gli oligarchici, egli trovò il modo per agganciarsi ai democratici autori della cosiddetta «controrivoluzione di Samo», gli Ateniesi della flotta che rifiutarono l’adesione all’oligarchia e ne determinarono la caduta nell’arco di pochi mesi. Il governo democratico ateniese in esilio che si formò a Samo, sotto la guida di Trasibulo di Stiria, decretò il richiamo e l’impunità per Alcibiade, che fu condotto a Samo nell’estate del 411 dallo stesso Trasibulo. Furono dunque i democratici, alla fine, a richiamare Alcibiade in patria: essi contavano sulle grandi capacità diplomatiche e militari dell’Alcmeonide.

A Samo, Alcibiade svolse un ruolo di grande importanza. Tucidide (VIII, 81, 1) ce lo presenta mentre parla all’assemblea dei soldati: deplora la disgrazia dell’esilio e accende in loro speranze esagerando la propria influenza su Tissaferne, «al fine di spaventare gli oligarchi di Atene e di sciogliere le società segrete» e di indebolire le relazioni fra gli Spartani e il satrapo. Ed ecco Alcibiade nuovamente trasformato in democratico, intento a guadagnarsi la fiducia dell’assemblea che, udite le sue promesse, lo elesse stratego. In preda all’esaltazione, i soldati volevano addirittura attaccare Atene per abbattere l’oligarchia, ma Alcibiade si oppose (Tucidide VIII, 82, 2), e lo stesso fece in una seconda occasione (VIII, 86, 4-5), quando a Samo giunsero i delegati dei Quattrocento e i soldati, adirati, espressero ancora una volta la volontà di attaccare Atene. Alcibiade appare, in questi capitoli tucididei, come il leader riconosciuto dei democratici ateniesi di Samo: è lui a respingere gli ambasciatori dei Quattrocento ponendo loro una serie di condizioni, tra cui l’effettiva attuazione del regime moderato dei Cinquemila, e a indurre i soldati della flotta a continuare la guerra con impegno. La sua figura oscura quella di Trasibulo, che pure Plutarco ricorda impegnato nel tentativo di placare i soldati infuriati (Vita di Alcibiade, 26, 6).

Quando, nel settembre del 411, i Quattrocento caddero e vennero sostituiti per qualche mese dai Cinquemila, fu decretato, su ispirazione di Teramene, il richiamo di Alcibiade; non gli fu però confermata l’impunità che gli era stata concessa a Samo ed egli preferì trattenersi in esilio volontario. In seguito la guerra continuò nell’Ellesponto, dove gli Ateniesi ottennero significativi successi a Cinossema, ad Abido (autunno del 411) e a Cizico (primavera del 410). Subito dopo Cizico gli Spartani chiesero la pace, ma i democratici, tornati al potere, la rifiutarono. Atene, grazie ad Alcibiade, Trasibulo e Teramene, ottenne notevoli successi negli anni che seguirono (a Calcedone, a Bisanzio, a Taso).

Tra 412 e 408 si sviluppò in Atene un importante dibattito politico e culturale sul richiamo di Alcibiade, che coinvolse esponenti della cultura ateniese come Sofocle ed Euripide e a cui vale la pena di accennare rapidamente. Le Fenicie di Euripide, databili fra 411 e 408, presentano, nel personaggio di Polinice, una sorta di alter ego dell’Alcibiade di Tucidide: Polinice dichiara infatti il proprio diritto di ricorrere a qualsiasi mezzo (compreso l’attacco in armi alla testa di un esercito nemico) per riottenere la patria di cui è stato ingiustamente privato (vv. 427 sgg.). La tragedia insiste inoltre sulla necessità di perdonare il traditore Polinice in vista della riconciliazione nazionale, che sola può assicurare la salvezza della città6: il motivo dominante, in un dibattito il cui tono sembra dettato da Trasibulo, è quello della piena riconciliazione fra l’esule Alcibiade e Atene.

Altri testi teatrali pure coinvolti nel dibattito, come il Filottete di Sofocle e il Ciclope euripideo, sembrano, invece, mettere in secondo piano gli appelli ideali al perdono e alla riconciliazione e insistere maggiormente sulla necessità di far rientrare Alcibiade perché egli era necessario per vincere la guerra. Filottete, abbandonato per la sua ferita repellente, ma il solo a poter assicurare ai Greci la vittoria contro i Troiani, adombrerebbe l’esule Alcibiade, anch’egli contaminato dall’empietà, ma il solo a poter sottrarre a Sparta l’appoggio della Persia per assicurarlo ad Atene e capovolgere, con ciò, le sorti del conflitto. L’Odisseo del Ciclope, eroe positivo e potenzialmente vincitore in quel contesto siciliano nel quale era stato, di fatto, impedito ad Alcibiade di agire, sottolineerebbe la necessità di ricorrere al contributo militare dell’Alcmeonide per la felice soluzione della guerra ionica. Salta agli occhi, in questa impostazione, il maggiore interesse per gli argomenti di carattere pratico e utilitaristico, piuttosto che per quelli ideali prospettati nelle Fenicie.

È forse possibile ipotizzare che, in seguito alla mancata riconferma dell’impunità concessa dall’assemblea di Samo e al venir meno, dopo la restaurazione della democrazia nel febbraio 410, delle condizioni favorevoli per un rientro di Alcibiade, si sia ritenuto opportuno orientare la propaganda in favore del suo richiamo su temi diversi, di carattere meno ideale e più pratico. Forse su questa scelta ebbe una certa influenza Teramene, anch’egli, come Trasibulo, acceso sostenitore del ritorno di Alcibiade.

L’interpretazione in chiave storica della tragedia è sempre delicata e la critica è divisa sulle questioni cui si è accennato. Ma qualunque cosa se ne pensi, quel che è certo è che Alcibiade teneva banco nel teatro ateniese, il luogo deputato a sottoporre alla discussione collettiva problemi etici e politici di interesse per la città: la sua figura traspare, oltre che dalle tragedie, da molte commedie contemporanee. Anche da esule, insomma, Alcibiade continuava a essere protagonista della vita politica di Atene, la città di cui Aristofane diceva che «lo ama, lo odia, e vuole averlo».

1.6. Alcibiade egemone autokrator: la fine dell’avventura

Per le vicende successive alla battaglia di Cizico dobbiamo ricorrere a Senofonte, dato che il racconto di Tucidide si interrompe. È dunque Senofonte a riferirci delle ultime fasi della carriera politica di Alcibiade.

Forte dei successi ottenuti, Alcibiade rientrò ad Atene, accolto dall’entusiasmo del popolo, nel giugno del 408 o del 407 a.C. (l’incertezza è dovuta alla cronologia poco chiara adottata da Senofonte) e fu eletto stratego con poteri eccezionali. Senofonte (Elleniche, I, 4, 20) lo chiama «egemone autokrator», espressione che sembra un sinonimo di «stratego autokrator», usata da Diodoro (XIII, 69, 3) e da Plutarco (Vita di Alcibiade, 33, 2). Alcibiade fu molto prudente nell’assumere la decisione di tornare ad Atene: lo fece solo dopo l’elezione a stratego, che ne assicurò il pieno reintegro. Plutarco (Vita di Alcibiade, 33, 1) ricorda un decreto di Crizia per il richiamo di Alcibiade, di cui Crizia stesso si vantava in una elegia e che è oggetto di discussione: in ogni caso, un impegno di Crizia a favore del suo antico compagno di frequentazioni socratiche è certamente ipotizzabile. All’arrivo al Pireo, Alcibiade si mostrò comunque assai timoroso, cercando l’appoggio e la protezione di parenti, amici e sostenitori; l’opinione pubblica ateniese è presentata da Senofonte come ancora profondamente divisa nei suoi confronti (Elleniche, I, 4, 13-17).

Già si è osservato che la vicenda di Alcibiade metteva in discussione la relazione tra cittadino e comunità, tra affermazione personale e servizio pubblico. Lo mostra bene il rovesciamento di prospettiva presente in Senofonte (Elleniche, I, 4, 13-16), il quale riporta le argomentazioni dei sostenitori dell’Alcmeonide, favorevoli al suo rientro. Egli – essi affermavano – era «il migliore dei cittadini» ed era stato esiliato ingiustamente per le insidie di chi era meno potente e faceva politica per il proprio guadagno personale, «mentre Alcibiade aveva sempre agito per il bene comune sia con i mezzi propri sia con le risorse della città»7. Il personalismo di Alcibiade, nelle parole dei suoi sostenitori, viene dunque negato e rovesciato sui suoi avversari, invertendo i poli della dialettica pubblico/privato. Inoltre, la scelta di rivolgersi agli Spartani viene presentata, nello stesso contesto, come un atto di legittima difesa: Alcibiade, privato della patria dai nemici, «trovandosi nella condizione di uno schiavo, fu costretto dalla necessità a servire i suoi più odiosi nemici, correndo ogni giorno il pericolo di essere ucciso», e non poté, a causa dell’esilio, aiutare gli Ateniesi, che vedeva commettere errori fatali. Inoltre «non era da uomini come lui ricorrere a rivoluzioni e lotte civili: grazie alla democrazia gli era infatti consentito non solo avere maggiore autorità dei suoi coetanei, ma anche non averne meno dei più anziani». Ma gli avversari la vedevano diversamente (Elleniche, I, 4, 17): essi infatti «andavano [...] dicendo che era stato l’unico responsabile delle sventure passate, e che rischiava di essere lui solo l’autore di tutto quanto si poteva temere accadesse alla città». L’opinione pubblica, insomma, era ancora molto divisa (si noti che Senofonte dà, comunque, molto più spazio alla tesi difensiva).

Giunto in città, Alcibiade sentì il bisogno di discolparsi davanti alla boule e all’assemblea delle sue colpe in ambito religioso; si dichiarò innocente e ingiustamente offeso, senza che nessuno reagisse, perché «l’assemblea non lo avrebbe permesso»; alla fine, venne eletto egemone con pieni poteri, perché «era il solo in grado di restaurare la passata potenza della città» (Elleniche, I, 4, 20). Con la nomina giunse anche il «perdono» ufficiale, con la restituzione dei beni confiscati, la distruzione delle steli su cui era incisa la condanna che lo riguardava e la cancellazione delle maledizioni degli Eumolpidi, la famiglia cui spettavano i sacerdozi di Eleusi (Diodoro XIII, 69, 2; Plutarco, Vita di Alcibiade, 33, 3). Immediatamente dopo, Alcibiade si impegnò ad onorare pubblicamente le dee di Eleusi, ponendo sotto la propria protezione il regolare svolgimento della processione eleusina per via di terra, da anni impedita dall’occupazione spartana: un atto di riparazione che impressionò fortemente l’opinione pubblica (Senofonte, Elleniche, II, 4, 20; Plutarco, Vita di Alcibiade, 34, 3-7).

La popolarità di Alcibiade era alle stelle: egli aveva completamente ribaltato la situazione a proprio favore, godeva nuovamente di grande autorevolezza politica e controllava le forze militari della città. Plutarco (Vita di Alcibiade, 34, 7) afferma addirittura che il popolo («gli umili e i poveri») ne era così affascinato da desiderare di averlo come tiranno, attirando su di lui il sospetto dei cittadini più potenti.

Ma la guerra nell’Egeo si avviava ad una svolta, e non a favore di Atene. Nella Ionia fu inviato come navarco lo spartano Lisandro, uomo di eccezionali capacità militari e di notevole intraprendenza, che mal sopportava i limiti imposti dal sistema di vita spartano alle personalità individuali. Egli riuscì a stabilire un rapporto di fiducia col giovane figlio di Dario II, Ciro, inviato come plenipotenziario nelle satrapie della costa, e assicurò così alla flotta spartana i necessari finanziamenti. Nel 407/6 la flotta ateniese, guidata, in assenza di Alcibiade, da un suo luogotenente, Antioco, fu sconfitta a Nozio, presso Efeso: gli Ateniesi, ritenendo Alcibiade responsabile perché trascurava i suoi doveri e conduceva una vita dissoluta (l’accusa era venuta, secondo Plutarco, Vita di Alcibiade, 36, 1, da Trasibulo di Collito) e delusi nelle loro aspettative, lo deposero dalla strategia. Piuttosto che rischiare un processo in Atene, Alcibiade preferì andare in esilio volontario nel Chersoneso tracico, dove si mise alla guida di truppe mercenarie. Dopo essere ritornato sugli altari, egli era nuovamente precipitato, in poco tempo, nella polvere.

La decisione di deporre Alcibiade era stata in verità inconsulta e dettata più dalla disillusione che dalla riflessione: in seguito, dice Plutarco (Vita di Alcibiade, 39, 2), gli Ateniesi si pentirono per essersi privati, in preda alla collera, «del migliore e del più valente generale della città», quando la città subì la dura sconfitta di Egospotami anche a causa dell’inaffidabilità e dell’incompetenza dei suoi strateghi. La tradizione racconta che in questa occasione Alcibiade, vedendo dall’alto della fortezza in cui viveva la cattiva posizione della flotta ateniese, aveva tentato inutilmente di ammonire i comandanti ateniesi, che però lo avevano respinto, affermando di essere loro, ora, i comandanti (Senofonte, Elleniche, II, 1, 26-28).

Alcibiade, trasferitosi in Bitinia dopo la sconfitta ateniese, meditava, a quanto sembra, di recarsi dal re Artaserse: dopo le relazioni con Argo e gli interessi occidentali, un altro tratto temistocleo della sua esperienza politica. Si recò dunque in Frigia, presso il satrapo Farnabazo. Una tradizione conservata da Plutarco (Vita di Alcibiade, 38-39; cfr. Cornelio Nepote, Vita di Alcibiade, 10, 1) narra che gli Ateniesi confidavano che la causa di Atene non fosse del tutto perduta finché Alcibiade era vivo; e che Crizia, suo antico sostenitore, avvertì Lisandro del pericolo che Alcibiade costituiva per il dominio di Sparta e per il governo oligarchico dei Trenta Tiranni, instaurato in Atene con l’appoggio spartano. Da Sparta giunse dunque l’ordine di eliminare Alcibiade; avvertito da Lisandro, Farnabazo lo fece uccidere (ma stando a Plutarco sulla sua morte circolava anche una versione meno onorevole, che parlava di vendetta per la seduzione di una fanciulla di buona famiglia). Una fine da avventuriero, o forse da libertino: le antinomie della vita di Alcibiade si ripropongono nell’ora della sua morte.

Finiva così la parabola umana e politica di una personalità fuori dal comune, tanto abile e affascinante quanto poco costruttiva, perché orientata prima di tutto all’autopromozione, senza remora alcuna. L’opinione pubblica era stata e restò divisa su di lui: all’inizio del IV secolo, gli intellettuali discutevano sulla sua figura e sul suo ruolo, presentandolo ora come un elemento pericoloso per la democrazia, un aspirante tiranno, ora, al contrario, come il miglior difensore del prestigio ateniese. Alla sua figura sono dedicate opere come i due discorsi Contro Alcibiade di Lisia e l’orazione Sulla biga di Isocrate, scritte per processi che riguardano il figlio, Alcibiade il Giovane, ma che danno molto spazio alla valutazione della figura di Alcibiade padre, personalità chiave dell’ultimo quarto del V secolo.

Alcibiade avrebbe voluto essere un nuovo Pericle, o addirittura superarne la fama: ma ottenne solo il riconoscimento di un eccezionale talento, che non ebbe le qualità morali per mettere a frutto. La sua vicenda politica, ondivaga negli schieramenti e ambigua nei contenuti ideologici, giocata fra trionfi e cadute, successi e fallimenti, mostra una straordinaria capacità di riprendersi con successo da difficoltà anche gravissime, cercando appoggi e spazi ad Atene, a Sparta, alla corte dei satrapi persiani. Ad Alcibiade si attaglia perfettamente il giudizio di Lisia che abbiamo ricordato nell’Introduzione: «nessun uomo è per natura né oligarchico né democratico, ma ognuno cerca sempre di istituire il tipo di governo che per lui è più vantaggioso» (XXV, 8). Benché uomini come Crizia e Trasibulo, sul versante oligarchico e democratico, praticassero ancora con rigore la coerenza ideologica, l’epoca era più adatta a uomini come Alcibiade, capace non solo di ignorare l’etica comune ma anche di teorizzarne il rovesciamento, o come Teramene, «sempre scontento del presente e smanioso di novità» (Lisia XII, 78).

Ma novità e sovversione vanno di pari passo per i Greci, nella cui lingua «fare la rivoluzione», in senso politico, si dice neoterizein, «far cose nuove».

4 La traduzione dei passi della Vita di Alcibiade di Plutarco è di L.M. Raffaelli (Plutarco, Vite parallele. Coriolano, Alcibiade, Milano 20072).

5 L’anno ateniese iniziava in luglio: di qui l’indicazione doppia quando si riporta una data secondo il calendario giuliano.

6 Rimando in particolare al ruolo di Giocasta nello scontro fra Polinice ed Eteocle, sempre ai vv. 427 sgg.

7 La traduzione dei passi di Senofonte è di M. Ceva (Senofonte, Elleniche, Milano 1996).