Tu sei una fotografa

“Be’, ma tu un lavoro ce l’hai,” dice Alice girando le uova in padella.

Lei le fa così, fascia il tuorlo nel bianco già cotto e poi le voltola come frittelle. In pratica le fa all’occhio di bue, ma con la cataratta. Buonissime. Io nemmeno ci provo. Con lei sembra tutto facile, tric tric, dice e, tric, l’ha fatto. Ha le uova fresche e “uh, dai, faccio lo zabaione”, e tu le dici “lo zabaione? Adesso?”, ma lei “che ci vuole? Guarda, tric tric, fatto”. E lo fa. Così per lo strudel, il pandolce genovese, il pollo arrosto, la ratatouille. Tric tric, che ci vuole?

Sono a casa sua da quando Federico se n’è andato.

Lei era già pronta, erano mesi che lui mi teneva appesa al filo della sua crisi esistenziale, oscillante tra il non poter fare a meno di me e il bisogno di stare da solo, mesi che sono serviti a lui per decidere e ai miei amici per preparare la rete di salvataggio. Io, intanto, mi aggrappavo ostinata a quel filo sottile e lasciavo che la ferocia della sua demolizione mi facesse vorticare, ero l’unica idiota che continuava a vedere un futuro insieme, quello progettato, quello per la vita. Perché io, condanna mortale, sono una che crede nelle promesse.

Alice, il giorno in cui Federico se n’è andato, ha preparato la camera degli ospiti, riempito la casa di cioccolatini al pistacchio e il frigo di vino bianco. Vieni da me, stasera, facciamo maratona di serial e poi rimani a dormire, mi ha scritto. E io ho infilato due cambi in borsa e sono venuta qui, dove sono rimasta ben più di una notte.

Passo da casa per dare da mangiare a Sugo e cambiargli la sabbia, poi torno di corsa in questo rifugio. Là, a casa, mi fa male stare.

“Che lavoro ho, Alice?” le domando, mentre lei – dopo avermi passato i piatti e messo la padella nel lavandino – viene a sedersi a tavola.

Rompe il tuorlo e lo osserva allargarsi nel piatto prima di attaccarlo con un pezzo di pane. Poi mi guarda seria. “Tu sei una fotografa, Vittoria. E anche brava.”

Sono una fotografa. E anche brava, dicono. Una fotografa senza clienti, però, senza progetti, senza incarichi. Diciamo una fotografa virtuale.

Alice la fa facile. Tric tric, sono una fotografa quindi ho un lavoro.

“Non scatto da mesi. Non ci riesco più. Non ho idee, non ho stimoli.”

Lei smuove l’aria con una mano, come a scacciare un insetto molesto. “Oh, be’, adesso è così, negli ultimi mesi eri impegnata a sopravvivere a un uragano, ma sono sicura che tra poco ricomincerai a fare foto.”

Io no, non ne sono affatto sicura.

“Fare la fotografa è un lusso che non posso più permettermi,” dico, tagliuzzando con la punta del coltello alcune briciole sulla tovaglia. L’uovo l’ho finito, di più non riesco a mangiare.

Tu sei una fotografa. Me lo ripeteva sempre anche Federico. Rappresentavo quello che avrebbe voluto essere lui, l’artista che vive senza rete e ci crede fino a farcela, per cui dovevo tenere duro e continuare a crederci, fino a farcela. Per me, per lui. “Tu sei una fotografa,” mi ricordava sempre, e quello avrei dovuto fare, non altro. Che non mi mettessi in testa di cercarmi un lavoro diverso per guadagnare qualcosa. C’era lui a contribuire alle spese, lui col suo stipendio e io con i miei risparmi e la mia casa. E io e lui, amava dirmi, ancora fino a un mese prima di andarsene, eravamo una coppia, remavamo insieme per andare nella stessa direzione. “Tu sei una fotografa,” mi diceva quando contavo gli spiccioli dei lavoretti che raccattavo: il catalogo di vernici, il matrimonio alternativo, il book per l’aspirante modella. “E non voglio nemmeno immaginarti fare l’impiegata da qualche parte,” aggiungeva ogni tanto, per rinforzo. Sarebbe stata una resa, diceva. Lo avrei deluso. Oltretutto, se il suo lavoro lo avesse portato qualche mese all’estero io non avrei più potuto seguirlo. Quindi, noi eravamo una coppia, remavamo insieme per andare nella stessa direzione e io ero una fotografa.

“Sono una disoccupata, Alice. Una disoccupata di quasi quarantasei anni.”

Lei sbuffa, non le piace quando sono così negativa. “Sei solo in un momento di pausa.”

“No. Avere una partita Iva è l’unica differenza tra me e un disoccupato ufficiale, e tra i due, credimi, è messo meglio lui che almeno non deve pagare le tasse sul nulla che guadagna.”

Pilucchiamo un po’ di frutta.

“Ma le docenze?”

Ho insegnato comunicazione visiva in un istituto di formazione, ma non ci sono altri corsi in programma. E mi dispiace, mi sono divertita a insegnare.

“Finite. Mi pagheranno fra tre mesi, duemila euro in tutto. Lordi.”

Alice apre la finestra, si siede a terra, vicino al balcone, e si accende una sigaretta, soffiando fuori il fumo.

“Be’, però adesso hai da fare la cosa degli alberghi, no?”

Sì, ho quella. Un progetto a cui lavoro da maggio. Moodboard, lay-out, foto di prova, pitch, casting delle location e dei modelli, proposte, riunioni, brainstorming, conference-call, budget discussi, budget approvati in via non ufficiale, viaggi tra Genova e Milano, poi la definizione delle tempistiche e il silenzio. Da alcune settimane.

“Già, solo che avremmo dovuto cominciare entro settembre e siamo a inizio ottobre,” le rispondo.

“L’estate si sta trascinando, ai primi freddi tornano tutti attivi,” mi rassicura Alice. “Andrà benissimo. Ti ridarà stimolo e anche un po’ di visibilità. Poi vedrai che arriveranno altri lavori. Hai ancora qualcosa da parte?”

Ho ancora qualcosa, sì, ma ormai sono alcuni anni che rosicchio il mio salvagente. Non ho mai lasciato il lavoro per seguire la mia passione, non avrei mai rinunciato a una sicurezza mensile per tuffarmi di testa in un nulla di incognite, è stato il lavoro che ha lasciato me. Vent’anni a fare la grafica di cui dieci per un’azienda di dolciumi, fino alla morte del titolare anziano, lo smembramento tra gli eredi e la fine dell’impresa, sei anni fa. Qualche soldo da parte, un appartamento lasciato da mio nonno, molti colloqui, nessuna offerta, una Canon e un paio di concorsi fotografici vinti. Ecco, la situazione era questa.

Federico, che mi ha incontrata dopo la mia prima pubblicità di successo, ci vedeva del coraggio, in questo. Forse, ma quello che ci vedevo io era soprattutto la mancanza di alternative e la necessità di trasformare la mia passione in un mestiere.

Da allora sono passati un paio di servizi su riviste nazionali, due pubblicità importanti, alcuni piccoli lavori meno gratificanti e a basso costo, qualche guadagno, molte spese, un lungo periodo senza incarichi e una convivenza appena naufragata.

“Posso farcela ancora per un paio di mesi, al massimo sino alla fine dell’anno. Poi dovrò inventarmi qualcosa.”

Alice mi guarda. Sta per dirlo ma la fermo alzando una mano. Non chiederei mai un prestito a un’amica senza la certezza di poterglielo restituire in poco tempo. E io questa certezza non ce l’ho, mentre l’amica sì, e non la voglio perdere.

Alza la mano anche lei e abbassa gli occhi, ci siamo capite.

Poi sorride. “Puntata?”

In salotto ci sono due divani e dopo meno di una settimana noi abbiamo già i nostri rituali, come una vecchia coppia: lei il divano verso la libreria, io quello verso il tavolo. Ognuna due cuscini, un plaid e accesso libero alla ciotola dei cioccolatini al pistacchio. I telecomandi a me.

Accendo la tv e vado su Netflix. Seleziono l’account di Alice e la nuova puntata di The Good Wife. Siamo alla seconda stagione, per fortuna ce ne sono sei.

Con la pubblicità per gli alberghi avrei di cosa vivere per un po’ di tempo, se solo cominciassimo. Almeno potrei stordirmi di lavoro e sentirmi di nuovo parte di qualcosa.

Controllo il cellulare, nel caso sia arrivato un messaggio. Un suo messaggio. Niente.

Schiaccio PLAY.