Quanto è stupido l’orgoglio

Il Natale, le feste, la fine dell’anno incombono con la loro parcella emotiva e le tariffe salgono in proporzione alla solitudine e al senso di perdita.

Le richieste di consulto hanno avuto un picco, a fine giornata ho il lavandino pieno di tazze e tazzine, la memoria della macchina fotografica satura e svariati pacchetti di fazzoletti di carta in meno. I tarocchi sono surriscaldati.

Oggi è tornata Francesca, la prima, quella da cui questa storia è iniziata. Non lascerà il fidanzato, e forse neanche il negozio di alimentari, ma si è messa a dieta, ha cominciato a usare il fondotinta e ha avviato una frizzante relazione platonica su Whatsapp, fatta di impliciti, omissioni e battutine, con il re di coppe che era spuntato durante la nostra prima lettura. Più che nei tarocchi, sto cominciando a credere nelle profezie autoavveranti e nei rinforzi positivi, i miei clienti mi danno una certa soddisfazione.

Mi sono permessa di dirle che entro l’inizio dell’anno nuovo vedo una serata di passione con questo tizio, le ho consigliato di accettare un eventuale invito a cena o al cinema, o chi lo sa cosa si inventerà quel disperato pur di farla uscire dalla chat.

È arrossita, ha agitato le mani e ha esclamato un “figuriamoci! Io non tradisco il mio fidanzato!”, ma ho la sensazione che succederà. O almeno lo spero. Conto sul re di coppe. È un tradimento che farà del bene a tutti.

In attesa del prossimo cliente, lavo un po’ di tazze e metto altra acqua a bollire. Ho praticamente aperto una tisaneria, con rari caffè, forse dovrei procurarmi anche del tè, dei biscottini, uno sherry per le veterane, Coca-Cola o Red Bull per i più giovani.

Alle sei, puntuale, suona Angelo, il signor Angelo, vicino di casa della Margherita che nel frattempo ha parlato con la nuora e ha già visto i nipotini un paio di volte. A proposito: a Natale sarà a pranzo da loro, era così felice che mi ha telefonato per dirmelo. È una delle poche clienti a cui ho dato il mio numero di telefono, non posso pretendere che usi Messenger, ha un pollaio vero di cui occuparsi, con galline vere – alquanto produttive, tra l’altro.

Angelo è sulla settantina. Capelli già bianchi su un uomo in forma, che cura l’abbinamento maglia, pantaloni e scarpe, nessuna fede al dito, le mani asciutte e nodose di chi le ha usate molto per lavori di fatica. Occhi grigi, sorridenti.

“Le chiedo scusa, io non credo un granché in queste cose, ma la Margherita ha insistito tanto che alla fine ho dovuto cedere per farla contenta.”

Ricambio il sorriso e la stretta di mano. “E perché sennò non le dava più le uova, immagino.”

Ride, ammette che è così, si toglie il cappotto e aspetta in piedi, davanti al tavolo, che io mi sieda per prima. Uomo d’altri tempi.

La tisana non la vuole ma promette di portarmi del ratafià, che lui è del Biellese e quando va dalle sue parti ne fa scorta.

Accetto volentieri, l’ho assaggiato una sola volta e ne ho un ottimo ricordo. E poi sarebbe perfetto per le mie vecchie ragazze in pensiero per i nipoti. Con un cicchetto a metà pomeriggio si ringalluzziscono, i tarocchi diventano loquaci e le foto si colorano.

Comincio a mischiare.

“Allora, Angelo, cosa la preoccupa?”

Il sorriso gli esce triste, gli occhi grigi si abbassano e si posano da qualche parte oltre me, oltre la finestra, oltre il presente.

“Mia figlia non mi parla da dieci anni.”

“Perché?”

Apre le mani e poi le lascia ricadere in grembo.

“Non mi piaceva l’uomo che stava sposando.”

I fidanzati durati più a lungo sono quelli che mio padre disapprovava. Probabilmente li avrei lasciati prima, senza quella sfida personale.

“Ma l’ha sposato lo stesso, immagino.”

Angelo annuisce. “Sì, e ora si stanno separando.”

Dieci anni sono un tempo abbastanza lungo da mandare in prescrizione i “te l’avevo detto”.

“Cosa vuole sapere dalle carte?”

Mi guarda. “Se c’è una possibilità di riprendere i rapporti.”

Finisco di mischiare e lo invito a tagliare il mazzo.

“L’ha cercata, in questi anni?”

No, non l’ha mai cercata, ha rispettato la sua scelta, mi dice. È separato, l’unica da cui ha qualche notizia della figlia è sua sorella, che con la nipote ha un buon rapporto. Ha due nipotini che non ha mai visto, una femmina e un maschio, sa che uno dei due è stato operato di tonsille, sa che sua figlia si è rotta una gamba ed è rimasta a letto oltre un mese, una brutta frattura, sa che vivono nella casa che lei ha ereditato dalla nonna materna, sulle alture di Pegli, una bella casa, grande, in mezzo al verde, sa che il lavoro le va bene, è una dirigente regionale molto apprezzata, ha fatto carriera con ogni giunta politica. E sa anche che non chiede mai di lui.

“È davvero arrabbiata,” dico mettendo giù le carte. “Sicuro che sia solo perché non ha approvato il marito?”

“Be’, non sono andato al matrimonio, ovviamente. E mi sono rifiutato di pagare il ricevimento per duecento invitati. Lo volevano loro, se lo pagassero loro. Le ho anche chiesto di ridarmi le chiavi di casa mia, non volevo che finissero in mano a un estraneo, e ho tolto il suo nome dalla mia assicurazione sulla vita e dal mio conto corrente. Quello lì, secondo me, ci aveva messo gli occhi sopra.”

Una disapprovazione piuttosto bellicosa.

“E il marito si è in effetti rivelato un opportunista?”

Angelo fa un sospiro e alza le spalle. “Non tanto. A quanto ne so, si è dato da fare come ha potuto, ha cambiato diversi lavori, non gliene andava mai bene nessuno. Un po’ si è adagiato sulla casa e lo stipendio di Roberta, ma non è un farabutto... Un inconcludente, un uomo da poco, ma non un farabutto.”

Resta il fatto che non sarebbe comunque mai stato all’altezza di sua figlia, questo mi pare chiaro.

Cerco tra le carte qualcosa che possa avere senso dirgli e racconto della nostalgia che sua figlia ha di lui, del desiderio che ha di rivederlo, del primo passo che lui dovrebbe fare, cercandola, chiedendole scusa, riconoscendo di avere esagerato e di averlo fatto solo per proteggerla, ma di avere sbagliato.

“Io non ho sbagliato!” mi interrompe lui.

Lo guardo. “Sicuro?”

Abbassa gli occhi. “Ho un po’ esagerato, ma quell’uomo non vale un’unghia di Roberta.”

“Su questo ha ragione, lo dicono anche le carte. Ma lei ha rifiutato sua figlia, non quell’uomo.”

Tira su la testa di botto, raddrizza la schiena, batte le mani sul tavolo. “Io non ho mai rifiutato mia figlia!”

Si alza e cammina fino al divano, poi torna indietro.

“Ho rifiutato mia figlia?”

Possibile che in dieci anni nessuno glielo abbia fatto notare? Nemmeno sua sorella? Qualcuno lo avrà pur fatto, ma non è detto che lui lo abbia ascoltato.

“Sì.”

Mi guarda, mi soppesa.

“Lei ha più o meno la sua età. Ha mai vissuto con un uomo che non piaceva a suo padre?”

Gli unici due uomini con cui ho vissuto, a mio padre piacevano, in effetti. Visto com’è andata non è stata una garanzia di successo, ma l’ho avuto al mio fianco quando quelle storie sono finite.

“Mio padre si è accorto prima di me che il mio matrimonio non funzionava, che ero infelice.”

Angelo, sempre in piedi, aspetta che io continui.

“E un giorno mi ha detto solo questo: ‘Se stai pensando di separarti, te li do io i soldi per l’avvocato. L’importante è che tu stia bene, e purtroppo non mi sembra che sia così’.”

“E lei?”

“Mi sono separata. È stato un grande dolore, io e mio marito ci volevamo molto bene, non abbiamo mai smesso di volercene, come lui e mio padre, che ancora si sentono per gli auguri di compleanno e di Natale. Ma è andata così. E avere il sostegno di mio padre mi ha dato la forza di prendere quella decisione.”

Infila le mani in tasca. Riflette. Cammina ancora verso il divano, poi torna di nuovo davanti al tavolo.

“E il secondo? Ha detto che ha vissuto con due uomini. Neanche il secondo ha deluso suo padre?”

Ripenso a mio padre seduto sulla sua poltrona, leggermente chinato verso di me, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, lo sguardo amareggiato e impotente, quasi lucido. “Lo abbiamo accolto come un figlio,” mi ha detto. “Gli abbiamo voluto bene come se fosse sempre stato di famiglia. Non ci ha neanche fatto una telefonata per salutarci, per dirci qualcosa. Come se, per lui, non fossimo mai esistiti.”

Anche i miei si sono sentiti lasciati da Federico, un pensiero che non avevo mai realizzato fino a quel momento. Né avevo considerato che delicatezza e codardia vanno a braccetto, a volte.

E poi quella telefonata, il giorno del trasloco. “Vittoria, non sei sola, noi ci saremo sempre, perché ti vogliamo bene. E noi non cambieremo idea.”

Mio padre non ha mai avuto bisogno di troppe parole per arrivare dritto al cuore. Quanta forza averlo dalla mia parte.

“Sì, lo ha deluso, Angelo, ma non è questo il punto. Non l’ho deluso io.”

La sua testa resta chinata, le mani non più in tasca ma serrate, nervose.

Raccolgo le carte, non credo servano più. Ora bisogna lasciare spazio alla consapevolezza, che arriverà con la forza di dieci anni perduti.

La mia macchina fotografica è qui accanto, non oso toccarla, mi sentirei di invadere un momento solo suo.

Segue la linea del mio sguardo e la nota anche lui.

“Ha fatto delle belle foto, alla Margherita. Sa che i nipoti le hanno volute per l’album di famiglia?”

Lo so, la Margherita me l’ha raccontato.

Indica il divano. “Posso?”

Certo che può, gli rispondo, lui va a sedersi, un gomito sul bracciolo, la testa sulla mano aperta, gli occhi chiusi.

Mi alzo e mi avvicino. “Sicuro di non volere qualcosa? Ho del whisky.”

Accetta.

“Può fare delle foto, se vuole,” mi dice mentre gli porgo il bicchiere.

Rido. “In cambio del whisky?”

Beve un sorso. “Se me ne dà ancora un po’, sì.”

Gliene verso ancora un dito, ne verso un dito anche a me e mi siedo accanto a lui, posso anche non fare foto stavolta.

Angelo alza il bicchiere accennando un brindisi, poi beve. “Sono stato un cretino, vero?”

Bevo anch’io. “Capita a tutti, qualche volta. Diventa grave se non si fa niente per rimediare.”

Viene fuori a poco a poco che sua sorella sono anni che glielo dice, ma lui è sempre rimasto fermo sulla sua posizione come una statua in una piazza, ammette. Aspettava che il primo passo lo facesse sua figlia.

“Quanto è stupido l’orgoglio,” sospira.

O la paura del rifiuto.

“E sua figlia ha preso da lei, mi pare.”

Sorride, ne è un po’ fiero. “Sì, quello lo ha preso da me.”

“Bene, allora sa cosa fare.”

Si volta verso di me, sembra che non lo sappia.

Quante istruzioni bisogna ancora dare a quest’uomo?

“Faccia esattamente quello che lei vorrebbe che facesse sua figlia!”

Se ne va promettendomi di tornare con il ratafià e per dirmi com’è andata. Non so se la risolveranno al primo tentativo, ma sono certa che si ritroveranno, se lui vincerà l’orgoglio e riconoscerà il suo errore.

Non lo dico da cartomante, lo dico da figlia.