Passavo di qua

Domani è Natale. Per fortuna ho sempre avuto la sindrome della formica e ho due cassetti pieni di regali comprati qua e là, pensando a questo o a quello, ogni anno immanca­bilmente dimenticati all’apertura della caccia alla strenna – ma non quest’anno. La necessità ha aguzzato la memoria, più che l’ingegno, quindi sono qui che scelgo tra gli oggetti accumulati quali potrebbero piacere di più.

La carta da regalo è sul tavolo, nastri colorati, forbici, scotch e un gatto convinto che io abbia messo su per lui questo luna park.

Faccio un fiocco attorno a un tappo di sughero e lo lancio nel corridoio. Sugo gli vola dietro e comincia a frombolarlo per la casa, per un po’ dovrei poter far pacchetti tranquilla.

Se non squillasse il cellulare. Calliope.

È un’amica di Federico, o meglio, un suo contatto Facebook, credo che si siano visti giusto una volta quando lui è andato in Toscana per lavoro. Poi, mi aveva detto lui, è stata una dei pochi che ha sentito assiduamente nel periodo di isolamento.

Ci eravamo scambiate il numero mesi fa per una cena a Genova che poi è saltata. Erano ancora i tempi in cui io e Federico eravamo una cosa sola e nessuno lo metteva in dubbio.

“Ciao Vittoria. Come stai?”

Sembra sincera, sembra gentile, sembra un sacco di cose e io mi chiedo perché mi ha chiamato, cosa vuole sapere, cosa vuole dirmi. Lascio perdere nastri e forbici, mi rannicchio sul divano e cerco di capire se sono contenta di questa telefonata. Credo di sì. È l’unica, tra gli amici di Federico, a essersi fatta viva.

Glielo dico, come sto. Non mi interessa, nel privato, mantenere l’immagine della donna tutta d’un pezzo, che guarda avanti a testa alta, sicura di sé e inscalfibile.

Lei premette di non sapere esattamente cos’è successo, perché con Federico si sono sentiti qualche volta ma non sono così in confidenza. Strano, lui mi aveva parlato di lunghe chat e telefonate, intime e personali. Ma se vuole sentire la mia versione, nessun problema, eccola, che faccia da sola i confronti, se si è presa il disturbo di chiamarmi.

Ascolta, si indigna, si stupisce, si dispiace, parteggia, comprende.

“Sai, tu gli hai fatto da madre,” sentenzia poi, e mi spiazza, considerato che se c’è una priva di istinto materno quella sono io, un tipo che accudisce, d’accordo, e nei mesi in cui Federico diceva di essere in crisi ho dovuto, mio malgrado, avere la pazienza di una madre. In ogni caso, non sentivo la mancanza di una perfetta sconosciuta che venisse a spiegarmi come avrei gestito, secondo lei, il mio rapporto di coppia.

“E lui non ti amava più da tempo.”

Resto di ghiaccio.

Mi ha chiamato per dirmi questo, per verificare che non ci fosse più un barlume di speranza, in me?

“Te l’ha detto lui?”

“No, no, assolutamente. Anzi, lui mi diceva che era convinto di aver trovato la donna della sua vita. È una mia opinione, ma io non credo nell’amore costante,” mi spiega, un’idea che si affretta a illustrarmi.

Secondo lei si ama a intermittenza, a volte si smette del tutto, a volte si ricomincia, e da quello che le ho raccontato le sembra chiarissimo che lui aveva smesso di amarmi da mesi, probabilmente non ne era consapevole o faticava ad ammetterlo anche a se stesso. È tornato pochi giorni solo per nostalgia, poi è dovuto scappare.

Grazie. Domani è Natale, io rispondo al telefono ed esce fuori un pugno che mi arriva dritto in faccia. Così, perché stamattina una sconosciuta si è svegliata e ha sentito il bisogno di venirmi a cercare per tirarmelo.

Avevo già abbastanza difficoltà ad accettare la fine della mia storia, ora mi vengono strappati anche gli ultimi ricordi, gli ultimi momenti insieme. All’improvviso, mentre incartavo regali.

Meno male che è l’unica tra gli amici di Federico a essersi fatta viva, non credo che reggerei altre dimostrazioni di stima e solidarietà.

Del resto, anch’io rovescio le mie opinioni sulla processione di sconosciuti che suona ogni giorno al mio campanello, e forse li trafiggo senza rendermene conto, ma almeno offro i miei pareri a richiesta, mascherandoli da oracolo, con un reciproco accordo, parole soppesate, una tisana calda e una razione di fiducia.

Non è la stessa cosa.

“Scusami, Vittoria, se mi sono permessa di essere così schietta. Mi sei sempre piaciuta, sei in gamba, piena di risorse, e ti sei ritrovata tra le mani un ragazzino immaturo... Mi è spiaciuto per te, ecco. Insomma, spero di non essere stata inopportuna.”

Figuriamoci. Chissà cosa intende per “inopportuno”.

“Non doveva tornare per quei dieci giorni,” continua. “E se lo sento gli vieto di venirti a dire, nei prossimi mesi, che ti ha lasciato ma ti ama! Deve lasciarti libera di andare avanti.”

“Credevo che non foste così in confidenza.”

Non lo sono, ribadisce, ma se le capita l’occasione posso star certa che ci pensa lei, a proteggermi.

Sono sicurezze di cui essere grati.

“Vittoria, ascoltami, non puoi amarlo ancora, non ha senso. Non si può amare chi non ci ama, è contro natura.”

Io, davvero, non riesco a capire se questa voglio abbracciarla per essersi improvvisata così amica o se voglio investirla con la macchina per evitare che si improvvisi così amica in futuro, anche con altre.

Comunque, prendo nota: non si ama chi non ci ama. Una lezione di vita non richiesta arrivata come un regalo di Natale.

La saluto e la ringrazio. Mi dice che tifa per me, e probabilmente è anche sincera.

Faccio prove di respiro e mi sembra tutto sotto controllo, sono calma, posso riprendere a fare riccioli ai nastri. O potrei, ma stavolta è il campanello che mi interrompe.

“Passavo di qua,” dice mia madre, intabarrata in colbacco, sciarpa e piumino color castagna. “Ti ho portato dei tortellini per stasera, così tu e Alice avete già il primo, e un pandolce, che magari poi te ne tieni un pezzo per la colazione.”

Detesto le improvvisate. E lei lo sa.

La faccio entrare.

“Mamma, Alice ha già preso tutto per stasera, non posso arrivare lì coi tortellini da fare in brodo. E il pandolce Alice lo fa in casa, lo sai, ogni anno ve ne manda uno.”

Lei lascia il sacchetto sul tavolo, sopra la carta regalo, e sbuffa levandosi il colbacco. “Con te si sbaglia sempre. Butta via tutto, allora, se ti dà così fastidio! Una volta tanto potresti anche solo dire grazie.”

Certo, grazie, non lo dico mai, come no. “E tu, magari, qualche volta potresti chiederti che cosa mi farebbe davvero piacere, anziché deciderlo da sola. Alice è da ieri che cucina e io arrivo con i tortellini, sono giorni che sforna pandolci e io arrivo con un pandolce. Grazie, mamma!”

Lei si volta e torna verso la porta. “Sei così nervosa, non ti si può dire niente. Non mi meraviglia che Federico se ne sia andato.”

Un vassoio da pastificio vola, si schianta contro il muro e a terra scende una pioggia di tortellini. Lo segue un pandolce, che se la cava con un’ammaccatura e poi cade sul pavimento con un tonfo. Sugo scappa sotto il divano, mia madre si gira di scatto con gli occhi spalancati, io sento solo il collo, le braccia, le gambe tremare. In mano ho ancora il sacchetto, vuoto. Non ce la faccio più.

“Ti sembro nervosa, mamma? Sì, eh? Sei sempre così intuitiva!” Ho alzato la voce. “Chissà come mai sono nervosa... Forse perché l’anno scorso la mia vita esisteva e ora no?, che ne dici? Ma certo, Federico se n’è andato per colpa mia, è ovvio, sono sempre io che sbaglio, del resto ho un caratteraccio, rispondo male, sono aggressiva. Ha fatto proprio bene Federico ad andarsene, dev’essere stato tremendo vivere con un mostro come me!”

Lei è ferma, la mano sulla maniglia della porta, la voce calma.

“Non ho detto che è stata colpa tua, dico solo che se rimani sempre da sola forse dovresti capire cos’è che non va in te. A volte dai delle risposte che possono far rimanere male chi ti vuole bene.”

Non ti amava più, se n’è andato perché in te c’è qualcosa che non va... Ma perché non mi lasciano in pace, perché vengono a cercarmi per sputare le loro maledette sentenze?

Adesso non urlo, la rabbia mi tira fuori una voce bassa e scandita.

“A volte do le risposte che gli altri si meritano, e troppe volte non le do. Federico non se n’è andato per quello, lo hai visto trasformarsi anche tu, io non so chi sia la persona che se n’è andata, so solo chi era la persona che ho perso.”

Lei annuisce e guarda Sugo, che nel frattempo è sgusciato da sotto il divano e sta assaggiando i tortellini. Almeno lui li ha graditi. Mia madre prova ad allontanarlo con la punta del piede, sfiorandolo appena, ma lui non si scompone e cambia tortellino.

“Forse è stato meglio così, Vittoria,” mi dice con un tono che all’improvviso mi fa sentire in colpa. “Troverai di meglio, se riuscirai a essere un po’ più disponibile.” Come non detto.

Poi apre la porta. “Ci vediamo domani a pranzo, fai gli auguri di Natale ad Alice da parte mia,” e se ne va.

Faccio prove di respiro, niente è sotto controllo.

Raccolgo il vassoio, salvo i tortellini rimasti nella carta. Li darò, insieme al pandolce, al ragazzo davanti al Carrefour. Avrà pure qualcuno con cui dividere la cena, e non credo che gli importi molto se le confezioni sono ammaccate.

Troverò di meglio se riuscirò a essere un po’ più disponibile, dice lei. Non lo so. Non so se troverò di meglio, meglio di quello che ho avuto, meglio di me e Federico insieme, meglio del nostro abbraccio della buonanotte, del suo seitan con le verdure, dell’appuntamento nudi alle sei del pomeriggio o della voglia di raccontarci tutto perché tutto era più bello se po­tevamo condividerlo. C’è qualcosa di meglio? Meglio di quella sensazione di essere casa? Io non ho sbagliato, questa volta. Sono stata tutto quello che potevo essere, per lui, ho dato tutto quello che potevo dare. Non ho sbagliato.

Sugo, nel frattempo, finito l’imprevisto banchetto, sta di nuovo raspando contro la porta dello studio di Federico, che devo ricominciare a chiamare camera degli ospiti. Lo fa ogni mattina, raspa e miagola, lo chiama. Da due mesi e mezzo. Poi comincia a cercarlo per la casa, va negli angoli dove Federico lo faceva giocare e miagola ancora. Se entra nella mia stanza sale sul letto, si accovaccia sul cuscino dove dormiva lui e controlla l’entrata. Federico lo faceva sempre andar via da lì, ora Sugo sembra restarci di malavoglia, con la sua piccola provocazione che passa inosservata.

È straziante e non aiuta il suo piangerlo, il suo chiamarlo, il suo modo di evocare ogni giorno il fantasma.

Lo prendo in braccio e lo accarezzo, parlandogli sottovoce.

“Stupido coso di pelo, come fai a pensare che lui sia ancora lì dentro? Sii un gatto, perdio! Dove l’hai lasciato l’istinto?”

Lui ovviamente non capisce, si prende due carezze e poi si agita per scendere.

Distrarsi, pensare ad altro, spostare i pensieri subito. Accendo la radio e decido di cambiare le lenzuola, anche se il letto lo avevo già fatto, mettere in ordine mi fa bene.

Non è stata colpa mia, mi ripeto.

Ma intanto mi rimbomba in testa l’altra staffilata: non mi amava da mesi.

Sposto dal comodino la sveglia gialla che mi aveva regalato l’ultima volta che siamo stati all’Ikea, quando ha comprato quella maledetta libreria. C’era un cesto di sveglie colorate, la volevo gialla ma sembravano esserci tutti i colori tranne quello. Lui ha cominciato a scavare, spostare, rovistare finché non ne ha trovata una, in fondo, sotto una montagna di verde, rosso e blu. Un altro dei nostri piccoli ricordi stupidi, forse l’ultimo, lo avevo chiamato il mio cavaliere della sveglia gialla e me l’ero tenuta vicino, quella sveglia.

La prendo e la lancio contro il muro, forte, più forte che posso, voglio che si frantumi, invece perde solo la pila e il suo coperchio.

La raccolgo, la scrollo e dentro sento un rumore di minuscoli ingranaggi sopraffatti e per nulla incolumi. E così spero di lui.