Passo ogni giorno davanti a una camionetta dell’esercito dove, da mesi, due militari piantonano piazzale Loreto, mitragliatore in mano. Sono lì per la mia sicurezza, per quella dell’intero quartiere, dopo l’ennesimo fatto criminale che ha mandato in fibrillazione i quotidiani nazionali, in una eccitazione mediatica fuori controllo, pornografica, che ha trasformato via Padova, la strada dove abito, in una specie di inferno in terra. Nulla di più lontano dalla realtà, ma questa è un’altra storia. Passo davanti, dicevo, e mi accorgo ogni volta di tenere lo sguardo basso, di incassarmi nelle spalle, quasi volessi scomparire dal loro campo visivo. Non mi sento sicuro, insomma. E non c’è ragione, ovviamente. Passo e mi tornano in mente le parole di Leonardo Sciascia quando diceva che gli italiani, di fronte alle istituzioni, si sentono sempre in colpa. È vero, non è militarizzando le strade che si ha una città più sicura, come dissi al mio sindaco quando chiese al governo la presenza dell’esercito. Ci vuole cultura del territorio. Nel territorio. Resta il fatto che quei ragazzi non mi hanno fatto niente e che io non ho alcun motivo per sospettare di loro.
Poi, ogni giorno, attraverso il marciapiedi e le spalle si rilassano. Sorrido, spesso. Non perché mi sono lasciato dietro i militari, ma perché vedo un bar, uno di quelli anonimi, scialbi, non ancora glamourizzati dalla neocultura fashion food che sta imperversando in città. Sorrido perché ripenso, ogni volta che passo, a quando gli amici dell’Orablù vennero a trovarmi, in quel tardo agosto del 2016, per un caffè e un consiglio. L’Orablù è un’associazione culturale che da anni, ricchi del solo loro folle entusiasmo, hanno portato scrittori, musicisti, attori in quel di Bollate, un comune della cintura metropolitana. Un pezzo di Milano con un altro nome. La loro ospitalità è calorosa, il loro entusiasmo travolgente.
“Abbiamo avuto un’idea,” mi dissero al telefono, “vogliamo parlartene.” La mattina appresso me la stavano esponendo in quel bar sgarrupato, frequentato da extracomunitari e perdigiorno.
Il 19 luglio del 2017, mi spiegarono, sono venticinque anni dalla morte di Paolo Borsellino. Vogliamo fare qualcosa per rendere onore a lui e a Falcone, vogliamo che non si perda la memoria di un fatto così importante, di una tragedia così determinante per tutti noi. Li ascoltavo e pensavo: ecco. Ecco cos’è la cultura che nasce dal basso, ecco cos’è la società civile. Ecco cos’è la cultura del (nel) territorio.
Vogliamo commemorarlo, mi spiegarono, attraversando l’Italia da Nord a Sud, in bicicletta. Da Milano a Palermo. Vogliamo partire il 25 giugno – giorno dell’ultimo discorso pubblico di Borsellino, come poi abbiamo scoperto: le date non sono mai casuali – per giungere, dopo una estenuante ciclostaffetta, a Palermo, in via D’Amelio, il 19 luglio.
Ci porteremo dietro un’agenda rossa, la riempiremo lungo la strada di testimonianze, esortazioni, ricordi, imprecazioni. Tappa dopo tappa, paese dopo paese. E per ogni tappa, se qualcuno vorrà aiutarci (perché lo sai, soldi non ne abbiamo), vorremmo organizzare incontri, dibattiti, concerti, letture. Vorremmo consegnare nelle mani del fratello Salvatore quell’agenda rossa scomparsa durante i concitati momenti successivi alla strage. Scomparsa non per mano della mafia; ed è questa la cosa che, se è possibile, più ci addolora. (Li guardavo e pensavo: ecco l’ennesima prova di quel sospetto nei confronti delle istituzioni che mi fa camminare a testa bassa quando passo davanti ai militari in piazza.) Vorremmo idealmente risarcire la famiglia Borsellino di quel documento prezioso che l’antistato gli ha sottratto.
“Voi siete completamente pazzi,” dissi loro, bevendo una birra ghiacciata. “È un’idea assurda, complicatissima, irrealizzabile. Ci vuole un sacco di gente per organizzare una cosa del genere. Ci vuole una radio che vi segua, se non addirittura un canale televisivo, qualcuno che documenti tutto sui social, ci vogliono persone e associazioni sui territori da coinvolgere. E non avete un euro, una struttura, uno sponsor, un appoggio politico, un santo in paradiso. Niente di niente.”
Questa mia piazzata li lasciò di stucco. “Quindi dobbiamo lasciar perdere?” mi chiesero, mesti.
“È un’idea folle,” ripresi, dopo un altro sorso di birra. Poi sorrisi: “Quindi ci sto!”.
Quella che è venuta dopo è una storia bella e pulita. È l’entusiasmo di Salvatore Borsellino che ci ha regalato la copia originale dell’agenda rossa dei carabinieri del 1992, è il coinvolgimento delle associazioni delle Agende Rosse, della Fiab, di Radio Popolare, di Coop Lombardia, di Libera Terra, dei ragazzi di “Una poltrona per tre” che si sono offerti di fare da ufficio stampa a titolo gratuito, sono le decine di realtà territoriali, di persone, famose o perfettamente sconosciute, che hanno abbracciato il progetto senza chiedere nulla in cambio.
Una cosa però dobbiamo fare, dissi loro quella mattina. Quando tutta questa follia sarà finita, cosa resterà? Ci vuole un lascito. Dobbiamo coinvolgere un gruppo di scrittori, ripetere con le parole quello che voi farete con la ciclostaffetta. Un passaggio di testimone, dalla Lombardia fino alla Sicilia, per raccontare non tanto dov’eravamo alla morte dei due magistrati, ma dove forse siamo stati in questi anni, tutti noi: chi silente, chi indifferente, chi deluso, chi vigliacco, chi sempre e comunque, ostinatamente contrario, in prima fila. Dobbiamo scrivere un libro che testimoni tutto questo. Lo voglio curare assieme a Marco Balzano. Perché ho un’idea della cultura che è condivisione, inclusione, e non coltivazione esclusiva del proprio miserabile orticello. Perché Marco è bravo, lo conoscete bene, ha come me nelle vene un sangue meridionale, umile e irrequieto, e perché se è da Bollate che nasce un’idea così semplice e così perfetta, ci vuole uno scrittore di Bollate a seguirla!
L’altra mattina, mia figlia mi ha chiesto come mai i soldati che piantonano la piazza fossero tutti d’origine meridionale. I ragazzi fanno sempre le domande giuste. Io dovrei saperlo, dopo tutto, come ho fatto a non rendermene conto? Preso dai miei timori atavici, ideologici, m’incupivo di fronte alle uniformi, dimenticandomi dei ragazzi che le indossavano.
Ci sono posti d’Italia, le ho detto, dove non sempre puoi decidere della tua vita. Dove per vivere, spesso per sopravvivere, sei obbligato a scegliere. Come è capitato ad alcuni miei cugini, o amici, chi arruolato, chi spacciatore. Fra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 non sono morti soltanto due uomini straordinari, due eroici magistrati, due persone che volevano raddrizzare la schiena e l’orgoglio di una nazione compromessa. Nell’attentato di Capaci sono morti oltre a Francesca Morvillo – la moglie di Falcone, magistrato anche lei – i tre agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. E nella mattanza di via D’Amelio hanno perso la vita Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Sardi, pugliesi, siciliani, uno persino immigrato dall’Australia.
Forse alcuni di loro credevano nell’idea di servire la Patria. O avevano ammirazione per il magistrato che dovevano proteggere. Altri, più semplicemente, volevano fare un lavoro onesto, pagare l’affitto, sposarsi, programmare una vacanza al mare con gli amici. Qualunque siano state le loro ragioni sono morti per difenderle. Sono morti per difendere la dignità di tutti noi. Per difenderci.
Questa ciclostaffetta, questo gesto semplice e naïf, puerile e romantico, è un cammino sulla spina dorsale di una nazione troppo spesso indifferente. Per ricordarci che la nostra, di schiena, deve restare dritta se vogliamo guardare negli occhi, col giusto disprezzo, chi ci vuole in ginocchio. Il futuro è fatto di memoria.
Resto ovviamente dell’idea che sia la cultura e non l’esercito a rendere sicure le città. Ma da qualche tempo, quando passo in piazzale Loreto, ascolto i militari chiacchierare fra loro, cercando di riconoscerne l’origine dalla cadenza. (Quasi sempre è quella di mio padre.) Sono ragazzi. Lì per la Patria o per uno stipendio. Sono lì per me. Li ascolto e sorrido.