Abbiamo cercato di dimostrare che le religioni non sono vie di pace. Troppe pagine storiche raccontano di un ruolo politico delle religioni orientato al conflitto e persino a contrastare le utopie di pace che nascevano sia al loro interno che al loro esterno. Se questo dato sia reversibile e cioè se sia possibile una conversione delle religioni come efficaci attori di politiche di pace, non è tema del nostro ragionamento né, onestamente, la questione ci appare ben posta. Chi, se non un agguerrito fondamentalista, non si augura che le religioni possano contribuire alla pace? Chi è disposto a rinunciare alla speranza che le comunità di fede possano contribuire attivamente alla costruzione del bene comune, che ha come elemento primario e fondante la pace interna e quella esterna? L’auspicio della conversione delle religioni, insomma, ci pare conclusione troppo ovvia e scontata, e comunque è un wishful thinking che ha scarsa aderenza ai processi geopolitici attuali.
Così come ci pare una comoda scorciatoia andare alla minuziosa ricerca di uomini, donne, comunità, sermoni, omelie, preti, pastori, rabbini, imam, predicatori e predicatrici di ogni tipo che nel loro ministero si sono distinti per il grande contributo che hanno dato al superamento dei conflitti. Alcuni di loro li abbiamo incidentalmente citati e sappiamo che insieme a molti altri compongono un pantheon etico dal quale è impossibile prescindere per costruire vere vie di pace. Se però l’analisi condotta ha fondamento, dovremo pur chiederci perché le religioni, che pure si propongono come “vie di salvezza”, siano finite per diventare agenzie del conflitto. La scorciatoia laicista risponde che così è perché le religioni, tutte le religioni, sono frutto di un “grande inganno”, di una illusione alienante sulla quale è stato costruito un gigantesco sistema di potere.
Per convinzione intima e ragioni biografiche non la pensiamo così. Oltretutto non sarebbe difficile sciorinare storie di uomini e donne di fede che, proprio grazie alla loro visione del mondo e alla loro idealità spirituale hanno afferrato e vinto sfide di primaria importanza per il bene comune. Per limitarci ai nostri tempi, esiste un pantheon ideale nel quale collocare Dag Hammarskjöld e Tich Nath Han, Desmond Tutu e Martin Luther King, Thomas Merton e Dorothy Day, Tolstoj e Gandhi. Tutti sinceramente credenti, ciascuno a modo proprio, ma con la ferma convinzione che la religione dovesse essere una via di pace. Eppure tutti hanno attraversato dei conflitti nei quali le loro religioni erano parte in causa.
Quale può essere, allora, la conclusione del ragionamento che abbiamo condotto? Proviamo a definirla in quattro punti.
1. Le religioni sono costruzioni umane. Ciò che noi convenzionalmente e con qualche semplificazione chiamiamo “religione” è in realtà un oggetto complesso che si compone di diversi elementi: la rivelazione, il dogma, il rito, l’organizzazione interna, i ministeri, l’etica, le strategie di annuncio e, almeno per alcune, di proselitismo. Troppo spesso si guarda alle religioni dall’alto, ovvero dalla rivelazione o dal dogma, mentre per affrontare il nostro tema occorre osservare il nostro oggetto di studio ‘dal basso’, dagli elementi fondamentali che lo compongono. Nulla di nuovo e, potremmo dire, basterebbe ‘tornare a Durkheim’ e con lui a quel pensiero sociologico che definiva la religione “un sistema solidale di credenze e pratiche e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate e interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale... tutti quelli che aderiscono”1. Assumendo questa definizione, le religioni non sono costruzioni sacre e infallibili come pretendono di essere, ma “sistemi sociali” che si reggono sull’adesione fideistica di uomini e donne. La religione e il percorso di fede che li accompagneranno potranno modificare i loro comportamenti, così come contribuiranno ad orientare le loro scelte di vita, ma non annullano la loro umanità. Arriverei a dire che senza “risorse umane” le religioni semplicemente non esisterebbero o, meglio, sarebbero un’astrazione empirea priva di rapporto con la storia e con la realtà. In questo senso non ci convince la dissociazione tra la “bontà” delle religioni e la “malignità” di coloro che vi aderiscono, per il semplice fatto che l’idealità religiosa convive necessariamente e ineluttabilmente con l’esperienza umana. La conclusione a cui vogliamo arrivare è che le religioni non sono state vie di pace perché gli uomini e le donne che li compongono non sono stati “costruttori di pace”. In astratto è ovviamente auspicabile che le cose possano cambiare, ma la condizione è una rivoluzione antropologica che è bello sognare ma è ben più difficile concepire e attuare. Nel frattempo le religioni hanno molto da fare, soprattutto in questo tempo che registra una loro nuova attualità: ripensare al loro passato e alle ombre che gravano su di loro oggi, educarsi ed educare alla pace, sostenere percorsi di pacificazione e riconciliazione. In parte lo stanno facendo, e bisogna prenderne atto. Ma devono abbandonare la pretesa di dare le risposte che altri – in primo luogo i decisori politici – non sanno dare. La pace è politica o, semplicemente, non è.
2. Esiste un nesso tra fondamentalismi religiosi e antiglobalismo. La globalizzazione ci ha prima rapito ed affascinato e poi deluso. Il sogno di un sistema globale autogovernato che avrebbe eliminato i conflitti e addirittura determinato “la fine della storia”, come profetizzava il politologo Francis Fukuyama nel 1992, è stato assai breve e, al risveglio, ci siamo ritrovati in un mondo più complicato e più agguerrito nel quale, spaesati di fronte a processi economici e sociali incontrollati, ci siamo rifugiati in gusci identitari rassicuranti e protettivi, che talora hanno assunto la forma di stili di vita fortemente caratterizzati, in altri casi dell’adesione a forme di religiosità estreme e chiuse, ciò che per approssimazione chiamiamo “fondamentalismi”. Un sistema economico sempre più globale e finanziario, ad esempio, ha rotto il legame diretto che chi avviava un’impresa o gestiva dei risparmi aveva con l’oggetto della sua attività: al meno competente di questioni economiche, oggi non sfugge che il valore di una merce può crollare o impennarsi sulla base di dinamiche incontrollate da chi la produce direttamente. Questa dinamica della globalizzazione è sfuggita di mano anche alla politica che, su materie strategiche come ambiente, risorse, scambi commerciali, ricerca... fatica ad esercitare il suo indirizzo perché è essa stessa vittima di una dinamica globale che non riesce a domare né a controllare.
La “rivincita delle religioni” sul paradigma della secolarizzazione crescente si è consumata in questo quadro, in cui tradizionali formule economiche o politiche hanno perso il loro senso, la loro vitalità ed il loro appeal. Oggi l’etica del lavoro di weberiana memoria non è più sufficiente a favorire la crescita sociale di un artigiano o di un imprenditore che invece che “cittadino globalizzato” si è ritrovato ad essere suddito spaesato di un sistema che fatica a individuare e definire. La reazione è stata la chiusura in enclave protette e rassicuranti, ancora più efficaci e attraenti se capaci di restituire un ordine e un senso alle cose, sia pure nella chiave del caos che precede l’Apocalisse. Un conto è subire guerre, povertà, alluvioni, terremoti senza capirne il perché; altro interpretarli nella prospettiva di un passaggio doloroso che precede il tempo messianico della giustizia e della pace. I diversi fondamentalismi offrono una chiave interpretativa a “caoslandia”, e indicano una exit strategy che rivolge la sua freccia alla ricomposizione di comunità protette, strutturate con rigore e precisi vincoli di comportamento, pronte alla difesa di valori assoluti ritenuti sotto minaccia, in una gradualità reattiva che, anche se non supera la soglia della violenza e del terrore, certamente non contribuisce alla coesione civile e alla pace.
3. Non c’è pace senza libertà religiosa. È la grande lezione malamente appresa e peggio applicata dei lunghi conflitti “di religione” che abbiamo richiamato nelle pagine precedenti.
Proprio perché caratterizzate da un maggiore pluralismo religioso, le società complesse e post-secolari hanno bisogno di un quadro normativo che garantisca tutte le componenti sociali – quelle maggioritarie e le minoranze – nell’esercizio del fondamentale diritto alla libertà religiosa e di pensiero. Ma per non produrre nuovi e più gravi conflitti, il pluralismo religioso ha bisogno di quella cornice giuridica che negli anni si è configurata attorno all’idea di laicità: concetto non facile, sfuggente e perfino articolabile in forme diverse, se persino un maître à penser del pensiero laico come Jean Bauberot ammette che il termine laicità oggi si declina in forme diverse e per questo necessita di precisazioni e attributi2. Eppure l’idea chiave di una radicale distinzione tra la sfera della decisione politica che spetta allo Stato e alle sue articolazioni, e quella della coscienza individuale e collettiva di comunità di credenti che si riuniscono attorno a una fede, resta l’architrave di ogni società pluralista che voglia mantenere la coesione e quindi la pace al suo interno.
Certo, oggi dobbiamo chiederci anche: “quale” laicità? Si ricorderà che il presidente francese Sarkozy aveva adottato l’aggettivazione “positiva”, mentre papa Benedetto preferiva dare un giudizio di merito precisando “sana”. Noi ci permettiamo di riproporre una formulazione di qualche anno fa quando ipotizzavamo una laicità “per addizione”3, strutturata cioè su un principio di separazione tra lo Stato e le confessioni religiose, che però non si propone come “sottrazione” di spazio pubblico alle confessioni religiose o ai sistemi di pensiero filosofici ma, al contrario, come un nuovo pluralismo in grado di assumere il contributo delle diverse organizzazioni confessionali e associazioni filosofiche al dibattito democratico.
Considerato il potenziale di conflittualità che sta in ogni pluralismo, tanto più se religioso, le norme e l’habitus mentale della laicità costituiscono un viatico essenziale alla convivenza democratica. Ma il valore e il metodo di una “laicità nel pluralismo religioso” ha una potenzialità anche nel sistema delle relazioni internazionali, come clausola di salvaguardia democratica delle minoranze. Una politica internazionale dei diritti umani non può difatti prescindere dall’idea guida che le libertà fondamentali debbano essere salvaguardate e difese prescindendo da un’agenda di tipo confessionalistico. I toni da crociata anti-islamica a volte adottati dal presidente George W. Bush4 e dal suo entourage sovraccarico di fondamentalismi evangelical, sono stati una variabile tra le più negative e distruttive dell’intervento militare contro l’Iraq.
4. La via della pace è politica. In un momento di acuta crisi di quella che la modernità ha definito “politica”, la suggestione di affidare ad altri lo scettro della pace è molto forte. Tanto più quando la politica sembra avere perso i suoi slanci ideali e i suoi disegni generali – non solo quelli solidaristici della sinistra, ma anche quelli liberali e liberisti delle forze moderate e conservatrici – per privilegiare pragmatismo e particolarismo: la retorica del “territorio”, la definizione del partito come “comunità”, il diffuso antieuropeismo, sono segni tangibili di un deficit di universalismo che sta piegando la politica da visione globale per il governo a pratica locale di organizzazione del consenso. L’idea che le religioni, con la loro storia, i loro valori e la loro densità ideale possano dare un colpo d’ala alla politica in declino è quindi assai diffusa: alcuni politici con cinismo di convenienza, altri per intima convinzione, immaginano di poter dare nuova forza alla loro azione supplendo al deficit morale e tecnico della loro funzione di rappresentanti del popolo e di legislatori con il ricorso al patrimonio simbolico e valoriale delle religioni. Alcuni esempi iconografici: Putin che partecipa alle solenni liturgie ortodosse; il premier ungherese Orbán che paventa l’invasione islamica come se fossimo ai tempi di Solimano; la Polonia che cerca di rinsaldarsi attorno alla sua tradizione cattolica; Trump – nei limiti di quello che la sua biografia gli consente – che si circonda di predicatori evangelical; Erdogan che si sottrae alla classica laicità turca per avviarsi su una strada islamista, e così via.
Più o meno strumentale che sia, la confessionalizzazione della politica non fa bene alle religioni – questo è un loro storico problema – ma soprattutto non fa bene alla politica stessa che perde il suo primario punto di forza, quello che si è faticosamente conquistato nei secoli: l’autonomia dalla religione in funzione del riconoscimento di diritti e doveri che prescindono dall’appartenenza a una comunità di fede.
La politica non ha gli scopi salvifici della religione ma ha senso e ruolo se riesce a garantire l’ordine, la giustizia, la convivenza, la pace di una comunità civile. Le religioni potranno sostenere ed accompagnare questo processo nel quadro di relazioni di più o meno intensa sussidiarietà, ma non ne sono le protagoniste principali. Insomma, vogliamo concludere affermando che la via della pace è nella politica. E per quanto sbiadita ed opaca oggi possa risultare la sua immagine, è solo restituendole lo scettro del potere e della decisione che possiamo osare sperare in un futuro meno conflittuale del presente.
1 É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, a cura di M. Rosati, Meltemi, Roma 2005.
2 J. Bauberot, Le tante laicità del mondo, LUISS, Roma 2005.
3 P. Naso, Laicità, EMI, Bologna 2005; ripreso in Id., L’incognita post-secolare cit.
4 E. Kaplan, With God on Their Side: How Christian Fundamentalists Trampled Science, Policy, and Democracy in George W. Bush’s White House, The New Press, New York 2005.