3. Il processo agli strateghi delle Arginuse

Il colpo di Stato del 411 provocò, rispetto alla successiva esperienza dei Trenta Tiranni, fratture assai meno gravi nel corpo civico ateniese, a causa dell’incidenza molto minore di omicidi e di casi di lesione, con diverse modalità, dei diritti personali dei cittadini. Già si è ricordato che Tucidide (VIII, 74, 1-3) nega veri­dicità al racconto di Cherea, che aveva riportato a Samo la notizia di gravi violenze, probabilmente per aizzare i soldati contro i Quattrocento. Tucidide ricorda, per la fase di preparazione del colpo di Stato, l’assassinio di Androcle e di alcuni altri (VIII, 65, 2) e l’eliminazione di quanti, rendendosi conto che il logos preparato dai congiurati altro non era che un inganno (VIII, 66, 1), si azzardavano a protestare: eliminazione perpetrata in modo «opportuno», cioè con discrezione, senza che ne seguissero inchieste né perseguimenti, e così da generare nel popolo timori, reciproco sospetto e una paralizzante diffidenza. Quanto al comportamento tenuto dopo l’instaurazione del regime, lo stesso Tucidide ammette che i Quattrocento «uccisero pochi uomini che pensavano fosse utile togliere di mezzo, altri ne imprigionarono, altri ne allontana­rono» (VIII, 70, 2): un quadro che minimizza i danni arrecati dagli oligarchi alla cittadinanza, ponendo l’accento sul numero limitato tanto delle vittime di omicidi e incarceramenti, quanto di coloro che dovettero prendere la via dell’esilio. Condanne a morte e all’esilio per chi osasse contrastare i Quattrocento sono segnalate nella Per Polistrato, la XX orazione del corpus di Lisia, in un contesto però che vuol giustificare, enfatizzando i pericoli per gli oppositori del regime, l’inerzia di Polistrato. L’impressione che se ne trae è che uccisioni, arresti, esilii più o meno volontari, elementi caratteristici delle rivoluzioni (metabolai) costituzionali – così afferma Crizia in Senofonte (Elleniche, II, 3, 32): «tutti i cambiamenti costituzionali provocano vittime» –, si siano verificati in numero relativamente limitato nel corso del colpo di Stato del 411.

Si comprende dunque perché le fonti presentino unanimemente la transizione alla democrazia, attraverso il regime intermedio dei Cinquemila, come un processo non particolarmente contrastato. Tucidide, allorché segnala la caduta dei Quattrocento, non accenna in alcun modo a regolamenti di conti tra democratici e oligarchici (VIII, 97) e si limita a ricordare l’esilio volontario a Decelea di Pisandro, Alessicle e dei principali esponenti dell’oligarchia (VIII, 98, 1); in VIII, 68, 2 egli sembra affermare, a proposito del processo di Antifonte, rimasto in Atene, che i Quattrocento dopo la caduta del regime furono trattati dal popolo con durezza (ma il passo è gravemente incerto sul piano testuale); nessuna segnalazione ci viene da Aristotele (Costituzione degli Ateniesi, 33). Sono noti provvedimenti come il decreto, ricordato da Licurgo (Contro Leocrate, 120-121), contro i «traditori» (prodotai) che si erano rifugiati a Decelea, ma essi non sono necessariamente da identificare con membri dei Quattrocento e comprendono certamente anche uomini passati al nemico prima e dopo la vicenda del 411; o come il processo di Crizia, in cui fu coinvolto Cleofonte (Aristotele, Retorica, I, 1375b; cfr. Senofonte, Elleniche, II, 3, 36), che avvenne assai probabilmente in epoca successiva al secondo esilio di Alcibiade. In realtà, gli aspetti più crudi della reazione (atti di giustizia sommaria, come l’assassinio di Frinico, o processi capitali come quello di Antifonte, Archeptolemo e Onomacle) vanno ritenuti regolamenti di conti tra oligarchi, conseguenti alla dissociazione di Teramene dai colleghi sul tema non della partecipazione ai Quattrocento bensì del rapporto con Sparta, piuttosto che espressioni della reazione popolare. Si è detto del probabile coinvolgimento di Crizia nella morte di Frinico; aggiungiamo che Lisia (XII, 67) attribuisce a Teramene la responsabilità della condanna a morte di Antifonte e Archeptolemo, suoi amici, «per acquistarsi credito di fronte al popolo».

In questo stesso contesto va forse inquadrato il processo in contumacia contro Pisandro, che sembra da riferire all’epoca dei Cinquemila sia per la testimonianza di Tucidide, che colloca l’esilio dell’oligarca, collegato con la volontà di sfuggire alle conseguenze del perseguimento, «subito» dopo la caduta del regime (VIII, 98, 1), sia per lo sfondo che di tale processo è possibile ricostruire. Gli esilii di oligarchi di cui parla Tucidide, e che trovano conferma in alcuni passi di Lisia (XIII, 73-74; XX, 21; XXV, 9; Contro Ippoterse, fr. 6, II + fr. 80), sembrano in gran parte di carattere volontario, originati dal timore di subire le vendette dei democratici, o forse, più ancora, dei moderati di Teramene.

Possono certamente impressionare i toni molto duri del decreto di Demofanto, approvato durante la prima pritania dell’anno 410/9, che prevedeva la possibilità di uccidere impunemente chi avesse abbattuto la democrazia in Atene o avesse esercitato una carica dopo tale abbattimento:

Se qualcuno cercherà di rovesciare la democrazia in Atene, o rivestirà qualche carica dopo l’abbattimento della democrazia, sia considerato nemico degli Ateniesi, e venga ucciso impunemente, i suoi beni vengano confiscati e la decima sia di Atena. Chi ucciderà o istigherà ad uccidere il colpevole di questi reati, sia considerato sacro e puro (Andocide I, 96-98).

A questa dichiarazione segue il testo del giuramento, che ne ripropone il contenuto e che gli Ateniesi dovranno pronunciare su vittime sacre prima delle Dionisie. Ma il decreto, essendo privo di valore retroattivo, sembra pensato più in funzione deterrente in vista di futuri pericoli per la democrazia che non come strumento di perseguimento dei responsabili del recente colpo di Stato; né sembra che esso abbia dato luogo a casi di giustizia sommaria, l’unico a nostra conoscenza essendo l’assassinio di Frinico che però, come si è detto, va piuttosto riportato all’epoca dei Cinquemila e all’ambiente di Crizia e di Teramene.

La transizione dai Quattrocento ai Cinquemila e, ancor più, dai Cinquemila alla democrazia piena non pare insomma, nelle fonti, caratterizzata da tensioni analoghe a quelle che, nel 403, si tentò con successo di neutralizzare con la promulgazione dell’amnistia. Anzi, possiamo addirittura affermare che gli oligarchi ebbero un trattamento giuridicamente impeccabile: Eurittolemo, parlando a difesa degli strateghi nel corso del processo delle Arginuse, disse, secondo Senofonte, che ad Aristarco erano stati garantiti «tutti i diritti previsti dalla legge, sebbene avesse abbattuto la democrazia e consegnato Enoe ai Tebani, nostri nemici» (Elleniche, I, 7, 28; cfr. Tucidide VIII, 98, 3).

Non si vuole con ciò negare che vi siano state reazioni contro i responsabili del colpo di Stato. Tucidide, nel tormentato passo relativo al caso di Antifonte (VIII, 68, 2), usa, a proposito del perseguimento degli oligarchi, il significativo plurale agones, alludendo a casi giudiziari diversi, anche promossi «dal popolo». Inoltre la Per Polistrato ci testimonia che la fine dell’esperienza oligarchica generò una serie di processi nei confronti delle persone compromesse con il regime, alcuni dei quali da collocare certamente dopo la piena restaurazione della democrazia. Oltre ai due processi subiti da Polistrato, uno subito dopo la caduta dei Quattrocento ([Lisia] XX, 11; 14; 18; 22), l’altro all’epoca del ritorno alla piena democrazia ([Lisia] XX, 17), l’oratore ricorda altri casi, che segnalano una reazione nei confronti dei responsabili della metabole: processi di rendiconto, cui i Quattrocento e quanti avevano rivestito cariche ufficiali durante l’oligarchia sarebbero stati sottoposti ([Lisia] XX, 10), processi contro uomini che, pur avendo parlato contro il popolo e avendo fatto parte dei Quattrocento, ed essendo responsabili di gravi colpe, furono assolti per intercessione di uomini influenti o per aver corrotto gli accusatori ([Lisia] XX, 14-15), e ancora casi di persone che avevano commesso reati agendo contro l’interesse del popolo e tuttavia, con l’aiuto di personalità autorevoli, ottennero l’assoluzione ([Lisia] XX, 19-20). Tali processi intendevano prima di tutto verificare la partecipazione alla boule dei Quattrocento, cioè all’organo principale del regime, e il rivestimento di altre cariche istituzionali sotto l’oligarchia: comportamenti che, a quanto sembra, furono soggetti a rendiconto; in secondo luogo, accertare che gli imputati non avessero provocato danni ai concittadini. È interessante notare che i criteri in base ai quali si valuta il possibile reinserimento nella comunità democratica non differiscono da quelli che il democratico Lisia proporrà nel 403 in alternativa alle assai più generose clausole dell’amnistia.

Una reazione non priva di durature conseguenze, se ancora nel 405 Aristofane, nelle Rane, fa pronunciare al corifeo che guida il coro degli iniziati accorate parole che invitano gli Ateniesi a riaccogliere nel corpo civico quanti si trovavano in condizione di esclusione dai diritti politici e civili (atimia) per le loro responsabilità nel colpo di Stato del 411:

Per prima cosa, dunque, a noi sembra necessario rendere uguali i cittadini e togliere loro ogni timore. Se qualcuno ha sbagliato perché le finte di Frinico lo trassero in inganno, io sostengo che a quelli che allora caddero dev’essere lecito esporre le proprie ragioni e ottenere l’assoluzione delle colpe passate. Poi affermo che nessuno deve essere privato dei suoi diritti nella città. È uno scandalo che alcuni, grazie a una sola battaglia, si trovino subito cittadini come quelli di Platea: erano schiavi, e sono padroni. Non voglio dire che non sia bene, anzi lo approvo: è la sola cosa ragionevole che avete fatto. Ma c’è anche chi ha combattuto tante volte per mare insieme a voi, lui e i suoi padri, e appartiene alla vostra razza: è giusto perdonargli questa unica disavventura, se ve lo chiede. Smettete la vostra collera, voi che siete persone di innata sapienza; tutti quanti hanno combattuto con noi prendiamoli di buon animo, che siano della nostra stirpe, con pari diritti membri della città (vv. 687 sgg.)14.

Gli atimoi cui si fa riferimento nelle Rane non sono solo gli esuli volontari testimoniati da Tucidide e da Lisia, giacché il decreto di Patroclide (Andocide I, 77-79), di poco successivo, che prevede la reintegrazione di quanti si trovavano ancora privi di diritti per motivi legati alla vicenda dei Quattrocento, esclude espressamente gli esuli volontari (Andocide I, 78) e ammette, con ciò, l’esistenza di persone che si trovavano in condizione di atimia in seguito a vere e proprie condanne. Ancora Andocide, introducendo il decreto di Patroclide, ricorda che tra gli interessati vi erano persone colpite da forme di atimia parziale, come i soldati rimasti in Atene sotto i Quattrocento, ai quali era fatto divieto di parlare in assemblea e di far parte della boule (I, 75). Il problema della reintegrazione nella vita della comunità cittadina di chi era stato a vario titolo coinvolto nella crisi costituzionale è dunque presente nel 411, nonostante la limitata gravità delle conseguenze del colpo di Stato e, quindi, della frattura civica che ne seguì. Tanto Aristofane quanto il decreto di Patroclide rivelano anzi che il problema persisteva ancora, a livelli diversi (accanto agli esuli volontari c’erano atimoi che erano tali in seguito a condanna, in forma totale o parziale), alcuni anni dopo il 411; e Lisia conferma che alcuni degli esuli legati alla vicenda della «prima oligarchia» tornarono solo in seguito al trattato di pace del 404, come Ippoterse, o addirittura nel 403, con i democratici (XXV, 9).

Nel complesso, la reazione dei democratici all’indomani della prima crisi costituzionale sembra rivelare un notevole equilibrio. Il reinserimento di quanti, a cominciare da Teramene, si erano dissociati dagli oligarchi provocando il crollo del regime fu pronto e incondizionato; furono anzi proprio costoro ad avere il ruolo principale nell’organizzazione della repressione immediatamente successiva alla caduta del regime, la sola che, a quanto sappiamo, comportò atti di giustizia sommaria, processi capitali e fughe in esilio. Ristabilita la democrazia, i processi (probabilmente di rendiconto) tenuti sotto i Cinquemila non furono contestati, nonostante si abbia l’impressione che le manipolazioni siano state frequenti. Il decreto di Patroclide testimonia di condanne all’esilio, ma molti procedimenti si conclusero con assoluzioni o con pene pecuniarie. In qualche caso, come appunto quello di Polistrato, il ritorno alla democrazia piena comportò nuove imputazioni; ma si osservi che, nonostante il sicuro coinvolgimento dell’imputato, il nuovo processo intentato dai democratici non comportò la proposta di una pena più grave. Infine, solo forme di atimia parziale (il divieto di parlare in assemblea e di diventare buleuti) sono attestate per i soldati rimasti in Atene sotto i Quattrocento, in sostanza coloro che ratificarono con il loro voto il colpo di Stato e rimasero fedeli all’oligarchia: una decisione la cui responsabilità è certamente da attribuire ai democratici e che rivela la volontà di non infierire. Come ha sottolineato J. Shear, la reazione democratica si concentrò piuttosto sulla legislazione, sulla riappropriazione degli spazi pubblici e sull’organizzazione di riti (fra i quali il giuramento ricordato nel decreto di Demofanto) capaci di ricostruire l’unità della comunità civica e di plasmare la memoria collettiva.

3.1. Il processo: la giustizia democratica manipolata

Tutto faceva pensare, dunque, ad una rapida normalizzazione; ma, nel 404, a pochissimi anni di distanza, complice la sconfitta in guerra, Atene vide nuovamente cadere la democrazia. La continuità fra le due esperienze, sostenuta da Lisia (XII, 65), è segnalata anche dal coinvolgimento delle medesime persone, primo fra tutti Teramene.

Negli anni successivi alla restaurazione della democrazia Atene contrastò bene Sparta, sotto la guida di Alcibiade, Trasibulo e del rilegittimato Teramene. Dopo la gravissima perdita dell’Eubea, la guerra continuò nell’Ellesponto, dove gli Ateniesi ottennero significativi successi a Cinossema, ad Abido (autunno 411) e a Cizico (primavera 410). Con la battaglia di Cinossema si interrompe il racconto di Tucidide e inizia quello delle Elleniche di Senofonte, fondato, per le vicende dal 410 al 404, su materiale tucidideo, e quindi di ottima qualità.

Subito dopo Cizico gli Spartani chiesero la pace, ma i democratici, tornati al potere, la rifiutarono. Atene, grazie ad Alcibiade, Trasibulo e Teramene, ottenne ancora notevoli successi negli anni successivi (a Calcedone, a Bisanzio, a Taso); Alcibiade rientrò in Atene, accolto con entusiasmo, nel giugno del 408 o del 407 e fu eletto stratego con poteri eccezionali (Senofonte, Elleniche, I, 4, 20). Atene sembrava avviata alla vittoria nel lungo conflitto che dal 431 la divideva da Sparta.

La svolta in favore di Sparta arrivò con l’invio del navarco spartano Lisandro nella Ionia. Lisandro era, come già si è detto, uomo di eccezionali capacità, in cerca di affermazioni personali che il sistema spartano tendeva a limitare; la sua visione della politica egemonica che Sparta avrebbe dovuto svolgere era più simile a quella, molto dinamica, praticata da Atene che a quella della tradizione politica spartana. Ottenuto l’aiuto finanziario del giovane Ciro, figlio di Dario II, nel 407/6 Lisandro inflisse alla flotta ateniese, guidata da un luogotenente di Alcibiade, Antioco, una grave sconfitta a Nozio, presso Efeso: Alcibiade preferì andare in volontario esilio nell’Ellesponto.

La caduta di Alcibiade coinvolse quanti lo avevano sostenuto negli ultimi anni. Né Trasibulo né Teramene vennero rieletti strateghi; Teramene, in particolare, non superò la dokimasia, l’esame preventivo che gli aspiranti magistrati dovevano sostenere, in quanto la sua fede democratica era incerta (Lisia XIII, 10). La notizia è interessante sia perché rivela che vi era diffidenza nei confronti di Teramene, nonostante la sua abilità nel superare le situazioni più imbarazzanti, sia perché potrebbe fornirci la chiave per capire il suo comportamento nel corso della vicenda giudiziaria nota come «processo delle Arginuse»: un processo politico che decapitò la classe dirigente democratica e avviò Atene alla sconfitta.

Nell’estate del 406 gli Ateniesi riportarono una grande vittoria al largo delle isole Arginuse, tra l’isola di Lesbo e la terraferma: gli Spartani persero 60 navi e il navarco Callicratida, che aveva sostituito Lisandro, morì (Senofonte, Elleniche, I, 6, 29). A causa di una tempesta, i naufraghi non poterono essere raccolti, nonostante i trierarchi (fra i quali Trasibulo e Teramene) avessero ricevuto dagli strateghi, lanciati all’inseguimento del nemico, l’ordine di farlo (Senofonte, Elleniche, I, 6, 35); Diodoro (XIII, 100, 1-2), la cui versione differisce per molti aspetti da quella senofontea, afferma invece che la tempesta sorprese gli Ateniesi mentre stavano ancora decidendo cosa fare dei naufraghi e dei morti delle navi affondate. Appena la notizia si riseppe, il popolo destituì gli strateghi sostituendoli con altri di sua fiducia; due dei deposti, Protomaco e Aristogene, non tornarono in patria, mentre rientrarono gli altri sei, Pericle il Giovane, Diomedonte, Lisia, Aristocrate, Trasillo ed Erasinide15.

Benché non tutti i moderni concordino, la versione di Senofonte (Elleniche, I, 7), storico contemporaneo e autorevole, è preferibile a quella di Diodoro (XIII, 101-103, 2), fonte lontana dai fatti, dipendente da una tradizione fortemente tendenziosa e, soprattutto, non priva di incongruenze interne. Seguiremo quindi il racconto senofonteo, per poi tornare a quello di Diodoro per ulteriori riflessioni.

Una prima accusa, portata da Archedemo davanti al ­tribunale per appropriazione indebita, colpì lo stratego Erasinide, che con­testualmente fu anche accusato «per la sua condotta come stratego». Archedemo, definito «demagogo» da Senofonte e da Aristofane, è accusato da Lisia (XIV, 25) di essere un ladro del denaro del popolo; egli faceva parte di quel sottobosco politico cui sembrano appartenere molti dei personaggi coinvolti in questa vicenda giudiziaria. Condannato a pagare una multa, Erasinide fu arrestato. In seguito, gli strateghi deposti riferirono alla boule sulla battaglia, in una seduta che aveva probabilmente lo scopo di indagare sull’operato dei generali ed eventualmente di suggerire l’avvio di un’azione giudiziaria a loro carico; in questa occasione un tale Timocrate, probabilmente un buleuta, propose di arrestarli tutti e di consegnarli all’assemblea, cosa che la boule fece.

Con ogni probabilità, iniziò a questo punto una procedura di eisanghelia all’assemblea, riservata ai casi di attentato alla sicurezza dello Stato. Nel comportamento degli strateghi si ravvisavano infatti gli estremi del tradimento, per non aver saputo evitare la perdita di tanti marinai e forse anche per aver peccato di empietà (asebeia) negando loro sepoltura: si riteneva, come è noto, che l’asebeia mettesse in pericolo la comunità, e in questa convinzione trovarono fondamento processi capitali come quelli di Anassagora e di Socrate.

Quando iniziò l’eisanghelia all’assemblea, entrò in gioco Teramene, che fu tra gli accusatori più convinti: egli citò una lettera in cui gli strateghi, rivolgendosi alla boule e all’assemblea, si giustificavano della mancata raccolta dei naufraghi invocando esclusivamente la tempesta (e dunque senza accusare nessun altro, nemmeno i trierarchi). La questione della lettera (o delle lettere) degli strateghi è oggetto di discrepanza tra le fonti: in Senofonte, dal discorso di Eurittolemo risulta che gli strateghi avevano manifestato l’intenzione di inviare una lettera accusando i trierarchi, ma che Pericle e Diomedonte avevano dissuaso i colleghi, cosicché alla fine, nella loro relazione, si era data la colpa alla sola tempesta; Diodoro (XIII, 101, 1) dice invece molto chiaramente che la lettera degli strateghi che accusava i trierarchi fu inviata. Su questo particolare le due versioni presentano una differenza inconciliabile.

Gli strateghi, a detta di Senofonte, non ebbero neppure a disposizione il tempo previsto dalla legge per difendersi (è questa la prima delle irregolarità che, nel racconto di Senofonte, caratterizzano il processo, una testimonianza impressionante della deriva demagogica cui il sistema democratico ateniese fu esposto), ma con i loro argomenti e le testimonianze addotte in loro favore stavano per convincere il popolo. La presidenza decise allora di rinviare la votazione, e si stabilì che la boule formulasse una proposta sulla procedura da seguire per il giudizio. Ed ecco la seconda irregolarità: dopo la sospensione del voto, stratagemma ben noto per rinviare votazioni dall’esito che si prevedeva sgradito, si diede l’incarico alla boule di esprimersi sulla procedura di giudizio, un passo che non si sarebbe dovuto fare prima della votazione dell’assemblea (essa, infatti, avrebbe potuto anche optare per un proscioglimento, e anzi sembrava appunto orientata in questo senso). Di tale mancata votazione, che dal racconto sembrerebbe essere rinviata alla seduta successiva, Senofonte non parla più: l’assemblea seguente iniziò con la lettura della proposta della boule e proseguì con il dibattito su di essa. Questa anomalia presuppone che gli avversari degli strateghi fossero in grado di controllare la presidenza dell’assemblea, che richiese un parere della boule sulla procedura da seguire senza aver dato modo al popolo di esprimere la sua opinione in merito all’ammissibilità della causa.

Nell’intervallo tra le due riunioni, ci informa Senofonte, in occasione della festa delle Apaturie fu inscenata una manifestazione di finti parenti delle vittime, destinata a influenzare l’opinione pubblica indirizzandola contro gli strateghi. Teramene e i suoi allestirono (il verbo usato da Senofonte, paraskeuazo, «preparare», è tipico della manipolazione) una processione di uomini vestiti di nero e con i capelli rasati, che dovevano presentarsi all’assemblea per manipolarne demagogicamente la volontà. Senofonte dunque accusa espressamente la fazione di Teramene di aver tentato di influenzare, con questa sceneggiata e con le diverse irregolarità da lui riscontrate nella procedura e messe in evidenza nel racconto, l’esito del processo. Si noti che per Diodoro (XIII, 101, 6) la manifestazione dei parenti fu reale e spontanea: dopo la questione della lettera, è il secondo punto su cui Senofonte e Diodoro differiscono.

Sempre a Teramene e ai suoi Senofonte addossa la colpa di aver «persuaso» (peitho, «persuadere», è un altro verbo della manipolazione) Callisseno, probabilmente un buleuta, ad accusare gli strateghi nella boule, evidentemente perché questa preparasse un parere loro sfavorevole. Tale parere, che fu letto all’inizio della successiva assemblea, predisponeva la procedura con cui giudicare gli strateghi e la pena da infliggere loro in caso di condanna. Gli ecclesiasti avrebbero dovuto votare per psephophoria (cioè con il gettone, a voto segreto), divisi per tribù, inserendo il proprio voto in una delle due urne da approntarsi, una per l’assoluzione e una per la condanna; qualora ritenuti colpevoli, gli strateghi avrebbero dovuto subire la pena di morte e la confisca dei beni.

Non è difficile notare che questa proposta era, prima di tutto, in stridente contrasto con gli orientamenti dell’assemblea, che non aveva votato il luogo a procedere e sembrava intenzionata a pronunciarsi in favore degli strateghi. In secondo luogo, il parere della boule conteneva certamente un’irregolarità, dal momento che, nella successiva assemblea, Eurittolemo lo contestò con una graphe paranomon, un’accusa di illegalità, e che, inizialmente, i pritani stessi non vollero metterlo ai voti. Senofonte, tuttavia, non specifica la natura di questa irregolarità. È probabile che essa consistesse nella proposta di condannare gli strateghi mediante una sentenza collettiva e non individuale. Tale decisione, oltre a comportare un giudizio sommario, non distinguendo le responsabilità all’interno del collegio degli strateghi, conduceva anche all’incongruente conseguenza di trattare come tutti gli altri persino un generale che era stato lui stesso naufrago e che si era salvato fortunosamente, e a cui, pertanto, non poteva essere imputata alcuna responsabilità per il mancato recupero dei suoi compagni di sventura.

Dopo le Apaturie si tenne una seconda assemblea, durante la quale si votò se gli strateghi fossero da ritenere colpevoli o no, con pena già stabilita – la morte – in caso di colpevolezza. Nel corso di questa assemblea vi furono diversi episodi demagogici, intesi a scatenare l’emotività popolare e a creare un pesante clima di intimidazione. Un primo tentativo di influenzare l’assemblea si ebbe con la testimonianza di un uomo che diceva di essersi salvato aggrappato a un sacco di farina e che riferiva le parole dei naufraghi, i quali «in punto di morte [...] lo avevano incaricato, se fosse riuscito a salvarsi, di riferire all’assemblea che gli strateghi non avevano raccolto quelli che erano stati i migliori difensori della patria» (Senofonte, Elleniche, I, 7, 11). Una testimonianza di questo genere, vera o falsa che fosse, non poteva che impressionare l’assemblea, che si sentiva chiamata a vendicare i caduti. Eurittolemo e altri tentarono allora di bloccare la proposta di Callisseno con un’accusa di illegalità, che probabilmente verteva sul giudizio collettivo: la loro presa di posizione incontrò l’approvazione di alcuni, ma, osserva Senofonte, «la massa gridava che era grave non permettere al popolo di fare ciò che voleva» (Elleniche, I, 7, 12). Allora un tale Licisco, probabilmente un altro degli uomini di Teramene, minacciò Eurittolemo e i suoi di giudicarli insieme agli strateghi, se non avessero ritirato l’accusa, e la folla sembrò approvare. Al rifiuto di alcuni pritani di mettere ai voti una proposta illegale, Callisseno li minacciò apertamente, e di nuovo la folla gridò che bisognava sottoporre a giudizio chi rifiutava la votazione. È evidente, da una parte, il clima di intimidazione creato dalla fazione ostile agli strateghi, dall’altra la deriva demagogica di cui l’assemblea, aizzata dai demagoghi e forse condizionata da una claque organizzata, fu vittima: e Senofonte, che non simpatizza per la democrazia, ha buon gioco a illustrarne la crisi e a mettere in evidenza la limpida posizione di Socrate, che era pritano e dichiarò che avrebbe agito esclusivamente secondo la legge (Elleniche, I, 7, 15; cfr. Platone, Apologia di Socrate, 32b-c).

Eurittolemo prese allora la parola in difesa degli strateghi (Senofonte, Elleniche, I, 7, 16-33), mettendo l’accento su una duplice illegalità: da una parte il giudizio collettivo, dall’altra l’impossibilità di difendersi adeguatamente. Egli propose, in alternativa, di giudicarli o secondo il «decreto di Cannono», come colpevoli di un delitto (adikia) verso il popolo, oppure in base alla legge contro i sacrileghi e i traditori: tali proposte intendevano, nel primo caso, assicurare a ciascuno il tempo per difendersi, nel secondo sottrarre il giudizio all’assemblea e trasferirlo al tribunale, meno manipolabile perché in esso non vi era dibattito e le manovre demagogiche erano meno facili. Il suo intervento insisteva sulla tempesta, che salvava la posizione di strateghi e trierarchi, rimuovendo i motivi di tensione fra le parti, e conteneva un forte richiamo al rispetto delle leggi e alla pietà verso gli dei; la conclusione, che esortava a non condannare gli strateghi irragionevolmente, dando retta a «uomini malvagi», mostra che Eurittolemo era pienamente consapevole di trovarsi di fronte a un processo politico sapientemente organizzato.

Al discorso di Eurittolemo seguì la fase della votazione: si doveva decidere per alzata di mano se accogliere la proposta della boule o quella di Eurittolemo e, in secondo luogo, emettere una sentenza di assoluzione o di condanna. Racconta Senofonte che, messe ai voti le due mozioni, fu in un primo tempo approvata quella di Eurittolemo; ancora una volta, l’assemblea sembrava propendere per gli strateghi. Ma un certo Menecle chiese la ripetizione della votazione, come era possibile fare qualora il risultato non apparisse perfettamente evidente alla valutazione visiva; alla seconda votazione prevalse la proposta di Callisseno. Gli otto strateghi che avevano partecipato alla battaglia furono condannati; i sei presenti ad Atene furono messi a morte. Fino all’ultimo, l’assemblea aveva in realtà mostrato un orientamento favorevole agli strateghi; la richiesta di Menecle, estremo tentativo di condizionare l’esito del processo, convinse i pritani, già esitanti ed esposti a minacce, della necessità di compiacere Teramene e i suoi. Si passò poi alla seconda questione da votare, la colpevolezza o l’innocenza degli accusati: il verdetto fu sfavorevole agli strateghi.

Colpisce, di questo processo, l’evidente manipolazione istituzionale, in sede buleutica e assembleare, portata avanti da un gruppo di persone che, secondo Senofonte, faceva capo a Teramene. Una conferma della visione di Senofonte si trova in Lisia (XII, 36), che accetta la giustificazione degli strateghi (la raccolta dei naufraghi era stata resa impossibile dalla tempesta) e, come Eurittolemo, ricorda la loro vittoria in battaglia, che rendeva la condanna del tutto irragionevole. Con strumenti diversi – la persuasione, che può adombrare tanto la corruzione quanto altre forme di pressione sulla boule, sull’assemblea e sui loro presidenti; le irregolarità procedurali; la falsa testimonianza; l’intervento demagogico sull’opinione pubblica; l’intimidazione e le minacce aperte – si riuscì ad ottenere una condanna in realtà del tutto ingiustificata, dagli evidenti motivi politici. Sullo sfondo politico del processo vale la pena di interrogarsi più a fondo.

3.2. Teramene: il regista

Senofonte è molto chiaro nell’attribuire a Teramene la responsabilità di aver allestito un processo politico contro gli strateghi. Sulla sua scorta, molti individuano le motivazioni di Teramene nella sua volontà di eliminare esponenti della classe dirigente democratica che gli facevano ombra. Come già si è detto, Teramene, eletto stratego per il 406/5, non aveva superato la dokimasia in quanto di non sicura fede democratica (Lisia XIII, 10). In questo incidente, collegato forse con l’esilio di Alcibiade dopo Nozio (neppure Trasibulo era stato rieletto), Teramene avrebbe visto un rischio di eclissi politica che, diversamente dal collega, non era disposto ad accettare. L’eliminazione degli strateghi vincitori, invece, avrebbe lasciato spazio alle sue ambizioni.

Va ribadito che questa interpretazione, che non tutti condividono, si basa sulla testimonianza di uno storico contemporaneo e probabilmente testimone oculare degli eventi, uomo di parte non democratica, e ammiratore di Teramene sul piano personale (Senofonte, Elleniche, II, 3, 56); che egli ne riconosca l’ambiguità, in questa occasione come nel 404, è un prezioso elemento di valutazione. Diversa è la posizione di altre fonti. Aristotele (Costituzione degli Ateniesi, 34) ritiene il processo esito di un inganno ai danni del popolo, ma Teramene è del tutto assente dalla vicenda, anche perché il racconto è molto sintetico. La vera fonte alternativa a Senofonte è Diodoro, che offre un racconto dettagliato e deriva da una fonte certamente favorevole a Teramene, in quanto accoglie l’elemento fondamentale della giustificazione che egli fornì per l’attacco agli strateghi: la necessità di difendersi dalle accuse rivolte a lui e a Trasibulo dagli strateghi stessi (Diodoro XIII, 101, 1). Senofonte afferma in realtà espressamente, sia parlando dell’autodifesa degli strateghi sia attraverso il discorso di Eurittolemo, che gli strateghi accusarono esclusivamente la tempesta; e che di difendersi non ci fosse bisogno lo dimostra il fatto che Trasibulo, trovandosi nella stessa situazione di Teramene, non fece nulla. Ma quella che Diodoro riporta come un dato di fatto era appunto l’autodifesa di Teramene: lo sappiamo con certezza, perché Teramene, nel dibattito con Crizia in occasione del processo cui fu sottoposto a causa dei dissidi con il collega, accusato da Crizia di aver fatto condannare a morte gli strateghi (Senofonte, Elleniche, II, 3, 32: «Ed è ancora lui che, malgrado l’ordine degli strateghi di raccogliere i naufraghi ateniesi nella battaglia di Lesbo, non lo ha fatto: però per salvarsi ha mandato a morte con le sue accuse gli strateghi»), disse appunto di essere stato costretto a farlo per autodifesa:

Crizia afferma che ho mandato a morte gli strateghi con le mie accuse. Ma non sono stato certo io a sollevare la questione contro di loro, bensì essi stessi, perché hanno dichiarato che, malgrado l’ordine datomi, io non avevo raccolto quegli sventurati della battaglia di Lesbo. Io allora mi difesi sostenendo che fu a causa della tempesta che non riuscii a prendere il largo né, tanto meno, a raccogliere gli uomini; e la città ritenne giusta la mia difesa, mentre gli strateghi si stavano chiaramente accusando da soli. Pur asserendo, infatti, che era possibile salvare gli uomini, si allontanarono abbandonandoli alla morte (Elleniche, II, 3, 35).

La preferenza accordata da alcuni moderni alla versione di Diodoro risulta, in queste condizioni, difficilmente giustificabile. Il suo racconto presenta diversi elementi di debolezza: oltre ad essere viziato da un’evidente tendenziosità a favore di Teramene, mostra, diversamente da quello di Senofonte, una grave incoerenza interna, che lo rende in sé meno credibile. Rispetto a Senofonte, che certamente conosce, Diodoro mostra affinità (per esempio, anch’egli dice che gli strateghi erano innocenti e sa che Teramene fu loro tenace accusatore) e discrepanze. Le divergenze più importanti riguardano, oltre al ruolo di Teramene, le lettere degli strateghi, la processione delle Apaturie, l’atteggiamento del popolo.

Per Diodoro la condanna degli strateghi fu dovuta alla loro volontà di accusare i trierarchi, perché costrinse Teramene e i suoi, abili oratori, con molti amici e testimoni oculari della vicenda, a rovesciare l’accusa su di loro: quando infatti la loro lettera venne letta in assemblea, il popolo prima si adirò con Teramene, poi, convinto dalle sue giustificazioni, rivolse la sua rabbia contro gli strateghi (XIII, 101, 3-4). Si ricordi che questa lettera di accusa, secondo Senofonte, non pervenne mai: le due versioni sono su questo punto del tutto incompatibili. In Senofonte, le ragioni dell’accanimento di Teramene contro gli strateghi non appaiono evidenti, dato che nel racconto dello storico egli non viene mai chiamato in causa come colpevole di qualcosa, così da giustificare la necessità di difendersi. Lo storico suggerisce, con ciò, ragioni diverse per il suo comportamento: la sua tesi è chiaramente quella del complotto politico-giudiziario, come si deduce non solo dalla ricostruzione complessiva del processo, che evoca un clima apertamente manipolatorio orchestrato appunto da Teramene, ma anche dal fatto che, nel discorso di Eurittolemo, si fa espresso riferimento a «intrighi», usando una terminologia (il verbo epibouleuo) che rimanda appunto all’ambito del complotto politico. In effetti, è molto improbabile che l’atteggiamento di Teramene fosse motivato da esigenze di autodifesa, dato che Trasibulo, trovandosi in quanto trierarca nella medesima situazione, non sentì affatto la necessità di condividere le preoccupazioni del collega (come anche Diodoro ammette); l’intera vicenda processuale sembra peraltro troppo complessa, e non priva di rischi per gli stessi accusatori, per avere come solo obiettivo quello di sfuggire a un’accusa che si sarebbe potuta vanificare con facilità insistendo sulla questione oggettiva della tempesta (che è ammessa da entrambe le fonti). Considerando la carriera di Teramene, la ricerca di un ruolo da protagonista nell’ambito della classe dirigente ateniese sembra una motivazione più convincente per l’organizzazione di un attacco politico-giudiziario contro gli strateghi, esponenti della classe dirigente democratica cui la vittoria avrebbe conferito ulteriore autorevolezza, in un momento in cui la stella di Teramene sembrava eclissata, anche come conseguenza della caduta di Alcibiade. Come ha notato D. Ambaglio, è imprudente accordare la preferenza alla versione di Diodoro, perché «solo attraverso le Elleniche si capisce l’atteggiamento tenuto da Teramene: il suo disegno era quello di spazzare via, con argomenti fondati o con sceneggiate, quanti fossero d’ostacolo alle sue mire di protagonista assoluto; su questo, almeno, qualsiasi versione alternativa a quella senofontea [...] non regge il paragone»16.

Per quanto riguarda la processione delle Apaturie, Diodoro la considera un’autentica manifestazione di lutto (XIII, 101, 6), che si esprime nell’assemblea in cui gli strateghi vengono processati e condannati, e a cui Teramene appare estraneo; su questa assemblea Diodoro (XIII, 101, 6-7) è molto cursorio. In Senofonte, invece, essa è una messinscena accuratamente preparata da Teramene e dai suoi per influenzare l’opinione pubblica (Elleniche, I, 7, 8) e si colloca nell’intervallo tra l’assemblea di Elleniche, I, 7, 4-7, rimandata per l’ora tarda proprio quando gli strateghi stavano per convincere il popolo della loro innocenza, e quella di Elleniche, I, 7, 9-34, in cui avvenne la condanna; su questa assemblea il racconto di Senofonte è molto dettagliato e comprende sia il testo, accuratamente trascritto, della proposta di Callisseno (Elleniche, I, 7, 9-10), sia il discorso di Eurittolemo (Elleniche, I, 7, 16-33). Cito ancora D. Ambaglio, che ritiene difficile «dubitare del resoconto di Senofonte su fatti coevi: egli scriveva, a mio avviso, per i contemporanei e allora infiniti testimoni (se lui stesso non lo era stato) avrebbero potuto, nel caso mentisse, metterlo in ridicolo»17.

Quanto all’atteggiamento del popolo, gli strateghi, secondo Diodoro, finirono per essere condannati perché i sostenitori di Teramene e gli amici dei caduti erano molto numerosi e il popolo si schierò dalla loro parte (XIII, 101, 3 e 7); l’impressione che se ne trae è che il popolo, una volta convinto delle responsabilità degli strateghi, abbia mantenuto un atteggiamento di preclusione nei loro confronti. Ma Senofonte, che già aveva ricordato che al termine dell’assemblea di Elleniche, I, 7, 4-7 il popolo si stava convincendo dell’innocenza degli strateghi, tanto che molti privati cittadini si erano offerti come garanti, afferma che la prima votazione fu favorevole alla proposta di Eurittolemo, che, contro la proposta di Callisseno, prevedeva il ricorso al decreto di Cannono, e che a questo punto fu chiesta da un certo Menecle una seconda votazione mediante obiezione giurata (Elleniche, I, 7, 34). Evidentemente l’appello alla legalità oggetto del discorso di Eurittolemo non aveva mancato di suscitare ripensamenti nell’assemblea. Diodoro, dunque, semplifica molto sia lo svolgimento del processo sia la sua conclusione.

La ricostruzione diodorea appare animata da una chiara tendenza antidemocratica, che si evidenzia in particolare nell’insistenza su aspetti quali il doloroso destino dello stratego Diomedonte, compianto dai buoni cittadini (XIII, 102, 1-3: una caratteristica del racconto diodoreo, che manca in Senofonte), l’inganno del popolo, che dà sfogo alla sua ira «ingiustamente aizzato dai demagoghi» (XIII, 102, 5), l’insensatezza del popolo (XIII 102, 5; 103, 1), che induce la divinità a punirlo con l’avvento dei Trenta Tiranni. In Senofonte il popolo è certamente visto negativamente ed è presentato come in preda a una deriva demagogica (Elleniche, I, 7, 12-15) – su questo punto le due fonti sono concordi –; ma la responsabilità di tale deriva non è tanto dell’insensatezza connaturata nel popolo, quanto piuttosto di chi lo aizza e lo manovra, sfruttandone le debolezze con adeguati strumenti di propaganda e di manipolazione. È a questo proposito che si manifesta l’incoerenza del racconto diodoreo. Diodoro afferma, infatti, che il popolo agì perché vittima di manipolazioni demagogiche, di un vero e proprio «inganno» (apate); ma contemporaneamente dice anche che il popolo si schierò compattamente dalla parte di Teramene e dei suoi, i quali però, stranamente, non vengono affatto considerati dei manipolatori. Fra XIII, 101, 3 e 7 da una parte (dove si presenta il popolo che sostiene un Teramene ingiustamente accusato e costretto a reagire per legittima difesa) e XIII, 103, 1-2 dall’altra (dove il popolo appare manipolato da Callisseno) si rileva una differenza di impostazione che costituisce una vera e propria contraddizione, a fronte della coerenza del racconto di Senofonte, in cui Callisseno non è altro che un agente di Teramene.

La versione di Senofonte sembra dunque decisamente da preferire, ed è una versione che getta una pesante ombra sulla figura politica di Teramene. Democratico convertitosi all’oligarchia nel 411, poi oppositore del regime dei Quattrocento e sostenitore del governo moderato dei Cinquemila, poi nuovamente democratico nel 410, dopo pochi anni Teramene ricompare come regista di un processo politico diretto contro esponenti della classe dirigente democratica, rei di avergli fatto ombra. Il suo trasformismo non era dunque episodico, ma costituiva un elemento centrale della sua personalità e della sua azione politica.

3.3. Una revisione parziale

I racconti di Senofonte (Elleniche, I, 7, 35) e di Diodoro (XIII, 103, 1-2) sembrano avvicinarsi notevolmente a proposito della conclusione della vicenda, nonostante la diversità di alcuni particolari. Diodoro parla di rapido pentimento sia degli istigatori sia del popolo, che si era lasciato convincere; Callisseno, colui che aveva avanzato la proposta che prevedeva per gli strateghi il giudizio comune e, in caso di colpevolezza, la pena di morte, venne accusato «per aver ingannato il popolo» (un’idea, quella dell’inganno del popolo, che torna insistentemente nel testo) e imprigionato, ma riuscì a fuggire a Decelea. È interessante notare, da una parte, che finora Diodoro non ha mai parlato di Callisseno, protagonista, con Teramene, del racconto senofonteo e definito qui come colui che aveva presentato la proposta contro gli strateghi, quindi nei termini esatti proposti da Senofonte (Elleniche, I, 7, 9); dall’altra, che il particolare della fuga a Decelea è molto significativo, perché rivela il legame di Callisseno con ambienti oligarchici (Decelea era occupata dagli Spartani e molti dei Quattrocento vi si erano rifugiati alla caduta del regime, primo fra tutti Pisandro). Secondo Senofonte, gli Ateniesi si pentirono del loro errore dopo non molto tempo e decisero di mettere sotto accusa gli ingannatori del popolo; Callisseno, accusato con altri quattro (potrebbe trattarsi delle persone ricordate dallo storico nel resoconto del processo: Archedemo, Timocrate, Licisco e Menecle), fuggì con i compagni, all’epoca della «rivoluzione» (stasis) in cui morì Cleofonte (quindi nella prima metà del 404), per una destinazione che Senofonte non specifica e rientrò poi in Atene con i democratici del Pireo, senza riuscire a sfuggire al suo destino.

Non è difficile notare la somiglianza tra i due racconti: entrambi ricordano la rapidità del pentimento popolare, l’accusa ai responsabili della vicenda di aver ingannato il popolo e il destino di Callisseno; nei due passi si ricorre inoltre alla stessa terminologia. La conoscenza, da parte della fonte di Diodoro, del racconto di Senofonte è del resto confermata da XIII, 102, 5, dove si afferma che gli strateghi erano degni «non di punizione, ma di molti elogi e corone», riprendendo la chiusa del discorso di Eurittolemo, che dichiara che sarebbe più giusto «onorare i vincitori con corone» che punirli con la morte (Senofonte, Elleniche, I, 7, 33). Vi sono però particolari diversi: la fuga di Callisseno a Decelea, in Diodoro; il ricordo dei quattro collaboratori di Callisseno, la contestualità della sua fuga con la morte di Cleofonte e il rientro in Atene con i democratici, in Senofonte. Se ne può concludere che Diodoro segue una tradizione che certamente conosce Senofonte, ma che ha anche altre informazioni. In ogni caso, come già si è detto, la vera divergenza tra Senofonte e Diodoro non è né sulle responsabilità degli strateghi, che entrambi ritengono innocenti, né sulla manipolazione dell’assemblea, che entrambi mettono in evidenza, né infine sul riconoscimento dell’errore da parte del popolo, ricordato da tutti e due con toni analoghi, ma sul ruolo di Teramene.

Il «pentimento» del popolo è collocato da Senofonte in un momento – l’epoca della stasis in cui morì Cleofonte – che coincide con la grave crisi politica interna ed esterna cui andò incontro Atene dopo la sconfitta militare e con le difficili trattative tra Atene e Sparta nei mesi successivi ad Egospotami: un momento di incertezza e di disorientamento, che non pare particolarmente opportuno per un’ondata di revanchismo democratico. È il caso di riflettere su questo «pentimento» e sul suo contesto storico.

Sia Senofonte sia Diodoro, nella parte conclusiva del racconto, danno ampio rilievo al tema del «pentimento del popolo» e alla conseguente reazione contro gli accusatori degli strateghi, «ingannatori del popolo». Ora, è singolare che Teramene, benché coinvolto nel processo come accusatore degli strateghi, non abbia subito l’accusa di aver ingannato il popolo (che pure colpì non solo Callisseno ma anche altre quattro persone, a detta di Senofonte) e non sia stato travolto dalla reazione popolare: questo dimostrerebbe, secondo alcuni, che in realtà egli non aveva avuto nella vicenda le pesanti responsabilità che gli attribuisce Senofonte, che ne fa il regista dell’intera operazione. Tuttavia, il mancato coinvolgimento di Teramene nelle conseguenze del pentimento popolare non necessariamente conferma la sua estraneità ai fatti.

Prima di tutto, doveva essere piuttosto difficile trovare un appiglio giuridico per muovere contro Teramene l’accusa di aver ingannato il popolo. Anche nel racconto a lui ostile di Senofonte, Teramene si comporta con molta prudenza, limitandosi ad accusare gli strateghi in quanto «era giusto che rendessero conto del loro operato» e a leggere la lettera da loro inviata che incolpava la tempesta, allo scopo di scagionare se stesso (Senofonte, Elleniche, I, 7, 4). Certo, Senofonte accusa espressamente Teramene di aver organizzato la sceneggiata delle Apaturie e di aver persuaso Callisseno a formulare la sua proposta, in sede buleutica e poi assembleare, contro gli strateghi (Elleniche, I, 7, 8); e anche Eurittolemo, nel suo discorso, attribuisce espressamente ai trierarchi inadempienti e ad altri loro collaboratori gli «intrighi» contro gli strateghi (Elleniche, I, 7, 18) e li qualifica in chiusura come «uomini malvagi» cui il popolo non deve dar retta (Elleniche, I, 7, 33). Dal racconto di Senofonte emerge dunque chiaramente la convinzione morale che si debba attribuire a Teramene la regia della vicenda, gestita attraverso la collaborazione di una serie di personaggi di basso profilo (Archedemo, Timocrate, Callisseno, Licisco, Menecle); ma è evidente che le responsabilità di Teramene, che si era esposto il meno possibile in prima persona nel corso della procedura, non potevano essere rigorosamente dimostrate. Quindi, il mancato coinvolgimento di Teramene nella vendetta popolare contro i persecutori degli strateghi non implica affatto la sua innocenza (alla quale, secondo Senofonte, non credeva neppure Crizia), ma rivela semplicemente, anzi conferma, la grande abilità di Teramene nell’evitare di dover rendere conto del proprio operato e nel «buttarsi sul morbido». Lo stesso era successo nel 411, all’epoca della caduta dei Quattrocento, quando Teramene era riuscito abilmente a dissociarsi per tempo dall’oligarchia che aveva contribuito ad instaurare, e avvenne poi nel 404, quando egli uscì indenne da una gestione fraudolenta e proditoria delle trattative di pace entrando a far parte dei Trenta Tiranni.

Ma c’è un secondo aspetto importante su cui non si è forse riflettuto abbastanza. Senofonte colloca l’accusa a Callisseno e ai suoi collaboratori e la loro successiva fuga durante la stasis in cui morì Cleofonte (Elleniche, I, 7, 35). L’accenno, piuttosto vago, ci riporta ad un contesto particolare sul piano cronologico e politico: quello delle trattative fra Atene e Sparta nei mesi successivi ad Egospotami, condotte fraudolentemente, secondo Senofonte, da Teramene e nel corso delle quali Cleofonte, che nella discussione assembleare sulle prime proposte spartane di pace si era opposto all’abbattimento di dieci stadi di mura, facendo promulgare un decreto di resistenza (Lisia XIII, 8; Senofonte, Elleniche, II, 2, 15), fu eliminato con un complotto giudiziario, ordito in preparazione del colpo di Stato che Teramene, avocando a sé le trattative, stava organizzando in accordo con Sparta. L’uso politico della giustizia a scopo di eliminazione dell’avversario, particolarmente evidente nel contesto della rivoluzione oligarchica del 404, aveva, rispetto all’assassinio politico, il vantaggio di coinvolgere il popolo nella condanna e quindi nella responsabilità relativa all’irrogazione della sanzione capitale: lo stesso processo delle Arginuse costituiva, a questo proposito, un precedente importante. Ora, all’epoca del processo contro Cleofonte Teramene era assente da Atene, inviato su mandato dell’assemblea presso Lisandro, a Samo, per tentare di strappare condizioni migliori (Senofonte, Elleniche, II, 2, 16-17; Lisia XII, 69, e cfr. XIII, 10; Pap. Mich. 5982, l. 1 sgg.); egli, a detta di Senofonte, si trattenne a Samo per tre mesi e ciò potrebbe avergli evitato il coinvolgimento nella vendetta popolare contro gli accusatori degli strateghi, indipendentemente dalla sua innocenza o dalla difficoltà di provare le sue responsabilità.

Ma si può, forse, dire qualcosa di più. Per il caso di Cleofonte le testimonianze principali sono offerte da Lisia, nelle orazioni Contro Agorato (XIII, 5-17) e Contro Nicomaco (XXX, 10-14): l’oratore considera apertamente pretestuosa l’accusa intentata contro Cleofonte (egli parla due volte di «pretesto», prophasis, in contrasto con il «vero» retroscena), con un’interpretazione di segno democratico e indubbiamente unilaterale, ma non necessariamente inattendibile, in quanto la ricostruzione non contraddice il resto della tradizione, si inserisce in modo coerente nella sequenza degli eventi ricostruibile per noi e, soprattutto, è proposta in tribunale, a poca distanza dai fatti, a persone che dovevano ben conoscerli e davanti alle quali sarebbe stato controproducente mentire. Il processo è inquadrato da Lisia nell’ambito delle trattative di pace con Sparta dopo Egospotami, quando i collaboratori di Teramene, in sua assenza, si impegnarono a mettere fuori gioco i potenziali oppositori, che l’assemblea aveva mostrato di considerare autorevoli e di esser disposta a seguire. La contemporaneità fra azione rivoluzionaria interna e gestione fraudolenta della grave situazione internazionale è fortemente sottolineata da Lisia, che le considera parte di un piano unitario. «In quel momento – egli afferma – coloro che aspiravano a un cambiamento di regime in città ordivano le loro trame, convinti di avere a disposizione un’occasione perfetta, allora come non mai, per instaurare il governo che volevano» (XIII, 5-6). I congiurati desideravano sbarazzarsi dei democratici, «per poter più facilmente portare a termine i loro piani»: dunque,

per prima cosa attaccarono Cleofonte in questo modo. Quando si tenne la prima assemblea sulla pace e gli inviati dei Lacedemoni esponevano le condizioni alle quali gli Spartani erano disposti a concluderla, se cioè fossero state abbattute le lunghe mura per dieci stadi da entrambe le parti, allora voi, Ateniesi, non tolleraste di sentir parlare di abbattimento delle mura, e Cleofonte, levatosi a nome di tutti voi, rispose che non era assolutamente possibile accettare quella condizione. Subito dopo si alzò a parlare Teramene, che tramava un piano ai danni della democrazia, e disse che, se lo aveste eletto ambasciatore con pieni poteri riguardo alla pace, avrebbe fatto in modo di non abbattere le mura e di non far subire alla città alcun’altra limitazione umiliante: anzi, pensava di poter ottenere per la città da parte degli Spartani anche qualche altra condizione vantaggiosa. Voi vi lasciaste convincere ed eleggeste ambasciatore con pieni poteri lo stesso uomo che l’anno prima avevate ricusato dopo la sua elezione a stratego, non ritenendolo di sentimenti favorevoli alla democrazia. Egli dunque andò a Sparta e vi rimase per molto tempo [...] nel frattempo, i suoi complici che attendevano qui e che miravano ad abbattere la democrazia trascinarono Cleofonte in tribunale, con l’accusa pretestuosa che non era venuto a dormire al campo, ma in realtà perché si era opposto, a nome vostro, all’abbattimento delle mura. I partigiani dell’oligarchia apprestarono per lui un tribunale e, presentatisi ad accusarlo, lo fecero condannare a morte con quel pretesto (XIII, 7-12).

L’eliminazione per via giudiziaria di Cleofonte faceva parte, secondo Lisia, di un piano ordito da Teramene per preparare, mentre il primo era impegnato nelle trattative con Lisandro, il terreno per il progettato colpo di Stato oligarchico (come a suo tempo Pisandro aveva incaricato le eterie di preparare il terreno in Atene per il colpo di Stato dei Quattrocento: Tucidide VIII, 54, 4).

Ulteriori particolari vengono forniti da Lisia nell’orazione Contro Nicomaco, con un inquadramento più sintetico ma del tutto analogo nel contesto successivo ad Egospotami; Nicomaco aveva avuto infatti un ruolo nel processo di Cleofonte, facendo promulgare una legge che prevedeva la partecipazione al giudizio della boule, accusata ripetutamente da Cleofonte di cospirazione:

Quando ci fu il cambiamento di regime, subito dopo la perdita delle navi, Cleofonte ricopriva di invettive il Consiglio, affermando che esso era parte del complotto e che prendeva decisioni dannose per la città. Ma Satiro di Cefisia, un consigliere, riuscì a convincere il Consiglio ad arrestarlo e a farlo processare in tribunale. Quelli che lo volevano morto, però, temendo di non riuscire a ottenere la sua condanna a morte in tribunale, convinsero Nicomaco a produrre una legge secondo la quale doveva partecipare al giudizio anche il Consiglio. E quest’uomo, il peggior mascalzone del mondo, era così palesemente complice del complotto che produsse la legge proprio nel giorno in cui si tenne il processo! Ora, giudici, a Cleofonte certamente si potranno muovere tante altre accuse, ma almeno su questo tutti sono d’accordo, e cioè che i cospiratori antidemocratici volevano togliersi dai piedi lui più di qualsiasi altro cittadino e che Satiro e Cremone, uno dei Trenta, accusavano Cleofonte non perché giustamente sdegnati per voi, ma solo per poter essere loro a farvi del male, una volta tolto di mezzo lui. E ci riuscirono proprio grazie alla legge prodotta da Nicomaco. Ebbene, giudici, anche quelli di voi che ritenevano Cleofonte un cattivo cittadino devono ragionevolmente tener conto che forse anche tra le vittime dell’oligarchia c’era qualche poco di buono: ma questo non toglie che voi foste pieni di sdegno contro i Trenta anche a causa loro, poiché non li avevano uccisi per punirli delle loro colpe, ma per odio di parte. Se dunque Nicomaco cercasse di difendersi anche in relazione a questo, ricordatevi che ha prodotto quella legge proprio nel momento in cui avveniva il colpo di Stato, e che lo ha fatto per favorire chi ha abbattuto la democrazia, facendo partecipare al processo quel Consiglio, in cui Satiro e Cremone dominavano il campo, mentre Strombichide, Calliade e molti altri ottimi cittadini perdevano la vita (XXX, 10-14).

Il processo di Cleofonte sembra da considerare l’esito di un piano complesso, realizzato attraverso un’ampia mobilitazione di personaggi legati alle eterie antidemocratiche di area terameniana, del tutto simile in questo al processo agli strateghi delle Arginuse così come è ricostruito da Senofonte. In questo caso, pur assente da Atene, Teramene sembra in grado, attraverso la sua eteria, di controllarla, sia attraverso l’infiltrazione istituzionale che Lisia segnala in atto a democrazia ancora vigente (XII, 43-44) e che appare qui messa in evidenza dal controllo che gli antidemocratici sembrano esercitare sulla boule, sia, soprattutto, attraverso il condizionamento del sistema giudiziario ateniese (al processo di Cleofonte seguì quello degli strateghi e dei tassiarchi democratici, Strombichide, Dionisodoro e i loro compagni, che non intendevano accettare la resa incondizionata a Sparta proposta da Teramene, temendo per le sorti della democrazia). Nel caso di Cleofonte, Teramene sembra perfettamente in grado di eliminare un pericoloso oppositore, capace di assumere efficacemente la leadership del popolo (come mostrano la sua volontà di trattare la pace alle migliori condizioni possibili e gli attacchi alla boule collusa con gli antidemocratici) e di toglierlo dall’inerzia cui i cospiratori antidemocratici volevano ridurlo: e ciò senza esporsi in prima persona, ma lasciando ai suoi eteri, mentre egli era assente da Atene per incarichi diplomatici, il compito di preparare il terreno per il colpo di Stato.

Alla luce di queste considerazioni, il fatto che le accuse a Callisseno e ai suoi collaboratori per il ruolo svolto nel processo delle Arginuse cadano proprio in un momento in cui Teramene esercitava su Atene uno stretto controllo, ma si trovava lontano, assume un nuovo significato. È evidente che l’assenza di Teramene dalla città, con un incarico ufficiale che egli aveva ottenuto presentandosi come il solo in grado, grazie ai suoi rapporti con gli Spartani, di salvare la patria in un momento di estrema gravità, lo proteggeva da ogni eventuale coinvolgimento nella vendetta contro Callisseno: egli poteva così sperare che, approfittando del momento particolarmente concitato, si arrivasse a una rapida liquidazione della vicenda che lo lasciasse estraneo, indirizzando esclusivamente contro Callisseno e gli altri demagoghi il risentimento del popolo, privato dei suoi migliori leader. Mi domando quindi, a questo punto, se l’accusa contro i persecutori degli strateghi per aver ingannato il popolo – un’accusa che il popolo doveva accogliere ben volentieri, anche perché lo scagionava dalle sue responsabilità – non sia stata organizzata dalla stessa cricca di antidemocratici che predispose il contemporaneo processo contro Cleofonte.

Bisogna considerare, infatti, che sembra difficile immaginare un episodio di acceso revanchismo democratico in un momento in cui i democratici erano in grave difficoltà perché privi di una valida leadership e in cui Atene era dominata dalle eterie oligarchiche; così come è difficile pensare che gli Ateniesi, sotto assedio, afflitti dalla carestia e preoccupati soprattutto di ottenere dagli Spartani condizioni di pace che non annientassero il prestigio della città e salvaguardassero la democrazia, pensassero, in preda al pentimento, a riparare all’errore giudiziario commesso due anni prima. Occorre quindi domandarsi a vantaggio di chi potesse andare il riportare d’attualità la questione delle Arginuse: e non è difficile rispondere che l’accusa di aver «ingannato il popolo» contro Callisseno e gli altri demagoghi e il successivo processo avrebbero portato alla liquidazione definitiva della vicenda del processo agli strateghi, le cui conseguenze sarebbero state da una parte la soddisfazione del popolo, dall’altra la liberazione di Teramene da ogni accusa di coinvolgimento (che accuse contro di lui circolassero in Atene è dimostrato dalla loro ripresa da parte di Crizia). Ciò rende non improbabile che anche dietro il «pentimento» del popolo e il processo intentato contro i suoi «ingannatori», come dietro i processi agli strateghi delle Arginuse, a Cleofonte, a Strombichide, a Dionisodoro e agli altri strateghi e tassiarchi democratici accusati da Agorato, vi sia la regia di Teramene e della sua eteria: la fuga degli accusati a Decelea, presso gli Spartani, e il ritorno di Callisseno in Atene al seguito dei democratici di Trasibulo, come accadde per altri terameniani, potrebbero a questo punto assumere nuova luce. Se l’ipotesi è corretta, saremmo di fronte ad un altro episodio di uso politico della giustizia da parte di veri e propri «professionisti» della «politica giudiziaria»: la stessa fazione politica che aveva ideato e organizzato il processo agli strateghi delle Arginuse, quella di Teramene, avrebbe progettato la liquidazione di chi quel processo aveva gestito, a tutela di Teramene stesso.

Questa ipotesi non è rigorosamente dimostrabile, e potrebbe persino essere ritenuta fantasiosa da chi non fosse convinto delle gravi responsabilità di Teramene nella crisi della democrazia ateniese fra 411 e 404. Tuttavia, non è privo di significato il fatto che Senofonte, quando parla della fine di Callisseno e dei suoi collaboratori al termine del suo racconto del caso delle Arginuse (Elleniche, I, 7, 35), si mostra alquanto reticente. Alludendo ad una stasis nel corso della quale Cleofonte morì, e che permise ad alcuni fra i responsabili della condanna degli strateghi del 406/5, in attesa di essere giudicati, di fuggire, egli sembra suggerire per il leader democratico una morte violenta, durante un episodio di tipo rivoluzionario, non una condanna capitale conseguente ad un processo: perlomeno, questa è l’impressione che si trarrebbe se la nostra unica fonte in merito fosse Senofonte. Mi domando allora se Senofonte, collocando con apparente reticenza le accuse a Callisseno durante la stasis in cui Cleofonte perse la vita, non intendesse in realtà suggerire un collegamento fra le due vicende giudiziarie e inquadrarle in un medesimo sfondo politico, di carattere rivoluzionario e tale da giustificare l’uso del termine stasis, ma caratterizzato soprattutto dall’abuso della giustizia: si noti, a questo proposito, che stasis è lo stesso termine usato da Lisia a proposito della preparazione del colpo di Stato che portò all’avvento dei Trenta Tiranni, in un passo che contestualizza l’infiltrazione istituzionale realizzata dalle eterie antidemocratiche, con la creazione di una sorta di governo ombra di cinque efori, in modo del tutto analogo al processo di Cleofonte, e cioè dopo Egospotami e le sue conseguenze (XII, 43). La stasis di Lisia XII, 43 e la metastasis di Lisia XXX, 10 non sembrano affatto diverse dalla stasis in cui va inquadrata, secondo Senofonte, la morte di Cleofonte: non una rivoluzione violenta, come Senofonte, preso isolatamente, potrebbe far pensare, ma un colpo di Stato abilmente preparato e condotto attraverso la manipolazione delle istituzioni politiche e l’uso politico della giustizia. Di questa «rivoluzione strisciante» antidemocratica, il presunto «pentimento» popolare che portò a mettere sotto processo Callisseno e i suoi collaboratori come ingannatori del popolo potrebbe essere uno degli episodi, accanto ai processi contro Cleofonte e contro Strombichide, Dionisodoro e i loro compagni: questi miranti ad eliminare potenziali oppositori dei progetti sovversivi di Teramene, come si vedrà, quello a tutelare quest’ultimo dalle eventuali conseguenze dell’ambiguo ruolo svolto nel processo delle Arginuse.

14 La traduzione è di D. Del Corno (Aristofane, Rane, Milano 1985).

15 Diodoro (XIII, 101, 4) cita Calliade al posto di Erasinide.

16 D. Ambaglio, Diodoro Siculo, Biblioteca, Libro XIII. Commento storico, Milano 2008, pp. 177-178.

17 Ivi, p. 176.