1 Fu pubblicata per la prima volta ne «La lettura» del novembre 1909 e ristampata successivamente nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912). Venne infine inclusa nell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad, 1928).
2 Lanugine soffice. V., per la presenza-spia del medesimo termine ma anche per il confronto fra la condizione del moribondo e quella del convalescente, Il dovere del medico I 705-6.
3 Affiora chiarissimamente in questo passo il grande motivo della relatività e soggettività del tempo, motivo che, strettamente connesso a quello della mutevolezza delle relazioni fra io e realtà, è destinato a sviluppi straordinari e a pervadere e caratterizzare tutta la postrema stagione della novellistica pirandelliana. In quest’appressamento della morte, la pretesa di mantenere delle relazioni con la vita sarebbe la condizione d’un’impressione di brusco accorciamento del tempo e d’un senso doloroso della sua brevità e scarsità, della cognizione penosa di non disporne più a sufficienza. Viceversa, la disattivazione della volontà di relazione e la concentrazione dell’attenzione sull’infinità e la gratuità delle minuzie (sui fili innumerevoli d’uno scialle) comportano una smisurata espansione del tempo e la sensazione di disporne in tale abbondanza da temere addirittura, in un principio di delirio d’eternità («quell’eternarsi del tempo tra la peluria del suo scialle di lana»), di stancarsene.
4 Irrigiditi.
5 V. La levata del sole, n. 21.
6 V. Lumíe di Sicilia, n. 13.
7 Cappello a due punte, di origine settecentesca, previsto dalle uniformi di gala o dagli abiti di rappresentanza di alte cariche militari e civili.
8 V. La veste lunga, p. 815: «aveva pensato alle gambe di Rorò Campi, morta. A letto, aveva voluto riguardarsele sotto le coperte: impalate, stecchite; immaginandosi morta anche lei, dentro una bara».
9 V. Il dovere del medico I 706: «Provò come una vellicazione irritante al ventre, a questo pensiero che oscuramente lo contrariava».
10 Pareggiato, rimesso in ordine.
11 L’immagine dell’insetto in agonia ed anche la «curiosità crudele» dell’osservatore riaffiorano, incupite qui dal brivido agnitivo che provoca la similitudine, da un episodietto digressivo di Notizie del mondo (v. I 583).
12 Nonostante l’orrore del nulla appena espresso, lo sguardo di Costanzo Ramberti è straordinariamente disincantato e sgombro d’illusioni. Egli non contrappone la morte alla vita come il vuoto alla pienezza, ma piuttosto come un vuoto vuoto a un vuoto pieno. È nel contrasto con l’imminenza del nulla che le «cose vane» con cui il vuoto della vita era stato riempito, e che pure non erano né sostanza né essenza preziosa, assumono larvali contorni e risaltano appunto come «parvenze di vita». Insomma, la vuota agitazione della vita assume apparenza di pienezza soltanto se traguardata contro lo sfondo vacuo del niente che sta per ingoiarla. E, alla vista acuita del morituro, che è quasi veggenza, il cav. Spigula-Nonnis appare infine come l’epifania non della vita, ma della relazione di lui soggetto con la vita. La sua autorità, il suo prestigio, il suo essere illustre, il suo meritare d’esser chiamato «Eccellenza» gli si svelano d’un tratto nella loro verità attraverso la prosopopea squallida, allampanata e miope di quel fedele cavaliere-becchino.
13 Località amena sul Lago di Albano, ad appena una trentina di chilometri da Roma.
14 La carica di ministro, vale a dire il portafoglio ministeriale dei Lavori Pubblici.
15 A tener conto dell’occorrenza del medesimo toponimo in Dal naso al cielo (v. p. 311) e a prendere per buone le allusive referenze geografiche che là lo circondano, si potrebbe congetturare che Valdana sia il travestimento di una cittadina vicina a Roma e da collocare negli immediati dintorni dei Colli Albani. A farla considerare però, contro questa ipotetica referenzialità, una località d’invenzione, interverrà più tardi La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, novella ambientata a «Valdana, città disgraziata, calamita di tutti i forestieri eccentrici» (v. III 174).
16 In questo riaffiorare di una «vecchia definizione» filosofica risalente ai tempi degli studi universitari (e pretesto ora a postreme elucubrazioni) si direbbe che operi, spostata sul personaggio quarantacinquenne, una memoria autobiografica di Pirandello, laureatosi nel 1891 presso la Philosophischen Fakultät di Bonn e che nel 1909 aveva quarantadue anni.
17 Acqua contenente una certa percentuale di sublimato (o cloruro mercurico) in funzione antimicrobica e antiparassitaria per ritardare la putrefazione.
18 Il cannello ossidrico.
19 A cilindro basso (v. anche Sua Maestà I 905).
20 Oggetti vetusti, stravecchi.
21 Strada del centro di Roma, tra via di Porta Pinciana e via Veneto.
22 «Soluzione acquosa […] di aldeide formica, usata come disinfettante, deodorante e conservativo di materiale organico» (Devoto-Oli).
23 Il nome formalina non ha nulla a che vedere con forma, essendo invece legato al formale, uno dei composti chimici derivati dal formene (vecchio nome del metano). Stanti gli effetti delle iniezioni, il sindaco, per ignoranza o per rabbioso umor nero, conia su una falsa etimologia la parola inesistente.
24 Nell’Umorismo, discorrendo proprio del caratteristico modo di vedere il mondo e di operare dello scrittore umorista, si diceva: «e non componete con troppa pompa nelle camere ardenti su catafalchi i morti, perché egli è capace di non rispettar neppure questa composizione, tutto questo apparato; è capace di sorprendere, per esempio, in mezzo alla compunzione degli astanti, in quel morto lì, freddo e duro, ma decorato e in marsina, un qualche borboglío lugubre nel ventre, e d’esclamare (poiché certe cose si dicono meglio in latino): – Digestio post mortem» (v. SPSV, p. 158): L’illustre estinto recupera e contestualizza narrativamente l’esempio saggistico. In occasione della prima stampa, però, Pirandello dovette rinunciare all’esemplare umorismo dell’episodio, poiché Renato Simoni, direttore de «La lettura», il 28 settembre 1909 gli aveva scritto: «Le mando le bozze della sua bellissima novella. E la prego di due favori: il primo è di rimandarmele subito, chè c’è urgenza d’andar in macchina, l’altro di toglier quell’episodio della digestio post mortem che irriterebbe certo il pubblico familiare di una rivista. Grazie vivissime» (v. CAR, p. 140). Non pago, Simoni aveva chiesto anche ad Ugo Ojetti, che era con Pirandello in maggiore confidenza, di appoggiare la sua richiesta; e nella risposta ad Ojetti, che effettivamente la appoggiò, lo scrittore non nasconde un certo fastidio (ivi, pp. 50-1). Il primo ottobre, pur dichiarando ossequiosamente d’aver riconosciuto da sé, e fin da principio, che quell’episodio rendeva la novella inidonea alla «Lettura», Pirandello risponde a Simoni obbedendo e tuttavia perorando: «Lei, caro Simoni, intenderà, son sicuro, che – dato l’argomento – la rappresentazione tocca il massimo della sua efficacia con quell’episodio, per quanto brutale. Il momento più solenne della visione del povero Ramberti era l’entrata dei Ministri e dei deputati nella sua camera mortuaria: il peggior guajo, dunque, doveva accadergli proprio allora; e niente meglio d’una digestio post mortem poteva rispondere a quella solennità vagheggiata. Togliere quest’episodio vuol dire svigorire miseramente la rappresentazione, non solo, ma anche guastar senza riparo la rispondenza per contrapposizione tra la visione e la realtà. Dal mio canto, però, io intendo benissimo, che Lei deve darsi anche pensiero dello stomaco dei lettori della rivista. E, per farLe piacere, tolgo l’episodio. Se Lei, intanto, ripensandoci meglio, fa in ultimo la considerazione che quella tal cosa non è fatta per dispetto da un vivo, ma da un povero morto che i lettori potrebbero compatire, veda di lasciarlo, quest’episodio. La novella lo vuole» (ivi, p. 141). Simoni non ci ripensò e Pirandello restaurò l’episodio a partire dalla stampa in raccolta del 1912. Per una successiva occorrenza del medesimo evento post mortem, v. anche Soffio III 521-2.
25 Alla destinazione.
26 Impietrito.
27 Si fidi.
28 Nella lettera a Simoni di cui alla n. 24, Pirandello mostrava d’aver chiaro che l’impianto della novella era fondato sulla «rispondenza per contrapposizione tra la visione e la realtà». E il racconto è infatti diviso in due parti intitolabili rispettivamente alla visione soggettiva e alla oggettiva realtà. Per coglierne fino in fondo il meccanismo umoristico, è però necessario tener presente che questa giustapposizione fondante discende a sua volta proprio da una visione d’ordine superiore, che appartiene esclusivamente al narratore-umorista, un narratore che usa con grande sagacia e discrezione della propria onniscienza e del potere della narrazione che è solo suo. È alla sua parola che dobbiamo così la prolungata immaginazione postuma del protagonista che copre la prima parte della novella, come il caleidoscopio disordinato e contrastante di piccole ottiche particolaristiche (da quella dello stralunato Spigula-Nonnis a quelle dei sindaci a quelle dei parlamentari in visita a Castel Gandolfo a quelle stereotipe dei necrologi giornalistici) di cui è disseminata la seconda parte. In questo senso, la vicenda è piena di visioni differenti e la realtà è d’altra parte fatta anche di tutte queste visioni che investono la oggettiva banalità degli eventi, sebbene non sussistano dubbi sul fatto che la orientante simpatia del narratore vada tutta alla coraggiosa immaginazione del moribondo Ramberti. Resta vero che la realtà non corrisponderà alla visione del protagonista, per quanto disincantata, ma l’umorismo non sgorga, per così dire in natura, da questa non corrispondenza: è frutto della visione unificante e oggettivante dell’istanza narrante, capace di mostrare sia la realtà presunta che quella evenemenziale e capace anche di far interagire narrativamente la discrepanza fra le due. Il narratore non interviene a commentare e valutare in prima persona, non esplicita la propria visione del tutto, ma è il suo sguardo che vede tutto a comporre gli eventi previsti e quelli imprevisti e i disparati punti di vista in un racconto umoristico. Sussistono, qui come altrove, circostanze comiche, grottesche, paradossali; ma non esiste una situazione umoristica, esiste solamente la parola (la scrittura, la narrazione) umoristica.
1 Pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» del 12 dicembre 1909, fu poi ristampata nella raccolta del 1912 Terzetti (Milano, Treves). Venne infine inclusa nel dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928), che recupera dieci delle diciotto novelle di Terzetti. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Con cura attenta.
3 S’intende quello staccato e inamidato (detto anche solino) che veniva applicato alle camicie da uomo.
4 Faceva ostacolo.
5 Il sentimento del contrario proprio dell’umorismo può esprimersi anche attraverso un nome: in questo caso il diminutivo bamboleggiante e beffardo che continua ad accompagnare la zitellona «ormai appassita».
6 Con la testa affondata nelle spalle.
7 Delicati e fragili.
8 Il passo contiene, per condensazione, la storia di una violenza devastante e annichilente: l’amoroso specchio materno dell’io viene bruttato e infranto sotto gli occhi del bambino da un padre-orco, ossia da una terrificante e non mediabile alterità paterna che distrugge ogni unità, scompiglia l’intimità e trasforma l’infanzia in un deserto bruciato e sterile. Il bambino Tullio Buti, orripilato, non è mai cresciuto, non è mai stato adolescente, non è mai stato giovane. La violenza ne ha fatto una sorta di mostro: un bimbo adulto.
9 Questa indifferenza-apatia rappresenta il limite che, toccato, trasforma la disperazione, la quale può assumere anche forme forsennate e rabbiose, in devastazione e in vuoto anestetico (la vita di Tullio Buti è una sommatoria di negazioni, di assenze e di astensioni). Se n’è visto un esempio in Va bene (v. p. 136); un altro, ancora diverso, sarà fornito molti anni più tardi da I piedi sull’erba III 552: «la morta a terra nella cassa […]. / No, basta: l’ha veduta. / E richiude le palpebre sugli occhi che gli bruciano dal tanto piangere dei giorni scorsi. Basta. Ora ha dormito, e con questo sonno è finito tutto, smaltito, sepolto tutto. Ora, restare in questo rilascio di nervi, in questo senso di vuoto dolente e beato. Chiudere, chiudere la cassa, e via con essa tutta la sua vita passata».
10 Stati di sospensione come questo sono particolarmente frequenti nel mondo narrato delle novelle, poiché costituiscono una tipica condizione di soglia e di neutralità tra un prima ed un dopo, una sorta di luogo vuoto di eventi e di desertica terra di nessuno psicologica ed emotiva segnata da un forte allentamento della relazione fra l’io e la realtà, che si può caratterizzare ora come un non più… non ancora, ora come un né… né, e che è di volta in volta attonimento, stupore, perplessità, incertezza, inquietudine. Si tratta di una condizione statica e nel contempo precaria, bloccata ma esposta all’urto dell’imprevisto (v. p. 445: «Sì. Questo prodigio operò il lume dell’altra casa. La tetraggine attonita, in cui lo spirito di lui era rimasto per tanti anni sospeso, si sciolse a quel blando chiarore»). La «tetraggine attonita» è la concrezione sintagmatica in cui più volte si cristallizza una simile situazione. Affiorata nel 1902, in termini di natura, in Al valor civile I 735: «Poco dopo, infatti, il cielo incavernò, e fu per qualche momento una tetraggine attonita, spaventevole», era stata riutilizzata immediatamente dopo, come angosciosa condizione creaturale, in Concorso per referendario al Consiglio di Stato: «Pompeo Lagùmina […] rimase un pezzo in una tetraggine attonita, di cui egli stesso, a un certo punto, ebbe sgomento. In quel vuoto orrendo, in quella sospensione terribile della coscienza, una truce idea gli s’era affacciata, a cui egli, avvilito, perduto, non sapeva ribellarsi» (v. I 752). Occorre nuovamente ne I vecchi e i giovani (v. RII, p. 426): «Antonio Del Re […] era rimasto vuoto, sospeso in una tetraggine attonita, spaventevole»; e riemerge ancora, nel 1919, nel Frammento di cronaca di Marco Leccio, là dove il vecchio pensa al figlio in guerra, «in mezzo al nevischio pungente, nella nebbia ch’esilia nell’angoscia di una tetraggine attonita e spaventevole» (v. III 208).
11 Divanetto (v. La signorina, n. 32).
12 Svagati, distratti.
13 Servendo loro la cena.
14 Dal buio, dal fuori, dalla sua estraneità furtiva, Tullio Buti vede la luce, la chiusa intimità, l’interno protetto e protettivo della casa materna; e vede una madre in uno degli atti quotidiani e sacrali dai quali spira l’alito della famiglia e coi quali la madre tiene tutti uniti e raccolti. L’immagine canonica del felice mondo infantile, l’icona della sacra famiglia angosciosamente rimpianta anche da altri ex-bambini pirandelliani (come lo Stefano Conti di Un ritratto e la Didì de La veste lunga), si ricompone sotto gli occhi di Tullio Buti e irresistibilmente lo attira.
15 S’illuminasse (ma v. La levata del sole, n. 30).
16 Tullio Buti si nasconde, come tutti i personaggi doppi cui ripugna mostrare le proprie metamorfosi. La povera Clotildina, fissata ai suoi sogni caparbi di zitella, non sa quanto sia lontana dal vero e quanto vicina alla verità. Crede di aver scoperto, dietro i vetri della finestra, un uomo innamorato di Margherita, e non sospetta minimamente di aver visto il meno raro dei Mr. Hyde, un bambino innamorato della mamma.
17 Imposte (v. L’onda, n. 21).
18 L’espressione, ricorrendo all’interno di un tratto di testo palesemente focalizzato sull’ottica del personaggio, è una chiara formazione linguistica di compromesso, nella quale la protestata innocenza si sforza di persuadere la repressione, sorprendendola distratta, a emettere una sentenza che autorizzi il godimento senza trovarvi alcuna colpa. Ma l’eccesso di evidenza del moto autoassolutorio tradisce il personaggio e mette sull’avviso il lettore, il quale deve sapere che, nel mondo narrato pirandelliano, fra madre e figlio, fuori dell’asessuato mondo infantile, non può esserci innocenza se c’è godimento, e viceversa.
19 Pur esterna, l’ottica della narrazione novellistica aderisce, soprattutto tramite la focalizzazione interna, quasi esclusivamente allo sguardo del protagonista, e solo a questo punto l’ipotizzata curiosità della donna ne prospetta una rotazione. Il motivo dinamico del dialogo muto, da finestra a finestra, tra un uomo maturo e una donna sposata, ha però nel corpus narrativo pirandelliano un preciso precedente ad ottica invertita: un passo del romanzo L’esclusa, che quel motivo attualizza fin dalla pubblicazione in rivista del 1901 (dalla quale si citerà) e che venne ristampato in volume nel 1908, dunque soltanto un anno prima della pubblicazione de Il lume dell’altra casa: «Ah quante imprudenze aveva commesse quell’uomo avanti che le buttasse la prima lettera, e poi in seguito, quante! Ora le notava, ora se ne sentiva offesa. Quelle tendine delle finestre di faccia or sollevate, or d’un tratto abbassate, e certe subitanee scomparse dalla finestra, e certi segni del capo e delle mani… Ed ella aveva potuto ridere, allora, ridere di quell’uomo maturo, rispettabile, che si rendeva innazi a lei giovanissima così ridicolo… imbambolito. Ma a quale mezzo avrebbe dovuto appigliarsi per fare che colui smettesse dal tormentarla? N’era esasperata, avvilita, e non di meno gli occhi le andavano sempre lì, alle finestre dirimpetto» (v. RI, p. 897).
20 Il godimento che Tullio Buti ha presunto e preteso innocente, si incrina e si complica. Scatta in questo capoverso una griglia di perfide opposizioni: mammina/donna, intimità/estraneo, per riflesso/di furto, lume/buio. Finché l’uomo-bambino poteva specchiarsi non visto in quella dolce mamma, finché cioè, in una specie di taciuto Familienroman, Tullio Buti poteva nostalgicamente immaginarsi come il quarto figliolo di quella famiglia felice, le cose potevano andare. Ma se quella mamma diventa donna e, incuriosita da due ingenue mezzane, va a un appuntamento con quel figlio che si rivela un estraneo adulto, tutto crolla, e il sogno furtivo non può che diventare quello che sognano un uomo non più figlio e una donna non più madre. Poco sotto il desiderio di luce si capovolgerà, sintomaticamente, in un impaziente desiderio di ombra.
21 Non si è parlato a caso di uomo-bambino. Se si tiene presente che il protagonista non ha avuto né infanzia né giovinezza e che «ogni germe di vita» era stato bruciato in lui dai traumi della prima fanciullezza, si vede bene che la sua divampante voracità amorosa ha piuttosto i caratteri tumultuosi e irresistibili di una tardiva e catastrofica pubertà che non quelli di una passione adulta. Attraverso tutta una serie di segni – il «tremore di sgomento», il «fremito d’inquietudine quasi insostenibile», il «tremito d’ignota attesa» – il desiderio grida i propri diritti e travolge e cancella la fragile giustificazione dell’innocenza. Edipo e la sua chiusa, misteriosa infelicità seducono Giocasta che per questo figlio non riconosciuto abbandona marito e figli. Madre e bambino periscono insieme e di fronte stanno un uomo e una donna attratti verso un godimento che non può essere che colpevole.
22 Dapprima, al primo momento.
23 Il finale contrassegna come penoso voyeurismo il destino di questo bambino senza mamma e di questa mamma senza bambini (ineluttabilmente uniti e irreparabilmente separati). L’amore e la sessualità dispongono del resto, in Pirandello, di margini di legittimità veramente minimi: per goderne senza colpe bisogna non essere né figli né padri né mariti né madri né mogli e, anche a non essere nessuna di queste cose, bisogna non essere neppure filosofi, perché altrimenti l’amore e il sesso appaiono chiaramente trappole mortali.
1 Fu pubblicata per la prima volta in «Novissima», anno IX, 1909, e ristampata successivamente nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912). Venne infine inclusa nel dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 V. Pena di vivere così III 378.
3 Si schiacciava, si pestava.
4 Che ne richiedeva sempre di nuovi ogni anno. Ellissi e inversioni sono del linguaggio colloquiale cui aderisce l’indiretto libero.
5 Asilo infantile. L’espressione (costruita sul francese jardin d’enfants, a sua volta calco del tedesco Kindergarten) indicava propriamente la «scuola elementare di grado preparatorio improntata ai principî pedagogici di Fröbel e destinata a sostituire il vecchio tipo di asilo infantile» (Devoto-Oli). Il primo Kindergarten venne inaugurato nel 1840. Friedrich Wilhelm August Fröbel (1782-1852) fu l’educatore e pedagogista tedesco che si dedicò soprattutto all’educazione della prima infanzia e che pose a fondamento della sua pedagogia innovatrice lo sforzo di sollecitare tutte le energie infantili in un clima di gioconda attività, capace di esaltare la libertà creativa del fanciullo.
6 V. Marsina stretta n. 16.
7 Buone opportunità di matrimonio.
8 L’ebbrezza femminile si carica molto spesso di valenze narcisistiche (v. del resto già Acqua amara, p. 112 e n. 20). Nell’ottica tutta maschile del corpus (e tutta ideologica e congetturale), il narcisismo è in certo senso il tornaconto soggettivo o il plusvalore puro della seduzione, mentre per un altro verso costituisce l’altra faccia della castità femminile. Essendo la donna tematizzata antropologicamente come istinto e corporalità, la sua castità è sempre fondata su un blocco del tipo attrazione-repulsione, è ora inibizione e repressione, ora invece, più obliquamente, godimento narcisistico e, al limite, onanistico. L’attrazione che prova è vietata e le suscita orrore, l’attrazione che esercita è consentita e le dà piacere. Va da sé, d’altronde, che anche il narcisismo non è più che un risarcimento dell’inibizione primaria, come chiarissimamente si evince dal passo seguente della prima stampa in volume de L’esclusa (Milano, Treves, 1908): «A ogni donna onesta, che non fosse brutta, poteva capitar facilmente di vedersi guardata con strana ed acuta insistenza da qualcuno; e se colta all’improvviso, turbarsene; se prevenuta della propria bellezza, compiacersene. Ora a nessuna donna onesta, nel segreto della propria coscienza, sarebbe sembrato di commettere un delitto, in quell’istante di turbamento o di compiacenza, carezzando col pensiero quel desiderio suscitato, immaginando in uno sprazzo fuggevole un’altra vita, un altro amore… Poi la vista delle cose attorno richiamava, ricomponeva la coscienza del proprio stato, dei proprii doveri; e tutto finiva lì!…» (v. RI, p. 897). Passo, quest’ultimo, così pregnante da riaffiorare nel 1920 e diventare una battuta di Evelina ne La signora Morli, una e due (v. MNII, p. 233).
9 Allietavano, rallegravano. Usato più spesso nella forma riflessiva, il verbo (desueto) è parola cara a Pirandello.
10 Il capoverso ha un valore, equivoco per ora, di preannuncio: quando vengono meno i risarcimenti narcisistici, quando la «rinuncia» e il «sacrifizio» soggettivi minacciano di rovesciarsi in sprezzo e svilimento oggettivi, la madre sfoga sulla figlia maggiore la sua irritazione, attribuendo alla vigilanza silenziosa e all’attonita serietà del suo sguardo l’intenzione maliziosa di spiarla e rimproverarla. Il groviglio psicologico non potrebbe essere più chiaramente (e, nel contempo, più oscuramente) di così patologico e patogeno. Altrimenti contestualizzato, il medesimo motivo dello sguardo infantile «serio e indagatore» riaffiorerà a distanza di più di vent’anni nella novella Uno di più, che di questa riarticolerà anche, in termini di pulsione di morte (e, per così dire, di inconsapevole suicidio) infantile, quello che qui è il motivo dell’infanticidio vagheggiato inconsciamente.
11 La forza delle idées reçues e l’intransigente etica repressiva che contrassegna l’intero corpus non lasciano scampo. Pure possono essere, per una madre, soltanto la gioia e l’ebbrezza che provengono dalla maternità: o nella madre la donna cessa di esistere, oppure, se rinasce la donna, la madre muore svergognata.
12 V. L’uscita del vedovo, n. 18.
13 Le calosce sono soprascarpe di gomma. Provenendo il termine dal francese galoche, “zoccolo”, anche la maestrina ha modo di sfogare il suo risentimento puristico. V. anche Il guardaroba dell’eloquenza, n. 41.
14 Due cappottini. Il loden è un «panno di lana solo parzialmente lavata, e quindi impermeabile» (Devoto-Oli), così chiamato dal tedesco Loden, “coperta di pelo”.
15 L’onniscienza lucida, distaccata e un po’ crudele, della voce narrante è in grado di descrivere e verbalizzare (nel senso proprio di tradurre e fissare in parola) un conflitto intrapsichico che il personaggio, dato come «in preda a una rabbiosa mortificazione», non può che patire e non potrebbe analizzare e descrivere senza portarlo a livello di coscienza, con ciò stesso in un modo o in un altro sciogliendolo o spostandolo. Il narratore può viceversa parlarne come di un «pensiero orribile» che si agita e urge in un luogo profondo della soggettività, l’«animo», e contro il quale l’io si batte disperatamente per impedirgli di penetrare in un luogo ben più scoperto della soggettività, la «coscienza», la quale non potrebbe accoglierlo senza venirne macchiata e piagata. Anche perché quel pensiero di cui si parla non è né propriamente un pensiero né semplicemente un pensiero, ma, da parte della madre, «il più cattivo dei pensieri contro la sua Dinuccia»: il terribile desiderio, rimosso, che Dinuccia scompaia.
16 Questo è quanto la madre ammette, attraverso una recisa denegazione e una complicata formazione di compromesso, a livello di coscienza. Il vero «pensiero odioso», non ammissibile e non dicibile, è quello della morte di Dinuccia; e la madre infatti lo nega con orrore, perché negarlo è il solo modo per dirlo senza ammetterlo. La formazione di compromesso, ammissibile in quanto neutra e incolpevole, è l’ipotesi che Dinuccia non ci fosse perché non nata. Di qui prende le mosse il complicato alibi materno fondato sulla differente indole delle due bambine. Ma si tratta appunto di un alibi e non è un problema di caratteri. La madre, infatti, vorrebbe cancellata la persona di Dinuccia non potendo concepirla altro che come figlia, e salva invece Mimì obliterandone senz’altro la filialità e facendone una proiezione infantile ed angelica del desiderio amoroso. Scomparsa Dinuccia, ecco che quella giovane donna senza figli potrebbe farsi annunciare di nuovo come sposa a un uomo dal «vuoi bene?» di quell’affettuoso angelo ricciuto. Gli occhi «attoniti e serii» di Dinuccia le fanno viceversa orrore perché con quegli occhi Dinuccia la rende madre e le vieta di essere altro che madre, la nega per sempre come donna.
17 Non sarà certo fuori luogo rammentare l’analoga formula che sanciva il destino inibitorio di Cesarino in In silenzio (v. p. 182): «No, non avrebbe potuto mai farlo, lui, perché sempre, sempre avrebbe avuto nelle nari, a dargliene l’orrore, quel profumo della madre». Se là si trattava, per un adolescente, di fare per la prima volta all’amore con una donna, qui si tratta di rimaritarsi per una madre, ossia di rifarlo con un uomo che non è il padre delle proprie figlie. Questa vicenda è in qualche misura il complementare di quella. Cesarino, che i colleghi d’ufficio dileggiavano chiamandolo «verginello», aveva sentito che la cosa sarebbe stata per lui impossibile dopo aver sentito il profumo della madre sul corpo di una prostituta; e precisamente quest’insulto legge qui la madre negli occhi «attoniti e serii» della inconsapevole figlioletta. Lo svelamento è completo solo ora, nel momento in cui diventa manifesto che Mimì, «così gaja e aperta, sempre contenta», è la personificazione del desiderio femminile materno e della petizione d’innocenza di esso, mentre Dinuccia è diventata, agli occhi della madre, la vivente odiosa allegoria del suo senso di colpa. Dare ascolto al desiderio e tacitare il senso di colpa è umano e naturale, ma le cose si complicano non poco e perversamente se le due istanze vengono proiettate da una madre sulle due figliolette.
18 Investiti o contagiati dal disamore, i bambini vogliono morire e spesso muoiono. È il rovescio dell’infanzia felice caratterizzata dalla perfezione dell’amore materno, l’unica condizione nella quale i bambini crescono fiorenti e sani e dalla quale ricavano la robustezza necessaria a sopportare senza danni gli urti della realtà esterna e dell’alterità.
19 Per un verso, l’implacabilità repressiva del mondo narrato vuole che i peccati contro la maternità vadano subito pagati; per un altro, l’incredibile istantaneità con cui «il più cattivo dei pensieri» diventa punitivamente realtà, non potrà che far esplodere in patologia il senso di colpa della madre, risuscitando in lei una colpevolezza arcaica e irreparabile come quella legata alla credenza in una maligna onnipotenza dei pensieri.
20 Da qui in avanti, la madre e la figlia malata non compaiono praticamente più sulla scena del racconto: si eclissano entrambe, legate dal vincolo funesto dei loro ruoli involontariamente antagonistici e complementarmente reciproci di persecutrice-vittima. Segregate insieme dal mondo, insieme patiscono ciascuna la propria agonia. Il palcoscenico della novella, e del mondo, è occupato e riempito dalla sola Mimì, bambina felice e capace così di godere pienamente della propria solitaria felicità come di cedere infantilmente il suo ombrello-talismano a Didì che se ne va in cielo.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 7 gennaio 1910. Nel 1912 venne inclusa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad, 1928). Nel 1917-18 Pirandello scrisse la commedia in tre atti Ma non è una cosa seria, tributaria, per gran parte dell’intrigo e dell’impianto drammaturgico, della novella del 1903 La signora Speranza, e che però trae da Non è una cosa seria non soltanto la suggestione del titolo ma anche alcuni eventi assunti come antefatti e tutta una serie di attributi caratterizzanti il protagonista Memmo Speranza, la cui persona teatrale si compone di una metà risalente all’omonimo Biagio del 1903 e di un’altra metà derivata da Perazzetti. La commedia andò in scena per la prima volta a Livorno il 22 novembre 1918.
2 Questo ritratto fa di Perazzetti l’erede dell’«estro comico» di Ciunna (v. Sole e ombra I 305 e n. 13) così come dello «spirito bislacco» di Gosto Bombichi (v. La levata del sole I 524 e n. 24), dello «spiritaccio bislacco» del suo ascendente diretto Biagio Speranza (v. La Signora Speranza I 862) così come dello «spiritaccio […] filosofesco» di Bernardo Cambiè (v. Acqua amara, pp. 110-11). Ma fa anche di lui l’allegoria vivente della forma mentis (o, come avrebbe preferito dire Pirandello, della «particolar disposizione d’animo») umoristica nella sua versione ridevole. Si rammenti quanto, discorrendo di Sterne, Pirandello aveva scritto nell’Umorismo: «Questa scompostezza, queste digressioni, queste variazioni non derivano già dal bizzarro arbitrio o dal capriccio degli scrittori, ma sono appunto necessaria e inovviabile conseguenza del turbamento e delle interruzioni del movimento organatore delle immagini per opera della riflessione attiva, la quale suscita un’associazione per contrarii: le immagini cioè, anziché associate per similazione o per contiguità, si presentano in contrasto: ogni immagine, ogni gruppo d’immagini desta e richiama le contrarie, che naturalmente dividono lo spirito, il quale, irrequieto, s’ostina a trovare o a stabilir tra loro le relazioni più impensate» (v. SPSV, p. 133). Perazzetti letteralmente incarna il temperamento umoristico: non è uno scrittore, e tuttavia si chiede anche lui come comunicare agli altri i parti bizzarri e scomposti della sua fantasia.
3 V. La casa del Granella, p. 97 e n. 18, ma anche, e non per caso, quest’altro passo dell’Umorismo: «Vogliamo assistere alla lotta tra l’illusione, che s’insinua anch’essa da per tutto e costruisce a suo modo; e la riflessione umoristica che scompone a una a una quelle costruzioni? / Cominciamo da quella che l’illusione fa a ciascuno di noi, dalla costruzione cioè che ciascuno per opera dell’illusione si fa di sé stesso. Ci vediamo noi nella nostra vera e schietta realtà, quali siamo, o non piuttosto quali vorremmo essere? Per uno spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o d’incosciente imitazione, non ci crediamo noi in buona fede diversi da quel che sostanzialmente siamo? E pensiamo, operiamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi.» (v. SPSV, p. 146). Alle spalle del passo saggistico, ed anche dunque della smaliziata cognizione di sé attribuita a Perazzetti, stanno le osservazioni contenute nella prima parte (intitolata Analisi della finzione) del libro di Giovanni Marchesini cui Pirandello, nell’Umorismo, rinvia esplicitamente (ivi, p. 147 e n.), e in particolare la notazione seguente: «La ritenutezza, il riserbo, il lasciar credere più di quanto si dica o si faccia, il silenzio stesso non scompagnato dalla sapienza dei segni che lo giustifichi, sono arti che si usano frequentemente nella pratica della vita; e parimenti il non dare occasione che si osservi ciò che si pensa, il lasciar credere che si pensi meno di quanto si pensa effettivamente, il pretendere di essere creduti differenti da ciò che si è nel fondo» (v. G. MARCHESINI, Le finzioni dell’anima. Saggio di Etica pedagogica, Bari, Laterza, 1905, p. 11).
4 Riaffiora qui con grande evidenza il motivo della stratificazione coscienziale, che peraltro non è nuovo. Se ne rammentino le nitide emergenze de L’uscita del vedovo, p. 216 e di Tra due ombre, p. 292.
5 V. Una voce I 952 e n. 20. Comprensiva anche delle considerazioni di cui alla nota 3, la riflessione di Perazzetti sulla «bestia» riaffiorerà ancora nella commedia del 1917 Il piacere dell’onestà: «Volerci in un modo o in un altro, signor marchese, è presto fatto: tutto sta, poi se p o s s i a m o e s s e r e quali ci vogliamo. Non siamo soli! – Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. – Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione» (v. MN1, p. 571). Anche se trattata sempre con umoristica lievità, la riflessione, di matrice positivistica, sull’animalità dell’uomo, è straordinariamente insistente e risale ai primissimi anni dell’attività pirandelliana, come testimoniato fin dal Taccuino di Coazze e dall’inserto commentativo de Le tre carissime che ne deriva (v. I 139 e n. 8), del quale Perazzetti mostra di serbare puntuale memoria.
6 L’ironia sull’uomo-porco sarà sviluppata fino in fondo, nel 1916, ne Il Signore della Nave.
7 V. Richiamo all’obbligo, n. 5.
8 Può darsi benissimo che l’amico in questione non sia il narratore, il quale potrebbe essere solo un amico di quell’amico. Ma si tenga fin d’ora presente che anche ne Il treno ha fischiato… il narratore, che solo di seconda mano verrà a sapere del ricovero di Belluca in manicomio, rifiuterà di credere che il computista ribelle sia impazzito.
9 Perazzetti coltiva come un gioco irresistibile dell’immaginazione un’intuizione che era stata del fu Mattia Pascal deciso a liberarsi del proprio anello nuziale: «Il treno, in quella, si fermò a un’altra stazione. Guardai, e subito mi sorse un pensiero, per la cui attuazione provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l’umanità è pure oppressa da certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella… Basta. Da una parte c’era scritto Uomini e dall’altra Donne» (v. RI, p. 410).
10 Perazzetti eredita questa debolezza dal suo predecessore Biagio Speranza, che la confessava così: «Sono un pover’uomo, signori, che per castigo di Dio s’innamora come un asino d’ogni bella donna che vede! Innamorato, divento subito capace delle più madornali sciocchezze» (v. La signora Speranza I 852).
11 La novella sviluppa una palese variazione in chiave umoristica del precedente diretto, e prossimo, di Stefano Giogli, uno e due (v. p. 402). Ma la camaleontica plasticità di Perazzetti va oltre lo sdoppiamento di Stefano e lascia già intravvedere la disponibilità dell’io innamorato a smettere di essere uno per diventare centomila.
12 Per l’identico motivo dello sposare «per non prender moglie», v. La signora Speranza I 852-3.
13 Propriamente (v. Pari, p. 330), «bene azzampata» vorrebbe dire fornita di buone zampe, ben piantata.
14 Teneva un contegno sostenuto.
15 Il piccolo episodio malizioso è quasi uno svelamento, naturalmente negato. Per un verso, resta vero che Perazzetti è l’uomo al quale la vista della gente desta «le più stravaganti immagini» e rivela «certe strane riposte analogie», per un altro verso vero è che «Lino, il cognato, pareva fatto apposta per medesimarsi in tutto e per tutto con lui», tant’è che i due diventano «fin dal primo giorno del fidanzamento due indivisibili». E tutto andrebbe benissimo se a essere indivisibili e adattissimi a medesimarsi fossero i due fidanzati. Il guaio è che Perazzetti entra in stretta intimità amicale con Lino e rabbrividisce invece di ribrezzo all’idea di entrare in ben altra intimità con Ely quando scopre non che il «femineo» Lino somiglia alla sorella, ma che la virile signorina somiglia come una goccia d’acqua al fratello. Non l’uomo-donna lo spaventa, ma la donna-uomo; non l’intimità con quello, ma l’idea di sposare questa. E a questo punto, in forza dell’enciclopedia culturale egemone e d’una fulminea censura, gli appare «come mostruosa, quasi contro natura, quella intimità, giacché vedeva il fratello nella fidanzata». Fosse riuscito a vedere la fidanzata nel fratello, avrebbe scoperto la stravagante verità e forse evitato di doversi concedere alla spada dell’«amicissimo». Così, viceversa, il rimosso che si affaccia viene mistificato e obliterato.
16 In precedenza, fino ad allora.
17 Nella prima stampa, la «povera scema» si chiamava Maddalena. Con questo nome e quell’attributo il personaggio, che subisce peraltro radicali metamorfosi attraverso una pagina di Appunti (v. SPSV, p. 1208) e la didascalia d’apertura del terzo episodio de La favola del figlio cambiato (v. MNII, p. 1263), approderà sulla scena dell’ultimo lavoro teatrale pirandelliano, I giganti della montagna: «COTRONE La “Dama rossa”. Non tema! Di carne e d’ossa, Contessa. Vieni, vieni, Maddalena. / E mentre Maria Maddalena s’appressa, aggiunge: / Una povera scema, che sente ma non parla; è sola, senza più nessuno, e vaga per le campagne; gli uomini se la prendono, e ignora fino all’ultimo ciò che pur tante volte le è avvenuto; lascia sull’erba le sue creature. Eccola qua. Ha sempre così, sulle labbra e negli occhi il sorriso del piacere che si prende e che dà. Viene quasi ogni notte a trovare rifugio da noi, nella villa. Va’, va’, Maddalena» (v. MNII, p. 1341).
18 V. La signora Speranza I 853: «Logicissimo! […] il signor Speranza […] sposa per non prender moglie». La ripresa è puntuale, e però proprio questo finale, con la sua logica «conclusione», stabilisce la differenza fra la ridevole serietà e severità del rigore umoristico e le commosse ricomposizioni del realismo sentimentale. Biagio Speranza aveva in effetti sposato umoristicamente per salvarsi da «una temuta futura moglie sul serio», ma la sua vicenda non era terminata lì, e quella cosa non seria aveva finito col diventare serissima (v. La signora Speranza, n. 65). Nella storia di Perazzetti, viceversa, il movimento umoristico intermedio della peripezia di Biagio (scapolo perennemente innamorato-sposo per finta-sposo sul serio) diventa il movimento conclusivo e assurge a scioglimento umoristicamente intransigente, capace di salvaguardare l’eccentrico personaggio così dal rischio del matrimonio come da quello di prendere coscienza delle sue trasgressive propensioni sessuali. Proprio dal matrimonio contratto per non prendere moglie prenderà avvio, nel 1914, il secondo episodio delle avventure di Perazzetti, vale a dire la novella Zuccarello distinto melodista.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 16 gennaio 1910. Nel 1912 venne inclusa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
Alberto Albertini, caporedattore e fratello del direttore del «Corriere della Sera», scrisse a Pirandello il 19 gennaio 1910: «Se ci è lecito farLe una raccomandazione, vorremmo dirLe che, per un giornale quotidiano ci sembra, quando è possibile, più opportuno evitare gli argomenti o troppo tristi ovvero che possano, per qualche ragione, riuscire un po’ ripugnanti. L’ideale delle novelle sarebbe: “La Giara” o “Il lume dell’altra casa”» (v. CAR, p. 147). Non risulta certo rischiarata, alla luce de Il lume dell’altra casa, l’idea di tristezza che poteva avere l’Albertini; interessante è però soprattutto la risposta di Pirandello in data 22 gennaio: «Egregio Sig.r Albertini, se avessi avuto più spazio a mia disposizione, avrei potuto render più lieve la rappresentazione della tragica e pur ridicola… intestatura di quel Picotti dell’ultima novella, che va a finir col suicidio. Così ristretta in breve, ha perduto molto di quella certa gajezza mala, che avrebbe potuto avere, ed è riuscita un po’ troppo ispida e accorante. Peccato, perché la novella non sarebbe stata brutta!» (ivi, p. 148). Curiosamente, ma non casualmente, in questa replica a chi sconsigliava argomenti troppo tristi e additava due novelle esemplari, Pirandello riusa proprio l’espressione «gajezza mala» che appena due mesi prima aveva vestito il Zi’ Dima de La giara della «gajezza mala dei tristi» (v. p. 427).
2 Il costrutto più ovvio sarebbe di richiamarlo (questa era stata del resto la scelta pirandelliana nella prima ed anche nella seconda stampa, e curioso è semmai il fatto che Pirandello abbia instaurato la variante più desueta nel 1928). Ma in proposizioni di questo tipo, e con verbi come cercare, che indicano tentativo, domanda ecc., la caduta della preposizione prima dell’infinito è (o piuttosto, era) abbastanza frequente.
3 Infrazione di lieve entità a una norma.
4 Anche i fratelli Picotti hanno costituito fin qui una perfetta coppia gemellare fondata sull’identità speculare, congegno regressivo capace di garantire il migliore rifugio e il più robusto baluardo contro l’alterità. Anch’essi vengono divisi (come già gli amicissimi di Notizie del mondo e gli inseparabili di Pari) dal sopravvenire d’una donna, dell’amore e del matrimonio, ossia da due eventi catastrofici dei quali la donna è la scatenatrice per eccellenza.
5 Nel rabbioso concetto è avvertibile un’eco sarcastica dell’immagine funeraria de La vita nuda: «La Morte non ghermisce più la Vita, ma questa anzi, volentieri, rassegnata al destino, si sposa alla Morte» (v. p. 361).
6 V. gli sviluppi del motivo ne La trappola, p. 698.
7 Il traliccio tematico portante e la griglia assiologica della novella appaiono qui dispiegati, e consistono precisamente nel quartetto di segni, significati e valori che l’attacco del capoverso allinea: vivere, non vivere, non morire, morire. Tutta l’esistenza anteriore dei due fratelli sopravvissuti è consistita nel lasciare sotto narcosi l’alternativa costituita dai primi due membri e nel concentrare ogni sforzo in vista di una sola meta: evitare la morte, resistere, non morire. Marco, al quale dobbiamo l’esplicitazione di questa ratio vitale dimidiata e testarda, è ancora attestato nella medesima trincea. Per lui non morire significa di per sé sconfiggere la morte e vivere. L’orizzonte della sua renitenza al fato non prevede ampliamenti. Sciocco è per lui Annibale nel momento in cui pretende di contemplare la struttura dei valori nella sua interezza quadripartita, di abbandonare temerariamente quella strenua linea di difesa e di esplorare, dopo aver asceticamente percorso uno solo dei sentieri che si spalancano al di là del non morire, quello del non vivere, il sentiero opposto, quello del vivere. Per Annibale, viceversa, la morte non viene sconfitta se non morire deve significare non vivere, ed essa diventa allora addirittura preferibile alla non vita.
8 È una delle più nitide divise dei personaggi-asceti pirandelliani, dei dimissionarî che si votano, come a suo tempo dirà Leone Gala (v. Quando s’è capito il giuoco, n. 5), ad una difesa implacabile e disperata.
9 Divani e poltrone sono, qui come altrove, numi tutelari metonimici della clausura domestica mentre, allo stesso titolo, i libri lo sono della vita guardata (letta, nel caso) e non vissuta.
10 Il volatile non identificato potrebbe venir confuso (qualora il titolo stesso della novella non lo vietasse fin da principio) con le altre suppellettili di casa sottoposte a cernita e a divisione. In realtà, annoverato fra i «ricordi di famiglia» e ritenuto «uccello […] di buon augurio», ha per un verso la rilevanza araldica dello stemma e per un altro, come un vero e proprio écusson en abîme, il valore emblematico della mise en abîme letteraria. Nella sua apparenza è infatti cripticamente riassunta la natura e la sorte del possessore che se ne fregia. Antico (vecchiaia) e immobile sulla sua gruccia da pappagallo (ripetitività e longevità), esso è il morto che sembra vivo e l’irriconoscibile (colui che è ma non è nessuno).
11 Tamburellare.
12 Piffero (v. Natale sul Reno, n. 5).
13 Forma metatetica per scoppiettio.
14 Intontito, istupidito.
15 Protendeva.
16 V. La rosa III 84.
17 Del quale.
18 Ancora.
19 Come sappiamo bene, nel corpus pirandelliano la primavera, con le sue rifioriture, attizza non solo (e non tanto) un male come la tisi, quanto soprattutto la più pericolosa delle malattie, appunto il gusto della vita.
20 «Strumento di origine inglese (sec. XVII), composto da una serie di piccole lastre o coppe di cristallo di grandezza degradante, con la parte inferiore immersa in uno strato d’acqua, che venivano poste in vibrazione con i polpastrelli inumiditi delle dita» (Devoto-Oli).
21 Venuto infine meno il non morire come unico fine, la vita, che Marco Picotti ha sempre e perentoriamente rifiutato di distinguere dalla non vita, gli si mostra d’un tratto nella sua essenza di «stanchezza, noja, afa» ovvero, come poco sotto si vede, di spoglia imbottita di paglia. Ma, «uccello impagliato» che non ha mai avuto una identità riconoscibile (e che solo per finta ha qualche volta fischiettato «come un merlo»), che soprattutto non ha mai volato, neppure ora accetta di confrontarsi con la metà vitale dell’impalcatura assiologica: raggiunto lo scopo di non morire, è tuttavia soltanto con la morte che il suo conto resta aperto.
22 Il materiale usato per l’imbottitura, solitamente costituito da lanugine, cimature o cascami.
23 Sopravvissuto perché aveva incrollabilmente voluto non morire, il personaggio sancisce la propria vittoria, ossia l’unica possibile affermazione di sé, morendo solamente quando vuole morire. Solo così Marco Picotti si illude di avere smentito la profezia funesta (e in realtà ineluttabile) che presiedeva al suo destino come un antico oracolo ambiguo: vivrai non morirai. Egli tiene innegabilmente e furiosamente fede al motto di cui alla n. 8, ma la partita più ardua la lascia in eredità ai personaggi che di quella divisa sapranno esser degni restando in vita. Nei suicidi come il suo, infatti, il coraggio di «guardare in faccia la morte» nasconde e rinnega un supremo atto vitalistico.
24 La brusca virata umoristica del finale, con il grandioso equivoco che mette in moto l’inchiesta giudiziaria intorno a un mistero delittuoso inesistente, restituisce d’un tratto tutti gli oggetti, ed anche la curiosa fenice di quell’uccello-emblema, alla loro banale cosalità. Ciò che gli inquirenti non sanno, e non scopriranno mai, è che Marco Picotti, nel furioso delirio che ha preceduto la risoluzione suicida, aveva in effetti cercato, invano, qualcosa di straordinariamente prezioso nella paglia di quelle imbottiture: il contenuto della vita, ossia il senso e l’essenza del vivere.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «Natura ed Arte» il 1° febbraio 1910. Nel 1914 venne inclusa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 fu ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che recupera sedici delle diciotto novelle de Le due maschere. Entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925), per undici quindicesimi tributario delle due raccolte precedenti. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Arricciacapelli. Il calamistro è propriamente fatto di «due bacchette metalliche innestate a forbice, una delle quali a forma di canna spaccata nel senso della lunghezza» (Devoto-Oli).
3 Vampate alla testa per un afflusso di sangue particolarmente intenso.
4 L’incongruo corsivo viene instaurato a partire dal 1914. Poiché Pirandello ebbe ben due occasioni di restaurare il tondo, lo mantengo soltanto per non commettere un arbitrio correttorio.
5 Si tratta delle battute orchestrali, animate da una concitazione crescente, che introducono alla scena II del secondo atto del Tristano e Isotta di Richard Wagner e che esprimono l’impazienza e l’ansia della protagonista nell’attesa di veder comparire Tristano. In termini scenici, il «segnale ansioso» è costituito dal fazzoletto che Isotta agita con frequenza via via maggiore.
6 Solidamente piantato sulle gambe.
7 Ad aureola. V. Il «fumo» I 994.
8 V. E due! I 606 e n. 14. Il «faccione brozzoloso, paonazzo» assimila il ritratto greve del tedesco Begler a quello, degradante e ripugnante («quel faccione rosso brozzoloso»), del russo depravato Luculloff della novella del 1901.
9 Il narratore, che pure non si concede estesi spazi d’intervento commentativo, non risparmia, sul registro oggettivante della descrittività ritrattistica, pennellate pesanti e crudeli né all’uno né all’altro membro della coppia Milla Donnetti-Hans Begler, assai curiosamente assortita. Dell’una ha messo a fuoco «il visetto sciupato di vecchia bambola dagli occhi troppo grandi, dal nasino troppo piccolo», ossia la sgradevole incongruità e la sproporzione, dell’altro mette in risalto la rozzezza pesante e sciatta, la bruttezza quasi ripugnante, una certa aggressiva e lubrica animalità. Il destino allegorico e narrativo di personaggi siffatti è segnato fin da principio.
10 Protese.
11 Quasi non si vedeva.V. Nel segno, n. 2.
12 Fece un profondo inchino. Ma l’atto del vecchio è démodé come l’espressione che lo denota.
13 Frequentatore, nel romanzo Suo marito (v. RI, pp. 658-9), del salotto della marchesa Lampugnani, dove si improvvisano quartetti e si eseguono «Tchaikowsky, Dvorak… e poi, si sa, Glazounov, Mahler, Raff».
14 No, no! – Va da sé che, dopo il diniego in tedesco, la battuta di Begler è tutta giocata caricaturalmente sulle canoniche deformazioni fonetiche d’un tedesco che parla italiano.
15 Una carrozza.
16 Rifugiatosi papa Pio IX a Gaeta, presso i Borboni di Napoli, la Costituente romana aveva proclamato, il 9 febbraio 1849, l’avvento della repubblica, e il potere era stato assunto dal triumvirato democratico composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Contro la proclamazione della decadenza del potere temporale dei papi, Pio IX s’era peraltro appellato agli stati cattolici europei, e proprio la Francia, repubblicana ma conservatrice, del principe-presidente Luigi Napoleone, inviò un forte corpo di spedizione contro la repubblica romana. Attaccata di sorpresa ai primi di giugno, Roma repubblicana resistette quasi un mese, ma il 1° luglio la Costituente fu costretta ad accettare la capitolazione.
17 Il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, successore del reazionario Gregorio XVI, eletto papa (in concorrenza diretta col segretario di stato ed erede politico di quest’ultimo, il cardinale Lambruschini) col nome di Pio IX il 6 giugno 1846, era stato per numerose ragioni, in parte fondate e in parte speciose, ritenuto un pontefice ben disposto verso le idee liberali. E l’inizio del suo pontificato non fece che confermare quest’opinione. Il «voltafaccia» avvenne il 29 aprile 1848, quando Pio IX rivolse al collegio dei cardinali una allocuzione nella quale dichiarava di non potere, per ragioni pastorali, muovere guerra a uno stato cattolico, e contemporaneamente ordinò il ritiro delle proprie truppe inviate in appoggio a Carlo Alberto contro l’Austria.
18 La variazione è vistosa e Icilio Saporini non è un reduce glorioso, né è questo, soprattutto, il punto focale della novella, ma la storia eroica di cui sussurra la flebile voce dell’ottuagenario rammenta ugualmente Il guardaroba dell’eloquenza e il bisbiglio del vecchio Bencivenni: anche i suoi ricordi repubblicani sono «musica vecchia» agli orecchi della generazione successiva, e l’ignoranza di Milla è una trasparente allegoria della rapida dimenticanza che ha investito le stazioni dolorose e luminose del patriottismo risorgimentale.
19 Pietro Sterbini (1795-1863) fu effettivamente medico, poeta e patriota. Da membro della Carboneria, prese parte anche ai moti del 1831. Iscrittosi poi alla Giovine Italia, dopo aver trascorso alcuni anni da fuoruscito in Corsica e in Francia, tornò a Roma, proprio in seguito all’amnistia concessa da Pio IX, nel 1846. Deputato nel governo pontificio presieduto da Terenzio Mamiani e però schieratosi apertamente coi democratici, venne in effetti accusato d’aver partecipato all’assassinio di Pellegrino Rossi. Costretto un’altra volta all’esilio, lo Sterbini respinse sempre tale accusa, anche dalle pagine dei giornali francesi. Per comporre le remote e confuse memorie del maestro Saporini, Pirandello dovette servirsi di qualche storia o cronaca dei torbidi e tumultuosi anni di Roma tra il 1846 e il 1849. Una di queste potrebbe essere l’opera ponderosa di GIUSEPPE SPADA, Storia della rivoluzione di Roma e della restaurazione del governo pontificio dal 1 giugno 1846 al 15 luglio 1849, 4 voll., Firenze, Stabilimento G. Pellas editore, 1868-70. Lo Spada (1796-1867), romano, fu un lealista dichiarato ma anche un testimone presente agli eventi dei quali intraprese nel 1858 la documentata narrazione. Anch’egli congettura una responsabilità, quanto meno morale e ideologica, dello Sterbini. Scrive ad esempio (vol. I, p. 503): «Quanto alla stampa di genere serio basterebbe rammentare quell’articolo veementissimo che sotto il titolo Ingannare e corrompere, compilò lo Sterbini, e che inserì nel Contemporaneo. Si disse che quell’articolo avesse aguzzato il pugnale che doveva uccidere il Rossi»; e, ancor più esplicitamente (p. 508): «Lo Sterbini e il Canino mostraronsi operosissimi in quella occasione, e figuravan fra i capi del complotto».
20 Nato nel 1787 a Carrara, il Rossi fu avvocato, professore di diritto a Bologna e di economia politica al Collège de France. Ebbe una lunga e avventurosa carriera politica, prima nel governo murattiano, poi in Svizzera e infine in Francia. Dal 1845 ambasciatore di Luigi Filippo d’Orléans (re dei Francesi dall’agosto del 1830 al 1848) presso la Santa Sede, dopo la caduta della cosiddetta «monarchia di luglio» e la proclamazione della «seconda repubblica» in Francia, Pellegrino Rossi era rimasto a Roma ed era diventato ministro dell’Interno e della polizia di Pio IX nel settembre del 1848. Non andò però a buon fine il suo tentativo di applicare la politica del juste-milieu che era stata del Guizot, e che a lui valse sia l’ostilità dei clericali che l’odio dei democratici: il 15 novembre 1848 il Rossi venne assassinato mentre si recava all’Assemblea nel Palazzo della Cancelleria.
21 Si sospetta in effetti che sia stato Luigi Brunetti a pugnalare a morte Pellegrino Rossi. Angelo Brunetti (1800-1849), detto Ciceruacchio, era un carrettiere trasteverino che, dopo l’ascesa al soglio di Pio IX, divenne il più attivo e popolare agitatore politico di tendenza democratica e fu ritenuto fra i responsabili dell’attentato al Rossi. Dopo la caduta della repubblica romana, alla cui difesa partecipò coraggiosamente, tentò di raggiungere Venezia insieme a Garibaldi, ma venne catturato sul Po e fucilato insieme al figlio tredicenne Lorenzo.
22 Scrive lo Spada (Storia della rivoluzione di Roma, cit., vol. I, p. 509): «Discende dal cocchio, alcuni ex legionarî se gli fanno d’appresso, e formano due ali compatte a piedi della scala: sente percuotersi in una gamba, si volta, ed una mano omicida vibra risolutamente un colpo di pugnale sul suo collo e fende la carotide».
23 Ripetta, popolare quartiere di Roma: v. Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, n. 3.
24 Per quanto riguarda questi e i precedenti personaggi, tutti storici, a vario titolo legati alla congiura sfociata nell’assassinio politico del Rossi, si tenga presente che Pirandello avrebbe potuto benissimo consultare il Ristretto del processo Rossi, che fu pubblicato e che anche lo Spada cita più volte.
25 Fuochi d’artificio ruotanti. V. Il vitalizio I 556.
26 «Razzo che va a incendiare fuochi artificiali, correndo lungo un cavo orizzontale» (Devoto-Oli).
27 Anniversario della fondazione. E nel 1846 Roma compiva 2600 anni. Stando alla testimonianza dello Spada, si direbbe che Pirandello anticipi di un anno la festa la cui restaurazione fu promossa da Pietro Sterbini nel 1847. Lo storico ne parla come del banchetto che ebbe luogo «alle terme di Tito sul monte Esquilino […] il giorno 21 di aprile 1847 per solennizzare il natale di Roma nell’anno 2601 della sua fondazione», e ne spiega i moventi: «Diremo per tanto che vago ed innamorato il poeta Sterbini, come più o meno lo siam tutti, delle patrie grandezze, escogitò di solennizzare il natale di Roma; e siccome l’argomento portava a richiamare di necessità le storiche reminiscenze che riscaldar potessero le menti, divisò di farlo all’aria aperta, ed in tale situazione da poter distintamente vedere il Colosseo ed il Foro romano. Vario però fu lo scopo che si propose instaurando la festa del natale di Roma. Farne prima di tutto una festa duratura anche per l’epoca avvenire: richiamare l’attenzione della romana gioventù a cose più serie […] Ma un altro scopo pure aveva, ed era quello di distruggere la festa gioviale e burlesca che dai Tedeschi davasi annualmente in un luogo della campagna romana chiamato Cerbaro, ove i Romani ed i forestieri alacramente affluivano» (v. G. SPADA, Storia della rivoluzione di Roma, cit., vol. I, pp. 207-8).
28 Figura storica anche la sua. Così racconta lo Spada (op. cit., vol. I, pp. 173-4) la dimostrazione politica in forma di festa per il capodanno del 1847: «Il punto di riunione, al solito, la piazza del Popolo. I veri capi invisibili, ma i soliti. Dovevan farne parte tutti gli univeristarî, molti amnistiati, i frequentanti il caffè delle Belle Arti, parecchi artisti valenti, e alcuni manipoli di popolani. Uno dei capi visibili, fu l’amnistiato C. Matthey, ed uno il famoso Ciceruacchio. […] Schieratisi sulla piazza, cantarono per la prima volta l’inno detto della Sacra Bandiera, perché una bandiera recavan con loro. Detto inno venne cantato costantemente dopo, finché fu supplantato da quello dello Sterbini […] Le parole erano del romano Filippo Meucci, e la musica del maestro Gaetano Magazzari di Bologna, il quale durante tutta la rivoluzione (presente o assente il papa) fu il maestro di musica del movimento romano».
29 V. ancora lo Spada (op. cit., vol. I, p. 209): «Ebbe dunque luogo […] il succitato banchetto, al quale intervennero più di ottocento persone oltre ad un numero immenso d’individui muniti di biglietto d’ingresso, per assistere semplicemente alla festa».
30 È questo uno dei punti tematici nodali. Oggettivata attraverso lo sguardo esterno ed estraneo di Milla, la vita del fragile maestro di musica diventa la vicenda fantasmatica d’una perenne ed esiliante marginalità, quella d’«uno sperduto» cui né il presente né il passato conferiscono statuto di consistenza, che non può più essere e non è mai stato nessuno perché la realtà di un tempo non serba tracce della sua presenza e nella realtà attuale la sua lievità d’ombra non ha la forza di incidere alcuna traccia.
31 Celebre barcarola popolare napoletana, di autore anonimo, trascritta a metà dell’Ottocento da Teodoro Cottrau.
32 Ricondotta alle sue coordinate realistiche, la vicenda di Icilio Saporini è quella d’una partenza a vent’anni e d’un ritorno ad ottanta, separati da una sessantennale parentesi d’esilio oltremare, in terra straniera. Due enormità, quella spaziale e quella temporale, scavano l’abisso fra il passato domestico e il presente irriconoscibile, fra un tempo-luogo heimlich e l’Unheimliche orroroso del ritorno. Ma, restituita per congettura («chi sa quanto vagheggiato», «ma forse») all’ottica soggettiva del protagonista, la vicenda vale a costituire narrativamente uno dei grandi motivi allegorici pirandelliani, quello dello spaesamento, la cui essenza – rispetto alla quale tempo e spazio sono solo operatori e rivelatori narrativi – consiste nel disorientamento e nella perdita di consistenza dell’io, il quale non riesce più ad essere in sé e a toccare una realtà riconoscibile come propria. Stretta fra un passato eroso e ossidato dal tempo ed un presente che corrode come un acido, la sostanza dell’io viene disfatta e vanificata. Che in questo consista l’essere sperduti era del resto già stato dimostrato dieci anni prima dalla peripezia d’un altro ancor più umile musicante, il flautista da banda paesana Micuccio Bonavino (v. Lumíe di Sicilia I 507-8).
33 Strada del centro storico di Roma, parallela a Corso Vittorio Emanuele.
34 Gioacchino Rossini (1792-1868), il geniale operista e compositore pesarese che è il rappresentante per antonomasia della musica italiana del primo Ottocento.
35 Rosina è la protagonista dell’opera comica di Rossini Il Barbiere di Siviglia (1816), Amina quella de La sonnambula (1831) di Vincenzo Bellini.
36 Pur senza rispettare rigorosamente la cronologia, il vecchio maestro allinea la schiera dei massimi operisti e compositori italiani: Giovanni Paisiello (1740-1816), Giovan Battista Pergolesi (1710-1736), Vincenzo Bellini (1801-1835), Gaetano Donizetti (1797-1848), Giuseppe Verdi (1813-1901).
37 Il grande compositore russo Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893), anche lui operista, oltreché autore di molta musica strumentale.
38 La breve scena raccontata nei paragrafi precedenti è lì a dimostrare che l’impressione di musicale disagio potrebbe ben essere del vecchio maestro, ma suo non è certo il linguaggio tagliente e beffardo che la esprime («non so che languida diavoleria» e, più oltraggioso ancora, «l’incubo d’un malato»): s’è appena sentito il mite Icilio Saporini ammettere che per quei forestieri quella «è la loro musica; la sentono così, amen». L’ottica esterna che presiede a questo capoverso non appartiene a lui: egli trova dunque un alleato neppure troppo recondito, e molto più aggressivo di lui, nel narratore, e a farne le spese è, al posto di Wagner, Čajkovskij. Pirandello, che in gioventù s’era entusiasmato all’ascolto del Tannhäuser (v. GG, p. 120), aveva in seguito rivisto in senso negativo il proprio giudizio sulla poetica e la musica di Wagner. Già nel 1893, in Arte e coscienza d’oggi, aveva utilizzato la moda wagneriana come esempio del «malessere intellettuale» dei tempi presenti: «Aspettiamo, e invano, pur troppo! che sorga finalmente qualcuno ad annunziarci il verbo nuovo. E intanto ci volgiamo ora a questo, ora a quel banditore, che berciando con enfasi molta, promette mari e monti, e nulla ottiene naturalmente. Da ciò il sorgere improvviso delle più bizzarre baracche in questa internazionale fiera della follia; castelli di sabbia, cui il menomo soffio atterra; glorie improvvisate, che durano un giorno come i giornali; mode, scuole, combriccole, sorte travolte e scomparse in un momento. Ieri il realismo e il naturalismo, oggi il simbolismo e il misticismo, domani chi sa che cosa. Avete assistito ad un’opera del Wagner? Musica da matti, dicevan jeri. Sublime musica, dicon oggi. Non si capisce bene. Oh ma chi sa che profonda filosofia c’è lì dentro. Che lì dentro ci sia finalmente il senso della vita? E giù tutti allora per la china del wagnerismo, alle ricerche di questo senso della vita» (v. SPSV, p. 875). E in uno dei Foglietti pubblicati da Corrado Alvaro nel 1934, non Wagner stesso ma il wagnerismo sarà compreso tra i fenomeni artistico-culturali fastidiosamente artificiosi: «Incontro ai realisti che si prefiggono di non dir nulla stanno quelli che vogliono dir troppo: filosofi, predicatori, sacerdoti dell’Idea. Prima di fare un quadro, un poema, un melodramma, essi ne scrivono il commentario. E quando l’opera è finita abbiamo davanti una sfinge, un enigma. Certa musica detta wagneriana, certi drammi, certi romanzi o raccolte di versi della scuola cosiddetta simbolista, certi quadri o rebus senza prospettiva, senza colore, dai contorni secchi, ce ne offrono purtroppo affliggenti esempii. L’arte non ha nulla di comune con questo simbolismo pedantesco, oscuro e pretensioso» (v. SPSV, p. 1221).
39 La celebre ballata del Duca di Mantova nel primo atto del Rigoletto (1851) di Verdi.
40 Il wagneriano Begler allude evidentemente alla ritmica fortemente sottolineata dell’allegretto verdiano in 6/8, per lui volgare e degna solo di accompagnare, come una fanfara, il passo di corsa dei bersaglieri.
41 Nominazione schernevole, e deprecativamente onomatopeica, delle cadenze arpeggiate o degli arpeggi iterati di tre note, frequenti negli accompagnamenti delle arie e cabalette dell’opera italiana e che suonano facili, sdolcinati e fastidiosamente ripetitivi agli orecchi del musicofilo avvenirista di fede wagneriana. È noto che Richard Wagner imputava all’opera italiana proprio una sorta di «frenesia cadenzale» (v. F. LIPPMANN, Versificazione italiana e ritmo musicale. I rapporti tra verso e musica nell’opera italiana dell’Ottocento, Napoli, Liguori, 1986, p. 269 e n.).
42 Suonò in rapidissima successione tre note ascendenti (presumibilmente tonica, terza e dominante).
43 I tasti più acuti.
44 Incipit d’un famoso duetto del secondo atto (quadro secondo) della Norma (1831) di Bellini: «Mira, o Norma, a’ tuoi ginocchi / questi cari tuoi pargoletti». L’esempio del patetico andante belliniano non è il più adatto a fornire esca alla polemica musicologica del tempestoso violoncellista; ma egli ha scommesso di riuscire a mettere sempre, «in tutta musika fostra», il pirolì, e la sua sottolineatura ridicolizzante, a bella posta esagerata, suona pertanto particolarmente oltraggiosa. Lungo un altro canale, quello della memoria di lettura pirandelliana, la scelta di Bellini e di Norma come bersagli della beffa potrebbe essere stata suggerita dal ricordo d’un episodio di contorno della novella capuaniana del 1885 Ribrezzo, nella quale la protagonista ama eseguire la «musica strana» di Berlioz e sfoga la propria ambascia facendo «urlare, turbinare, squillare dal pianoforte la Cavalcata delle Walküre del Wagner». L’episodio cui si allude, e che precede di poco la catastrofe narrativa, è il seguente: «Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in più sorridente vivacità degli occhi, in più facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassù accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella – dopo il the – cedeva di buona voglia all’invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: / – Il Dio della musica!… E Dio ce n’è uno solo! / – Les dieux s’en vont – gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un’aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: / – Tralalalliero, tralalalà! – / Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. / – Bum! Bum! Bum! Bum! – replicava Gusmano – È musica questa? – / E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora» (v. L. CAPUANA, Racconti, vol. I, a cura di E. Ghidetti, Roma, Salerno editrice, 1973, pp. 469-70).
45 Pietro Metastasio (1698-1782), successore di Apostolo Zeno come poeta cesareo a Vienna, autore di melodrammi celeberrimi (sebbene spesso mal musicati) e di più di un migliaio di arie e ariette per musica.
46 Strada romana del centro storico che corre dal Largo di Torre Argentina alla Piazza della Minerva, alle spalle del Pantheon.
47 Pirandello rievocherà affettuosamente Musica vecchia e la morte di Icilio Saporini nella prima parte de La tragedia d’un personaggio (v. p. 625).
1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo La benedizione, sul «Corriere della Sera» il 5 febbraio 1910. Nel 1914 venne inclusa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 fu ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che recupera sedici delle diciotto novelle de Le due maschere. Entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925), per undici quindicesimi tributario delle due raccolte precedenti. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1), che instaura anche il titolo definitivo Benedizione. Nella lettera ad Alberto Albertini del 22 gennaio 1910 (v. anche L’uccello impagliato, n. 1), con la quale Pirandello replicava ad alcune osservazioni e richieste della direzione del «Corriere della Sera» e alla quale accludeva La benedizione, si legge: «Procurerò che le nuove [novelle] siano più gaje, o che, se tristi, abbiano almeno qualche gentilezza e soavità di poesia. Ma non dipende sempre da me! I soggetti nascono come i figliuoli, per un germe che la Vita lascia cadere nella matrice della fantasia. Talvolta il germe è irrimediabilmente triste, ed è allora una vera passione maturarlo e far che – venuto alla luce – sorrida anche mestamente e si faccia tollerare. Cure e carezze, da parte mia, non gliene mancano mai, nell’allevarlo. Ma capisco ch’io sono per lui come la mamma, e che gli altri non han tutto quest’obbligo di pazienza e di compassione. / Basta. Eccole qua quest’altra novellina: La benedizione. M’è venuto fuori questa volta un figliuolo prete. Speriamo che non dispiaccia» (v. CAR, p. 148).
2 Frazione distante 5 chilometri da Nocera (v. sotto la n. 6).
3 O beneficio curato. È la «prebenda o rendita mobiliare o immobiliare, annessa a una cura (e comporta per chi ne gode il compito del governo pastorale di una comunità di fedeli: come il beneficio parrocchiale» (GDLI).
4 Ridotto in totale povertà (v. Il «fumo» I 994 e n. 29).
5 Tonaca (v. «In corpore vili» I 757).
6 Nocera Umbra, piccolo centro a una sessantina di chilometri ad est di Perugia.
7 Ombrosa, indocile.
8 Più comune “barroccio”: carretto o carrozzino a due ruote, adibito di solito al trasporto di cose (ma v. anche Con altri occhi, n. 7).
9 V. L’altro figlio, n. 10 e Il Signore della Nave III 235.
10 Deporre la uova.
11 Nel Nuovo vocabolario italiano domestico (Milano, 1869) di Giacinto Carena si legge: «‘Calza’, strisciolina di panno di un determinato colore, che le donne cuciono attorno a una delle gambe de’ loro polli vaganti, per contrassegnarli e distinguerli da altri». Ed è in questa accezione che Pirandello accoglie il termine, sebbene calze siano dette anche le «penne che possono trovarsi sui piedi di alcune razze di polli» (Devoto-Oli). L’elemento connotante vale a marcare il fatto incontrovertibile che quelle galline sdegnose sono meglio calzate della «serva scalza» e a sottolineare ulteriormente l’umoristica equivocabilità che confonde animali e uomini.
12 Propriamente, braccare significa stanare o far levare la selvaggina con l’aiuto dei cani.
13 V. Volare, p. 338 e n. 5.
14 V. Richiamo all’obbligo, n. 21.
15 Tricorno, vecchio cappello a tre punte dei preti.
16 «Sonaglio sferico d’ottone con una fessura e una sferetta o un sassolino all’interno» (Devoto-Oli).
17 Casa parrocchiale.
18 V. l’analoga e coeva attualizzazione del motivo ne Il viaggio, p. 542: «[…] quando pioveva era una festa: tutte le donne mettevan fuori conche e buglioli, vaschette e botticine».
19 Placandosi.
20 Minestra scipita e acquosa.
21 Il sintagma riaffiora lungo i canali della memoria interna: a un «porcellone satollo e pago», renitente a scuotersi dal sonno, veniva assimilato il contadinotto Gerlando di Scialle nero (v. I 1031), a un «padre abate satollo e pago» somigliava, al risveglio, il Bernardo Cambiè di Acqua amara (v. p. 108). Don Marchino, prete un po’ porco che si gode la sua confortevole digestione, evoca ed eredita a buon diritto la dittologia attributiva.
22 È espressione del parlato, e dialettale, che definisce lo stato di inorridito smarrimento di chi è vittima di un influsso maligno o di una fattura.
23 Muovere, fare.
24 S’era rannicchiato, raggomitolato.
25 V. Quand’ero matto… I 768-9: «Ricordo ancora l’impressione che mi fece, quella notte, l’improvviso spettacolo della natura quasi tutta in fuga, nell’urlante veemenza del vento. Fuggivano squarciate pel cielo, con disperata furia, le nuvole, a schiera infinita, e pareva si trascinassero seco la luna pallida dallo sgomento; gli alberi si scontorcevano stormendo, cigolando, spasimando senza requie, come per sradicarsi e fuggire pur là, pur là, dove il vento portava le nuvole, a un tempestoso convegno».
26 In attesa.
27 Poiché la credenza superstiziosa vuole appunto che il malocchio sia dovuto allo sguardo malefico di persone dedite a pratiche magiche e diaboliche, la formula latina dello scongiuro invoca la liberazione a malis oculis, “dagli occhi maligni”.
28 Uscì di casa (è un’accezione regionale siciliana).
29 Curvate in fuori.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 23 febbraio 1910. Due anni più tardi fu compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912) e, infine, entrò a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad, 1928). La stampa della novella provocò le risentite proteste di alcuni lettori del «Corriere», che se ne sentirono turbati moralmente. Pirandello dovette venire prontamente informato del piccolo scandalo e fu indotto, come già per L’uccello impagliato (v. n. 1), a discolparsi e a reagire. Il 2 marzo 1910 scrisse ad Alberto Albertini: «Egregio Signor Albertini, non può credere quanto dispiacere m’abbia arrecato la notizia delle noje derivate al Corriere per mia cagione! Son cascato dalle nuvole! Ha dunque ragione il D’Annunzio quando parla della veneranda virtù dei contemporanei? Ma qui non si tratta neanche di virtù: si tratta di somaraggine! Quel povero professor Toti non è per niente immorale: è soltanto ridicolo, e tanto più ridicolo, quanto più egli crede di agire moralissimamente. Egli agisce come un buon padre verso il genero scapato. Bastava capire questo soltanto: che il marito in lui non esiste più; ed è così chiaramente detto in principio de la novella! Dato il sentimento suo, egli agisce come più moralmente non si potrebbe: e appunto in questa sua moralità consiste l’umorismo della novella, nel credersi egli ormai il padre della propria moglie e il nonno di quel piccino e nel difendere l’una e l’altro, che vede in pericolo per la sventatezza – crede lui – di Giacomino; mentre la causa del male è lui, il ridicolo di cui si copre per quel sentimento suo paterno, il ridicolo che allontana Giacomino dalla casa di lui. Come non si è capita così la novella? Creda pure, che son rimasto a bocca aperta nel sentir le ire ch’essa ha suscitato… Le prometto, caro Signor Albertini, che manderò la mia fantasia a far gli esercizii spirituali prima di farmi dettar da lei una nuova novella» (v. CAR, p. 150). Si deve esser grati alle ansie ideologiche costanti, e puntualmente espresse, della direzione del «Corriere della Sera» se, in questa prima fase della collaborazione di Pirandello al giornale, sono state capaci di provocare le repliche esplicite (v. anche Benedizione, n. 1) di uno scrittore che altrimenti si sarebbe ben guardato dall’autocommentarsi. Sul caso di Pensaci, Giacomino!, interessante è anche la lettera di solidarietà che Ugo Ojetti scrive a Pirandello il 3 marzo 1910 (ivi, pp. 55-6). Nel febbraio-marzo del 1916, Pirandello cavò dalla novella la commedia in tre atti in dialetto siciliano Pensaci, Giacuminu!, destinata alla compagnia di Angelo Musco, che la mise in scena per la prima volta al Teatro Nazionale di Roma il 10 luglio di quello stesso anno (se ne veda ora il copione apografo in TD1, pp. 25-92). Nel 1917, Pirandello provvide a una prima trasposizione in italiano della commedia, che stampò nel maggio-giugno in «Noi e il Mondo» e l’anno successivo nel primo volume delle Maschere nude (Milano, Treves). La seconda e definitiva stesura italiana venne pubblicata nel 1925 (Firenze, Bemporad). Entrambe sono ora leggibili in MN1, rispettivamente alle pp. 777-830 e 273-338. Il testo teatrale, confezionato su misura per esaltare le doti dell’attore siciliano, è certamente brillante (specie nel primo atto, vivace e ricco di trovate, e nel gustoso colloquio del protagonista con padre Landolina nell’atto secondo), ma perde buona parte della stringata incisività di quello novellistico e, soprattutto, non trova modo di sottrarsi a un lieto fine patetico-comico a effetto che viene a sostituire il monito perentorio ma sospeso sul quale si concludeva, assai più persuasivamente, il racconto. Dopo quanto già detto a proposito di Lumíe di Sicilia e di Ma non è una cosa seria, è il caso di osservare che, se il teatro minore pirandelliano è largamente debitore verso la novellistica, con i frequenti prestiti che ne ha avuto ha assai raramente – e pressoché mai quando l’operazione è consistita nella conversione diretta e massiccia di titoli narrativi in valuta teatrale – realizzato profitti cospicui.
2 Il segnale d’incidenza incipitale motiva in qualche modo da solo la ragione per cui la storia del professor Toti viene raccontata al presente, ossia secondo un protocollo discorsivo che (eccettuato il caso ben noto e specifico del cosiddetto presente storico) è quasi un ossimoro narrativo, nel senso che il tempo presente è normalmente un segnale di non narrazione. Il settantenne professore, che pure ha badato a regolare tutti i suoi conti col passato e ha predisposto ogni cosa sia per lo scarso futuro proprio che per quello incalcolabile, e per lui postumo, dei suoi beneficati, viene letteralmente imprigionato nel presente dall’incrinatura repentinamente intervenuta nella pace e nel riso cui pretende d’aver diritto. È questa allarmante frattura in atto l’argomento del discorso novellistico, non la storia pregressa, e un presente inquieto e persecutorio è il tempo adatto a quest’ultima imprevista e abruptiva peripezia.
3 Nello scrigno chiuso dell’avverbio «quasi» è contenuto discretamente tutto ciò che di non paterno può essere trascorso nel cuore del vecchio e che, non tradottosi in atti, non può essere tradotto in parole.
4 V., in altra situazione, l’analogo moto materno in Nel dubbio, p. 282: «Ah, per perversa che sia una moglie, e quantunque nemica, a torto o a ragione, del proprio marito, vorrebbe aver sempre la certezza che appartiene a questo il frutto delle proprie viscere, non foss’altro per non sentir lo strazio della menzogna incosciente su le tenere e pure labbra della propria creaturina!».
5 Verbalizzata in termini di coscienza del personaggio, è quasi una proposizione di poetica quella che il passo esprime. L’opposizione fra l’ilarità dei maligni e il sentimento serio del professor Toti configura quella fra il genere comico-grottesco e il genere patetico-sentimentale cui la singolare vicenda potrebbe essere ascritta. Ma, come già è stato detto, il protagonista è filosofo, e perciò capace così di vedere lucidamente la risibile stranezza della propria situazione come l’autenticità dei propri affetti: la sua ottica è dunque quella tipica dell’umorista; nel caso anzi quella d’un auto-umorista.
6 V. Sole e ombra, n. 11.
7 Imposte (v. L’onda, n. 21).
8 Se ne burla (v. La signorina, n. 11).
9 Si scervella.
10 Turbata (v. La veglia, n. 3).
11 Sta male. Bua è voce infantile onomatopeica per significare “male”, “dolore”.
12 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
13 Farsi una posizione.
14 V. Scialle nero, n. 26.
15 Sei uscito di senno.
16 Ti ha dato di volta.
17 Qui casca Giacomino. Toti, in forza del candore delle sue intenzioni e della sua filosofica e senile comprensione delle cose, ha oltrepassato senza turbamenti, ancorché implicitamente vilipeso, gli steccati dell’apparire sociale per puntare all’essere. Giacomino, che pure è giudicato dal benevolo professore «tra i più valenti alunni del suo liceo», non è affatto capace di seguirlo su questa strada e gli oppone la vecchia esigenza, ipocrita e gretta, di tenere accuratamente separati l’essere e l’apparire e di rispettare prioritariamente quest’ultimo. E, perseguitato dal ridicolo seguíto alla pubblicizzazione di ciò che doveva restare nascosto, il conformista Giacomino è già andato anche oltre, fidanzandosi e ripudiando senz’altro l’essenza pur di cucirsi addosso l’abito di un’apparenza socialmente rispettabile.
18 V. Una voce, n. 16.
19 Non è una minaccia da poco quella del professor Toti, poiché, se è vero che l’apparenza può facilmente obliterare e occultare l’essenza, in regime di separazione-opposizione fra essere ed apparire, è anche vero che l’esibizione dell’essenza vanifica e distrugge l’apparenza.
20 Sta tutta qui la forza del professor Toti di contro alla complementare debolezza di Giacomino. Egli sa bene di non poter piegare l’ordine reale e sociale ad accogliere la grande utopia della perfetta corrispondenza-identità di apparire ed essere, né fa alcun tentativo in questa direzione (come invece qualcuno dei santi-matti del corpus), ma non teme minimamente di affrontare la vergogna ridevole di chi sia disposto a far vedere lo squallore vergognoso della convenzione che li vuole separati e contrapposti.
21 L’etica umoristica della novella vuole che essa termini al di qua dello scioglimento del dilemma. Giacomino resta inchiodato sul suo Aventino, stretto fra due minacce entrambe fondate sulle regole del medesimo contratto sociale.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 10 aprile 1910. Nel 1915 fu compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) e, infine, entrò a far parte del quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Quel giorno, tra le 5.19 e le 5.20 del mattino, un terremoto violentissimo colpì la zona dello stretto distruggendo Messina e Reggio Calabria. I morti furono più di centodiecimila.
3 V. Acqua amara, p. 116 e n. 32.
4 Pulito e ben curato. L’espressione quasi rimata, che inclina all’ironia, allude ad una eleganza affettata e azzimata.
5 Sbalordito (v. anche L’uccello impagliato, n. 14).
6 Si sciolse, distese le membra. È variante di sgroppare, che vale “sciogliere un viluppo, un nodo” (da groppo). Il moto del nervoso viaggiatore è il movimento d’uscita dal suo precedente accasciarsi «col mento affondato sul petto» tenendosi strette le braccia.
7 Sbotto, scatto improvviso.
8 Coronata, aureolata (latinismo aulico).
9 V. La signora Speranza, n. 8.
10 È un curioso gioco straniante quello che Pirandello instaura per il tramite del suo narratore-testimone settentrionale. Nella tessitura delle voci del racconto, è del tutto verosimile che un passeggero del nord trovi «tormentosamente dialettici» i rabbiosi e desolanti sofismi del professor Terremoto, ma, in termini metanarrativi e metatestuali, ciò che Pirandello concede al suo personaggio-narratore è di interpretare ironicamente i meridionali, dunque anche lui, siciliano e scrittore che di quella «saettella di trapano» fa, e anch’egli certo «non per una fredda esercitazione mentale», largo uso. Questo raziocinio inteso ad «acquistare, più profonda e intera, la coscienza del […] dolore» rinvia d’altronde alla difficoltà d’averne coscienza piena e alla follia lucida che minaccia l’uomo che non vi riesca. Nel 1915, il personaggio di Berecche (sull’autobiografismo del quale v. FVN, pp. 153-4), pur straziato dalla partenza del figlio per il fronte, è indotto dopo sei giorni alle seguenti considerazioni: «Berecche ora sostiene che non soffre più nulla, proprio più nulla. Al massimo, ecco, può ammettere, ammette d’avere l’idea astratta del suo dolore. L’idea astratta, forse sì. Ma non del suo dolore propriamente. Del dolore d’un padre, così in genere, a cui sia accaduto quello che è accaduto a lui. In realtà però non sente nulla. Piange, sì… forse, ma come un commediante, come un commediante su la scena per l’idea soltanto del suo dolore, non perché lo senta. Si figura di sentirlo e lo dà a vedere. Che c’è da spaventarsi, se dice così? La prova più convincente è questa: ch’egli ragiona, ra-gio-na; è in grado di ragionare perfettamente, perfettissimamente» (v. Berecche e la guerra III 143). Nel 1923 il dottor Calajò di Acqua e lì (v. III 442) fa un’analoga esperienza: «E allora il dottor Calajò può sperimentare in sé il più spaventoso dei fenomeni: la coscienza, lucidissima, d’essere impazzito. / Ha l’idea astratta del suo dolore, vale a dire del dolore di un padre che abbia perduto a poche ore di distanza due figliuoli; ma gli pare di non sentire nulla realmente, e che pianga come un commediante sulla scena, per l’idea soltanto della terribile sciagura che gli è toccata; piange, infatti, e si dà del buffone e poi sghignazza e grida che non è vero e che non sente nulla». Ha ben ragione d’essere, dunque, e d’essere tormentosa, la dialettica del professor Terremoto. Per un simile gioco straniante rivolto invece contro l’esuberante passionalità meridionale, si veda invece Effetti d’un sogno interrotto (III 620), l’ultima novella scritta da Pirandello.
11 V. Personaggi, n. 8.
12 Già Lando Laurentano, erede sterile di una schiatta di eroi, aveva svolto considerazioni altrettanto amare ne I vecchi e i giovani: «Ah, in verità, sorte miserabile quella dell’eroe che non muore, dell’eroe che sopravvive a se stesso! Già l’eroe, veramente, muore sempre, col momento: sopravvive l’uomo e resta male. Guaj se non scoppia l’anima con veemenza, investita da quel vento propulsore che la gonfia, la sforza e le fa assumere a un tratto una terribile maschera di grandezza! Dopo quello sforzo, caduto il vento, l’anima violentata non sa, non può più ricomporsi nelle sue naturali proporzioni, non trova più il suo equilibrio: qua ancora abbottata e intumidita, là floscia, ammaccata, casca da tutte le parti e, come un pallone in cui si sia consumato lo stoppaccio, incespica e si straccia in tutti gli sterpi della via dianzi sorvolata» (v. RII, pp. 308-9). La teorizzazione dell’eroismo rabbiosamente svolta dal viaggiatore irrequieto dipana un viluppo tematico fondamentale e si affatica intorno al nodo d’una contraddizione che sta nel cuore stesso di quel viluppo. La sua analisi dell’attimo eroico, contrapposto all’aneroica durata del vivere quotidiano, evoca tutta una serie di termini marcati che si raccolgono e si richiamano l’un l’altro a formare la volatile costellazione semantica dell’eroismo. Sono termini che nella loro forma sostantivale (libertà, scioltezza, lievità ecc.) designano stati e nella loro forma aggettivale (fervido, infiammato, fluido, agevole ecc.) predicano attributi o qualità. L’«ebbrezza divina» dell’eroe consiste nel provare tutti insieme quegli stati d’animo; e nel ritrovarsi opimo di tutte quelle qualità risiede la sua virtù di sublimazione. Non c’è che un’altra divampante condizione che assomigli alla «fiamma dell’eroismo», ed è il fuoco divorante dell’innamoramento, nel quale l’essere fonde e diventa «come un liquido vetro», come «una pasta molle» (v. Stefano Giogli, uno e due, pp. 401-2 e n. 15), nel quale la vita irrompe «in subbuglio nell’anima per tutti i sensi commossi ed esaltati quasi per un’ebbrezza divina» (v. Il viaggio, p. 549), nel quale «un attimo si fa eterno e abolisce ogni cosa, anche la morte, come la vita, in una sospensione d’ebbrezza divina, in cui dal mistero balzano d’improvviso illuminate e precise le cose essenziali, una volta e per sempre» (v. Visita III 570). L’eroismo è in questo senso una sorta di innamoramento senza oggetto o di narcisismo sublime e generoso. Questo stato di fusione-leggerezza sembra corrispondere alla definizione stessa della vita, e della pienezza vitale, che nel 1912 darà, rabbioso e amaro quanto il professor Terremoto, il ragionatore feroce de La trappola: «La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma. / Ogni forma è la morte. / Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte» (v. p. 697). Ma la contraddizione è a un passo, in agguato, perché il «pantano della vita ordinaria» non è innamoramento-eroismo, non è «aria fervida e infiammata» ma vischiosa palude «irta sempre di piccoli ostacoli, innumerevoli e spesso insormontabili, e assillata da continui bisogni materiali, e premuta da cure spesso meschine, e regolata da mediocri doveri» (terra fangosa, dunque, e non vento, acqua, fuoco), e perché l’eroismo come l’innamoramento non producono se non danni e infelicità: la vita ordinaria è morte, ma la vita sublime rende male per bene e dolore per piacere. Lo stato di fusione, auspicato e invocato (v. La trappola, n. 12) come una salvezza contro l’immobilità cadaverica delle forme, è nel contempo lo stato caratteristico dell’innamorato e dell’eroe, e comporta assoggettamento ai capricci-trappola degli altri, perdita d’identità, frustranti ricadute. Bisognerebbe paradossalmente essere in fusione ma non innamorati e non eroi, ossia non vivi; oppure bisognerebbe essere innamorati solo di se stessi ed eroi a proprio esclusivo vantaggio, per poter godere in libertà e solitudine dello stato di fusione della propria anima. L’io dovrebbe essere un sole solitario che contempla la propria luce e la propria vitalità. Preso nella trappola del suo atto eroico, il povero professor Terremoto pesca, come già Stefano Giogli e Perazzetti innamorati, come poi l’intrappolato del 1912 («La trappola, per noi uomini, è in loro, nelle donne. Esse ci rimettono per un momento nello stato d’incandescenza, per cavar da noi un altro essere condannato alla morte. Tanto fanno e tanto dicono, che alla fine ci fanno cascare, ciechi, infocati e violenti, là nella loro trappola»; v. La trappola, p. 698) in un crogiolo tematico che vive dell’energia che sprigiona dalla propria stessa irriducibile contraddittorietà. Al fondo, gli istanti di vita non ordinaria che l’eroismo come l’innamoramento rappresentano, sono il luogo sublime d’un disumano paradosso, il luogo dove vita e morte, i contrari per eccellenza, si toccano. Non sarà un caso se i più tetragoni e tragici fra i personaggi pirandelliani (il Leone Gala de Il giuoco delle parti, il protagonista senza nome di Enrico IV, il Cotrone dei postremi Giganti della montagna) rifuggirano dall’amore e dall’eroismo. Nel 1922, l’amaro rancore antieroico del professore riaffiorerà, distribuito dialogicamente e ricontestualizzato, in Vestire gli ignudi, nella confessione di Franco Laspiga, ex-tenente di vascello ed ex innamorato, e nelle considerazioni dell’anziano e stanco romanziere Ludovico Nota: «FRANCO. Perché io, appunto per non “esaltarmi troppo”, come lei dice, l’ho tradita, tradendo prima di tutti me stesso! Ho lasciato il mare, il mare, per affogare così, qua, nel pantano della vita ordinaria. LUDOVICO Eh, purtroppo, a un certo punto… FRANCO (con crescente foga) No! No! quando ci lasciamo persuadere che non è possibile vivere come s’è sognato, e che è difficile, inattuabile quello che nel sogno ci pareva facile. Facile, tanto che si toccava! LUDOVICO Già! Ma perché in certi momenti, caro signore, l’anima si libera di tutte le miserie comuni. FRANCO Ecco, sissignore! LUDOVICO. Balza su dai piccoli ostacoli dell’esistenza quotidiana; e non ne avverte più i minuti bisogni e si scrolla d’addosso cure meschine e mediocri doveri. FRANCO. Benissimo! E così sciolta, così libera, respira, palpita in un’aria fervida, infiammata, ove anche le cose più difficili, le dicevo, diventano facilissime. LUDOVICO E tutto è fluido e agevole, come in un’ebbrezza divina. Sì. Ma sono momenti, caro signore! FRANCO (subito con forza) Perché l’animo nostro cede, non sa resistere: ecco perché! LUDOVICO (sorridendo) No no. Perché lei non sa che bei tiri le giuoca e che scherzi le combina, che graziose sorprese intanto le prepara la sua anima, respirando, palpitando nell’aereo fervore di quei momenti, sciolta d’ogni freno, destituita d’ogni riflessione, accesa, abbagliata in quella fiamma di sogno. Lei non se n’accorge: ma un bel giorno – un brutto giorno – si sente tirato giù» (v. MN, pp. 902-3).
13 È il nome dell’ateneo romano.
14 Affidavamo.
15 Colpito da paralisi.
16 Caparbia, ostinata.
17 Per il valore anti-realistico di queste sciagure iperbolicamente realistiche, v. Dono della Vergine Maria I 462 e n. 2; e se ne veda un ulteriore esempio ne Il treno ha fischiato III 22.
18 Una suocera è sempre un male: basta il beffardo dizionario delle idées reçues a stabilirlo (ma v. Lo storno e l’Angelo Centuno, p. 535). Una «suocera immortale» è una punizione diabolica. E infatti, per il povero genero, questa suocera diventa il fantasma allegorico vivente, e implacabilmente persecutorio, del destino sciagurato e difforme determinato dal suo nefasto atto d’eroismo. Ad un analogo orrore si sentirà sottoposta, molti anni più tardi, la Dreetta di Pubertà, «sicura che la nonna, sempre con quel pugno sotto la gola, non sarebbe mai morta» (v. III 492). Ma, immortalità a parte, v. il precedente di Formalità I 973 e n. 5, e anche I 987, dove l’artificio allegorico è svelato e un personaggio vede appunto in un «omiciattolo sbricio, quasi artefatto, estremamente ridicolo, la personificazione del suo sconcio destino».
19 I gomiti (v. «In corpore vili», n. 2).