La mattina dopo, trovo Irene sul divano che legge. È sempre così. Si alza presto, va a correre, poi si mette lì e legge, con Sugo acciambellato sulle gambe, e insieme aspettano che io mi svegli. Mi piace uscire dalla camera e sapere che la troverò lì.
“Buongiorno!”
“Buongiorno!”
Metto su il caffè, scaldo un po’ di latte e apparecchio per la colazione. Non sapendo del suo arrivo, in casa ho poco da offrirle ma sul tavolo vedo un sacchetto con della focaccia.
Irene è una dei pochissimi non genovesi che ho convinto a pucciare la focaccia nel caffellatte.
E ci mettiamo a pucciare.
“Allora, cos’è ’sta storia che non riesci più a fare foto?”
Ne abbiamo parlato via mail e su Skype, ma è la prima volta che lo facciamo guardandoci negli occhi, dal vivo.
“Non sono più capace. Ci ho provato, vengono una schifezza, ho perso l’ispirazione.”
Capisce. Le succede alla fine di ogni romanzo che scrive: si convince che quella era l’ultima storia che aveva da raccontare e ne resta convinta per mesi. Finché non ne arriva un’altra.
Conosco quelle crisi, me ne ha parlato e le sento mie, ne ho vissute di simili. Ma ora è diverso.
“Non è la stessa cosa. Non è solo un problema di idee, è come se fossi stata amputata. Sono come una cantante diventata muta.”
Posa la tazza e mi fissa. “Non è che sei convinta di non poter più essere una fotografa senza Federico?”
Gli occhi mi annegano in faccia. Forse sì, forse è così, era il mio punto di riferimento, con lui mi sentivo sicura del mio sguardo sul mondo, senza di lui ho perso il senso dell’orientamento.
“È possibile,” ammetto. “Ma sono stati gli ultimi due progetti saltati a farmi sentire una fallita.”
Non devo aggiungere altro, Irene ci è passata, quando le hanno rifiutato un romanzo non ha scritto un rigo per un anno. L’hanno salvata gli allievi dei suoi laboratori di scrittura, le hanno dato una fiducia che ha nutrito la sua autostima ammaccata e lavorare con loro le ha fatto tornare la voglia di raccontare storie, di divertirsi e di rimettersi in gioco.
Mi fa notare che ero una fotografa già prima di conoscere Federico. “Avevi vinto un concorso importante, fatto la prima pubblicità nazionale, ottenuto il contratto per la seconda... Non hai mai avuto bisogno di lui per quello.”
D’accordo, ma con lui sono cresciuta e ora, da sola, non riesco più a ritrovare ciò che ero prima.
“Genova è sempre bella,” dice, guardando lo spicchio di orizzonte che si vede dalla finestra.
Genova è sempre bella, è vero. Mangio l’ultimo pezzo di focaccia e finisco di bere il caffellatte.
“Quanti progetti di successo e di cui vai fiera hai realizzato, negli ultimi tre anni?” mi chiede Irene. “I ballerini sugli spilli non contano, erano già in cantiere. Voi stavate insieme da pochi mesi, lui faceva il tifo dagli spalti e tutti lo amavamo per questo.”
Quanto ero felice. “Nessuno. Ma non è colpa di Federico.”
“Non dico che sia una colpa, ma secondo me a un certo punto lui ha cominciato a entrare con prepotenza nel tuo lavoro.”
“Forse, ma glielo chiedevo io,” insisto, testarda.
“Voglio dire che tu non hai bisogno di lui per essere quello che sei, non devi corrispondere a ciò che lui sogna di essere, ma a ciò che tu sei già. Tutta questa tecnica che hai studiato, questa teoria di cui hai avvertito il bisogno, come per sentirti autorizzata a definirti fotografa, ecco, secondo me ti ha inibita.”
Irene è convinta che io non abbia perso niente, che debba solo rimettere insieme i pezzi, con calma, e soprattutto risolvere la questione del lavoro. “Non per coprire il dolore, Vittoria, quello non si copre. Passa un po’ alla volta, con i suoi tempi, ma devi dargli il giusto spazio e smettere di alimentarlo, in modo che non cannibalizzi tutto il resto.”
Tutto il resto, già. Non un granché, al momento.
“Comunque, ora sono una cartomante,” le ricordo con un entusiasmo convincente come un’anguria a dicembre.
Tra l’altro, mi hanno contattato due amiche della mia prima cliente, vengono domani.
“Fotomante,” rilancia lei. Scema.
C’è ancora tempo prima che riparta e, anche se a volte quando parlo di Federico ormai mi capita di annoiarmi da sola – oltre che di approfittare della pazienza e dell’affetto dei miei amici –, non resisto.
“Non riesco a credere che sia finita così,” mormoro, “è tutto assurdo. Se non mi riguardasse, non avrei dubbi: c’è un’altra. È statistica: quando un uomo ostenta crolli psico-emotivi è perché si è infilato nelle mutande di un’altra o sta per farlo.”
Irene lancia il topo a Sugo e aspetta che lui glielo riporti. “Può darsi che un’altra ci sia stata,” risponde, “lo sospettano in molti, qualcuno ne è convinto. Ma se c’è stata, Vittoria, ha avuto un ruolo minore, e se c’è non sembra renderlo molto felice, né più equilibrato. Di certo, la tiene ben nascosta.”
Se mi ha fatto passare cinque mesi d’inferno per qualche lusinghiera smanceria, merita che la malora lo stringa tra le braccia fino alla fine dei suoi giorni, con buona pace di chi mi dice di mandargli tanta luce. La massima luce che gli augurerei è una cometa in testa.
“Ma non è detto che ci siano state ragioni concrete,” mi fa notare con tatto Irene.
A lei sembra che, per quanto doloroso da accettare, dietro i dubbi, le crisi e i drammi di Federico ci sia un sostanziale disinteresse per gli altri – per chiunque, anche per me, che diceva di amare. È immaturo, completamente concentrato su se stesso, viziato e incapace di costruire, di amare davvero, un bambino che pretende ammirazione e sostegno incondizionati, pronto a buttare tutto per aria quando il giocattolo nuovo ha perso il fascino della novità.
Gli occhi dei miei amici mi stanno restituendo qualcuno che non mi renderebbe felice né serena, ma purtroppo non mi basta.
“Se la sua fosse stata una vera crisi esistenziale,” continua Irene, “avrebbe perso le coordinate di tutto, anche del lavoro, della sua famiglia, del suo posto nel mondo.”
Invece ha distrutto solo me e noi. Il resto ha saputo mantenerlo, gestirlo, controllarlo.
“Non ha mai condiviso volentieri il centro dell’universo, Vittoria. Non dev’essere stato facile avere te vicino, che magari non hai il suo dottorato e non hai letto tanta saggistica quanto lui ma agisci, crei e pensi con estensione, tridimensione e consapevolezza.”
Sposto lo sguardo verso la finestra, fisso due foglie tenaci ancora attaccate a un ramo. “Chi sta zitto sembra più intelligente, è un gran trucco.”
Irene alza gli occhi al cielo, poi sorride.
“Quello che comunichi lo elabori bene, prima, per quello è solido e pronto ad affrontare le intemperie. E sei sempre disposta a imparare. Lui sembra riprodurre ogni volta lo stesso meccanismo, mentre tu impari, evolvi, cresci. Sei sempre stata così.”
Ora questa cosa me la scrivo sull’agenda per poterla rileggere, anzi, la metto nel curriculum tra le competenze personali.
Tant’è, continuo a difenderlo. “Non ha mai provato a farmi sentire intellettualmente inferiore.”
“D’accordo, non dico che abbia provato a schiacciarti, però tu le cose le fai. Piano, con cadute e rimonte, ma vai avanti inesorabile, con le persone che fanno il tifo per te e senza che tu debba passare le giornate a pubblicizzare le tue attività o le tue afflizioni. Lui no.”
Ci metterò un po’ a metabolizzare questa visione di me.
“Grazie.”
Ride. “Figurati, non lo faccio per te. Io voglio altre foto.”
Mi sembra giusto. Le prometto di fargliene presto.
“Ti ha mandato gli auguri?”
“Sì. Tra le righe mi ha detto che gli manco e mi ha chiesto scusa.”
Le scappa una smorfia.
“Ci accontentiamo di un paio di scuse scritte su Whatsapp?”
Alzo le spalle. “Non ho altro.” Non è stato molto generoso con me, in effetti. Una lacrima scappa, maledetta. “Non riesco a credere che non mi ami più.”
Irene fa una carezza a Sugo, poi mi fissa e raccoglie in un gesto lo spazio attorno a noi. “Lo vedi qui accanto a te, Vittoria? Ieri sera era accanto a te per festeggiarti?”
“No, ovviamente no.”
“No, esatto. Chi ti ama c’è.”