«Non so più se voglio farlo», dissi a Miss Lee una settimana dopo.
Una settimana in cui avevo pensato ossessivamente ai motivi che la rendevano una pessima idea; fra gli altri, e non da ultimo, il fatto di denudarmi davanti a Ivan.
La nostra prima settimana da amici era andata… bene. Non ci eravamo mai insultati. In un’occasione mi aveva persino sorriso perché gli avevo dato ragione su qualcosa, quando Miss Lee sosteneva il contrario.
Andava bene. Anzi benissimo.
Forse era proprio per questo motivo che non volevo che ricominciasse a prendermi in giro. Soprattutto se ero nuda., Non mi importava di quello che avrebbero pensato la fotografa e i suoi collaboratori… ma Ivan aveva il potere di cambiarmi l’umore. Per questo, dopo una nottata passata ad arrovellarmi il cervello, mi decisi a parlare. Galina avrebbe dato la colpa all’ansia, ma io non ero ansiosa. Solo… stressata. Mi spaventavano le conseguenze a breve e a lungo termine. Con Ivan e con gli altri. Anche nel momento in cui me l’avevano proposto non ero stata entusiasta, e se la pancia mi diceva che era una pessima idea… una ragione doveva pur esserci. Ogni volta che avevo preso una decisione senza fidarmi dell’istinto l’avevo pagata cara.
Quindi…
Miss Lee si voltò a guardarmi. Eravamo all’esterno della pista, nel centro sportivo quasi deserto. Lei indurì il volto e storse la bocca, ma contemporaneamente iniziò a torcersi le dita, tradendo il suo nervosismo. La mia impressione trovò conferma quando mi disse, con un sorriso tirato: «C’è qualcosa che dovrei sapere?».
Bella domanda…
L’ansia, un malessere tangibile che mi annodò le budella e mi trapassò lo stomaco, si impossessò di me. Mi strinsi nelle spalle. «Non so se me la sento di fare questo servizio insieme a Ivan», spiegai. «Un conto è toccarci da vestiti, ma più penso che dovrò spogliarmi… non lo so», aggiunsi, dicendo una mezza verità.
In realtà lo sapevo. E, oltre a quello, un altro timore mi frenava.
Tre giorni prima avevo cancellato alcuni commenti provenienti da uno sconosciuto dalla mia pagina Picturegram. Erano solo due, ma erano bastati a mettermi in allarme. Dicevano che mi avrebbe “rovinata” e “sfondata”. Poi erano arrivati i messaggi privati, con due foto di un membro e la richiesta di postare un video dei miei piedi nudi. Avevo ripensato al commento di mio fratello, quando aveva detto che i pervertiti si sarebbero masturbati davanti alle mie foto.
Non ero una bigotta, ma non mi andava di vivere sotto ai riflettori come avrebbe voluto Miss Lee, che una volta mi aveva inoltrato una foto di me e Ivan durante la lezione di danza classica affinché la postassi, e di sicuro non mi andava di avere a che fare con dei malati di mente. Non mi scandalizzavo davanti a un pene, però volevo che fosse una mia scelta quando e come vederlo. E soprattutto, non mi andava di rivangare il passato, a cui avevo relegato le immagini e i video che un tempo mi avevano privato del sonno e mi avevano fatto sentire impotente, sporca persino.
E infatti, avevo ricominciato a soffrire d’insonnia. Non mi andava di vedere certe cose. Volevo solo pattinare. Non volevo pensare a nient’altro.
Ma al giorno d’oggi un atleta non poteva sottrarsi a certe proposte.
Miss Lee mi scrutò con attenzione, e sul suo volto comparve un’espressione divertita. «Ivan ti ha detto qualcosa?».
Merda. Non mi ero preparata a dovere. Riuscii a formulare solo un vago: «Ivan blatera sempre, ma non è questo il punto».
Lei mi guardò con sospetto. «Sai a cosa mi riferisco. Ha detto qualcosa a proposito del servizio fotografico? A essere sincera, non mi sembra che i suoi commenti ti tocchino più di tanto».
Ero così trasparente? Aveva ragione: i commenti di Ivan solitamente non mi turbavano. Mi infastidivano, questo sì. Scatenavano in me un istinto assassino, certamente. Ma non mi toccavano nel profondo. Detto questo, spogliarmi davanti a lui, che sembrava sempre pronto a giudicarmi con i suoi freddi occhi di ghiaccio, mi sembrava una sfida persa in partenza. Davanti a lui, che mi prendeva sempre in giro per tutto, mi sarei sentita ancora più vulnerabile.
«Non so se voglio spogliarmi davanti a lui. Tutto qui. Se fossi da sola non sarebbe un problema. O anche con dei perfetti estranei, ma spogliarmi davanti a Ivan, con cui mi alleno tutti i giorni, non mi sembra fattibile».
Miss Lee si portò la mano alla fronte e afferrò il setto nasale con due dita, poi annuì lentamente. «Va bene. Vado a parlare con Ivan e con la fotografa, vediamo cosa possono fare».
Mi passò per la testa di scusarmi per aver cambiato idea, ma ci ripensai., Al diavolo, non volevo farmi vedere nuda da Ivan. Scommetto che neanche a loro sarebbe piaciuto. Era una mia scelta, una mia decisione. Era il mio corpo.
Non avevo intenzione di scusarmi per la seccatura.
Tuttavia, non potei evitare il pungolo del senso di colpa quando Miss Lee girò sui tacchi, grattandosi il collo, e si diresse verso Ivan, che nel frattempo era rimasto a chiacchierare con la fotografa e il suo assistente. Erano arrivati di prima mattina per allestire due set all’interno della pista, uno con lo sfondo grigio e l’altro con lo sfondo bianco illuminato dai fari. Erano fichi.
Miss Lee iniziò a parlare. Ivan la ascoltò in silenzio, spostando il mento di lato, poi mi lanciò un’occhiata di taglio, prima di tornare a concentrarsi sulla coach.
E non mi sorpresi quando, un paio di minuti dopo, cominciò a scuotere la testa, ignorando i tentativi dell’allenatrice di farlo ragionare, e venne verso di me. Il nodo alla cintura dell’accappatoio era l’unico debole ostacolo che si frapponeva fra me e la visione del suo corpo nudo. I suoi..occhi azzurri mi scrutavano, e li detestai. Detestavo aver ammesso di non volermi spogliarmi a causa sua, perché non volevo che mi prendesse in giro per la mia taglia di reggiseno, per il mio sedere pieno o per le altre mille imperfezioni che avrebbe notato. Ne avevo molte. Non ero perfetta. Non ero mia madre, Tali o Ruby.
«Polpetta», esclamò. Ivan fece uno sforzo per deglutire, mi sembrò che faticasse a trovare le parole. «Quando ti prendo in giro scherzo», disse. «Lo sai, non è vero?».
Distolsi lo sguardo e annuii, trattenendomi dal fare una smorfia esasperata. «Sì, lo so che scherzi. Posso sopportarlo. A volte…». Mi addolorava dirgli certe cose, ma me ne fregai. «A volte, mi viene quasi da ridere. Ma non voglio spogliarmi davanti a te. È troppo personale. Siamo troppo… intimi».
Lo udii sospirare. Fece un altro passo verso di me. «L’unico motivo per cui ti tormento è che eri una rompipalle, e poi eri l’unica che mi rispondeva a tono. Lo sai che sei bellissima».
Stavolta feci una risatina e alzai gli occhi al cielo. Davvero? Stava davvero facendo carte false per convincermi. «Se credi di farmi cambiare idea con le lusinghe, significa che non mi conosci per niente, Lukov».
«Non Lukov. Ivan», rispose lui con un tono gentile che mi mise a disagio, perché non era ciò che volevo. Né quello che mi aspettavo da lui. «Sono sicuro che sei perfetta senza veli».
Stava davvero esagerando, ma non si fermò. «Sono sicuro che se ti togliessi l’accappatoio tutti gli uomini nei paraggi avrebbero un’erezione. Anche le donne, scommetto».
Lanciandogli un’occhiataccia, mi riscossi e tornai in me. Stava dicendo un sacco di stronzate, lo sapevo. E anche lui lo sapeva. Persino Miss Lee se ne sarebbe accorta, se l’avesse sentito. Con chi diavolo credeva di parlare? Come se non lo conoscessi da dieci anni e per tutto questo tempo non fossi stata il bersaglio dei suoi commenti meschini. Mi aveva davvero rotto le scatole. «Vuoi chiudere la bocca? Non ho bisogno dei tuoi incoraggiamenti, capito?», sbottai.
La sua mano mi toccò il polso. Non mi ritrassi, per miracolo. «Non sono solo parole», disse lui in un tono pacato… quasi tenero, che mi mise a disagio. Nessuno mi si era mai rivolto in quel modo prima di allora. Neppure James, l’uomo migliore del mondo. «Quando ti dico che non hai superato la pubertà io scherzo, dai», insisté, con quel tono che non sapevo interpretare. «Non pensavo che fossi così sensibile».
Sbattei le palpebre. «Io non sono sensibile».
«Jasmine», esclamò lui, stringendo il polso. La sua chioma scura e il suo volto privo di difetti, che forse era truccato o forse era perfetto al naturale, si avvicinarono. «Che ti prende, Jasmine?»
«Niente», ripetei.
«Dici cazzate», ribatté. «Sai chi sei e quanto vali. Non ho intenzione di ripetertelo e pompare il tuo ego ancora di più», tuonò. «Voglio fare questo servizio con te. Non da solo. Con te. Siamo una squadra. Così, inizieremo la stagione al meglio».
«So quanto valgo e ho un ego smisurato, è vero. Falla finita. Vai, ti raggiungo. Non voglio parlarne più. Non ho voglia di discutere».
Quando Ivan di punto in bianco mi posò le mani sulle spalle sussultai. E quando si avvicinò, finché le sue labbra non furono a un centimetro dalle mie, non mi mossi. Stavamo insieme sette ore al giorno, sei giorni a settimana: fra noi non esistevano confini.
Ma questo…
Questo non sapevo come interpretarlo. Non ricordavo nemmeno l’ultima volta che qualcuno si era avvicinato tanto a me.
«Dico sul serio», sussurrò, con tutta la forza e la determinazione del mondo.
Il suo tono perentorio mi costrinse ad alzare lo sguardo. Mi guardava con un’espressione seria che non avevo mai visto, neppure prima delle gare. «Non ti prenderei mai in giro». Aggrottai la fronte, poco convinta.
Ivan mi circondò il polso con la mano, coprendo il punto in cui solitamente portavo il braccialetto. L’avevo tolto e l’avevo lasciato nell’armadietto. «Non quando sei nuda», aggiunse. «Chi si sognerebbe mai di ridere di te senza i vestiti addosso? Scommetto che questa gente non ha mai visto due gambe e un sedere da far girare la testa come i tuoi».
Mi guardai bene dall’approfondire il suo commento. Lo fissai sbattendo le palpebre. «Perché mi guardi il sedere?».
Le sue labbra si curvarono all’insù. «Perché ce l’ho davanti alla faccia tutti i giorni».
Non aveva tutti i torti. Io avrei potuto dire lo stesso. «Be’, non farlo. Gli amici non si guardano il sedere».
Lui sbuffò per l’esasperazione. «Jasmine, questo corpo… le cosce e il sedere che tu pensi voglia prendere in giro, ci faranno vincere il primo posto. Non mi farei mai beffe di loro. Né di te. Dobbiamo affrontare il servizio come affrontiamo il resto: è lavoro, quindi muoviamoci e pochi discorsi».
Trattenni il fiato, scrutando il suo volto. «Non ci credo».
«Che non ti prenderò in giro?»
«Sì».
Seguì una pausa, poi: «Vuoi vedermi tu per prima?».
Scoppiai a ridere. Non avrei voluto, ma non riuscii a trattenermi. «No!».
A giudicare dal suo sorrisetto, Ivan non se la prese. «Sei sicura? Sulla coscia ho un neo che sembra la Florida. Forse scoprirai che ho un punto debole, così potrai prendermi in giro anche tu, anche se ne dubito».
Continuando a ridere, anche se non avrei voluto farlo (davvero!), alzai lo sguardo e scossi la testa: «Oddio, sei proprio un vanitoso del cazzo».
«È la verità. Guarda pure e, se trovi da ridere, accomodati. Mi alleno in continuazione. La mia percentuale di grasso corporeo si aggira intorno al sette per cento. Guardarmi allo specchio non è una sofferenza, insomma».
Risi ancora più forte; cos’altro avrei potuto fare con uno così? Non lo riconoscevo più.
«Sei libera di prendermi in giro, ma preferirei che tu non lo facessi. Non mi piace quando mi dicono che sono troppo magro, non è affatto vero», disse. Io, per tutta risposta, sgranai gli occhi. Come facevano a pensare che fosse troppo,, magro? Non c’era un solo centimetro del suo corpo che non fosse muscoloso e tornito. Anni prima l’avevo visto in palestra. Era alla panca e stava sollevando un bilanciere che doveva pesare il doppio di lui. Non c’era nuotatore o corridore al mondo che potesse reggere il confronto con Ivan.
Ovviamente, non l’avrei ammesso neanche sotto tortura.
Diede una scrollata al mio polso. «Andiamo, Polpetta. Tu e io. Faremo crepare tutti d’invidia con i nostri corpi da statue greche».
Era questo che intendeva quando parlava di amicizia? Era così che si comportavano gli amici? Lui mi prendeva in giro e io rispondevo a tono, con il sorriso sulle labbra, però… era questo?
Se era così, potevo sopportarlo. Forse.
«Ti odio», sospirai, arrendendomi.
A quel punto Ivan la sparò grossa, piantando gli occhi azzurrissimi nei miei. «Fallo per Paul, se non altro. Pensa a quanto si mangerà le mani perché lui non ha fatto un servizio con te per “TSN”». Un’altra scrollata al polso. «Né con nessun altro».
Con quella trovata mi convinse, dimostrandomi che mi conosceva meglio di quanto pensassi.
Paul… bleah!
Non volevo che qualche pervertito si masturbasse davanti alle mie foto. Allo stesso tempo, se avessi potuto sfruttare l’occasione per dare una bella lezione a quella brutta faccia di… ne sarebbe assolutamente valsa la pena.
«Ora ti riconosco, Polpetta», disse in un sussurro, lasciando il polso per intrecciare le dita alle mie. Non era la prima volta che ci tenevamo per mano. L’avevamo già fatto migliaia di volte. «Facciamolo, d’accordo? Insieme. Non ti prenderò in giro, ma tu sei autorizzata a farlo con me, un pochino!».
Non conoscevo la persona che avevo davanti, quel ragazzo carino, divertente e gentile. Gli strinsi comunque la mano e annuii. «Sì, facciamolo insieme». Sapevo che era la cosa giusta. Forse per certi versi me ne sarei pentita, ma per altri no. Sempre se Ivan avesse mantenuto la promessa di non fare battute sul mio aspetto fisico.
«Lo sapevo!», esclamò lui tirandomi per la mano, quasi allegro.
Così entrammo in pista in accappatoio, con il trucco e i capelli fatti, per lo meno i miei. Miss Lee e la fotografa smisero di parlare non appena ci videro pattinare verso di loro. La coach inarcò le sottili sopracciglia nere e mi chiese, esitante: «Hai cambiato idea?».
Annuii in risposta.
«Non voglio che tu lo faccia se non sei tranquilla», si affrettò a rassicurarmi la fotografa. «Abbiamo un profondo rispetto per te e per il tuo corpo, Jasmine. Se vuoi tenere la biancheria, possiamo giocare sulle inquadrature…».
Scossi la testa. «Non si preoccupi». Non avrei mai confessato che mi ero tirata indietro perché non volevo spogliarmi davanti a Ivan. E men che meno per colpa di qualche deviato che non aveva niente di meglio da fare.
«Sicura?», chiese la fotografa, come se una mia eventuale risposta negativa non la spaventasse.
Ero sicura, e lo dissi. «Sì, sono sicura».
Lei si strinse nelle spalle. «Va bene. Allora se siete pronti iniziamo».
Ivan mi strinse la mano, che non aveva mai lasciato, e mi disse sottovoce: «Avevo sottovalutato il freddo, quindi non puoi prendermi in giro se… una parte del mio corpo si è ritirata per proteggersi dal gelo…».
Feci un sorrisetto, inebriata dalla sensazione, a me sconosciuta, di andare bene così com’ero. «Non prenderò in giro il tuo pistolino, se tu non prendi in giro Tetta uno e Tetta due. Loro non si stanno nascondendo dal freddo. Non sono proprio mai uscite», esclamai.
Lui annuì e un sorriso gli increspò le labbra. «Con tutte queste storie, mi aspetto di scoprire che hai tre capezzoli».
«E io mi aspetto un cosino di due centimetri. Siamo pari», replicai.
Ivan fece una smorfia e serrò la presa sulla mia mano. «Due centimetri di troppo, forse». Sbuffai, ma lui mi ignorò. «Facciamo una tregua, okay?».
Senza parlare, ritraemmo le mani e ci avviammo verso i due set fotografici che erano stati allestiti al centro della pista, con tanto di ombrelli riflettenti. Miss Lee si avvicinò con un’espressione scettica. «Pronti?».
Ivan annuì e io dissi: «Pronta». Lo ero davvero.
Era una bella occasione. Avrei potuto dare una lezione a diverse persone. Non avrei voluto, ma era necessario. Solo per quello ne sarebbe valsa la pena.
Inspirai ed espirai a fondo, guardando la fotografa che si metteva in posizione dietro la macchina seguita dal suo assistente, per poi rivolgerci un cenno di incoraggiamento. «Iniziate come volete. Una presa o una posizione statica sarebbero perfette».
A quanto pareva, non avrei potuto evitare di sbattere le mie parti intime in faccia a Ivan, come se fosse una novità. Per fortuna mi facevo regolarmente la ceretta. La nostra conoscenza reciproca sarebbe passata al livello successivo. Potevo farcela, certo che potevo. Ero forte, sveglia e potevo fare qualsiasi cosa, come mi aveva sempre detto la mamma.
«Facciamo un sollevamento con le mani?», chiesi al mio partner, sciogliendo il nodo alla cintura dell’accappatoio. Per la precisione, Ivan doveva sollevarmi sopra la testa tenendomi per le mani, mentre io rimanevo con la schiena dritta e le gambe tese all’indietro.
«Certo», rispose lui senza esitazione, armeggiando con la cintura.
Le cose erano due: o si stava sforzando di essere gentile oppure aveva qualcosa in mente. Anche se dubitavo che ne combinasse una delle sue davanti all’obiettivo, soprattutto dopo il discorso d’incoraggiamento.
Ma ero sempre in tempo a ricredermi.
«Quando siete pronti», esclamò la fotografa.
“Sono io oppure le luci sono fortissime?”, mi chiesi. Era universalmente riconosciuto che la macchina fotografica faceva guadagnare almeno quattro chili e mezzo, ma con tutte quelle luci secondo me sarebbero diventati una decina. Be’, che mi giudicassero pure. Non avevo niente da dimostrare a chi non significava niente per me.
Ero di fronte a Ivan, con l’accappatoio ancora addosso, e gli chiesi: «Pronto?».
Lui annuì, lanciatissimo.
Era giunto il momento di dare il via alle danze!
Afferrai la spugna dell’accappatoio e, racimolando la poca autostima che avevo in corpo, mi dissi che nessuno era perfetto e che se ero fortunata avrebbero ritoccato i difetti con Photoshop, o forse no visto che il numero speciale si chiamava “Anatomy”. Non volevo pensarci. Se i lettori volevano divertirsi puntando il dito sui rotolini di grasso che spuntavano quando mi piegavo, che si accomodassero. Ero cresciuta con tre donne bellissime. E mi ero fatta una ragione della mia inferiorità, accettandola serenamente.
Sfilai l’accappatoio. Non ci avevano dato indicazioni a riguardo, ma avevo comunque coperto i capezzoli con due pezzetti di nastro adesivo; per il resto ero completamente nuda. Non vedevo quale fosse il problema, tanto non potevano pubblicare foto in cui si vedevano completamente i seni. Quanto alle parti basse, non me ne poteva fregare di meno. Venivamo tutti da lì, no?
Potevo farcela.
Con la coda dell’occhio vidi un altro accappatoio che veniva sfilato e porto all’assistente, poi uno scorcio di pelle nuda; un secondo dopo, una mano si tese per afferrare la mia.
“Togliamoci il pensiero”, mi dissi. Finalmente mi voltai a guardare il mio partner, trattenendo il fiato. Quando incrociai i suoi occhi cambiai espressione, sperando che il mio viso non avesse deciso di arrossire per la prima volta nella sua vita. Sarebbe stato umiliante.
«Cazzo», mormorò Ivan fra sé e sé… chiudendo gli occhi e strizzandoli forte.
«Che c’è?», gli chiesi, allarmata.
«Niente», rispose lui, come se niente fosse.
«Che c’è?», ripetei nel tentativo di capire perché mi sembrasse più pallido del solito… e perché non volesse guardarmi.
«Niente», rispose lui, con quel tono da rompipalle che conoscevo bene. Scosse la testa e deglutì. «Sbrighiamoci».
«Sbrighiamoci?», domandai. Forse si era pentito di aver accettato. Ottimo! «Sei stato tu a volerlo fare», gli ricordai.
«È vero, ma inizio a pensare che sia una pessima idea, quindi sbrighiamoci», borbottò, con gli occhi ancora chiusi.
«Bigotto», sussurrai, senza capire perché si rifiutasse di guardarmi, in faccia per lo meno. Iniziavo a sentirmi a disagio.
Fui io a guardare lui, allora, perché avevo gli occhi aperti.
E all’improvviso anch’io iniziai a pentirmi di aver accettato.
Perché il corpo di Ivan…
Oddio.
Essendo un’atleta, forse riuscivo ad apprezzare più di altri i corpi dei miei colleghi maschi. Non mi erano mai piaciuti i modelli, con i muscoli piccoli e scolpiti da un costante lavoro di cesello in palestra. A me piaceva la forza bruta, in tutte le sue forme. Mi piaceva un sacco.
Il corpo di Ivan, poi, sembrava uscito dal pennello di un grande maestro del passato. Le spalle muscolose sembravano disegnate; le braccia erano forti e tornite. I pettorali erano scolpiti e l’addome piatto era diviso in otto piccoli riquadri; i sollevamenti avevano reso d’acciaio i suoi fianchi; le cosce e i polpacci erano perfetti per uno studio anatomico, con i loro fasci di muscoli in evidenza.
Non c’era bisogno di guardare il lato B per sapere che era alto e sodo.
E sarei stata una bugiarda a negare di avergli lanciato un’occhiata fra le gambe, ma anche lui, come me, aveva deciso di coprire almeno qualcosa. Quella cosa era coperta da una specie di calzino color carne, che lasciava scoperta solo un’aureola di peli pubici.
Non sapevo cosa coprisse precisamente quel calzino, e non avevo intenzione di chinarmi per scoprirlo.
Gli lanciai un’ultima occhiata. Era davvero un capolavoro. Era meglio smettere di pensarci. Prima iniziavamo, prima avremmo finito.
«Andiamo, timidone, prima che il tuo coso scompaia del tutto», esclamai.
A quelle parole, lui sgranò gli occhi e accartocciò la faccia. «Spero di non avere le mani scivolose».
«Magari cado con il sedere dritto sulla tua faccia…».
«Va bene, ora basta! Iniziamo!», gridò Miss Lee. Doveva essersi stufata dai nostri battibecchi.
Nuda come un verme, mi voltai verso Ivan ed esclamai: «Andiamo, calzino. Togliamoci il pensiero. Magari finiamo in copertina». E a quell’idea, stranamente, non mi venne un attacco d’ansia.