Nessuna religione è immune da forme di inganno individuale o estremismo ideologico. Questo significa che dobbiamo essere particolarmente attenti ad ogni forma di fondamentalismo, tanto religioso come di ogni altro genere.
Papa Francesco, 24 settembre 2015
Il secolo che prometteva il massimo sviluppo si è aperto con uno dei più grandi genocidi della storia, quello nei confronti degli armeni; poi sono arrivate le leggi antiebraiche e sappiamo bene di che cosa siano state la premessa giuridica. Insieme agli ebrei nel “secolo breve” sono stati perseguitati anche i testimoni di Geova. Eravamo all’inizio del Novecento. Alla fine, la guerra dei Balcani e il genocidio del Rwanda. Le religioni sempre al centro, talora vittime, altre carnefici; talora in conflitto tra loro, altre in conflitto contro nemici secolari1.
Un filo rosso lega questi cento anni: il fondamentalismo, e cioè una versione armata e agguerrita delle religioni, capace di condizionare il quadro geopolitico e di minare la convivenza democratica.
Contrariamente all’opinione e al senso comune, la parola “fondamentalismo” che oggi si associa generalmente all’aggettivo “islamico”, nasce circa cento anni fa nel contesto del cristianesimo protestante degli Stati Uniti.
Il copyright di un lemma destinato a una grande fortuna nel secolo a seguire è di Curtis Lee Laws, editorialista di un periodico battista, “The Watchmen Examiner”, che nel 1920 applicò l’etichetta di “fondamentalisti” a un gruppo di teologi soprattutto presbiteriani – e quindi di formazione calvinista – i quali si opponevano strenuamente al liberalismo teologico che stava conquistando i seminari e la leadership di alcune chiese riformate. Diversamente da quanto avrebbero fatto i loro colleghi tedeschi o svizzeri, per affermare le loro tesi questi teologi non pubblicarono una poderosa dogmatica, ma preferirono affidare le loro convinzioni ad agili opuscoli denominati “The fundamentals. A Testimony to the Truth”, pubblicati tra il 1910 e il 1915 con il generoso contributo di Lyman Stewart, fondatore della Union Oil, una delle più grandi compagnie petrolifere del tempo. Mentre l’archeologia e le scienze bibliche promuovevano un approccio critico e contestuale al testo biblico, gli autori dei “Fundamentals” – che Curtis Lee Laws definì “fondamentalisti” – intendevano ribadire l’ortodossia protestante contro le critiche e le riserve che arrivavano dalla teologia liberale, dal cattolicesimo, dal socialismo, dal modernismo ma anche da alcune forme ‘devianti’ del cristianesimo, come il mormonismo o i “russelliti” (espressione per indicare i seguaci di Charles Taze Russell, e cioè i testimoni di Geova). Sul piano del confronto pubblico che coinvolgeva più direttamente chi frequentava una chiesa e non si appassionava alle dispute più astrattamente teologiche, il bersaglio principale degli autori dei “Fundamentals” fu la teoria evoluzionista darwiniana che si accreditava sempre di più anche in ambito cristiano. L’architrave teologico degli autori dei “Fundamentals” era il dogma dell’inerranza della Bibbia, letterale parola di Dio che non richiede altri strumenti interpretativi se non quelli contenuti nella Bibbia stessa. Detta così è un’affermazione teologica che postula un principio generale; quando poi se ne vogliano ricavare le conseguenze ermeneutiche in riferimento a uno specifico passo della Bibbia, sorgono problemi talora esplosivi, e sin dalle primissime pagine del testo, quelle in cui si racconta come è nato il mondo e come Dio abbia creato il genere umano. Per i “fondamentalisti” tutto è accaduto esattamente come si legge, e cioè che Dio “plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen 2:7) e poi “plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo” (Gen 2:22). La questione, di per sé appassionante, arrivò però nell’aula di un tribunale del Tennessee quando nel 1925 John T. Scopes, un giovane insegnante di educazione fisica appoggiato dalla principale associazione ‘laica’ degli USA, l’American Civil Liberties Union (ACLU), decise di creare un caso legale proponendo ai suoi studenti le teorie darwiniane: mossa fatale in una scuola e in uno Stato che prevedevano un approccio di stampo tradizionalmente “creazionista”. Come probabilmente i dirigenti dell’ACLU volevano sin dall’inizio, il caso montò con un grande clamore mediatico e, all’apertura di quello che sarebbe passato alla storia come “il processo alle scimmie”, i principali media americani conversero nella cittadina di Dayton per assistere allo scontro diretto tra due visioni del mondo. A drammatizzare il processo concorse il fatto che l’avvocato dell’accusa era William Jennings Bryan, politico di statura nazionale, già candidato alla presidenza per la corrente populista del Partito democratico, segretario di Stato sotto la presidenza Wilson, membro della chiesa presbiteriana e ‘fondamentalista’ tutto d’un pezzo, al punto da presentarsi alla stampa dichiarando: “Se vince l’evoluzionismo il cristianesimo è morto”2. Tecnicamente vinse Bryan, che pure uscì malconcio dal confronto con il suo collega della difesa, il quale lo mise nell’angolo chiedendogli se davvero pensasse che “letteralmente” Giona era stato inghiottito dalla balena, o che Eva è stata generata dalla costola di Adamo, come si legge nella Bibbia. Scopes fu infatti condannato a un’ammenda anche se successivamente, per vizio di forma, la pena fu annullata. Chi abbia vinto culturalmente e politicamente resta invece questione molto controversa dal momento che per decenni vari Stati hanno escluso l’evoluzionismo dai programmi didattici, e ancora oggi una larga fetta di americani si dichiara più vicina alle tesi creazioniste – il 34% in senso stretto, il 25% ammettendo che un essere superiore può aver guidato un’evoluzione della specie – che a quelle nettamente evoluzioniste3.
Con il “processo alle scimmie”, il fondamentalismo cristiano perse la sua innocenza, nel senso che scelse di appoggiarsi alla forza del diritto e della politica, inaugurando un modus operandi che arriva sino ai nostri giorni e che in qualche caso, come vedremo, arriva a suggerire scelte strategiche persino ai vertici dell’Amministrazione USA.
Se il fondamentalismo di matrice evangelical è quello che per primo si è strutturato come tale, e il solo per il quale il termine tecnico è pienamente appropriato, correnti fondamentaliste – lato sensu – si riscontrano anche in ambito cattolico ed ortodosso.
Tradizionalmente meno legato al letteralismo interpretativo della Bibbia, il cattolicesimo è comprensibilmente distante da un approccio ‘fondamentalista’ al testo; ma questo non significa che, estendendo il senso della parola, non vi siano correnti cattoliche di tipo fondamentalista. Pur condividendo la tesi secondo cui la forma in cui nel cattolicesimo si esprimono correnti regressive ed esclusiviste è l’integrismo4 – una concezione delle relazioni sociali integrale e rinchiusa nella santità della Chiesa –, dato il senso comune che ormai ha assunto il termine si può concludere che il fondamentalismo attraversa anche la Chiesa di Roma. In questa accezione i conservatori anticonciliari di matrice lefebvriana possono essere considerati fondamentalisti, così come quella variopinta galassia nostalgica e reazionaria che si ritrova attorno a sigle anche molto eterogenee come Alleanza cattolica, la brasiliana Tradizione Famiglia e Proprietà, il Centro Lepanto, il Comitato per la salvaguardia della Cattolicità italiana e contro l’islamizzazione e l’espianto dei popoli. Gruppi dai nomi impegnativi che talvolta interloquiscono con le formazioni dell’estrema destra neofascista come Forza Nuova o CasaPound5. L’agenda comune è quella più prevedibile: no all’aborto, no alle coppie gay, no all’islam in Italia, no alle contaminazioni interculturali; sì a una società cattolica, alla tradizione, all’ordine sociale che si costruisce sul solco esclusivo del cattolicesimo. Anche in questo caso non è giusto semplificare e omologare associazioni che hanno identità e finalità diverse ma è difficile non notare, almeno sui temi indicati, una coerenza di propositi e di linguaggio.
La diversificazione e la gradualità delle posizioni di cui abbiamo detto, si applica anche al fondamentalismo ortodosso in cui si trovano componenti che potremmo anche definire ‘tradizionaliste’, che si richiamano a una tradizione ritenuta ovviamente più vera di quella mainstream, ed altre che invece non esitano a teorizzare e praticare metodi violenti.
Nella prima categoria possiamo includere, ad esempio, i veterocalendaristi e cioè coloro che adottano l’originale calendario giuliano invece di quello “rivisto”. Altro conto sono le frange armate che in Ucraina ad esempio, incoraggiate da Mosca, hanno dato vita a due partiti nazionalisti russi, nella regione del Donbass, e lottano per l’autonomia della Repubblica del popolo del Donec’k (DNR) e della Repubblica del popolo del Luhans’k (LNR) – due enclave russe – interpretando un sentimento nazional religioso che rimanda all’animo ortodosso della grande madre Russia6. Con l’effetto di incoraggiare l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina, sotto la paterna benedizione del patriarca ecumenico di Costantinopoli, mossa che prelude allo scisma dalla Chiesa russa. Su due distinti piani, uno politico-militare e l’altro ecclesiologico, ancora una volta si sta giocando la stessa battaglia7.
Ma la forza di spinte fondamentaliste si evidenzia anche nella Russia di Putin dove, senza che l’Occidente ne abbia colto le implicazioni sul piano dei diritti umani, sono state approvate leggi limitative della libertà religiosa, ad iniziare da quella che riguarda i testimoni di Geova. Al tempo stesso, si rivivono i tempi di una grande alleanza tra potere politico e chiesa di maggioranza, avvalorando l’idea illiberale di una coincidenza tra Russia ed ortodossia che mette ai margini dello spazio pubblico gli aderenti ad altre confessioni8.
Se quello cristiano di matrice evangelical è il primo dei ‘fondamentalismi’ dichiarati e riconosciuti come tali, negli stessi anni correnti religiose analoghe sorgono in seno all’ebraismo e all’islam. Definirle unitariamente e sinteticamente risulta molto difficile, sia per la loro pluralità confessionale che attribuisce a ciascun confessionalismo un carattere proprio e peculiare, sia perché esistono diverse intensità di fondamentalismo che determinano una gradualità della loro conflittualità. L’uso corrente e banalizzato del termine, inoltre, ne fa un sinonimo generico di “fanatismo” o di “violenza religiosa”, perdendo così le caratteristiche peculiari di un termine che ha una densità di significati teologici, che invece è necessario salvaguardare per una corretta interpretazione del fenomeno. Secondo un’efficace sintesi di Massimo Introvigne che riprende lo schema interpretativo di un ambizioso progetto di ricerca denominato Fundamentalism project dell’American Academy of Arts and Sciences, si tratta di “un movimento di reazione all’emarginazione della religione; ...selettivo, in quanto sceglie alcuni aspetti della tradizione che vuole difendere e identifica nell’ambito della modernità alcuni bersagli da colpire (mentre altri aspetti della modernità sono accettati); [che] tende a una sorta di ‘manicheismo morale’, dividendo il mondo in ‘noi’ e ‘loro’; [che] adotta un principio di assolutismo e d’infallibilità relativamente alle sue Sacre Scritture; [che] tende ad adottare una prospettiva millenarista. Dal punto di vista organizzativo, il fondamentalismo – o meglio i fondamentalismi, giacché ne esistono specie diverse – tende a considerare i propri membri come un gruppo di ‘eletti’ in lotta contro il ‘mondo’ corrotto; stabilisce frontiere nette fra chi fa parte del gruppo e chi ne è fuori; si organizza in modo piuttosto autoritario; emana regole di comportamento che spesso coinvolgono i segni esteriori (come gli abiti) e hanno un grande valore simbolico”9.
Non tutti i fondamentalismi sono violenti, pertanto, e la mitezza a-politica degli amish, delle confraternite sufi o di certi haredim ci dice come si possa essere fondamentalisti senza ledere interessi generali o minacciare la coesione sociale. Il nostro problema è, però, che dai primi decenni del secolo scorso abbiamo assistito a una radicalizzazione dei fondamentalismi che hanno plasmato nuovi attori, e si sono distinti per la loro strategia di antagonismo nei confronti dell’ordine vigente e di contrapposizione a leadership laiche o comunque secolarizzanti.
È il caso del fondamentalismo ebraico che, in contrapposizione all’ebraismo ortodosso che affidava la costruzione dello Stato ai tempi e alla volontà del Messia – almeno sino al 1967 – concepisce un sionismo di matrice esplicitamente religiosa. Una prima svolta si ebbe con Yitzhaq Yaacov Reines, il quale già nel 1902 fondò il movimento sionista religioso Mizrachi sostenendo che l’insediamento nella terra di Israele non aveva nulla a che fare con la futura redenzione messianica degli ebrei, e quindi non costituiva una sfida eretica alla volontà di Dio.
Ma la personalità chiave di una corrente ebraico-ortodossa e sionista è stato Abraham Kook (1865-1935), rabbino capo aschenazita ai tempi del Mandato britannico di Palestina. Originario della Lettonia, studiò in Lituania in ambienti chassidici, interpretando così un ebraismo “spiritualista” e “mistico” decisamente distante dalle controversie politiche e dagli orientamenti sionisti. La sua “salita” verso la Palestina avvenne nel 1904, quando si stabilì a Giaffa. Non fu una sistemazione stabile e lo scoppio della Prima guerra mondiale lo colse in Inghilterra dove fu costretto a restare sino al 1919, quando rientrò a Gerusalemme come rabbino capo aschenazita della città, per diventare, due anni dopo, rabbino capo dell’intero territorio palestinese sotto il Mandato britannico.
Muovendo dal principio “Rinnoviamo l’antico. Santifichiamo il nuovo”, Kook arrivò ad affermare che la costituzione dello Stato di Israele non negava il principio ortodosso che soltanto il Messia potesse istituire lo Stato ebraico, ma al tempo stesso sottolineava come questo processo andasse “incoraggiato” e “affrettato”10. Ma più che per la sua teologia, Kook riscosse consensi e si attirò critiche feroci per la sua retorica nazionalista: “Il popolo ebraico è superiore a tutte le nazioni della terra – scriveva –. La differenza tra l’anima ebraica, il suo sé, i suoi desideri interiori, il suo carattere straripante, la sua posizione, e quella di tutte le nazioni, a tutti i loro livelli, è maggiore e più profonda della differenza tra l’anima umana e quella di un animale. Rispetto a queste ultime, c’è solo una distinzione quantitativa; tra i primi, un’essenziale distinzione qualitativa”11.
Se Abraham Kook pose le premesse teoriche di un sionismo religioso teso a santificare la conquista della terra nel quadro di un processo di redenzione degli ebrei, si deve a suo figlio Tzvi Yehuda Kook la fondazione della prima formazione politico-religiosa ebraica che possiamo definire “fondamentalista”. Sull’onda degli insegnamenti del padre, nel 1975 egli fu tra gli ispiratori del Gush Emunim (Blocco dei fedeli), una formazione politico-religiosa che tra i suoi obiettivi dichiarati aveva quello di favorire l’azione messianica promuovendo la colonizzazione ebraica di Eretz Israel, la terra d’Israele nella formulazione biblica, e quindi un territorio giuridicamente e geopoliticamente indefinito ma che certamente comprendeva i Territori occupati da Israele nel 1967. Formalmente, nessun governo aveva incoraggiato questa strategia, ed anzi, ancora nel 1974, le autorità militari israeliane avevano ripetutamente sgombrato una piccola colonia di ebrei che si era insediata nei pressi del villaggio palestinese di Sebastia, non lontano da Nablus. La svolta arrivò proprio l’anno successivo quando, dopo un aspro contenzioso, i coloni ormai organizzati nel Gush Emunim ebbero l’autorizzazione a insediare 25 famiglie per fondare il villaggio di Kedumim che oggi conta oltre 4000 residenti. Il 1976 fu l’anno della costituzione di Amana, l’organizzazione operativa dei coloni che si riconoscevano nel Gush Emunim, che tra i suoi obiettivi dichiarati aveva quello della costruzione di insediamenti ebraici in Giudea, Samaria, sulle alture del Golan e nella striscia di Gaza.
Considerando che oggi nei territori della Cisgiordania risiedono oltre 500.000 coloni, emerge evidente l’efficacia della strategia pionieristica del Gush Emunim. Benché non si sia mai trasformato in un partito, ed anzi un decennio dopo la sua nascita si sia sostanzialmente dissolto, esso ha avuto un’influenza decisiva nella crescita dei partiti nazionalisti religiosi. Con oltre 20 seggi sul totale dei 120 della Knesset, i partiti nazionalisti religiosi che da anni costituiscono un pilastro essenziale delle coalizioni di centrodestra guidate da Benjamin Netanyahu. Pur con una forza limitata, essi hanno la capacità di condizionare il governo, e dispongono dei voti necessari a sviluppare la loro agenda politica di sostegno alle colonie in Cisgiordania, certamente, ma più in generale provvedimenti di natura religiosa che rafforzano la componente religiosamente più radicale della società israeliana.
Il risultato più importante conseguito da queste formazioni è che hanno attivato un elettorato religioso distante dalla politica, e lo hanno fatto sulla base di un’agenda elettorale che metteva in campo questioni essenziali legate all’identità ebraica: dalla tutela dello Shabbat ai privilegi riservati alle associazioni ultraortodosse e ai loro membri, per finire al rapporto con i territori di Giudea e Samaria considerati biblicamente parte di Eretz Israel.
Azioni terroristiche come quella di Baruch Goldstein, responsabile della strage di Hebron del 1994 (94 vittime), e di Yigal Amir che l’anno dopo uccise il premier Yitzhak Rabin, non sono imputabili al Gush Emunim, ma costituiscono una variabile non marginale del fondamentalismo ebraico. Come gli altri fondamentalismi, infatti, anch’esso si sviluppa in un scala di diverse intensità e quindi di graduale incidenza sul sistema politico, andando dal minimo di richieste democraticamente sostenibili, come la tutela di prescrizioni e tradizioni religiose, al massimo di azioni violente contro avversari – sia politici che religiosi – o personalità istituzionali che rappresentano un ordinamento giuridico considerato blasfemo, contro cui combattere nel nome di Dio.
Si iscrivono nel corpo del fondamentalismo ebraico anche i diversi movimenti per la costruzione del “terzo tempio” di Gerusalemme, in passato responsabili di gravi scontri sulla “Spianata delle moschee”, da essi ovviamente definita “del tempio”. In ordine cronologico, il primo è quello dei “Fedeli del tempio”, fondato nel 1967 ma assurto alle cronache nel 1990 quando annunciò di voler porre una “pietra angolare” per la costruzione del Terzo tempio. La sola notizia provocò la mobilitazione delle migliaia di palestinesi che interpretavano quel gesto come una profanazione dell’islamicità di al-Haram al-Sharif dove, come ben noto, sorgono la moschea di Al Aqsa e la cupola della roccia, per i musulmani di tutto il mondo luoghi tra i più sacri dopo La Mecca e Medina. Negli scontri dell’8 ottobre 1990, diciassette palestinesi rimasero uccisi e altri cento feriti in seguito all’intervento delle forze armate israeliane. Da allora, ai “Fedeli del tempio” è vietato l’accesso alla ‘Spianata’ e, sin qui, i loro continui ricorsi alla Corte di giustizia israeliana non hanno avuto successo. Se negli anni i “Fedeli del tempio” hanno perso la centralità che avevano come pionieri di questa impresa politico-religiosa, l’attivismo di altre sigle e movimenti – ad esempio l’Istituto del Tempio – dimostra che non siamo di fronte a una fantasia di ispirazione biblica ma a un progetto molto concreto e potenzialmente carico di conseguenze geopolitiche letali12, aggravate, come vedremo, dall’intesa spirituale e operativa con agguerriti e ben finanziati gruppi del fondamentalismo cristiano.
Salafiti, Fratelli musulmani, hezbollah, talebani, Hamas, Ennahda, Al-Qaeda, Isis, Boko Haram... ciò che con superficialità oggi si definisce “fondamentalismo islamico” è in realtà un fenomeno molto articolato e complesso nel quale si confrontano – talora conflittualmente – anime teologiche e politiche diverse. Vi sono organizzazioni islamiste che operano su uno scenario nazionale, nel quadro di un contenzioso territoriale specifico, come Hamas nei territori palestinesi, Hezbollah in Libano o il partito Ennahda in Tunisia; altre che invece si sono date un assetto transnazionale e perseguono una strategia di islamizzazione dal basso, come i Fratelli musulmani in vari paesi del Nord Africa e nella stessa Europa, o – nella peculiare prospettiva politico-militare di ricostruzione del Califfato – l’Isis; altre ancora che hanno privilegiato l’azione eclatante di una élite militarizzata come Al-Qaeda, ed altre che invece puntano alla mobilitazione di massa come Boko Haram in Nigeria; così, se alcuni movimenti si appoggiano a Stati che a loro volta li legittimano, come accade per i salafiti in Arabia Saudita, altri, come l’Isis, lo Stato islamico intendono costruirlo. Con il paradosso che se oggi il fenomeno fondamentalista attraversa massicciamente il campo sunnita, una delle sue espressioni più acute che ha indotto a rivedere le classiche tesi sulla secolarizzazione, riguarda invece il mondo sciita: fu la rivoluzione iraniana guidata dall’ayatollah Khomeini ad inaugurare nel 1979 una nuova primavera del pensiero islamista più radicale.
Se pertanto dobbiamo declinare il termine al plurale e parlare di “fondamentalismi islamisti”, non rinunciamo però a cercare qualche tratto unificante che ci consente di parlare di un fenomeno, complesso e articolato, ma pure unitario nei suoi assunti di fondo. In questo caso specifico ci paiono utili le categorie con le quali Enzo Pace e Renzo Guolo13 hanno accorpato le sue diverse espressioni: l’infallibilità del Libro sacro e quindi del messaggio che per suo tramite Dio rivolge all’umanità; l’astoricità, ovvero il rifiuto di collocare in una prospettiva storica o di adattare al mutare delle condizioni la legge divina contenuta nei libri sacri; la superiorità della stessa legge divina su quella umana; il primato del mito di fondazione di una società che, in un tempo antico e ideale, era governata secondo la legge di Dio. Proprio questa idealizzazione di un’età dell’oro dell’islam coincidente con il tempo della predicazione di Muhammad e dei “califfi ben guidati” suggerisce a Massimo Campanini la definizione di “utopia retrospettiva”14 come tratto unificante delle diverse espressioni dei fondamentalismi islamisti.
Tutti questi elementi si ritrovano nell’ideologia salafita che viene generalmente considerata la matrice teologica del fondamentalismo islamista. Richiamandosi alla predicazione di un grande pensatore del IX secolo, Ahmad Ibn Hanbal, già tra il XIX e il XX secolo questa corrente di pensiero che si richiamava ai “pii antenati” nella fede proponeva un ritorno alla purezza dell’islam delle origini, un viaggio alle “fonti” che implicava la definizione di una nuova interpretazione (ijtihād) del Corano e della Tradizione (Sunna). A partire da questa premessa, i salafiti ritengono che una stretta interpretazione del Corano deve guidare i musulmani in ogni tempo e in tutte le circostanze. Al tempo stesso affermano una particolare concezione del tawhid (il principio di unicità di Dio) che nel suo rigorismo ed esclusivismo dottrinale li conduce a combattere tutte quelle espressioni religiose che “parificano altri esseri e cose con Dio”, ad iniziare dalle “innovazioni reprensibili che nella credenza e nella pratica essi stessi hanno volontariamente o involontariamente adottato”15.
Se il salafismo comprende anche “correnti quietistiche e apolitiche che predicano la supina acquiescenza allo status quo”16, la componente principale si distingue per le sue posizioni jihadiste che interpretano il jihad come una guerra contro gli infedeli piuttosto che – come nell’assoluta maggioranza dell’islam – come uno sforzo interiore per assecondare la volontà di Dio. Caratterizzato da un impeto antioccidentale, il movimento finì per intrecciarsi con il wahhabismo, una delle correnti più rigoriste dell’islam, affermatasi soprattutto nella regione che comprende Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi in seguito alla predicazione di Muhammad ibn Abd al-Wahhab.
Nel tempo salafiti e wahhabiti si trovarono accomunati nello scontro non soltanto con gli infedeli non musulmani, ma anche con i musulmani accusati di deviare da una presunta ortodossia coranica, quali ad esempio i sufi e gli sciiti. L’adozione del wahhabismo come teologia ufficiale in Arabia Saudita, negli anni ha contribuito a politicizzare questa corrente dell’islam ed a farne un riferimento primario, anche sul piano organizzativo e proselitistico, per movimenti fondamentalisti transnazionali.
Come si evidenzia nel caso dell’Isis, le cellule del fondamentalismo islamista si aggregano su basi ideologiche diverse, talora contraddittorie e improvvisate: il salafismo, certo, ma anche un rabbioso radicalismo antioccidentale che trova nell’islamismo il suo filo conduttore e nell’antisemitismo un tratto preponderante e ricorrente; schegge “politiche” dei vecchi apparati di potere deposti, unificati da una retorica intessuta di simbologie religiose come quella dello sceicco al-Baghdadi che per bocca del suo portavoce Muhammad al-Hadnani ha minacciato: “Prenderemo Roma, spezzeremo le sue croci, renderemo schiave le sue donne, e se non saremo noi a farlo, ci riusciranno i nostri figli o i nostri nipoti, vendendo sui mercati degli schiavi i figli di Roma”17.
Le correnti del fondamentalismo islamista hanno registrato una crescita più ampia del previsto. Evidentemente hanno un elemento di appeal che certo non coincide con le immagini macabre degli sgozzamenti e delle rituali invettive contro gli infedeli. Ci deve essere dell’altro. Che cosa? La risposta non è univoca: certamente ha un suo ruolo e un suo peso il risentimento contro la logica militare interventista che ha segnato la politica dell’Occidente almeno dall’11 settembre del 2001. Ma nel solco della nostra tesi che attribuisce uno specifico protagonismo alle religioni, ci associamo con più convinzione a chi afferma che soprattutto tanti giovani intellettuali musulmani hanno respinto la via – a volte suggerita e altre imposta dall’Occidente – di “modernizzazione dell’islam” fino a farne una sorta di riferimento culturale secolarizzato, per abbracciare invece una strategia di “islamizzazione della modernità” dal forte carattere identitario e militante18.
È nota la tesi secondo cui la violenza sarebbe un tratto costitutivo delle religioni rivelate e monoteiste che, proprio perché si basano sul principio dell’unicità di Dio, sono intrinsecamente esclusive. Le religioni orientali, invece, agnostiche come il buddhismo o “politeiste” come impropriamente è considerato l’induismo, sarebbero più tolleranti già nella loro essenza e quindi, più e meglio di altre, si possono candidare come vie di pace. Premesso che l’induismo non si percepisce affatto come politeista e invece rivendica un rigoroso monoteismo – ma non è questo il nostro tema – la cronaca geopolitica ci dice altro.
Nello Sri Lanka è in ascesa un partito, il Bodu Bala Sena (BBS), Forza del Potere Buddhista, che ha tutti i tratti di esclusivismo violento caratteristici degli altri fondamentalismi. In un paese segnato da un conflitto durato oltre 25 anni, l’ascesa del BBS ha rivitalizzato i fantasmi di uno scontro religioso tra la maggioranza buddhista e le minoranze cristiane e musulmane. Il fatto che i promotori del BBS siano due monaci della tradizione buddhista theravada è già sufficiente a connotare il partito come religioso; ma ciò che conta di più è l’agenda politica che questo persegue: in primo luogo la “buddhistizzazione” della società cingalese, a partire dalla nomina dei monaci come insegnanti di storia ed altre materie umanistiche, per arrivare alle corsie preferenziali agli studi per i giovani buddhisti praticanti, e alle restrizioni alla libertà di culto delle altre comunità di fede. Secondo Gnanasara Thero, uno dei fondatori del BBS, “è tempo di creare un network di suprematisti buddhisti in Myanmar, Sri Lanka, Bangladesh e in Thailandia”19, a riprova di un piano di internazionalizzazione del radicalismo nel nome del Buddha.
Il caso di studio più grave e forse più evidente, però, è quello del Myanmar, dove nel 2011 è nato un minaccioso network fondamentalista denominato 969, che ha sviluppato legami operativi con i fratelli del BBS. I militanti del 969 sono tra i più convinti fautori della pulizia etnica religiosa nei confronti della minoranza musulmana di etnia Rohingya – circa 800.000 persone all’origine di un processo di costante emigrazione forzata – a sua volta causa di ritorsioni di matrice islamista. Nelle previsioni del Centro Studi Internazionali, lo scenario è minaccioso perché proprio l’alleanza tra il birmano 969 e il cingalese BBS “potrebbe favorire la nascita di un vero e proprio network operativo buddhista internazionale, spingendo questi movimenti ad abbracciare pienamente l’uso della violenza anti-islamica”, e così dando vita a un pericoloso scontro tra radicalismi religiosi. E il rischio di un allargamento dell’internazionale del fondamentalismo buddhista aprirebbe “uno scenario in grado di far deflagrare nell’area un conflitto religioso dagli esiti potenzialmente destabilizzanti”20.
Spostandoci nel subcontinente indiano, il fondamentalismo induista presenta tutte le gradazioni di intensità – e quindi i diversi livelli di incidenza politica – che abbiamo riscontrato in quello cristiano o in quello islamico21. Una sua espressione moderata, infatti, è il Bharatiya Janata Party (BJP) oggi al potere, mentre, tra le frange più radicali, ritroviamo il Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS, “Corpo nazionale dei volontari”), una fazione induista costituitasi nel 1925 – singolarmente coeva ad altri fondamentalismi – che a partire dall’ideologia dell’hindutva (“induità”) predica la sintesi di ogni fondamentalismo: “una nazione, una cultura, una religione”. Secondo il Terrorism Research Centre con sede in Virginia, l’RSS è un vero e proprio gruppo terrorista organizzato nazionalmente che gestisce in tutto il paese 300.000 fra scuole ideologiche e centri di addestramento22.
Il BJP è al potere dal 2014 e in questi anni, oltre ad avere promosso politiche “induiste”, non ha garantito adeguata protezione alle minoranze religiose che denunciano violenze e soprusi tollerati dalle forze di polizia. In particolare, il vescovo cattolico Thomas Paulsamy ha denunciato decine di attentati contro la minoranza cristiana, compreso l’omicidio del pastore pentecostale Gideon Periyaswamy, trovato morto il 20 gennaio 2018 dopo che aveva denunciato alla polizia di aver ricevuto minacce da fondamentalisti indù. “Il BJP sostiene i fondamentalisti – afferma monsignor Paulsamy – e la polizia spesso perseguita le vittime anziché aiutarle”23.
Forti e talora eversivi nella loro singolarità, i fondamentalismi moltiplicano la loro energia quando, per assurde contorsioni teologiche, convergono su alcuni obiettivi.
Il caso più inquietante e paradossale è quello dell’incontro tra alcune correnti del fondamentalismo ebraico da una parte, e di quello cristiano evangelical dall’altra. Lo sfondo di questa imprevedibile liaison è ancora una volta quel fazzoletto di terra mediorientale sul quale sorgono i luoghi sacri a tre religioni monoteiste. Nel maggio del 2018, ad esempio, quando il presidente Trump ha reso operativa la decisione di trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme in omaggio al fatto che la “città santa” è, come recita una legge della Knesset, “capitale eterna e indivisibile d’Israele”, fondamentalisti ebrei e cristiani si sono idealmente uniti in una preghiera di ringraziamento per un risultato perseguito da tempo. La decisione dell’Amministrazione USA ha avuto motivazioni certamente politiche ma, se non altro per il vicepresidente Mike Pence e milioni di evangelical fondamentalisti, questa decisione politica ha fortissime implicazioni bibliche e teologiche. E poco importa se la decisione ha posto un altro gigantesco masso sulla strada già contorta e impraticabile della pace tra israeliani e palestinesi. Se per i tecnocrati e gli spin doctor di Trump, il trasferimento della sede diplomatica è stato un messaggio rivolto ai vari attori politici – amici e non – che hanno parte nel complicato gioco mediorientale, per i fondamentalisti cristiani è stato il compimento di una profezia biblica che rafforza la loro ansia messianica e avvalora la loro visione geopolitica della scena mediorientale.
Sono gli apostoli di un particolare fondamentalismo che, benché possa essere ricondotto alla predicazione di un teologo inglese del XIX secolo, John N. Darby, ha incontrato una nuova attualità e fortuna dopo i fatti dell’11 settembre 2001. In estrema sintesi, Darby proponeva un’ermeneutica biblica strutturata in ere temporali – nel suo linguaggio: “dispensazioni”, da dove deriva il termine che definisce la sua teologia “dispensazionalista”. A partire dalla lettura dei testi profetici della Bibbia, primi tra tutti il libro di Daniele e ovviamente l’Apocalisse, il “dispensazionalismo” prefigura una cronologia degli ultimi tempi che si svilupperebbe secondo un preciso “piano di Dio”. Avvicinandosi gli ultimi giorni del mondo, l’umanità sarebbe provata da una serie di “tribolazioni” e cioè di eventi drammatici e funesti durante i quali 144.000 “veri credenti” saranno rapiti in cielo. La loro scomparsa agli occhi umani dovrebbe essere il segnale di una serie di imminenti catastrofi che i dispensazionalisti più audaci non esitano a identificare con eventi contemporanei, come l’insorgenza del fondamentalismo islamista, gli attacchi suicidi contro Israele, la nascita dell’Isis.
I teologi del “sionismo cristiano” sono una derivazione recente e politicamente assai più radicale del dispensazionalismo, il cui pensiero e la cui azione si concentra su Israele, la sua sicurezza, il suo ruolo nella comunità delle nazioni che è quello di dimostrare la veridicità delle profezie bibliche. Idee diffuse in ampi settori della comunità cristiana americana, come ben dimostra il successo editoriale di una collana prima, e poi di alcuni film di “fiction religiosa”, in cui si descrivono gli ultimi giorni del mondo, venduti in decine di milioni di copie24.
È superfluo sottolineare che le stragi dell’11 settembre 2001 hanno rinvigorito tutti i fondamentalisti evangelical e, tra questi, anche quelli che si riconoscono nel “sionismo cristiano”. Il termine è in sé ambiguo perché non si tratta semplicemente, come si potrebbe dedurre, di cristiani che hanno a cuore la causa sionista, ma di gruppi che promuovono l’espansione di Israele nei Territori nella convinzione che questo affretti i tempi messianici e quindi il compimento del piano di Dio per l’umanità25. La rivendicazione di Gerusalemme come “capitale unita e indivisibile di Israele” già prima dello storico voto della Knesset nel 1980, il fermo rifiuto degli accordi di pace del 1993, il sostegno attivo agli insediamenti ebraici in Cisgiordania e un’insistente campagna perché il governo USA trasferisse da Tel Aviv alla Città santa la propria ambasciata, hanno caratterizzato l’azione pubblica delle varie associazioni del sionismo cristiano. In tempi più recenti, a questo si aggiungano gli iperbolici apprezzamenti per Donald Trump, nel bene della sua politica così come nel male della sua condotta giovanile, associato addirittura a re David26. Una benevolenza che l’Amministrazione ha rilevato e apprezzato, al punto da garantire un vero e proprio endorsement ai sionisti cristiani, inviando il vicepresidente Mike Pence al summit di Christians United for Israel, un network del sionismo cristiano che ha celebrato la sua assise nel luglio del 201727.
Dal nostro punto di vista il problema non è certo quello della plausibilità teologica delle tesi che questo ed altri network analoghi esprimono, quanto la rilevanza politica dei loro corollari. E a questo riguardo l’allarme è molto alto. Le “tribolazioni”, infatti, vanno recepite come un appello a scegliere se stare con le forze celesti o con l’Anticristo e a dare concretezza a questa scelta di campo. Ma chi è l’Anticristo? Le correnti fondamentaliste più recenti lo identificano con un centro di potere che, con il pretesto di unificare popoli e nazioni per costruire la pace, in realtà si oppone alla volontà di Dio. In questo senso l’Unione europea e soprattutto le Nazioni Unite vengono viste come forze dell’Anticristo; ma ce n’è anche per il dialogo interreligioso e chi lo propone, a iniziare da papa Giovanni Paolo II che ne ha dato una plastica interpretazione di rilievo mondiale in occasione dei due incontri di preghiera svoltisi ad Assisi nel 1986 e nel 2002.
Finalità dell’Anticristo è la guerra, che per i “cristiani sionisti” è certamente un male per le sofferenze che genera, ma che al tempo stesso costituisce un passaggio imprescindibile per l’avvento del Regno di Dio. Ogni tentativo di pace – con i comunisti negli anni della Guerra fredda, con i musulmani e palestinesi o con chiunque altro si opponga al piano di Dio oggi – è in realtà una trappola architettata dall’Anticristo che si presenta con false e ingannevoli parole di pace. Lo spiega in dettaglio John Hagee, pastore di una megachurch in Texas, uomo forte del sionismo cristiano e finanziatore di rilevanti colonie ebraiche in Cisgiordania28. Non stupisce che uno dei suoi passi di riferimento sia il libro di Gioele in cui si leggono veri e propri proclami di battaglia: “Proclamate questo tra le nazioni, preparate la guerra, fate risvegliare gli uomini valorosi, si avvicinino, salgano tutti gli uomini di guerra! Forgiate spade con i vostri vomeri e lance con le vostre falci” (Gioele, 3, 9-12).
L’incredibile e per certi aspetti inspiegabile paradosso è la saldatura, se non altro concettuale, che si è stabilita tra alcune componenti del sionismo cristiano e altri gruppi riconducibili a quella complessa galassia che abbiamo definito del “fondamentalismo ebraico”. Le prime, generalmente orientate in senso manicheo – o si è salvati in Cristo oppure si è dannati –, nel caso degli ebrei sospendono ogni proselitismo attendendo fiduciosi che con il ritorno del Messia essi si convertiranno naturalmente. Per evidenza dei fatti, potremmo dire. Quanto ai fondamentalisti ebrei che per ovvie ragioni dottrinali generalmente si oppongono con forza a ogni forma di dialogo con i cristiani – tanto più quando questi assumono posizioni critiche nei confronti della politica israeliana – nel caso dei “sionisti” adottano un atteggiamento tollerante e benevolo, preferendo incassare oggi il loro sostegno politico ed economico e rinviando a domani il contenzioso dogmatico e teologico sull’identità del Messia. Sognando un finale diverso, fondamentalisti ebrei e sionisti cristiani si ritrovano insieme sulla strada dell’Armaghedon nel quadro di una innaturale quanto paradossale alleanza politica29.
1 Cfr. M.I. Macioti, Genocidi e stermini di massa. Il Novecento a confronto, Guida, Napoli 2018.
2 Per un inquadramento del processo, P. Naso, La polemica antidarwiniana negli USA tra religione e politica, “Protestantesimo”, 65/1, 2010, pp. 55-63.
3 Pew Research Center, For Darwin Day, 6 facts about the evolution debate, 10 febbraio 2017, http://www.pewresearch.org/fact-tank/2017/02/10/darwin-day/.
4 A. Spadaro, M. Figueroa, Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico. Un sorprendente ecumenismo, “Civiltà cattolica”, Quaderno 4010, 2017, vol. III.
5 E. Del Medico, All’estrema destra del padre: tradizionalismo cattolico e destra radicale. Il paradigma veronese, Edizioni La Fiaccola, Noto 2004.
6 C. Hovorun, Orthodox Fundamentalism: From Religion to Politics, 15 gennaio 2016, www.wheeljournal.com.
7 L. Sandri, Scisma tra Mosca e Costantinopoli, “Confronti”, 4 ottobre 2018.
8 C. Lapi, La difficile posizione giuridica dei Testimoni di Geova in Russia di fronte alla Corte di Strasburgo, “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, rivista telematica, giugno 2011, https://www.statoechiese.it/contributi/la-difficile-posizione-giuridica-dei-testimoni-di-geova-in-russia-di-fronte, visualizzato il 12 dicembre 2018.
9 M. Introvigne, Fondamentalismo, in Enciclopedia del Novecento, III supplemento, 2004, http://www.treccani.it/enciclopedia/fondamentalismo_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/.
10 R. Guolo, La terra della redenzione, Guerini e Associati, Milano 1998.
11 Cit. in H. Balk, The Soul of a Jew and the Soul of a Non-Jew. An Inconvenient Truth and the Search for an Alternative, «Hakirah», n. 16, inverno 2013, p. 53.
12 M. Inbari, Jewish Fundamentalism and the Temple Mount: Who Will Build the Third Temple?, State University of New York Press, Albany (NY) 2009.
13 E. Pace, R. Guolo, I fondamentalismi, Laterza, Roma-Bari 2002.
14 M. Campanini, Ideologia e politica nell’islam, Il Mulino, Bologna 2015.
15 M. Campanini, Salafismo e islamismo nel pensiero islamico contemporaneo, in L. Guazzone, Storia ed evoluzione dell’islamismo arabo. I Fratelli musulmani e gli altri, Mondadori, Milano 2015, p. 38.
16 Ivi, p. 39.
17 M. Molinari, Il califfato del terrore. Perché lo Stato islamico minaccia l’Occidente, BUR, Milano 2015, p. 126.
18 R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, Laterza, Roma-Bari 2002.
19 E. Bompan, Estremismo buddhista all’attacco, “La Stampa”, 29 gennaio 2015.
20 A. Parisi, Il radicalismo buddista in Myanmar e Sri lanka, Centro Studi Internazionali, 24 ottobre 2014, online.
21 Tra i pochi lavori scientifici sul fondamentalismo induista pubblicati in Italia, segnaliamo G. Battaglia, L’altro fondamentalismo. India, nazionalismo, identità, Guida, Napoli 2015.
22 RSS (fondamentalismo indù): 300mila scuole, 10 milioni di volontari, centri di addestramento, 100 milioni di simpatizzanti. Il Terrorism Research Centre lo ha inserito fra le 39 centrali del terrore nel mondo; Agenzia Fides, 30 maggio 2005, http://www.fides.org/it/news/6541, scaricato il 12 dicembre 2018.
23 Narendra Modi vuole uno Stato induista e se resterà al potere la vita per noi cristiani sarà impossibile, “Aleteia”, 24 agosto 2018, online.
24 Ci riferiamo in particolare alla saga dei Left Behind, una serie di 16 best seller firmati da Tim LeHaye e Jerry Jenkins, pubblicati tra il 1995 e il 2007. Dai romanzi è stata ricavata la trama di varie serie televisive e di un film interpretato da Nicholas Cage.
25 L’opera divulgativa più accurata sul sionismo cristiano resta V. Clark, Allies for Armageddon. The Rise of Christian Zionism, Yale University Press, Yale 2007.
26 S. Moon, Franklin Graham is Right: Trump is Similar to King David, “Patheos”, 2 luglio 2016.
27 Sull’intera questione rimandiamo a P. Naso, Il Papa complice dell’Anticristo. Geopolitica dei sionisti cristiani alla vigilia dell’apocalisse, “Limes”, 6/2018, p. 188.
28 J. Hagee, Jerusalem Countdown. A Warning to the World, Frontline, Lake Mary 2006, in particolare pp. 120 sgg.
29 T.P. Weber, On the Road to Armageddon. How Evangelicals Became Israel’s Best Friends, Baker Academic, Grand Rapids 2004.