Andrea dell’agenzia non ha ancora richiamato, la wedding planner mi ha risposto e un’associazione culturale di Busto Arsizio mi ha invitata come relatrice a un convegno sulla fotografia di ritratto.
Non devo certo controllare la mia agenda per sapere se sarò libera fra tre settimane e, anche se per questi interventi non sono previsti compensi, può farmi bene muovermi, partecipare a qualcosa, ricordarmi cosa faccio, o cosa dovrei fare.
Controllo su internet: da Genova a Busto Arsizio sono tre ore e tre treni con coincidenze impossibili, oppure due ore e la macchina con la Serravalle obbligata, molte curve e nessuna luce. Il convegno è di sera, finirà tardi, devo per forza dormire lì.
Li ringrazio, mi dichiaro lusingata e a disposizione, chiedo conferma sul rimborso delle spese di viaggio e albergo.
Apro la mail della wedding planner e vengo inondata di punti esclamativi, risentirmi l’ha riempita di gioia, e guarda tu la coincidenza, proprio ieri un importante atelier di abiti da sposa le ha chiesto il nome di un fotografo specializzato in ritratti per la fiera degli sposi, questo fine settimana, è una cosa da fare tout de suite, gli ha dato i miei recapiti, mi lascia i loro, sentitevi, sentiamoci!
Li chiamo, mi passano la Signora. Si sente la maiuscola quando lo dicono. Viene al telefono una voce roca, da fumatrice, abituata alla pazienza energica, quella che a un certo punto finisce e diventa decisionista, pur mantenendo grazia e bon ton. Immagino che si raggiunga quel perfetto equilibrio dopo anni a lavorare con le spose, e soprattutto con le madri delle spose.
Mi ringrazia di averla chiamata, l’ho anticipata di poco, dice, hanno un grosso stand a ExpoSposi, avevano già l’accordo con un fotografo ritrattista ma lui ha pensato che fare una gita in montagna fosse una buona idea e cadere da un dirupo è stato un attimo, mi spiega tra l’ironico e l’irritato, così si è rotto un braccio e loro si ritrovano con un angolo per i ritratti da offrire ai futuri sposi potenziali clienti ma senza nessuno che scatti le foto.
Belle foto, s’intende, non foto ricordo, che non è Gardaland, vuole qualcosa di elegante, ricercato ma senza esagerare, qualcosa che possano incorniciare, un pensiero raffinato da portarsi a casa insieme al loro biglietto da visita.
“Le interessa?” mi chiede.
Mi interessa, rispondo. Due giorni di lavoro da gonfiarsi le gambe di acido lattico sono l’ideale, in questo momento. Testa vuota, stanchezza fisica, qualche soldo. Ci diamo appuntamento per il pomeriggio, direttamente in fiera. ExpoSposi. Un mulinello di desideri accartocciati.
C’è una cosa che non ho mai detto a nessuno. Io, ogni volta che passavo davanti a un negozio di abiti da sposa, li guardavo e provavo a immaginarmeli addosso. Non sono mai riuscita a spiegarmi perché, ho sempre detestato quei travestimenti da dama, quelle anacronistiche gonne lunghe e ampie, quelle stoffe così borghesi, quei modelli così conservatori che trasformano una donna del terzo millennio in una principessa Disney, eppure qualcosa di maledettamente atavico in me si agitava ogni volta che vedeva uno di quei manichini addobbati. Quando mi sono sposata avevo venticinque anni e un’amica costumista che non vedeva l’ora, per una volta, di vedermi con addosso qualcosa che non fosse nero. “Coco Chanel,” aveva detto mentre mi prendeva le misure e mi proibiva di dire la mia. E una settimana prima della cerimonia era spuntata con un tubino color sabbia che Audrey Hepburn avrebbe invidiato.
Lo avevo immaginato nei particolari, il matrimonio con Federico. Lo desiderava lui, mentre io facevo la disincantata, ma nella mia testa avevo già stilato la lista degli invitati, sapevo chi sarebbero state le mie testimoni, che avremmo avuto i confetti al cioccolato e musica dal vivo per ballare fino all’alba.
Gli altri mi hanno sempre pensata come un’anticonformista perché non ho mai avuto occasione di non esserlo.
Avevo anche deciso il colore del vestito. Lui andava pazzo per un abitino rosso da pochi euro che avevo preso al mercato, lo usavo come copricostume (d’estate mi concedo qualche colore). Vedermelo addosso e togliermelo era un tutt’uno. Avrei cercato un abito rosso, elegante, indimenticabile e che gli accendesse gli occhi.
E adesso eccomi qui, a ExpoSposi, appena lasciata. Riderei, se non avessi una lama che mi trapassa lo stomaco.
Potrei fare qualche scatto per distrarmi, la gente sulle scale a imbullonare tubi o inginocchiata per terra a fissare moquette, chi corre, chi parla al telefono, chi porta bottiglie d’acqua, facce stanche, qualcuna ancora bruciata dal sole, altre stufe, molte concentrate, chi truccato, chi con le rughe, chi assorto. Visi, espressioni, vite di un pomeriggio infrasettimanale in orario di lavoro. Vedo ogni cosa, ma la mia macchina resta ferma, con l’obiettivo coperto. È come se avessi già raccontato tutto quello che potevo, come se da adesso in poi fosse solo un’eterna ripetizione. Non mi interessa niente, non ho nulla di nuovo da dire.
Forse ho poco da raccontare perché ho smesso di vivere in un mondo che si muove, che si alza al mattino e insulta la sveglia, che si veste ed esce col sole appena spuntato, che fa colazione al bar, tra il tintinnio dei cucchiaini e accrocchi di parole a riempire l’aria, che condivide un posto di lavoro con altra gente, che magari suo malgrado ne deve far parte, che fa una pausa pranzo cercando il silenzio o guardando le vetrine, che esce nel tardo pomeriggio e torna a una vita privata, un aperitivo, una cena, casa, un sorriso che ritrova, un profumo che riconosce dopo una giornata fuori. Qualcosa da raccontare, qualcosa da ascoltare.
Seguo una passatoia di moquette verde erba, supero una fila di stand in allestimento, controllo la numerazione e trovo il 50, davanti al palco delle sfilate.
La Signora è come me la immaginavo, minuta e tosta, sguardo deciso, imperiosa. Ai suoi ordini, quattro ragazze appendono pannelli, spostano manichini, allineano opuscoli.
Mi presento, mi stringe la mano, affetta un sorriso ma lo sguardo torna subito al suo alacre team.
“Mettilo sotto la luce, Chantal. Quelle stampe sono storte. Queste sarebbero le uniche sedie che abbiamo? Andate a procurarvene altre.”
“È la mia postazione?” chiedo indicando un angolo lasciato libero e idealmente separato dal resto dello stand da una tenda di tulle guarnita di margherite di stoffa.
La Signora annuisce. “Sì, è quella. L’altro fotografo se lo sarebbe allestito da solo, ma se ha bisogno di qualcosa, viste le tempistiche, cercheremo di aiutarla.”
Nessun problema per l’attrezzatura fotografica, ho la mia, posso trasformare qualunque angolo in uno studio di posa.
“Avete un’idea di massima sui numeri? Quante coppie potrebbero passare per le fotografie?” le chiedo.
Lei, che nel frattempo ha deciso di sistemare da sola i manichini sotto le luci giuste, risponde senza guardarmi.
“Consideri una cinquantina, circa, forse di più. Al giorno. Le foto gratis attirano quanto un buffet.”
Saranno due giorni intensi.
“La stampante digitale e la carta fotografica le avete già qui? Vorrei fare un paio di prove prima dell’apertura.”
Si ferma, ho attirato la sua attenzione.
“Quelle sono cose che deve avere lei.”
Speravo se le fossero già procurate per l’altro fotografo, ma se non ci sono userò le mie, la rassicuro. Quello di cui non abbiamo ancora parlato, invece, è il compenso.
Mi avvicino. Preferirei parlarle in disparte, ma è evidente che da questo esercito di manichini non la schiodo finché non li ha sistemati tutti.
“Come si era accordata con il mio collega? Lo avrebbe pagato a foto, a ore o a forfait?”
L’ho sorpresa. Ho sorpreso anche le ragazze, che mi hanno sentita. Si fermano tutte, poi le piccole api operaie riprendono a ronzare mentre lei mi ficca lo sguardo negli occhi e alza il mento con evidente biasimo.
“Forse non ci siamo capite. È lei che paga me.”
Io che pago cosa? Tento un sorriso che, lo sento, mi viene malissimo.
“Mi scusi, è lei che mi sta chiedendo di fotografare i vostri clienti per due giorni. Perché dovrei pagarla io?”
Lo sconcerto, ormai reciproco, si sta trasformando in un cumulonembo.
Ride stridula, la risata forzata dell’indignato.
“Sa quanto ci costa questo stand? Sa quanta gente attira questa fiera? Sa quante spose attira il mio nome? Ha anche solo una vaga idea di quanta pubblicità lei si può fare per due giorni? Sta lì, in uno degli spazi migliori della fiera, scatta le sue foto, lascia il suo biglietto da visita e magari quelle coppie la chiameranno per il loro matrimonio. E per lasciarglielo fare io non le chiedo alcun compenso, non voglio certo lucrare sul suo lavoro, le chiedo solo una parte dell’affitto dello stand. Hanno ragione i miei colleghi quando dicono che sono troppo generosa, troppo disponibile, troppo buona a chiedere solo quella cifra. Ma io sono fatta così, non approfitto del lavoro degli altri... Però non ho neanche scritto in fronte ‘sale e tabacchi’.”
Mai capita quest’espressione. Si vede che un tempo i tabaccai erano i più facili da abbindolare, chissà se si usa solo a Genova. Comunque, io un tabaccaio sprovveduto devo ancora trovarlo.
Distrarmi mi aiuta a compensare il disagio.
“Per curiosità, quanto dovrei pagarla per lavorare qui?”
Mille euro, mi dice. Ed è solo un terzo di quello che paga lei, sottolinea.
Più di quanto speravo mi desse, e sarei stata pure disposta ad andarle incontro. Invece dovrei darglieli io, dei soldi.
Non investo una cifra del genere su qualcosa che non mi interessa, non è una garanzia di lavoro futuro, andrebbe già bene se fra sei mesi mi portasse un cliente per guadagnare più o meno quello che dovrei spendere adesso, lavorando il doppio. E non mi piace lavorare con gente così.
Guardo lo stand, le ragazze stanno sistemando due tavolini. “Avrà un catering per l’inaugurazione?”
La Signora alza le spalle e allarga leggermente le braccia. “Certo che avrò un catering. Solo spumante, niente cibo, che se la gente tocca i vestiti con le mani unte me li rovina.”
Annuisco. “Offrirà spumante tutto il giorno?”
Sì, mi conferma col fastidio di chi sta perdendo tempo.
“E lo paga?”
“Ovvio che lo pago! Mica me lo regalano!”
Il sospetto mi era venuto.
Le sorrido. “Quello che non capisco è perché non fa pagare una quota per lo spazio anche a chi le fa il catering.”
Adesso è decisamente irritata. “Ma cosa sta dicendo? Ci sono due camerieri fissi e c’è lo spumante! È roba che costa e che io voglio offrire ai visitatori, mica vado a rubare casse di vino nelle enoteche.”
“Anche il mio lavoro costa, e anch’io sono qualcosa che lei vuole offrire ai visitatori. Sono il suo buffet, e i buffet si pagano.”
Le auguro buona giornata e me ne vado.
Nemmeno io ho scritto in fronte “sale e tabacchi”.