25 novembre – lunedì

TUTTA COLPA DELLA NEVE!

Sta nevicando.

È novembre e sta già nevicando.

Ora, niente di personale (adoro la neve), ma vorrei porre un quesito a Chi Di Dovere: era forse fondamentale per gli equilibri cosmici che nevicasse proprio il mio primo giorno di lavoro?

Questa mattina la parola d’ordine era “basso profilo”, quindi tailleur grigio antracite, ballerine di vernice e cappottino nero, capelli dietro le orecchie e occhi innocenti (sempre che una praticante legale possa mai apparire innocente).

Invece, stanti le attuali condizioni atmosferiche, non mi rimane che guardare sconsolata verso l’anta dell’armadio dove i capi acquistati da Zara per l’occasione attenderanno inutilmente.

Oggi niente tailleur, e adesso… cosa mi metto?

La foto dell’“Annalisa laureata” (io in versione tocco e toga, dentro una cornice in argento, regalo di mia mamma) mi guarda sorridendo dal comodino. Le sorrido anch’io.

Forza: fuori dal piumone!

Quando emergo dalla mia camera dopo una faticosa ricerca degli indumenti (dov’è finito il piumino bianco, e soprattutto di che colore sarà ora?), trovo i miei coinquilini già in cucina per la colazione.

Fede mi lancia uno sguardo assonnato, rannicchiata nella sua vestaglia di flanella blu a fiorellini, la tazza di caffè americano rigorosamente dek fra le mani.

«Sei pronta?», voce roca di chi ha passato buona parte della notte sui libri.

«Sì, pronta» e osservo perplessa i miei doposci, decisamente più appropriati a una bufera sulla Grigna che a una nevicata a Milano, mentre in sottofondo Platinette su Radio Deejay dà il tormento a Enrico il Bagnino.

Fede indica il mio piumino bianco col cappuccio bordato di pelo.

«Sembri più una sposa Inuit che un avvocato.»

Non posso che darle ragione annuendo.

«E pensare che avevo preparato una mise molto più adatta…»

La frase rimane sospesa, lasciando trasparire un disappunto che in realtà già non provo più.

«Più Woolrich e meno MAX&Co., quindi.» Francesco mi sorride, perfettamente vestito e ordinato – unico uomo o quasi che, rigorosamente etero, sa quello che dice quando si parla di griffe. Scruta la mia tenuta polare al di sopra delle pagine rosa del “Sole - 24 Ore”: «Comunque, sei molto carina lo stesso».

«Grazie, Ciccio» concedo. «Ma l’ultima cosa che voglio è apparire “carina”» preciso.

Prendo una tazza per il caffè.

«Voglio invece essere, nell’ordine: brillante, dotata, affidabile» elenco con le dita della mano libera. «E soprattutto credibile… almeno oggi.»

Sorridono credendola una battuta, mentre io bevo velocemente qualche sorso di caffè che nel frattempo mi sono versata dalla moka cercando di non coinvolgere nell’azione anche altro… ci mancherebbe solo di macchiarmi, oggi.

Fede cerca di tranquillizzarmi: «Vedrai, non sarà molto diverso dal periodo di praticantato che hai già fatto…».

«No, immagino di no.»

Solo che il praticantato finora l’ho fatto in uno studio che vantava un organico di tre professionisti (Fede, io e suo zio), mentre lo studio Bauser e Benelli conta trecento avvocati solo qui in città… ma evito di ricordarglielo. I paragoni, si sa, sono sempre odiosi.

«Andrai alla grande!» mi incoraggia Fede intuendomi un po’ agitata.

Se solo potessero immaginare le ragioni del mio nervosismo…

Da dietro il giornale arriva attutita la voce di Francesco: «Lo sapevi che oggi lo studio Bauser e Benelli annuncerà l’acquisizione dello studio Villard di Bruxelles?».

La quotidiana rassegna stampa di Ciccio, che tenta di tenerci in contatto con il mondo, oggi mi tocca da vicino.

«No!… Ma come hanno potuto tenermene all’oscuro?!», due cucchiaini di zucchero che fa freddo e una mano sul petto a sottolineare una profonda amarezza.

Francesco ignora la mia ironia e prosegue con la notizia: «Con questa fusione il tuo studio diventa “il più importante studio legale italiano con indirizzo internazionale”… ahpperò!». Ciccio ne è proprio colpito.

«Ora, definire lo studio Bauser “il mio studio” mi sembra un po’ azzardato… praticamente lì sarò alla base della catena alimentare.» Ingoio un cucchiaio di All-Bran a secco e mi avvio verso la porta cercando, nel tragitto, di allacciarmi i doposci.

«Bene, vado.» L’ultimo sguardo allo specchio nell’atrio mi dice che sono un po’ tesa.

Tesa ma determinata.

Assolutamente determinata.

La cerniera del piumino mi si chiude con un po’ di fatica. Troppo, troppo seno.

«Non fai colazione?» chiede premurosa Federica.

Non sto a puntualizzare che per i miei standard, che lei ben conosce, io ho praticamente fatto colazione.

«Prenderò qualcosa per strada» mento, «non so quanto ci metterò ad arrivare in piazza Castello con questa neve.»

La loro voce m’insegue: «In culo alla balena!».

Scendo le scale velocemente e sono già in strada quando la voce di Federica mi raggiunge di nuovo: «Sassi, SA-SSI!».

Inutile dire che tutte le persone sul marciapiede si voltano a guardare la ragazza che m’insegue: affannata, con un piumino sopra la vestaglia che un po’ penzola oltre l’orlo, i lunghi capelli biondi spettinati, un sacchetto dell’Esselunga in una mano e delle pantofolone animalier ai piedi, domandandosi di che sassi stia parlando e guardandosi nel frattempo intorno con una certa inquietudine.

In realtà, Sassi è il mio soprannome, derivato dal balbettio con cui io stessa mi indicavo da bambina e poi rimastomi appiccicato addosso nel corso degli anni. Soprannome che francamente detesto. Ma chi mi chiama così mi vuole bene e quindi…

«Sassi, non puoi rimanere tutto il giorno in ufficio con i doposci: ti ho portato le ballerine nere» e mi porge il sacchetto Esselunga. «Scusa, nella fretta non sono riuscita a trovare altro…» dice guardandolo.

Non è cara? Io la adoro.

Fede rientra di corsa lasciando impronte improbabili sulla neve fresca. Lei rimarrà in casa a studiare tutto il giorno dato che a giugno tenterà gli esami per entrare in magistratura e io mi godo finalmente questo momento: a me la neve piace, anche in città, anche quando, come oggi, qualche problema me lo sta creando.

Nessuno, però, sembra pensarla come me e la caduta di qualche centimetro di neve qui assume i contorni della catastrofe naturale. In effetti, ho notato che i milanesi tendono a considerare i fenomeni atmosferici come un affronto personale…

Del tutto irrazionalmente, faccio l’azzardo di non prendere la metropolitana e, sperando che i tram viaggino nonostante la nevicata, arranco faticosamente fino a Porta Venezia solo per vedere uno scorcio di parco coperto di neve (che decisamente merita) e godere della trasformazione della città in un paesaggio da fiaba nordica… la sorte mi è amica, non sono ancora del tutto congelata che ecco il profilo del 9 che si fa largo all’orizzonte. L’eccitazione infantile che provo per la nevicata rende quasi sopportabile ritrovarmi spiaccicata più del solito fra ombrelli, gomiti, ventiquattrore e zaini… a me la gente piace, però c’è un limite anche alla simpatia che so di dover provare per il mio prossimo.

E poi una domanda: chi ha progettato i nuovi tram? Fuori i nomi! Chiaramente qualcuno che il tram non l’ha mai preso in vita sua. I posti a sedere, infatti, sono distribuiti in maniera demenziale e la loro totale mancanza di ergonomia ti fa preferire stare in piedi piuttosto che sederti, incastrando le tue ginocchia con quelle del vicino in una sorta di tangram umano. In Cinque Giornate devo pure scendere e cambiare per prendere il 12 e raggiungere la mia meta. E anche qui non è che ci sia da stare allegri.

Di sfuggita mi domando se era il caso di studiare questo percorso alternativo rispetto al caro vecchio 1 che passa giusto sotto casa, solo per una sbirciatina al parco.

All’arrivo, vivo un momento di pura felicità quando mi appare il Castello, a cui la nevicata ha già regalato quindici centimetri di orlatura bianca.

M’incammino verso corso Magenta, in uno stato di grazia totale, con il cappuccio alzato che so mi schiaccerà i capelli in modo irreparabile, la mia Piquadro che pesa (prima volta che la uso, regalo portafortuna della mamma), il sacchetto delle scarpe che batte sulle gambe, ma con la voglia di sorridere a tutti quelli che incontro mentre la neve scende a grossi fiocchi.

Svolto in via San Nicolao e già assaporo il momento di solitudine che ho deciso di regalarmi nella tranquillità della minuscola chiesa che si trova di fronte allo studio, per caricarmi prima di iniziare la nuova avventura. Un’avventura che oltretutto potrebbe rivelarsi molto pericolosa… ma a questo non voglio pensare.

Spingo il portone ed entro.

Avendo dato per scontato, visti ora e clima, di essere l’unica visitatrice, provo un po’ di disappunto nel trovare qualcuno che ha avuto la mia stessa idea.

Un tipo vestito di scuro è fermo accanto a una panca. Solo la pashmina nera rivela che è inverno anche per lui, per il resto niente fa pensare che abbia dovuto affrontare la nevicata: non le sue scarpe nere lucidissime né l’assenza di ombrello o cappello.

Ma è soprattutto il suo atteggiamento a colpirmi: in piedi in mezzo alla navata, osserva a testa alta l’altare come se stesse studiandone i dettagli o se pregasse guardando con arroganza il suo interlocutore dritto negli occhi.

Quando il parquet scricchiola sotto il mio passo, lui si gira e mi lancia un’occhiata infastidita facendomi sentire un’intrusa – sensazione che me lo rende immediatamente antipatico (comportamento singolare da parte di entrambi, considerando che ci troviamo in una chiesa).

Mi fermo per qualche minuto respirando l’odore della neve che ho portato con me e un sottile, piacevole aroma.

Cerco di capire: è profumo di uomo, un uomo che sa di camicia stirata, dopobarba e caffè.

Quando esco lui è ancora lì, nella stessa posizione, ma il suo sguardo chiaro mi rimane negli occhi.

Raggiungo palazzo Bonfanti, il bell’edificio inizio Ottocento dove ha sede lo studio Bauser e Benelli, e subito mi rendo conto che qualcosa è arrivato a turbare l’atmosfera dell’elegante reception, tutta marmi e scalone – un insieme di cortesia e perfetta efficienza che molto mi aveva colpito durante i colloqui che hanno preceduto il mio inserimento nello studio in qualità di praticante, o trainee se vogliamo dirla all’inglese.

Oggi c’è un’elettricità nell’aria che non può essere imputata solo al clima, ma che la neve sembra comunque accentuare.

Mi tolgo il cappuccio cercando di tenere sotto controllo i miei capelli che in parte sparano e in parte mi rimangono appiccicati al cranio, come volevasi dimostrare.

Le receptionist, due diafane fanciulle, loro sì con bionde chiome sobriamente e ordinatamente raccolte, sono entrambe al telefono, cercando di coordinare l’arrivo di qualcuno (che poi capirò essere giornalisti) e nel contempo dare istruzioni agli addetti di una società di catering che, vista l’impossibilità causa neve di scaricare sul retro del palazzo, stanno riempiendo l’ingresso di tavoli rotondi e polibox.

Qualcuno chiede a gran voce dove sono gli accrediti e io, che ignoro cosa siano gli accrediti, mi metto a sedere su uno dei tanti divanetti colorati sparsi nell’ampio ingresso. Scelgo quello melanzana, confidando che prima o poi qualcuno si accorga di me e mi chieda chi sono e perché proprio oggi mi presento qui ad aggravare una situazione che, non vorrei apparire pessimista, mi sembra già difficile.

Ma le ragazze hanno decisamente in mano la situazione e solo dieci minuti più tardi tutto sembra miracolosamente sistemato: il catering ha sgombrato il campo, i giornalisti cominciano ad arrivare affollando e innevando la reception, gli accrediti vengono consegnati e i caffè serviti.

Quindi le bionde fanciulle si dedicano a me; sanno perfettamente chi sono, si scusano e mi spiegano che, per una serie di eventi inaspettati, tutti i salottini sono occupati e che presto un’assistente si occuperà di me e mi troverà un luogo adeguato dove aspettare il mio partner di riferimento.

L’efficienza abita qui.

Mi risiedo su un divanetto, questa volta color glicine, ma ho appena il tempo di appoggiarmi allo schienale che appare una bionda germanica, diciamo “in età”, dal fisico imponente, severamente vestita con tailleur nero e camicia bianca e nessuna concessione alla vanità: niente trucco né gioielli.

«Dottoressa Molinari, sono Kristine, benvenuta», stretta energica e tono più che spiccio di chi ha la gestione di tutto lo studio sulle spalle. Impegno, però, che le lascia il tempo di lanciare uno sguardo carico di perplessità ai miei doposci ornati di pelo e al mio piumino che possiamo definire “ardito”… perplessità che si trasforma in incredulità quando incontra il sacchetto Esselunga.

«Sono l’assistente dell’avvocato Bauser. Ci scusi ma oggi abbiamo la conferenza stampa per l’annuncio dell’acquisizione…»

Ecco svelato l’arcano.

«Avrebbe dovuto avere luogo la prossima settimana ma è stato invece anticipato» prosegue, pilotandomi intanto a passo di marcia dalla reception del pianterreno all’ascensore. «La cosa ci ha lievemente spiazzato, perciò siamo tutti un po’ sotto pressione, inoltre molto del personale è in ritardo per via della neve… l’assistente dell’avvocato Ghisleri abita in provincia di Bergamo e non è neanche riuscita a uscire di casa. Le ho trovato un posto dove potrà aspettare. Appena sarà possibile la condurrò dall’avvocato Ghisleri, che ora è occupata in una riunione non schedulata.»

L’ascensore, che ricorda un salone da ballo per dimensioni e aspetto (pavimento di marmo e specchi compresi), si ferma al sesto stratosferico piano, dedicato agli uffici della direzione, dove l’aria è decisamente più rarefatta, il silenzio è totale e una solida agiatezza traspira da ogni singolo pannello di ciliegio del lungo corridoio.

Improvvisamente si congeda con un: «Ecco, la prego di attendere qui».

L’ufficio, non grande ma gradevole, è arredato con “funzionale eleganza”: due scrivanie, telefoni e computer q.b., piantina fiorita di violette africane (ma vivono e fioriscono anche fuori dagli uffici?), alla parete stampe di fiori di Elizabeth Blackadder, vicino al computer una foto di George Clooney accanto allo scatto di un uomo sui cinquant’anni stempiato e con gli occhiali (a rappresentare, credo, il sogno e la realtà) e un divanetto (di nuovo?) verde lime verso cui mi dirigo, ma dove questa volta non mi siedo perché una grande vetrata che dà su una terrazza ormai bianca attira la mia attenzione.

Mi reputo una persona di buon senso e nel corso degli anni ho cercato, con alterna fortuna devo ammettere, di controllare la mia latente quanto pericolosa impulsività, ma oggi non riesco a trattenermi; forse è colpa di quest’atmosfera da situazione straordinaria ma, senza riflettere un decimo di secondo, apro la porta scorrevole ed esco, nella neve, su quello che ora capisco essere non una terrazza ma un giardino pensile.

Praticamente sono entrata nelle Cronache di Narnia, lampione acceso e innevato compreso.

La neve, che ora cade a fiocchi leggeri, ha ricoperto tutto, eppure, da brava ragazza di campagna, riesco ugualmente a individuare un gruppo di abeti disposti in un angolo come a ricostruire un boschetto, il grande cespuglio di cotoneaster con le bacche rosse che occhieggiano sotto la neve e lo scheletro invernale di un enorme rampicante – un glicine probabilmente – che ricopre un pergolato.

La distanza dal parapetto mi fa desistere dall’avventurarmi fin là per osservare dall’alto la città sotto la neve, come mi piacerebbe fare, e allora, volendo in qualche modo godere della situazione, sollevo la faccia al cielo, chiudo gli occhi, allargo le braccia e (non ci posso credere) comincio a girare su me stessa. Apro la bocca, tiro fuori la lingua e lascio che i fiocchi ci cadano sopra.

È un fruscio, niente di più, ma quando riapro gli occhi davanti a me (questa volta con qualche fiocco di neve a movimentare il cappotto nero) c’è l’uomo di San Nicolao.

Mentre elevo silenziosa ma formale protesta nei confronti del Santo Patrono dei Neoassunti, mi accorgo che le porte di un montacarichi si stanno richiudendo alle sue spalle.

Mi prendo tre-secondi-tre per osservarlo alla luce della neve (avete presente quel particolare chiarore che rende così netti i contorni?). E noto il disegno delle ampie spalle sotto il cappotto, la figura alta e, devo ammettere, decisamente elegante.

L’uomo mi sta guardando come se fossi un insetto abbastanza ributtante e apre la bocca quel poco che basta per pronunciare con tono infastidito: «Lei…?».

Il significato di quel monosillabo e del non detto mi arriva forte e chiaro (“Lei chi è e cosa ci fa qui, e soprattutto come osa esistere e respirare nel mio territorio?”).

Poi di nuovo – al di sopra di tutto l’imbarazzo e il disappunto che provo verso me stessa per aver ceduto al mio impulso nel momento più sbagliato – c’è solo quello sguardo azzurro e quel profumo che mi ricorda qualcosa.

Recupero a tempo di record un po’ di dignità e con un sorriso, che in altre situazioni mi ha salvato la vita, mi limito a dire: «Io… ecco… è che la tentazione di uscire sotto la neve è stata troppo forte, mi scusi».

Quello che ottengo con queste mie poche parole è che i suoi occhi si chiudano in due strette fessure e capisco che sta aspettando muto che io svanisca – cosa che cerco di fare con la massima dignità possibile, infilandomi velocemente nella porta scorrevole e chiudendomela alle spalle.

Poi mi concedo un respiro profondo. «Che stronzo!» mi permetto di sussurrare, un po’ vigliaccamente, una volta al sicuro.

Ma chi crede di essere?

Per questa domanda temo di avere una risposta: se questo è il suo territorio, è sicuramente un socio.

«Merda, merda, merda.»

Forse mi sono messa nei guai. Ma poteva andar peggio, almeno non avevo con me il sacchetto dell’Esselunga!

Poi però non c’è più tempo per niente (se non per ripensare a cadenza regolare alla figuraccia che, sono certa, mi si riaffaccerà alla coscienza, soprattutto nei momenti in cui mi sentirò un giovane e brillante avvocato per ricordarmi che, in realtà, sono una deficiente) perché torna Kristine, a cui mi guardo bene dal raccontare l’episodio (confesso che un po’ la temo fisicamente).

Finalmente incontro Maria Cristina Ghisleri, che avevo conosciuto durante i miei colloqui.

Curata ed elegante, bei gioielli di Pomellato, vera figlia della borghesia illuminata cittadina (suo marito si mormora sarà il prossimo candidato sindaco per la sinistra), esperta di diritto del lavoro e di fondazioni e onlus mi spiega che troverò già nel mio computer, al terzo piano (lei sta al quarto), una serie di ricerche da fare relativamente sia alla mia tesi di laurea (le fondazioni e onlus, appunto) sia di carattere generale. Il tutto molto, molto urgente.

Raggiungo veloce la mia postazione, che si rivela essere una scrivania in un open space – per la precisione, l’ultima scrivania lontano dalla finestra, con il bagno a portata di mano (per non dire vicino ai bagni) e dietro la parete divisoria.

A sorpresa, insieme a scrivania, sedia e tante mensole piene di faldoni, un divanetto – in questo caso blu Cina (ma quanti divanetti ci sono in questo posto?).

Poi la presentazione ai vicini di scrivania: Eugenia detta Eu (Eu?), bellissima, altissima con grandi occhi verdi e meravigliosi capelli rossi e ondulati per cui potrei uccidere, e Edoardo (che temo chiamino Edo), non alto, un po’ sovrappeso tipo “muscoli scolpiti nella Nutella”, ma con grandi occhi scuri e un bel sorriso.

Entrambi avvocati al primo anno.

Ho giusto il tempo di posare le mie cose che tutti dobbiamo recarci al quinto piano, dove insieme alla mensa, al bar e alla palestra trova spazio una sala conferenze, perché dopo la conferenza stampa il socio anziano parlerà al personale dello studio.

Fra neve, primo giorno di lavoro, fusione, tipo di San Nicolao e figuraccia (senza dimenticare la ragione che mi ha spinto ad accettare questo posto di lavoro e che dovrebbe indurmi a non farmi notare troppo) ho l’adrenalina a mille, quindi mi precipito nel bagno e in pochi minuti esce un’altra me (o almeno così spero).

Via i doposci, con le ballerine i pantaloni di velluto ricadono morbidi, e una piccola spilla di Accessorize dà un tocco di colore al twin set panna; pettino velocemente i miei fin troppo fini capelli castani tirandomeli ordinatamente dietro le orecchie e, mentre mi guardo nello specchio, un pensiero mi restituisce il buon umore: non mi riconoscerà… senza cappuccio sulla testa e vestita così, chiunque lui sia, non mi riconoscerà.

Spero.

In sala conferenze, un vero e proprio teatro con trecento posti a sedere, io e gli altri giovani collaboratori dello studio ci sediamo nell’ultima fila dimostrando di possedere un forte senso della gerarchia.

Attorno a noi, gli altri: gli avvocati junior, tutti vestiti di grigio canna di fucile o nero gessato con camicia bianca da veri fighetti, i senior invece molto English style, e questi dress code sono adottati sia dalle donne sia dagli uomini.

A dirla tutta, le donne si distinguono per il loro camminare, a volte caracollare, su tacchi altissimi: se sei donna, qui l’avvocatura civile la eserciti sul tacco dodici.

Mi soffermo a osservare le mie ballerine.

Eu intercetta lo sguardo e inaspettatamente mi domanda: «Ma non sono scomode?».

In un primo momento penso a una battuta, ma poi lei prosegue imperterrita: «Io non riuscirei a portarle, mi verrebbe subito il mal di schiena».

«Per le ballerine?» (Permettetemi un po’ di scetticismo.)

«Ti giuro, il mal di schiena e la tallonite.»

«Ora, non mi dirai che le tue…» inizio perplessa.

«Jimmy Choo, sono Jimmy Choo» e lancia uno sguardo, colmo della tenerezza che molte donne riserverebbero solo al loro primogenito, alle sue pumps nere sottilmente profilate in fucsia, «un guanto» sospira, «sono comodissime anche grazie al plateau. E poi slanciano la gamba, gli uomini adorano le donne con i tacchi, le trovano più femminili.»

Sarà, ma io ho sempre portato scarpe basse e nel mio piccolo…

Inoltre sono alta 1,75 e non credo proprio che la mia altezza abbia bisogno di svettare di altri centimetri per farsi notare.

«Tacchi alti, capelli lunghi e li stendi» termina Eugenia, buttando all’indietro la fulgida chioma.

Naturalmente i miei capelli scendono pochi centimetri sotto le orecchie dove poi le punte tendono a voltarsi in su.

Ritorno con lo sguardo sull’anfiteatro. Non riesco a individuare il tipo di San Nicolao né nella platea (peraltro piuttosto vasta) né al tavolo dei relatori, dove un solenne signore dai capelli bianchi, il dottor Bauser immagino, sta rispondendo alle domande dei giornalisti che lo circondano muniti di registratori e taccuini.

Magari era uno di passaggio.

Eugenia nel frattempo si è messa a scrivere rapida su un taccuino Moleskine. Non riesco a controllare la curiosità, altro mio grave difetto insieme all’impulsività.

«Stai prendendo appunti?»

Lei mi rivolge uno sguardo stupito, non conosce ancora questo mio incurabile difetto e poi dopo la conversazione sulle scarpe possiamo considerarci amiche, no?

«Oh, be’, niente. Scrivo alcune note sugli uomini papabili dello studio. Sono tutti qui, è una situazione ideale.»

«Ideale per cosa?»

Già che c’è, mi può dare spiegazioni esaurienti, mi sembra.

Eugenia distoglie di nuovo per un attimo gli occhi dal taccuino.

«Ho deciso di trovarmi una storia fissa… un fidanzato, se così si può dire, e sto preparando delle schede, un data base dei dettagli morfologici di quelli che mi hanno già invitato, con cui sono già uscita, e di chi mi interessa e con cui vorrei uscire.»

«Dettagli morfologici?», mi pento immediatamente della domanda immaginando le risposte più imbarazzanti, invece…

«Sì, brevi note tipo: alto, biondo, belle mani eccetera» Eu fa un gesto vago con la mano ornata da una curatissima french. «Ho intenzione di accettare tutti gli inviti che mi verranno fatti fino al momento in cui troverò la storia. Se il primo appuntamento si rivela soddisfacente, ne segue un secondo per valutazioni più approfondite, per vedere se scatta l’alchimia… l’attrazione fisica, insomma.»

La ragazza è riuscita a stupirmi.

«Pensavo fosse il sentimento, se non addirittura l’amore, per usare una parola grossa, a dover scattare… o, per lo meno, le affinità elettive.»

La mia ironia si perde negli occhi verdi di Eugenia, lo sguardo che mi lancia è di chiaro compatimento.

«Non posso pretendere di essere così fortunata. In ogni caso, vorrei incontrare almeno una cinquantina di candidati prima di prendere una decisione.»

«Una cinquantina?! Ma stai cercando una storia o facendo un casting?» la domanda mi sale spontanea alle labbra. Eu sorride ma non risponde, continua a lanciare rapide occhiate in giro e a scrivere sul suo taccuino.

Non le domando se prende in considerazione la possibilità di non ricevere inviti. Entrambe sappiamo che questo è impossibile. Sono consapevole che le occhiate che tutti (dicasi tutti) i rappresentanti del sesso maschile rivolgono verso di noi non sono per me.

Improvvisamente, il gruppo di giornalisti si disperde e il personale prende posto. Dal centro del palco, in un silenzio perfetto, il signore dai capelli bianchi comincia a parlare.

«Cari colleghi, abbiamo voluto convocarvi qui per celebrare insieme l’eccezionalità dell’avvenimento che stiamo vivendo e che ci riguarda tutti: da oggi infatti il nostro studio, specializzato in fusioni, acquisizioni e finanza d’impresa, e lo studio Villard e Associati, con sede a Bruxelles e specializzato in diritto comunitario, diventano uno studio unico. Questo grazie alla lungimiranza del nostro fondatore Heinrich Bauser, fautore di questa fusione, che purtroppo non è qui a gioirne con noi», fa una piccola pausa composta, «e a cui da oggi sarà dedicata questa sala conferenze…»

Così dicendo, si volta verso la parete di fondo che, solo adesso noto, è ricoperta da un drappo rosso. Poi lo fa scivolare sul pavimento tirando un cordone dorato e scoprendo un ritratto (gigantesco) di Heinrich Bauser in tutta la sua teutonicità.

Applausi.

Io non applaudo perché sto stringendo spasmodicamente le mani l’una nell’altra. Gli occhi azzurri di Heinrich Bauser sembrano fissare me, con uno sguardo di severa superiorità che mi riporta indietro nel tempo. Dolorosamente indietro nel tempo.

Il relatore ha gli occhi lucidi e fatica a riprendere la parola; non meno turbata, cerco di concentrarmi sul presente.

«Chi è?» chiedo a Edoardo sottovoce.

«È Giovanni Benelli.»

«Un po’ pomposo, non trovi? È il socio anziano?»

«No, è il più anziano fra i soci, ma il socio anziano è Max Bauser che, ironicamente, è il più giovane dei soci.»

«La gerarchia di questo studio è un gioco di parole…» commento.

Nel frattempo Benelli riesce a proseguire: «I nostri soci siedono nei consigli di amministrazione di alcune delle più importanti società italiane e internazionali e sono inoltre stimati membri del corpo accademico di diverse università, con cattedre di Diritto commerciale, civile, internazionale e comunitario. Da oggi, grazie alla nuova acquisizione, lo studio avrà sedi in Milano, Roma, Genova, New York, Parigi, Londra e Bruxelles, e quest’ultima, naturalmente, rappresenterà una base strategica per le attività di diritto comunitario».

Sto per cadere in un sonno catatonico.

«La dolorosa mancanza del nostro fondatore è mitigata dalla presenza del nuovo socio anziano, che rappresenta per noi la continuità: Max Bauser ha infatti accettato di lasciare la sua creatura, lo studio di New York, per dirigere da qui quella che possiamo ormai definire, in forza dei suoi quasi mille avvocati, una law firm… ecco, darei ora la parola all’avvocato Maximilian Bauser… Max, a te la parola.»

Allungo il collo, improvvisamente sveglia, per individuare chi si alzerà e, quando vedo Maximilian Bauser in abito scuro e camicia bianca prendere la parola al centro del palco, mi viene spontaneo schiacciarmi sulla poltroncina nella speranza di sottrarmi alla sua vista.

Questa giornata si sta trasformando in un incubo.

Bauser ringrazia l’amico e collega. Ha una voce profonda un po’ impostata con un leggero accento, direi più americano che tedesco. Pur essendo a distanza di sicurezza provo imbarazzo solo a guardarlo.

A prendere la parola è infatti l’uomo di San Nicolao.

Ecco, ora ho la certezza che da BB&V non avrò vita facile e che, anzi, sarà meglio che prenda accorgimenti per non farmi notare per tutto il tempo che passerò qui.

«L’avvocato Benelli ha ricordato molto bene chi siamo, io desidero invece in questo mio intervento annunciare soprattutto le novità che sono state introdotte, chi saremo, cosa diventeremo…»

E prosegue raccontandoci del potenziamento del settore pro bono, che sarà il primo in Italia a essere inserito in uno studio legale di questo livello, e della necessità che tutti si sentano coinvolti in questo progetto. Ci ricorda anche (assumendo un tono un po’ minaccioso, devo dire) che al personale si chiede moralità, forte senso della giustizia e adesione ai modelli legislativi.

Guai a chi sgarra, quindi. Se avessi un minimo di buon senso, ora mi alzerei e me ne tornerei a casa.

Bauser guarda la platea dal podio con la sicurezza regalatagli dallo status, catalizzando l’attenzione di tutti, e ricorda che a breve nuovi uffici a Madrid e Berlino si uniranno a quelli già esistenti, che insieme agli studi associati presenti in tutti i Paesi permetteranno alla BB&V di fornire una copertura globale a clienti sempre più internazionali.

Poi fa una pausa, sembra quasi che raccolga, dolorosamente, il fiato.

«Infine desidero ricordare mio padre, che così fortemente ha sognato e lavorato per questa nuova struttura e che nel corso degli anni è riuscito, praticamente con le sue sole forze di giovane avvocato, a trasformare uno studio legale di piccole dimensioni in questa law firm che conta più di mille avvocati. Sono sicuro che ne sarebbe stato fiero.»

L’applauso scatta non so quanto spontaneo. Belle parole. Proprio da avvocato.

«Grazie», sembra commosso.

Ora si mangia.

Il buffet è ricchissimo e io, che vorrei e dovrei defilarmi velocemente ma che praticamente non mangio da ieri sera, mi rendo conto di quanto sia improbabile poter rimanere digiuna fino all’ora di cena senza diventare isterica. Cercando di non dare nell’occhio, mi avvicino al lato estremo del tavolo, dove è stata disposta la caffetteria, e mi faccio servire un caffè e qualche friandises da un cameriere dal sorriso complice, il tutto cercando di rimanere fuori dal campo visivo di Maximilian Bauser.

Proprio durante una mia occhiata di controllo mi accorgo che si è avvicinato a Kristine e che ora, con mio grande sconforto, stanno guardando entrambi dalla mia parte.

Posso facilmente immaginare che cosa si stiano dicendo.

Kristine annuisce e poi si dirige verso di me.

Rimango stoicamente ferma accanto alla buvette con la tazzina e il piattino delle friandises a occuparmi entrambe le mani per darmi un tono, in attesa dell’attacco.

Lei ha stampato sulle labbra quel sorriso di circostanza che spesso le persone hanno quando ti devono dire qualcosa di non gradevolissimo.

«Dottoressa… Molinari, giusto?»

«Giusto!», sfodero il mio sorriso anche se ormai comincio a dubitare seriamente del fascino che esercita sugli altri.

«L’avvocato Bauser si domandava se fosse lei la persona che ha incontrato sulla terrazza questa mattina.»

Che cosa si risponde a una domanda così? Si è sincere e autolesioniste? (“Assolutamente sì.”) Si mente negando l’evidenza? (“Assolutamente no.”) Si è possibiliste? (“Non lo escludo…”)

No, si risponde con un’altra domanda: «Quale terrazza?».

«Quella del sesto piano, dottoressa!» mi rimbrotta con il tono spazientito di chi non si fa prendere in giro dalla, letteralmente, ultima arrivata.

«Ah, quella terrazza! Sì, ero io. Questa mattina ho effettivamente avuto il piacere di incontrare lì l’avvocato Bauser.» Ecco fatto e, fedele al mio motto “se proprio devi ammettere la colpa, fallo con nonchalance”, rimango lì con il sorriso stampato sulla faccia.

«Curioso», pausa per prendere fiato, poi prosegue con il tono della zia saggia, mano confidenzialmente appoggiata sul mio braccio, «dottoressa, lasci che le dia un consiglio: mantenga un profilo basso, qui gli atteggiamenti eccentrici non sono visti di buon occhio. Come dire, non sono in linea con lo stile dello studio. Contegno, dottoressa, contegno!»

E poi è già in mezzo alla sala senza lasciarmi diritto di replica e la vedo annuire all’avvocato Bauser. Ok, è chiaro che il profilo basso me lo sono giocato.

Posso immaginare anche solo dalla sua nuca argentata la bocca piegata da sadica soddisfazione, lui invece non perde la sua espressione compunta.

La mia antipatia verso Bauser continua a guadagnare punti: in pochi minuti è stato capace di passare dalla commozione per il padre a questo atteggiamento poliziesco.

Approfitto del fatto che tutti si accalcano intorno al buffet per fiondarmi nel mio ufficio, dove mi trovo miracolosamente da sola. Fuori ha smesso di nevicare e il cielo ha perso la sua luce speciale.

Accendo il computer e comincio a leggere le e-mail.

Ma ho un pensiero fisso: dove sarà l’archivio qui? Nelle cantine probabilmente. Saranno chiuse a chiave? Devo cominciare a pensare a un piano.

A poco a poco, anche gli altri rientrano e nel giro di mezz’ora si torna alla completa operatività.

Le e-mail di Ghisleri riguardano una serie di casi per cui devo preparare delle bozze. Abbasso la testa e mi metto a lavorare.

Ogni tanto alzo gli occhi e osservo il grande open space.

In quanti saremo? Direi una trentina. Trenta paia di occhi fissi sui computer a cercare nel codice civile frasi che “blindino” contratti o li aprano a eventuali future scappatoie, a seconda che il nostro cliente sia il venditore o l’acquirente. Trenta apine operose al soldo del business legale: cerco di fregarti prima che tu possa fregare me.

Sto dando quindi per scontato che le parole che Bauser ha pronunciato durante il suo discorso siano solo marketing.

S’è ormai fatto buio quando un’ondata di chiacchiericcio nervoso attraversa l’open space di scrivania in scrivania finché Eugenia stacca gli occhi dal computer e mi chiede con tono strano: «Hai letto l’ultimo globale studio?».

(Tradotto: l’ultima e-mail della direzione indirizzata a tutto il nostro studio e a tutti gli altri studi nel mondo e per questo scritta in inglese.)

«Manda via Ghisleri…»

In realtà l’e-mail non dice proprio così ma recita più o meno: “Si comunica che l’avvocato Ghisleri lascerà lo studio BB&V per un periodo ancora da precisarsi per supportare gli impegni elettorali del marito e La si ringrazia per il lavoro svolto, attendendo il Suo rientro qualora l’esposizione mediatica dovesse rientrare” (ecco, questa se la potevano risparmiare).

«Capisci? So per certo che lei non aveva la minima intenzione di andarsene o di seguire la campagna del marito… deve averlo deciso Bauser. È chiaro che vuole evitare allo studio una situazione a suo parere imbarazzante.»

Chiedo la prima cosa (banale) che mi viene in mente: «A chi passeranno le sue pratiche?».

«Difficile a dirsi.» Eu si ferma a riflettere un attimo: «All’interno dello studio non c’è nessun altro esperto di non profit, almeno non al suo livello. E mi sembra difficile reclutare qualcuno velocemente… a meno che Bauser… no, no, è improbabile… vedrai che divideranno le pratiche su vari avvocati. Però mi dispiace perché con lei, ti posso assicurare, si lavorava bene».

Rimaniamo a rimuginare sui fatti e per un po’ nessuno ha voglia di lavorare sulle richieste di Ghisleri; ci sentiamo come una classe in attesa della supplente, oltretutto lei avrebbe dovuto farmi da tutor… e ora?

Molte telefonate e molti sussurri più tardi, altri particolari emergono sulla vicenda.

«Di sopra dicono che al sesto piano ci sia stata una vera scena madre con tanto di urla isteriche.»

«Bauser è anche un isterico quindi… rientra nel quadro.» Ne sono quasi compiaciuta.

«No, non lui» mi delude subito Eu. «È lei che ha perso il controllo. È la più grande esperta italiana di diritto del lavoro e ha fatto veramente molto per lo studio, si aspettava sostegno per la campagna elettorale del marito e non certo di essere defenestrata… pare abbia urlato che se ci fosse stato Bauser padre questo non sarebbe successo…»

La prima giornata lavorativa riserva altre sorprese: Bauser, arrivato solo questa mattina, sta imponendo la sua visione calvinista a tutto lo studio.

Pare abbia fatto controllare i collegamenti a Internet di tutti i dipendenti e, come conseguenza di ciò che è emerso, quattro stagisti verranno lasciati a casa e alcuni membri dello studio riceveranno una lettera di richiamo.

«Ma può farlo?» chiedo a Edo quando ci comunica la notizia (lui è specializzato in diritto del lavoro).

«La segnalazione è arrivata direttamente dal gestore telefonico, sono tenuti ad avvisarti se le connessioni a siti a pagamento raggiungono un certo tetto… chiaramente, puoi richiamare il personale ma non licenziarlo, invece gli stagisti sei libero di mandarli via senza dover rendere conto a nessuno.»

«Intendi dire che potrebbe licenziarmi, dato che sono una praticante, se scopre che faccio acquisti online?»

«Sì, se lo fai durante le ore di lavoro usando il computer e/o le connessioni dell’azienda… ma in questo caso gli stagisti non avevano fatto acquisti.»

Ok, ho capito.

In ogni caso annoto mentalmente di non fare ordini a Zalando dal computer dell’ufficio.

Ormai sono le sette e decido che ne ho abbastanza per oggi, me ne vado a casa lasciando lo studio in piena attività e sentendomi una che ha preso mezza giornata di ferie.

Prima di uscire domando alla reception: «Avete delle planimetrie del palazzo?».

Lo sguardo, diciamo incuriosito, che mi lanciano mi fa intuire che la domanda le ha spiazzate e quindi devo aggiungere velocemente una spiegazione: «Sapete, per le uscite d’emergenza in caso d’incendio», il tono è quello pratico di chi sa di esercitare un suo diritto.

«Per il piano antincendio deve chiedere al responsabile della 626, il signor Riva… Sergio Riva, interno 348.»

«Bene, grazie e a domani…»

Esco nella pioggia con l’impressione di avere addosso i loro sguardi insospettiti.

Arrivo a casa provata. Sono ben diversa dall’Annalisa uscita questa mattina (avete presente: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”?… Be’, fatte le dovute proporzioni, s’intende).

Ad accogliermi, profumo di buon cibo e Norah Jones nell’aria. Forte la tentazione di inginocchiarmi e baciare la palladiana dell’ingresso.

Di nuovo Fede e Francesco in cucina.

Lei è seduta sul bancone vicino a un piatto di pangrattato in cui Ciccio sta impanando delle bistecche.

«Ecco così… prima l’uovo sbattuto e poi il pane.»

«E quando metto il sale?»

«Il sale non si mette mai perché se no l’impanatura si stacca…»

Così vicini e così belli in quella posa strana e involontariamente intima, con la testa biondissima di lei accanto a quella scura e riccioluta di lui… si piacciono e sono fatti l’uno per l’altra, non ho dubbi. Solo che loro non lo sanno e quindi Fede crede di essere legata a un povero idiota che la vessa e che però piace molto alla sua famiglia, mentre Francesco prende ogni quindici giorni il pullman della Marino per tornare ad Altamura, dove la sua ragazza è commercialista presso lo studio di una zia. Più raramente lo raggiunge lei, dato che detesta questa città che lui ama. Dal mio punto di vista tutti e tre stanno sprecando tempo e possibilità. Del quarto, l’idiota vessatore, non m’interessa.

Fede alza lo sguardo e mi sorride luminosa, come sempre.

«Eccoti! Allora Sassi, racconta… ti aspettavamo.»

Mi siedo pesantemente su una sedia e mentre lei, scesa dal bancone, comincia a preparare la tavola: «Oggi è successa la qualunque, proprio la qualunque…».

Racconto tutto: dalla chiesa alla neve, all’uomo di San Nicolao, che si rivela essere il nuovo socio anziano, al suo discorso sull’onestà intellettuale, la sua commozione e la sua opera moralizzatrice, già messa in atto con l’eliminazione dei quattro stagisti e l’allontanamento di Ghisleri.

«Breve riassunto: prima quanto siamo bravi, quanto siamo belli, quanto siamo forti senza dimenticare quanto siamo buoni, e poi comincia a far fuori gente», non riprendo neanche fiato, «è un vero e proprio ipocrita, un pallone gonfiato» concludo sentendomi severa ma giusta.

Mentre raccontavo la mia giornata, iniziando dalla terrazza, le bistecche sono state impanate, fritte e servite in tavola con un’insalata.

Fede è estremamente divertita. Francesco estremamente preoccupato che si possa pensare male di me.

«Una persona veramente odiosa!» rincaro sentendomi sempre meglio, in fondo la sua cattiveria mitiga la mia stupidità.

«Ma dài, Sassi! Non sei un po’ severa con Bauser? Non sarà… diciamo… per orgoglio ferito?» Fede, soave.

«Orgoglio ferito?», proprio non capisco.

«Sì, non sarà perché ti ha sorpresa a leccare la neve sulla sua terrazza?»

«Non la stavo leccando, ma assaggiando» preciso, puntigliosa.

«Ah, allora la cosa cambia…» ridacchia Fede.

«E non è per quello, credetemi. È per i colleghi mandati via e anche per la questione di Ghisleri. L’ho trovato veramente un atteggiamento… arrogante», cerco di mantenere le mie posizioni. Con le unghie e con i denti.

Francesco smette di mangiare la sua cotoletta, appoggia educatamente le posate sul piatto, piazza i suoi occhi verdi da pugliese nei miei e interviene: «A me sembra che si stia comportando con coerenza e buon senso. Era nel suo diritto lasciare a casa stagisti che avevano approfittato dei computer aziendali per entrare in siti porno, be’, guarda, ha anche tutta la mia solidarietà e il mio appoggio, anzi mi spiace non abbia potuto prendere provvedimenti contro i dipendenti che han fatto lo stesso… per quanto riguarda l’avvocato Ghisleri, avrei trovato più corretta una sua autosospensione… è chiaro che la candidatura di suo marito mette in imbarazzo lo studio. Nessun cliente deve pensare di essere penalizzato o, peggio ancora, avvantaggiato in una eventuale vertenza contro l’amministrazione comunale. Quindi a me, da quello che racconti, sembra che Bauser stia agendo nel giusto in difesa degli interessi dello studio e quindi di tutti voi, anche se», poi mi concede, «forse ha dei metodi un po’ brutali e antipatici».

«Molto, ma molto antipatici. Sembra possedere solo due espressioni: serissimo e corrucciato. Inoltre tutti noi sappiamo come fanno i soldi questi studi legali internazionali… parlare di coerenza mi sembra quanto meno azzardato.»

«Forse è infelice» s’intenerisce Fede, «ma fisicamente com’è?»

Cerco un aggettivo che si attagli a Maximilian Bauser e me ne viene in mente solo uno, “attraente”, ma dico: «Moro».

«In ogni caso a soli trentasei anni è il più giovane socio anziano capo di una law firm così grande, e ti prego di non giudicare in base a dei luoghi comuni… noi non sappiamo, TU non sai ancora come si lavora con Bauser, aspetta e saprai… solo, per favore, non essere viscerale e cerca di conoscere prima di giudicare.»

Ma Francesco ha sempre avuto questa vena di pedanteria o la sta inaugurando questa sera per me?

«Vado a letto» annuncio sostenuta, se non puoi contare neanche sugli amici…

«Alle nove e mezzo?» Fede sorride. «Rimani a vedere The Good Wife con me.»

«No, sono veramente stanca… e poi devo telefonare a mia mamma.»

In cucina cala il silenzio. Sanno che i rapporti con mia madre in questo periodo sono piuttosto tesi. Mi hanno sentita più volte discutere al telefono con lei anche se non sanno perché, visto che il muro di riservatezza che ho innalzato impedisce di farmi domande sulle ragioni di queste difficoltà.

Lei mi dirà le solite cose (“lascia perdere, non metterti inutilmente nei guai, il passato è passato, cerca di guardare al futuro”) e io le risponderò le solite cose (“non posso dimenticare il passato quando il passato condiziona così pesantemente il mio presente e poi nessuno si accorgerà di me, vedrai non mi farò notare, fidati di me”).

Meglio non sappia che più “notata” di così non è umanamente possibile.

«Mamma, sapevi che Heinrich Bauser è morto?»

«Sì, è successo mentre eri a Londra per il tirocinio… era malato da molto.»

«Questo potrebbe rendere le cose più difficili. È venuta a mancare la memoria storica» rifletto ad alta voce.

«Una ragione di più per rinunciare a questa pazzia… Annalisa, promettimi che non farai nulla che possa danneggiare la tua carriera e soprattutto niente di illegale…»

«Non ti preoccupare, mamma, se potrò chiederò l’aiuto di Maximilian Bauser.» So che non succederà mai.

«Assomiglia al padre?»

Ma che razza di domanda è?!

Cerco di visualizzare il grande ritratto che campeggia nella sala conferenze.

«No, lui ha gli occhi azzurri ma non slavati e non ha i capelli biondi del padre né l’aria germanica… avrà matrizzato.» Mi scopro curiosamente preparata sull’argomento.

Sospiro di chi ha un peso sul cuore e poi: «Torni a casa per il fine settimana?».

«Penso proprio di sì… se il lavoro allo studio mi lascerà energie vitali sufficienti per guidare fino a Verate.»

«Annalisa, mi raccomando…»

«Fidati di me, mamma.»

L’Annalisa laureata sorride dal comodino… cosa avrà poi da essere così felice? La metto a faccia in giù. Io sono di cattivo umore.