«Che ti prende?», mi chiese Ivan dopo aver concluso la trottola seduta, la stessa figura che avevo provato poco prima atterrando sul sedere. La stessa figura su cui avevo perso l’equilibrio per sei volte di fila. Di solito non mi creava problemi, potevo eseguirla a più riprese, una variazione dopo l’altra: trottola volante, death drop, con torsione… Di solito era facile.
Lo era un po’ di meno se il tuo corpo, ossia tutti i muscoli compresi fra le ginocchia e il mento, bruciava come l’inferno e la tua testa sembrava sul punto di esplodere. Per di più mi pareva di aver masticato carta vetrata, da tanto che la mia gola era irritata, e anche solo rimanere in piedi mi costava un grande sforzo.
Stavo proprio di merda.
Una merda totale. Fin da quando mi ero alzata. Ero certa di essermi svegliata nel cuore della notte, una cosa che non mi accadeva mai, per via del dolore alla testa e della gola che bruciava come se avessi bevuto un bicchiere di lava.
Ovviamente non ne avevo parlato con Miss Lee o con Ivan.
Era l’ultima giornata di allenamenti, poi avremmo iniziato a lavorare sulla coreografia; non avevo tempo di ammalarmi. Dalla mattina del giorno in cui io e Ivan avevamo guardato i bambini di Ruby, me ne erano successe di tutti i colori: prima il pizzicore alla gola, sempre più forte; un altro giorno, la testa leggera; poi, una grande stanchezza e dolori in tutto il corpo; infine, era arrivata la febbre.
Ahi.
Mi girai sulla schiena ed emisi un lamento perché la mia testa pulsava a più non posso. Non riuscivo a ricordare l’ultima volta che avevo fatto così schifo. Forse mai.,,
«Hai i postumi di una sbronza?», chiese Ivan da un punto imprecisato della pista.
Scossi la testa, pentendomene all’istante perché mi venne voglia di vomitare. «No».
«Sei andata a letto tardi ieri sera, vero?», mi accusò. Il fruscio dei suoi pattini sul ghiaccio mi disse che si stava avvicinando. «Non puoi venire ad allenarti in questo stato».
Rotolai su un fianco e mi misi in ginocchio. «Non ho fatto tardi».
Sentii Ivan sbuffare, e i suoi stivaletti neri si materializzarono davanti ai miei occhi. «Dici un sacco di…». Non feci in tempo a vedere le mani che si avvicinavano alle mie braccia. E anche se le avessi viste, ci avrei messo un po’ a muovermi. Fatto sta che le sue mani mi afferrarono sopra al gomito e, con la stessa rapidità, mi lasciarono andare.
Avevo caldissimo e un’ora prima avevo tolto il pullover, restando in canottiera. Se avessi potuto togliere anche quella, l’avrei fatto.
Le mani di Ivan afferrarono i miei avambracci, e anche quella volta li lasciarono subito andare.
«Jasmine, cazzo!», sibilò prendendomi il viso fra le mani, mentre io, ancora nella stessa posizione inginocchiata, non riuscivo a muovermi. Se mi fossi potuta stendere sul ghiaccio in posizione fetale l’avrei fatto. Lui spostò una mano sulla mia fronte, snocciolando imprecazioni creative in russo, un’abilità che a condizioni normali mi avrebbe impressionato. «Scotti».
Le sue dita fredde mi strapparono un gemito, e sussurrai: «Davvero?».
Lui ignorò il mio commento ironico e mi passò la mano dietro al collo, suscitando un altro gemito di piacere. Che bella sensazione. Magari potevo stendermi sul ghiaccio per un minuto…
«Ha la febbre?», chiese la voce lontana di Miss Lee. Mi chinai lentamente in avanti, poggiando i gomiti e gli avambracci sul ghiaccio, e mi distesi bocconi con le braccia e le gambe divaricate.
Il ghiaccio era freddissimo, una vera goduria.
In sottofondo udivo Ivan e Miss Lee che parlavano, ma le loro parole si facevano sempre più lontane…
«Datemi un minuto», esclamai con le labbra gelide. Mi venne voglia di leccarle, ma evitai perché non ero così delirante da dimenticare quanto erano sporche le lame di alcuni frequentatori della pista.
Mi parve di sentire la parola testarda.
Girai la testa di lato, appoggiando la guancia sul ghiaccio fresco, e sospirai. Avevo voglia di un sonnellino.
«Tranquilli, solo cinque minuti», sussurrai come in un sogno, e alzai una mano pigra per toccarmi il collo, ma ero troppo stanca e lasciai perdere.
«Su, girati, Jasmine», esclamò una voce femminile che giunse dall’alto e che sicuramente apparteneva a Miss Lee.
«No».
Tre minuti. Se avessi potuto chiudere gli occhi solo per tre minuti…
Udii un sospiro, poi una mano afferrò la mia spalla e la sollevò. Non mi opposi. Mi girarono sulla schiena e mi fecero anche un po’ male; poi, la luce forte dei fari appesi al soffitto mi costrinse a chiudere gli occhi per non peggiorare il mio mal di testa. Serrai i denti per non gemere di dolore.
«Due minuti, per favore», sussurrai, passandomi la lingua sulle labbra.
«Due minuti un cavolo!», esclamò Ivan. Un attimo dopo un braccio mi sollevò le spalle, infilandosi tra le scapole e il ghiaccio, mentre un altro braccio scivolava sotto le mie ginocchia.
«Solo un minuto. Dai. Mi alzo da sola, lo giuro», blaterai. Non vedevo niente. Avevo ancora gli occhi chiusi e li avrei tenuti così finché quei fari non si fossero spenti.
«Nella sala del personale c’è un termometro», disse Miss Lee. «Vado a prenderlo».
«Ci vediamo nella mia stanza», rispose Ivan stringendomi a sé.
Oddio. Ero di nuovo in braccio a lui.
«Mettimi giù . Sto bene», gracchiai, mentendo palesemente perché un brivido percorse le mie braccia e la mia spina dorsale facendomi tremare come una foglia.
«No», fu l’unica risposta che uscì dalla sua bocca.
«È vero. Con l’esercizio posso…». Ammutolii, in preda al mal di testa e alla sensazione di nausea che si stava facendo sempre più forte. «Cazzo, Ivan. Mettimi giù. Devo vomitare».
«Non devi vomitare», ribatté lui, che nel frattempo doveva essersi avviato all’uscita della pista, a giudicare dai sobbalzi.
«Invece sì».
«Invece no».
«Non voglio vomitarti addosso», gli spiegai, sentendo un rigurgito acido risalire dallo stomaco.
«Non mi importa, non ho intenzione di metterti giù. Ingoialo, Polpetta», disse Ivan con la dolcezza tipica di mia madre. Cioè inesistente.
Mi pulsava la testa. «Adesso…».
«No… trattieniti», mi spronò il mio partner, uscendo dalla pista e iniziando a camminare.
«Se vomito mi sentirò meglio», bisbigliai, irritata dal suono della mia stessa voce. Mi bruciava la gola. Non potevo ammalarmi, non c’era tempo. «Lasciami e riprendiamo l’allenamento. Posso prendere un Tylenol…».
«Per oggi abbiamo finito», mi comunicò con quel suo tono da snob. «E anche per domani».
Lanciai un lamento e tentai di alzare la testa dalla sua spalla, senza riuscirci. Ero morta. «Ma dobbiamo allenarci».
«No».
Deglutii e passai la lingua sulle labbra secche, senza grandi benefici. «Non possiamo saltare dei giorni».
«Sì, invece».
«Ivan».
«Jasmine».
«Ivan», gemetti, esasperata dal nostro battibecco.
«L’allenamento è finito, quindi basta, non parlarne più».
Ci rimaneva solo un giorno. L’indomani avremmo dovuto iniziare a lavorare alla coreografia. Radunai le forze per inarcare la schiena, contraendo gli addominali, che però quel giorno avevano deciso di scioperare… Non riuscivo a muovermi.
Ivan sospirò. «Fra un minuto ti metto giù. Smetti di dimenarti», mi ordinò, trasportandomi senza alcuno sforzo per i corridoi del centro sportivo. E io obbedii, dando la colpa alla stanchezza e alla mia confusione mentale: posai la testa sulla sua spalla e gli circondai il collo con le braccia.
«Tua madre è al lavoro?», mi chiese un attimo dopo.
«No, lei… è andata in vacanza alle Hawaii con Ben», risposi con un filo di voce, constatando il rapido declino delle mie condizioni fisiche. Un altro brivido percorse il mio corpo dalla testa ai piedi, facendomi sussultare. Accidenti. «Mi dispiace, Ivan».
«Di cosa?», domandò lui, chinando la testa per guardarmi e soffiando il suo alito sulla mia guancia. Premetti la fronte sul suo collo fresco ed espirai piano; percepivo la sua preoccupazione, forse era spaventato dai brividi che scuotevano il mio corpo. «Per essermi ammalata. È colpa mia. Non mi ammalo mai, di solito».
«Tranquilla».
«E invece no. Non possiamo permetterci di perdere tempo. Potrei prendere la medicina, dormire un po’, e questa sera potremmo riprovare», proposi, strascicando l’ultima parte della frase. «Posso fermarmi quanto vuoi».
A giudicare dai movimenti del suo collo, Ivan probabilmente stava scuotendo la testa. «No».
«Mi dispiace», bisbigliai. «Mi dispiace tanto».
Lui non disse una parola. Non mi disse di non preoccuparmi. Non mi disse di chiudere la bocca. E io non avevo la forza di mettermi a discutere.
Un attimo dopo entrammo nel suo rifugio segreto e Ivan mi adagiò con delicatezza sul divano. Tremavo, sentivo freddo e caldo allo stesso tempo, e la schiena mi faceva più male di prima. Mi coprii il viso con le mani, trattenendo un lamento. Morire doveva essere così.
«Non stai morendo, scema», disse Ivan; un secondo dopo qualcosa coprì il mio corpo e un oggetto freddo e bagnato si posò sulla mia fronte.
Sì, Ivan mi aveva messo addosso una coperta e sulla fronte un asciugamano imbevuto d’acqua.
«Grazie», esclamai, in un lampo di lucidità. Non ebbi nemmeno la forza di stupirmi del suo gesto affettuoso. Ci avrei pensato più tardi; per il momento, la mia testa sembrava sul punto di esplodere. Ivan non rispose. Rimasi in ascolto dei rumori di sottofondo, finché qualche secondo, o minuto, dopo non percepii del movimento nella zona dei miei piedi. Ancora qualche secondo e uno dei miei pattini venne via, seguito dall’altro. Non gli chiesi di trattarli con cura. Non dissi niente.
Fu lui a esclamare: «Alzati a sedere, Polpetta».
Nonostante le mie condizioni, non mi risparmiò quel nomignolo.
Lo feci, o almeno ci provai, ma il mio corpo non rispondeva ai comandi. Per riprendersi necessitava di: sonno, una bella vomitata, un Tylenol, un bagno freddo seguito da un bagno caldo, non necessariamente in questo ordine.
Ivan emise un suono che assomigliava a uno sbuffo, mi passò una mano dietro al collo e mi sollevò la testa.
A un tratto, salì sul divano.
E appoggiò la mia nuca sulla… sua coscia.
«Bevi», mi ordinò, accostando un oggetto liscio e duro alle mie labbra. Quando aprii gli occhi mi accorsi che fra le dita stringeva un bicchiere. Allungai una mano tremante e lo presi; un conto era poggiare la testa sulla sua coscia, ma farmi imboccare mi sembrava davvero troppo. Bevvi un primo sorso, poi un secondo, deglutendo a fatica il liquido con la gola in fiamme.
«Manda giù anche queste», aggiunse Ivan, mostrandomi due compresse bianche.
Lo guardai in silenzio.
Lui sbuffò. «Non è arsenico».
Continuai a guardarlo.
«Non ho intenzione di avvelenarti prima dei campionati mondiali, stai tranquilla», disse.
Chiusi le palpebre, acconsentendo a farmi curare, e spalancai la bocca; lui fece cadere sulla mia lingua le compresse, che mandai giù con tre grandi sorsi d’acqua che mi fecero vedere le stelle. Tornai a posare la testa sulla coscia di Ivan e chiusi gli occhi. «Grazie», bisbigliai.
Mi parve di udire un mormorio di risposta. Le sue dita mi sfiorarono i capelli e si intrufolarono sotto la mia testa con delicatezza… finché non iniziarono a tirare.
«Ahi», esclamai aprendo un occhio: Ivan era chino su di me e mi guardava con un’espressione concentrata, poi ricominciò a strattonare.
«Ma cos’è?», chiese, tirando a più non posso.
«Un elastico?», suggerii, sobbalzando.
Un altro strattone, e a occhio e croce Ivan mi strappò un centinaio di capelli. «È strettissimo».
«Smettila», gracchiai, troppo piano per farmi udire.
Ivan fece una smorfia e, tirando per l’ultima volta, sfilò l’elastico, assieme a un’altra manciata di capelli, sollevandolo con aria trionfante. «Come fa a non venirti il mal di testa?», mi chiese, guardando il laccio nero come se fosse un oggetto bizzarro e mai visto prima. Eppure, nel corso degli anni aveva avuto molte partner. Vabbe’, non volevo pensarci. «A volte mi viene», risposi. «Ma non ho molta scelta».
Ivan mi guardò con un’espressione perplessa e posò l’elastico da qualche parte. Quando richiusi gli occhi, le sue dita presero ad accarezzarmi i capelli, scostandoli dal mio viso e adagiandoli sulla sua coscia. Era bello stare lì sdraiata a farsi accarezzare, e dalle mie labbra uscì un piccolo gemito.
Forse mi appisolai, perché a un certo punto sentii qualcosa toccarmi le labbra e quando aprii gli occhi mi trovai davanti al viso una mano grande, che stringeva un termometro. Ivan inarcò le sopracciglia per incoraggiarmi ad aprire la bocca, e io obbedii, stringendo fra le labbra lo strumento di plastica blu.
«La deve vedere un medico», esclamò Ivan voltandosi verso Miss Lee, che era seduta sul tavolino da fumo con un’espressione preoccupata in viso. Non l’avevo sentita arrivare.
Solo allora misi a fuoco la parola che aveva usato Ivan: medico.
«Sono d’accordo», rispose la coach, infilando la mano in tasca per prendere il telefono. «Chiamo la dottoressa Deng, e poi i Simmons per riprogrammare gli incontri».
Ivan mi guardò con fare severo. «E non dire che ti dispiace». Prima che avessi il tempo di rispondere, raccomandò all’allenatrice: «Dille che è urgente. Appena ha un buco libero la porto nel suo studio. E di’ ai Simmons di non prendere impegni, mi assicurerò che per loro non sia una perdita di denaro».
Lei annuì, con gli occhi fissi sullo schermo del telefono.
Nel frattempo, io dondolavo la testa in attesa che il bip del termometro mi liberasse e mi permettesse di parlare. Quando successe, Miss Lee stava già parlando al cellulare. Sul display si leggeva “39,8”. Ottimo.
«Il medico no», dissi quando Ivan mi sfilò il termometro dalla mano e lesse la temperatura. I suoi occhi azzurri si fissarono nei miei per un paio di secondi prima di tornare sul display.
«Ivan, il medico no».
«E invece ci andrai», mi avvisò, con il volto teso, poi si rivolse a Miss Lee: «Dille che ha quasi quaranta di febbre».
Passai la lingua sulle mie labbra riarse; gli sbalzi di temperatura mi facevano venire voglia di buttare via la coperta e, un secondo dopo, di tirarla su fino al mento. «Il medico no». Deglutii, chiusi gli occhi e implorai: «Per favore».
Ivan mi accarezzò i capelli scompigliati. «Vuoi guarire oppure no?».
Tentai di lanciargli un’occhiataccia, senza riuscirci. «No, amo sentirmi da schifo, saltare gli allenamenti e rovinare tutto».
Lui aggrottò la fronte davanti al mio sarcasmo.
«Smettila. Andrai dal medico. Se devi prendere delle medicine, è bene che inizi subito». Corrugò le labbra e aggiunse: «Così potremo iniziare a lavorare sulla coreografia».
Quello stronzetto conosceva alla perfezione i miei punti deboli.
«Ho bisogno di un paio di giorni per riprendermi».
«È quello che ti sto dicendo!», esclamò. «Perché non vuoi andare dalla dottoressa?». Socchiuse gli occhi. «Se hai paura degli aghi, giuro che…».
Emisi un lamento e feci per scuotere la testa, ma fui costretta a fermarmi perché il dolore era talmente forte da provocarmi la nausea. «Non ho paura degli aghi, chi credi che sia? Te?», bisbigliai.
Miss Lee stava ancora parlando al telefono, distante da noi.
«Andrai dal medico».
Chiusi gli occhi e gli confessai la verità, tanto me l’avrebbe tirata fuori di bocca prima o poi, dopo un lungo ed estenuante interrogatorio che non avevo la forza di affrontare. «Non ho l’assicurazione. Non posso permettermi il costo di una visita in questo momento. Mi passerà. Dammi un giorno. Passerà. Il mio sistema immunitario è una bomba».
Ivan increspò le labbra. Alzò la testa, poi la abbassò, borbottando qualcosa sottovoce. «Brutta testarda…».
«Fottiti», bisbigliai.
Ivan si arrabbiò: «Jasmine, vaffanculo. Pagherò io la visita e le medicine. Non fare l’idiota».
Chiusi la bocca per deglutire. Il dolore alla gola si sommò alla sofferenza causata dalle sue parole. «Non sono un’idiota. Chiamami come vuoi, ma non idiota».
Lui mi ignorò, evidentemente non gli importava. «Sei un’idiota e andrai dal medico. Non lasciare che l’orgoglio ti rovini la salute».
Stavo così male che mi era passata persino la voglia di litigare. Non aveva tutti i torti, purtroppo. Mi limitai a chiudere gli occhi e a dire: «E va bene. Ma te li restituirò». Deglutii. «Mi ci vorrà un anno, forse».
Ivan borbottò qualcosa fra sé e sé, in un tono non troppo lusinghiero; però, la sua mano riprese ad accarezzarmi la testa, affondando con delicatezza fra i capelli, come se l’ultima cosa che desiderava al mondo fosse farmi del male. Era piacevole.
«Possono riceverla a mezzogiorno», ci avvertì Miss Lee. «Nel frattempo dobbiamo far scendere la febbre. Le hai già dato l’antidolorifico?»
«Sì», rispose Ivan.
Si scambiarono qualche battuta bisbigliata; non mi sforzai di ascoltare, anzi, mi stavo chiedendo se fosse il caso di offrire a Ivan dei soldi in cambio di carezze illimitate, quando qualcosa mi sfiorò la guancia. «Mmm?»
«È ora di alzarsi», bisbigliò. «Hai bisogno di una doccia».
Alzarmi? «No, grazie».
Dopo una breve pausa riprese a tormentarmi: «Era un ordine. Alzati».
«Non voglio alzarmi», piagnucolai.
«Okay», si arrese. Mi insospettii subito. «Allora ti ci porto io».
«No, grazie».
La sua mano mi accarezzò i capelli, poi sollevò un lembo dell’asciugamano che mi ricopriva la fronte, sfiorando la pelle con una delicatezza che non mi aveva mai riservato prima di allora. Ivan parlò con voce roca: «Lo so che non vuoi, e so che ti senti male, ma devi alzarti, scricciolo. Devi abbassare la temperatura del corpo».
Sbuffai, ignorando il nomignolo affettuoso.
Ivan sospirò, continuando ad accarezzarmi. «Andiamo, alzati, fallo per me».
«No».
Udii una risatina. «Non pensavo che la febbre ti facesse tornare bambina», esclamò in tono divertito.
«Mmm», confermai. Anche mia madre me l’aveva sempre detto. Che piagnona. Non mi ammalavo spesso. Non volevo elemosinare le sue attenzioni… ma dovevo ammettere che funzionava. La mamma, però, si era sempre preoccupata molto di più per mia sorella, che non poteva neppure soffiarsi il naso o dare un colpo di tosse senza che lei si mettesse in agitazione.
«Hai intenzione di alzarti o no?», mi chiese Ivan, coprendomi la fronte con la mano.
«No», ripetei girandomi su un fianco, con la guancia appoggiata sulla sua coscia e il viso rivolto verso il suo ventre. Era un posizione un po’ compromettente, ma nelle mie condizioni il sesso non mi passava neanche per l’anticamera del cervello.
«Non vuoi alzarti da sola?»
«No».
Ci fu una pausa, poi Ivan esclamò in tono divertito: «Se insisti».
Insistevo, sì. Per tutta risposta, un brivido percorse il mio corpo. Non potevo alzarmi.
Ma Ivan non era dello stesso avviso.
Infatti, senza dare ascolto alle mie proteste, spostò la coscia privandomi del cuscino più comodo che avessi mai provato, poi mi prese fra le braccia come aveva fatto poco prima e mi sollevò, avviandosi verso il bagno con passo sicuro.
Non mi opposi.
Ripensandoci in futuro, forse mi sarei vergognata del modo in cui mi ero abbandonata a peso morto fra le sue braccia, come un bambino che si fa portare a letto dopo un lungo tragitto in macchina. Avrei potuto camminare, certo. Ma non volevo, soprattutto se lui ci teneva ad aiutarmi.
E poi, anche solo sentire il suo corpo caldo e forte vicino al mio mi faceva stare meglio.
Un secondo dopo Ivan aprì una porta che non avevo notato e che conduceva in un bagno. Niente di speciale: un box doccia, un lavandino e i sanitari. Si piegò sulle gambe e mi posò a terra. Mi girava la testa.
«Hai bisogno di una doccia fredda», mi disse, passandomi un braccio intorno alle spalle per sostenermi.
«Oh», mormorai, chiudendo gli occhi. Aveva ragione. Sapevo per esperienza che la febbre alta era pericolosa. Non avevo bisogno di perdere altri neuroni. Un altro brivido mi fece sussultare, allora Ivan mi lasciò andare e si voltò per aprire lo sportello della doccia.
«Entra», mi incitò.
Cercai di alzare le braccia, ma si sollevarono al massimo di un centimetro. Non mi ero mai sentita così esausta in tutta la mia vita. Prendendo il coraggio a due mani, aprii gli occhi e mi dissi: “Vaffanculo, entro vestita”. Avevo un cambio d’abiti nel borsone. Miss Lee o Ivan potevano portarmelo. Mossi qualche passo traballante, strizzando gli occhi per la luce forte dei faretti. Solo due passi mi separavano dall’entrata della doccia, quando Ivan alzò il braccio e mi sbarrò la strada. «Che stai facendo?», mi chiese.
Lo guardai. «Entro».
«Sei completamente vestita».
«Sono troppo stanca per spogliarmi», risposi con voce roca.
«Ti aiuto io».
«Va bene», sussurrai senza pensarci due volte. Perché avrei dovuto? Mi toccava tutti i giorni, mi aveva già vista nuda, praticamente, e con delle tutine che lasciavano ben poco all’immaginazione. Ormai avevamo confidenza.
Lui, invece, ebbe un attimo di esitazione… e poi sorrise. Con un passo mi fu di fronte, continuando a sorridere, e afferrò l’orlo della canottiera. Senza pensarci troppo, me la sfilò dalla testa. A differenza di altre ragazze con il petto piccolo, che pattinavano senza reggiseno, io indossavo sempre un top sportivo. Le teneva ferme; non mi piaceva che se ne andassero in giro qua e là, mentre ero a testa in giù magari, sebbene non ci fosse molto da vedere.
Non sapevo se Ivan fosse rimasto sorpreso di non trovarmi nuda, in ogni caso non lo diede a vedere.
O almeno così mi sembrò, visto che avevo gli occhi mezzi chiusi.
Le sue mani, poi, scesero fino all’elastico dei leggings. Quando li ebbe sfilati, mi alzò una gamba e sfilò il calzino e le bende che avevo messo quella mattina, passando il pollice sulla pianta del piede e poi posandolo a terra. Ripeté l’operazione con l’altra gamba. I suoi occhi indugiarono sulle dita, sempre che ci vedessi bene. Se ne avessi avuto la forza, avrei sgranchito le dita dei piedi dalle unghie rosa shocking. A un certo punto Ivan alzò lo sguardo verso di me e sorrise, prendendomi alla sprovvista, ma non mi lasciai incantare. Il mio stomaco mugugnò e dovetti sforzarmi per non rimettere la colazione che quella mattina mi ero imposta di mangiare.
Lui posò il mio piede ridacchiando. «Pronta, campionessa».
Stavo dormendo profondamente quando qualcosa, o qualcuno, mi colpì in fronte. Forte.
Poi, sempre la stessa cosa mi colpì altre tre volte, una dopo l’altra. Seguiva un ritmo particolare, che mi spinse a spalancare gli occhi.
Qualcuno stava bussando sulla mia fronte.
E quel qualcuno era Ivan.
Era chino su di me e il suo pugno era sospeso a qualche centimetro dalla mia faccia. Stava sorridendo.
«Svegliati. Sembri la scimmia di Virus letale. Devi prendere un altro Tylenol».
Sgranai gli occhi guardando il soffitto alle sue spalle, cercando di ricordare cosa fosse successo. Fu allora che la mia testa mi diede un suggerimento con una fitta di dolore. Ahi. Rabbrividii e mi ricordai che avevo avuto la febbre. Probabilmente ce l’avevo ancora, a giudicare dai tremori che scuotevano il mio corpo.
Ero malata. La dottoressa aveva detto che si trattava di un virus. Ivan mi aveva accompagnato al suo studio in auto, poi eravamo andati in farmacia, lui era entrato per comprare un altro flacone di Tylenol perché non ricordavo quante compresse mi rimanevano, e io l’avevo aspettato in macchina. Dopodiché mi aveva portato a casa. Era vuota, perché mia madre e Ben erano a divertirsi alle Hawaii. Anch’io avrei voluto essere con loro, invece ero nella mia stanza, sotto le coperte, e qualcuno aveva preso la mia fronte per un bongo e si stava divertendo a percuoterla.
«Che ore sono?», chiesi, cercando di strisciare verso la testiera, con una voce roca e gracchiante. Era ancora peggio di prima.
«Devi prendere il Tylenol», ripeté lui, agitando il pugno che aveva picchiato sulla mia fronte.
Sbuffai e cercai di girarmi su un fianco per rimettermi a dormire, ma lui mi prese per una spalla e mi riportò in posizione supina.
«Due compresse e puoi rimetterti giù», disse, cercando un compromesso.
«No».
Ivan fissò gli occhi di ghiaccio nei miei, con un’espressione sin troppo calma. Dal suo tono, tuttavia, capii che non aveva voglia di scherzare. «Prendi la medicina, Jasmine».
Chiusi gli occhi e lanciai un lamento di dolore; avevo la schiena e le spalle a pezzi. «No».
«Prendi questa cavolo di medicina. La febbre non è ancora scesa», mi ordinò, continuando a tenermi per la spalla perché mi conosceva bene e sapeva che se avesse abbassato la guardia, ne avrei subito approfittato per girarmi. Ero così prevedibile?
«Mi fa male la gola», bisbigliai per giustificarmi.
Lui sospirò di nuovo, agitando il pugno. «È inutile che insisti, non ti compro le compresse per bambini. Prendile».
Chiusi un occhio e sussurrai: «Non voglio».
Mi parve di intravedere un sorriso sulle sue labbra, che scomparve in un battito di ciglia. Poi tornò a tormentarmi, anche se diceva di farlo per il mio bene. «Devi prenderle», ripeté.
Mi limitai a fissarlo con un occhio.
«No?»
«No», ribattei con un filo di voce.
Lui serrò la mascella e socchiuse gli occhi. «Tua madre mi ha avvertito, dice che sei insopportabile quando sei malata».
Era proprio il genere di cosa che poteva dire mia madre. Era vero: quando mi ammalavo passavo tutto il tempo a lamentarmi, ma lo tenni per me per non sprecare fiato. Però mi chiesi quando avesse parlato con mia madre. Vabbe’, non me ne fregava niente.
A un tratto, mi prese un colpo. «Mi sono dimenticata di chiamare…».
«Ci ha pensato tua madre a chiamare il tuo capo», intervenne lui. «E adesso prendile».
«No».
«Se la metti così, dovrò usare le maniere forti», rispose lui con fare deciso, e allora ebbi paura di aver esagerato. «Tu le prenderai».
Deglutii e il dolore alla gola mi fece sussultare.
Il suo sguardo mi insospettì, e le parole che seguirono confermarono i miei timori. Parlò a bassa voce: «Tu le prenderai, altrimenti te le farò prendere io».
Ops.
«Stronzo», bisbigliai.
Ivan sorrise, felice che le sue minacce avessero raggiunto lo scopo desiderato. «Pronta?».
Spalancai la bocca, lanciandogli l’occhiata più cattiva che potevo permettermi con quell’aspetto da pulcino bagnato. Lui fece cadere le compresse sulla mia lingua e mi passò un bicchiere d’acqua. Ne bevvi un po’ e quando riuscii a mandare giù le pillole gli restituii il bicchiere. Lui lo prese e lo appoggiò sul comodino, poi si voltò a guardarmi. Era seduto sul bordo del letto.
«Ti senti meglio?», mi chiese.
«Un po’», sussurrai. Effettivamente mi sentivo un po’ meglio. Il mio mal di testa si era calmato ed ero sicura che la febbre fosse scesa, anche se non era scomparsa del tutto. Lo speravo, per lo meno. Dovevo rimettermi prima possibile. Non l’avevo dimenticato.
Accennando un sorriso, Ivan accostò il dorso della mano alla mia fronte, sfiorandola con estrema delicatezza. «La febbre è scesa. Prima l’ho provata ed era a 38,8».
Mi aveva provato la febbre? Ero proprio stonata.
Ivan ruotò la mano e mi toccò la guancia con i polpastrelli freddi. «Vuoi un asciugamano bagnato per la testa?»
«No», risposi, poi aggiunsi, «grazie».
Lui mi rivolse un altro sorriso. «Ti serve qualcosa?»
«Guarire».
«Domani starai meglio».
«Per forza».
Lui sbuffò. «No, però starai meglio», precisò, affondando un fianco nel materasso. «Di sotto c’è della minestra».
Aggrottai la fronte per la sorpresa, non riuscii a trattenermi. «L’hai fatta tu?».
«Non guardarmi come se stessi cercando di avvelenarti. Se avessi voluto, l’avrei già fatto». Mi grattò la fronte con un dito. «L’ha portata il marito di tuo fratello».
Il pensiero di James, di quanto fosse dolce e meraviglioso, mi strappò un sorriso. «Fa una minestra buonissima».
«Infatti ha un odore delizioso. Voleva vederti ma stavi dormendo».
Tirai un lembo della trapunta e quel piccolo movimento bastò a scatenare le proteste dei miei muscoli, ma riuscii a guadagnare qualche centimetro di stoffa e a coprirmi il mento. «È il migliore».
Ivan mi parve interdetto. «Quindi qualcuno è migliore degli altri, per te?»
«Lui sì», esclamai. «Anche mia madre. E mia sorella Ruby. E pure Tali, quando non ha le sue cose». Dopo un attimo di riflessione proseguii: «Anche Miss Lee è forte. E i miei fratelli. Aaron è un fico, non posso non citarlo nella lista».
Con uno sbuffo, Ivan si spostò, facendosi più vicino. Scivolai su un lato del letto per fargli spazio, chiedendomi che intenzioni avesse. La sua mano si posò sulla trapunta, proprio sopra al mio gomito, e mi chiese, con un’esitazione nella voce che non gli si addiceva: «E tuo padre?».
Dovevo stare proprio male, perché non andai su tutte le furie al sentirlo nominare. Oppure, ormai avevo perso le speranze. Scelsi di dirgli la verità. «Mio padre no».
Gli occhi di Ivan scattarono verso di me. Tuttavia non mi chiese spiegazioni, con mio grande sollievo. Mio padre era l’ultima persona di cui volevo parlare. Se non l’ultima, rientrava nelle ultime tre posizioni.
«Devi aggiungere qualcun altro alla lista?», mi chiese Ivan dopo un silenzio imbarazzato, durante il quale avevo pensato a mio padre.
«No».
Ivan mi lanciò un’occhiata indifferente, poi annunciò: «Ho vinto due medaglie d’oro».
«Non mi dire», esclamai sarcastica, mentre lui continuava ad avanzare sul materasso fino ad arrivare a pochi centimetri da me.
«Certo», rispose a tono. «Non una. Due. E qualche mondiale».
«E questo che c’entra?», gracchiai, con la gola disidratata. Ivan scivolò all’indietro e venne a sedersi accanto a me con la schiena appoggiata alla testiera. Poi calciò via gli stivaletti neri all’ultima moda, uno dopo l’altro, facendoli atterrare con un tonfo. «C’è chi mi considera il migliore».
«Chi?», chiesi, mentre Ivan stendeva le gambe sul letto, accavallando le caviglie e mostrandomi i calzini a righe viola e rosa. Lui ruotò il busto per guardarmi in faccia e chinando la testa rispose: «Un sacco di gente».
Sgranai gli occhi. «Insomma… anch’io credo che tu sia un bel tipo».
Le sue sopracciglia d’ebano si inarcarono in una smorfia incredula. «Credi?»
«Credo. A pattinare te la cavi. E oggi sei stato molto gentile con me. Anche ieri. Non so neanche che giorno è», mormorai. «Puoi entrare a far parte della lista, se ci tieni tanto».
«Che entusiasmo!».
Scoppiai a ridere sussultando di dolore, e guardai il corpo disteso accanto al mio, le dita intrecciate sul petto che, quando avevo toccato il fondo, mi avevano accarezzato i capelli. Senza fermarmi a pensare mi accoccolai vicino a lui in cerca di un contatto, per trovare un po’ di affetto, e accostai il fianco al suo, nonostante ci fosse la coperta a dividerci. Nel profondo del mio cuore ero sicura che non si sarebbe fatto beffe della mia debolezza, allora piegai la testa e la posai sulla sua spalla. Negli ultimi due mesi eravamo stati sempre appiccicati. Non c’era niente di strano. Proprio niente di strano. Me ne convinsi, nonostante sapessi benissimo che con Paul non era mai capitato niente del genere.
«Sei il migliore», gli dissi con un filo di voce, «nel pattinaggio a coppie».
Sentii un’insolita pressione sulla testa e immaginai che Ivan, mentre rideva, avesse appoggiato la guancia sui miei capelli. «Grazie della precisazione».
Risi ancora, incurante del dolore alla gola. «Finora ti sei dimostrato un buon amico, ma l’unico termine di paragone che ho è tua sorella».
«Mmm», sospirò, spostandosi leggermente di lato e circondandomi le spalle con un braccio. Mi colse alla sprovvista, ma non mi lamentai. Il suo braccio era caldo e pesante, e mi piaceva la sensazione di essere chiusa in un bozzolo. Protetta. Mi piaceva un sacco. «È vero».
«Mi prestava i vestiti, prima che crescesse all’improvviso di venti centimetri e mi lasciasse indietro. Ma lei non può prendermi in braccio».
Ivan annuì con una risata sommessa. «Giusto, Polpetta. E poi, io sono più carino».
«Quanto sei fastidioso!».
«Lo dici sempre».
Sorrisi contro la sua spalla e un soffio d’aria sui capelli mi spinse a pensare che anche lui stesse facendo lo stesso. «Non devi rimanere, sai?»
«Lo so. Tua madre ha detto che possono pensarci i tuoi fratelli finché lei non rientra», mi spiegò.
Feci una smorfia. «Preferisco stare da sola. Quando viene, Tali mi butta qualche pacchetto di cracker e un Gatorade dalla porta».
«Che orrore, quelli sono veleno», esclamò Ivan. «Zucchero e carboidrati inutili non ti fanno bene».
Da quando Ivan si occupava della mia dieta non dovevo pensare più a niente.
«Dopo che mi hai raccontato quello a cui andresti incontro, non posso più andare via», bisbigliò. «Posso fermarmi un altro po’, ma più tardi devo andare a casa, almeno per un’ora».
Inconsciamente, registrai l’informazione: doveva andare a casa per fare qualcosa. Era accaduto anche quando eravamo da Ruby per badare ai bambini, e quando aveva cenato con i miei. Tuttavia, non feci domande e non ci feci più di tanto caso. Ero troppo stanca.
«Puoi andare anche subito, se vuoi».
«No, sono solo le cinque, Polpetta», rispose. «Manca ancora qualche ora, tranquilla».
«Sono sicura che avrai di meglio da fare».
Ivan mi strinse la spalla, poi iniziò ad andare su e giù con la mano lungo il mio braccio. «Taci e prova a dormire, va bene?».
Dormire? Era un’idea bellissima!
Senza discutere, chiusi gli occhi, annusando l’aroma delicato della sua acqua di colonia; la metteva tutti i giorni, senza eccezioni. Espirando, dissi: «Lo fai con tutte le tue partner? Oppure solo con quelle che hanno il contratto per un anno?».
Il suo corpo si irrigidì. «Smetti di dare aria alla bocca e dormi, okay?».
Posai il palmo della mano sui suoi addominali piatti e tonici. Li avevo intravisti mille volte mentre si cambiava, oppure quando si allungava per grattarsi e la maglietta si alzava… ma non li avevo mai toccati. Sfiorati, al massimo. Erano davvero d’acciaio.
«Non devi fermarti per forza», ripetei, mentre le mie palpebre si facevano sempre più pesanti.
Lui sospirò e scosse la testa. «Nessuno può prendersi cura di te come so farlo io». Non aveva tutti i torti. Prima mi rimettevo, meglio era anche per lui. Per entrambi.
Sentii il pungolo della delusione, ma decisi di ignorarlo. Non mi importava perché lo facesse. L’importante era che fosse al mio fianco e si prendesse cura di me, a differenza di tutti gli altri.
«Prima che ti addormenti, dov’è il telecomando?», mi chiese.
Allungai la mano alla cieca e afferrai il telecomando sul comodino, facendolo cadere sulla sua pancia.
E poi crollai.
Qualcosa di caldo toccò la mia bocca e mi parve di udire una voce che sussurrava: «Bevi, piccola».
E io lo feci, ignara del contenuto di quella tazza.
A un certo punto mi svegliai. La mia testa poggiava su una superficie dura. Aprii gli occhi, ridotti a due fessure, e capii che avevo la testa posata sul basso ventre di Ivan. Le mie braccia erano abbandonate sulle sue ginocchia. Il volume della televisione era bassissimo e la trapunta era ammassata ai piedi del letto.
Stavo sudando. Nonostante il caldo, riuscii a riprendere sonno.
«Jasmine», bisbigliò al mio orecchio una voce familiare, mentre una mano mi accarezzava i capelli e il braccio. «Devo andare a casa».
Stavo malissimo. Riuscii a malapena a mormorare: «Okay».
Ivan mi accarezzò i capelli, le braccia, il polso, e lì si fermò. «Il cellulare è qui. Tua madre ha detto che verrà qualcuno a vedere come stai. Chiamami se hai bisogno di qualcosa, d’accordo?»
«Mmm», gemetti, poi la sua mano scomparve.
«Torno domattina», mi disse. In quel momento, qualcosa di caldo e umido si posò sulla mia fronte. Il suo tocco leggero durò solo un attimo e mi venne il dubbio di averlo immaginato.
«Grazie», sussurrai in un momento di lucidità, con la gola riarsa.
«C’è una bottiglia d’acqua su ogni comodino. Bevi».
Toccò ancora la mia fronte, e io sospirai: «Va bene, Vanya». Dopodiché, mi girai su un fianco e mi rimisi a dormire.