Pastafasù
Nino Famà
(estratto da un romanzo ancora in lavorazione)
NEGLI ULTIMI TEMPI DON PEPPINO camminava per le strade di Brooklyn distratto, soprappensiero. Era talmente sbadato che non si accorgeva se qualche amico lo salutava o se attraversava la strada col semaforo rosso. Provava un profondo senso d’angoscia, di smarrimento; aveva l’aria trasognata, sembrava uno smemorato. Usciva di casa per liberarsi la mente dai pensieri che lo opprimevano.
Cadeva facilmente nella disperazione quando tirava le somme della sua vita in questo paese. Le sue decisioni erano sempre state guidate da chiarezza e semplicità; non aveva mai coltivato vaghe illusioni o aspirazioni velleitarie. Era sempre stato un uomo pragmatico, non cercava la ricchezza, auspicava per la sua famiglia una vita modesta, ma comoda e dignitosa. Aveva avuto tanti dubbi, aveva fatto mille ragionamenti prima di lasciare la sua terra, ma alla fine aveva deciso di partire per poter creare le condizioni per mettere su famiglia, senza il cruccio di non poter provvedere debitamente.
Era partito con idee chiare ed obiettivi ben precisi. Si era sposato qualche anno dopo con Rosalia ed ora avevano tre figli, due maschi e una femmina. Secondo il modo di ragionare di questo paese questo costituiva il numero ideale, tre figli e un cane. A don Peppino mancava il cane. Ma non tutto si era avverato come lui l’aveva immaginato prima di lasciare la sua terra. Aveva sempre sognato una famiglia esemplare, figli obbedienti che avrebbero studiato e avrebbero intrapreso una professione: medico, avvocato, anche maestro sarebbe stato accettabile. Invece, tutto sembrava andare in direzione opposta. Don Peppino si era quasi preso un esaurimento con Pastafasù, il suo primogenito. Questi era un ragazzo ostinato, cocciuto, aveva una testa dura come un macigno ed aveva sempre protestato vigorosamente quando i genitori gli consigliavano di fare questa o quell’altra cosa.
Per la scuola Pastafasù aveva sempre provato la massima avversione. Era pigro, indolente, l’incubo dei maestri. Sin da bambino, era stato indisciplinato, disobbediente e ribelle. Non erano bastati gli incitamenti del padre né gli incoraggiamenti della madre; Pastafasù di scuola non ne voleva proprio sapere. Don Peppino a volte perdeva la pazienza e gli dava qualche sculacciata. Quando il ragazzo chiamò la polizia, come aveva imparato a scuola di fare in questi casi, per un pelo don Peppino non andò a finire in galera. I maestri, quando non ne potevano più, facevano venire i genitori a scuola, li interpellavano, spiegavano loro la situazione, ma le cose continuavano sempre uguali. I genitori si scervellavano, impazzivano, ma non vi era soluzione che reggesse; il ragazzo sembrava più intemperante che mai e dimostrava sempre più ripugnanza per la scuola. Il sistema non tollerava le bocciature e Pastafasù arrivò alle medie e conseguì il diploma: “per fare il somaro,” rimbrottava don Peppino quando si arrabbiava.
Alle medie, il ragazzo ormai adolescente, incominciò a frequentare nuovi amici e con loro andava a feste e party dove si faceva abbondante uso di alcol e di stupefacenti. Inutili furono le esortazioni della madre e le frequenti preghiere che lei offriva a Santa Rosalia. Il ragazzo aveva imboccato una strada che faceva disperare i genitori. Don Peppino era diventato un pugno di nervi, parlava poco, ma quando esplodeva, svuotava il sacco. Nel suo cuore sapeva che le sue folate di rabbia non avrebbero risolto nulla, non sarebbero servite a facilitare una riconciliazione, un ravvicinamento tra padre e figlio. Era solo un modo per liberarsi dalla rabbia, dal rovello che logorava la sua esistenza. Rosalia gli ripeteva spesso che era un uomo dalla forte corazza esterna, ma con il cuore di ricotta. Don Peppino ricordava come ai suoi tempi, cioè quando lui aveva quell’età, le cose erano diverse. Doveva lavorare nelle campagne tutta la giornata e poi, la sera, quando tornava a casa, non gli rimaneva l’energia per fare il ribelle. E poi, se suo padre diceva una cosa, era così e basta, niente argomenti, discussioni, proteste. Rosalia spesso gli ricordava che, nonostante il loro calvario, non aveva nessun desiderio di tornare a quei tempi antichi.
“Ci vogliono disciplina, ordine, ubbidienza; cose che mancano ai ragazzi d’oggi. Troppa libertà e la legge che li protegge; devi rimanere zitto se non vuoi andare a finire dietro le sbarre,” borbottava don Peppino.
“Vedrai che tutto passerà,” rispondeva Rosalia per incoraggiarlo, ma lui non vedeva come, una volta scivolati nel fango, i ragazzi ne potessero venir fuori. L’atteggiamento di questo suo figlio non lasciava sperare troppo. Le cose andavano di male in peggio. Avrebbe voluto sbarrare la porta e lasciare il ragazzo fuori. Voleva proprio svincolarsi dalle responsabilità di genitore, “Così imparerà una buona lezione,” brontolava a sua moglie, ma sapeva che lei non gliel’avrebbe mai permesso. E poi, essendo il ragazzo ancora giovane, il padre sarebbe andato a finire in galera per abbandono di minori. L’amarezza non gli permetteva di perdonare. Non poteva cancellare dalla sua mente quella notte in cui lo chiamò la polizia, avvertendolo che suo figlio era stato trattenuto in caserma, perché in possesso di stupefacenti. Il padre era rimasto immobile, stordito. Era andata Rosalia a firmare e a riportarsi il figlio a casa.
Pastafasù era stato la pecora nera della famiglia; colui che aveva imboccato un cammino sbagliato, che aveva deluso don Peppino il quale aveva sempre creduto di essere emigrato per creare un futuro prospero e tranquillo per i propri figli. Così l’aveva immaginato prima di partire. La delusione aveva messo a soqquadro le forze e l’animo del genitore. Don Peppino aveva raggiunto la disperazione, ma si era rassegnato ed aveva puntato le sue speranze sugli altri due figli. Sicuramente Teresa che era cresciuta legata alla madre non avrebbe causato simili guai alla famiglia, pensò. Franky era talmente ossessionato dal gioco del pallone da non aver tempo per pensare ad altro. Aveva incominciato a guardare le partite la domenica assieme al padre il quale, in patria, non si era mai interessato di calcio, ma arrivato in questo paese lo guardava ogni domenica in televisione, non perché apprezzasse il gioco in sé, ma perché era diventato un rito, lo faceva sentire più vicino alla sua terra. Franky aveva incominciato così, guardando le partite con il padre, e poi aveva iniziato a giocare con le squadre della scuola ed era arrivato a far parte di una squadra giovanile.
Man mano che passarono gli anni, sorprendentemente, Pastafasù incominciò a dimostrare che qualcosa stesse cambiando in lui. Il figlio, ora ventunenne, continuava ad essere indisciplinato e disubbidiente, ma incominciava a dimostrare la volontà di sedersi con i genitori e discutere, fare dei ragionamenti, anche se alla fine faceva sempre di testa sua. Era puntuale ed operoso nel suo lavoro di pizza delivery, ma non era riuscito ad abbandonare totalmente l’uso di stupefacenti. Se i genitori dimostravano diffidenza e opposizione alle sue scelte, lui rispondeva che le sostanze delle quali faceva uso, erano molto meno nocive del fumo delle sigarette. Don Peppino non era del tutto convinto, ma dopo anni di zuffe questo sembrava un nuovo inizio, un buon auspicio e sperava che prima o poi il resto arrivasse da sé. Era disposto ad aspettare, a lasciare tutto nelle mani del buon Dio.
Il fatto che Teresa avesse scelto di frequentare la Yale University a New Haven nel Connecticut, e non una delle università di New York, aveva scosso i nervi di Rosalia. Yale distava il sufficiente da Brooklyn per scoraggiare don Peppino a raggiungerla in macchina. Questo atteggiamento era stato qualcosa di estenuante per la madre. In questo paese era cosa ben accettata che arrivati all’età di frequentare l’università, molti giovani preferivano allontanarsi da casa, essere indipendenti, autonomi, autosufficienti. Infatti, era molto comune che i giovani andassero via da casa, come gli uccelli che volano via dal nido. Non era niente d’eccezionale e non doveva allarmare nessuno; faceva parte della vita, del passaggio rituale da giovani dipendenti ad adulti emancipati. Questo, Rosalia l’aveva sempre capito, queste erano le usanze, le tradizioni di questo paese. In verità le era toccato spesso dover consolare e rassicurare qualche amica la cui figlia era andata via da casa. Rosalia possedeva una certa disposizione naturale per confortare e rasserenare le amiche, convincerle che si trattava di qualcosa del tutto normale.
Fu tutta un’altra cosa, però, quando Teresa prese quella decisione. Rosalia era rimasta di stucco; non vi era ragione, non vi era argomento che potesse attutire la sua angoscia. Si trattava di una reazione che non sapeva spiegarsi, di un’emozione che non sapeva definire. Questa era la sua bambina. Non poteva essere vero che all’improvviso potesse andarsene, separarsi dalla madre che l’aveva allattata, l’aveva vista crescere e spampanare come una rosa nel mese di maggio. Forse non era vero, stava immaginando tutto, si trattava solo d’un brutto sogno.
Don Peppino si era chiuso nel silenzio. Non parlava con nessuno, nemmeno con Rosalia. Ogni tanto usciva di casa, così, per scacciare i diavoli dalla testa. Per le strade non vedeva nessuno, non salutava nessuno, non entrava nei bar o nei circoli paesani per farsi una partita a briscola, a tressette o prendere un caffè. “Il caffè gli avrebbe dato ai nervi,” pensava. Si accontentava di camminare, fare delle lunghe passeggiate senza una meta precisa. Camminava ininterrottamente, giungendo fino alla zona residenziale dove abitavano gli ebrei ortodossi, quelli che portano vestiti neri ed il cappello a larghe falde. Sapeva che qui non l’avrebbe riconosciuto nessuno e avrebbe potuto camminare tranquillo, per i fatti suoi. E così faceva, giorno dopo giorno, come un sonnambulo, si dimenava per quelle strade residenziali, confuso, disorientato, frastornato. Cercava di dare ordine ai suoi pensieri, voleva dare un senso alle vicende che in questi ultimi tempi lo avevano rintronato. Il fatto che Teresa avesse preferito andarsene lontano l’aveva sconvolto, ma la notizia che fosse andata a convivere con il suo ragazzo l’aveva spinto sull’orlo del precipizio. Cercava nella sua testa una spiegazione, una giustificazione. Forse veniva castigato dal Padreterno per qualche suo oltraggio. Non sapeva proprio dare un senso a ciò che era accaduto. Si costernava, la sua mente lo riportava ad una realtà anteriore alla sua partenza e solo lì, in quell’angolo remoto della sua mente, ritrovava l’ordine che disperatamente agognava. Era l’antidoto al presente, al caos, all’incubo che i suoi figli gli stavano facendo vivere. Cercava le risposte, la soluzione, nell’ordine di quell’angolo di mondo che lui aveva abbandonato tantissimi anni addietro per andare alla ricerca di una vita migliore. “Tutto il contrario mi è capitato,” ripeteva tra sé. Ogni tanto sentiva dire che il mondo era cambiato, la stessa realtà era presente ovunque si andasse. “Tutto il mondo è paese,” diceva qualche amico che di recente si era recato al paese natio per fare una visita. Don Peppino rimaneva scettico, non credeva che quel luogo la cui immagine rimaneva incastonata nella sua mente come una pietra fosse potuto cambiare.
In casa, gli eventi di questi ultimi tempi avevano dato luogo ad una certa tensione, il nervosismo era nell’aria, il disappunto che i genitori provavano per la condotta dei figli spesso era come una nebbia nera discesa sulla loro casa. Rosalia, inizialmente aveva provato rabbia, si era sentita tradita, aveva visto tutti i suoi sacrifici evaporarsi in un attimo. La sua vita aveva trovato senso e giustificazione nei figli; ora si sentiva defraudata, sola. Ma Rosalia non si fece travolgere dalle emozioni. Passati i giorni di furore, ragionò fra sé e adottò un atteggiamento assai più pragmatico. Pensò che la disperazione e l’angoscia non avrebbero risolto nulla e quindi si rassegnò ed incominciò a congetturare. Cercò nuove configurazioni, nuovi allineamenti; cercò di dare un nuovo senso alla situazione, dei nuovi contesti psicologici e sociali nei costumi di questa società, cercò di trovare una nuova percezione delle cose. Per la prima volta cercò di tenere per sé i consigli che spesse volte aveva ritenuto opportuni solo per gli altri, soprattutto cercò di venirne fuori con una nuova coscienza. “Non è la fine del mondo,” disse a suo marito che stava seduto accanto a lei, nella sua poltrona. Lui non rispose.