Lo spirito maligno

1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Una piastra e quattro centesimi, sul «Corriere della Sera» il 22 maggio 1910, e successivamente ristampata, con il titolo definitivo, nel sesto volume delle «novelle per un anno», In silenzio (Firenze, Bemporad, 1923).

2 Nome italianizzato del porto algerino orientale di Annaba.

3 Alacre (v. Visitare gl’infermi, n. 20).

4 Sono i connotati ben noti di Porto Empedocle. V. Lillina e Mita, n. 3 e, per una serie di dettagli ripetitivi, Lontano I 634-5 (e NUAI, p. 1509), nonché Un matrimonio ideale III 51.

5 Per un verso riaffiora il fantasma di Gabriele Orsani, protagonista di Formalità; per un altro verso nell’universitario strappato agli studi e, sotto, nell’innamoramento del Noccia, trascorrono frantumi di memorie vagamente autobiografiche (v. GG, pp. 66-9).

6 Affrancare. V. Difesa del Mèola, n. 16.

7 Impuntatura, puntiglio. V. anche Due letti a due, p. 395.

8 Quest’idea ossidionale echeggia probabilmente ancora la lettura (in traduzione francese e finalizzata alla stesura de Il fu Mattia Pascal) di Charles Webster Leadbeater, Le Plan Astral, premier degré du Monde invisible, d’après la Theosophie, Paris, Publications Théosophiques, 1899, alle pp. 102-5 del quale libro si legge: «Les pensées de la plupart des hommes sont si indécises et si vagues que les élémentals qui en résultent n’ont guère plus de quelques instants d’existence; mais une pensée qui se reproduit souvent, ou un désir très vif forment un élémental qui peut vivre plusieurs jours. Puisque c’est généralement à nous-mêmes que nous pensons le plus, les élémentals résultants demeurent en quelque sorte autour de nous, et tendent constamment à provoquer la répétition de l’idée qu’ils représentent, parce que cette répétition, quoique n’engendrant pas de nouveaux élémentals, renforce les premiers, leur donne un surcroît de vie. Un homme, donc, qui revient souvent sur le même désir se crée un compagnon astrale, entretenu par sa propre pensée, qui peut le hanter, l’obséder pendant des années, acquerir de plus en plus d’influence sur lui; d’où il suit que, si le désir en question est d’un ordre mauvais, l’effet sur la nature morale de cet homme peut être du caractère le plus désastreux. Lorsque les pensées s’adressent à autrui, les résultats en sont encore plus notables, parce qu’ils ne s’appliquent alors pas au penseur, mais à l’objet des pensées. […] Tout ce qui a été dit sur les effets des bonnes pensées ou les désirs amicaux s’applique analoguement en sens contraire aux pensées et désirs mauvais; lorsque l’on considère un instant la quantité d’envie, de haine, de malice et de malveillance qui existe de par le monde, l’on se rend compte aisément du grand nombre de terribles créatures qui doivent exister parmi les Elémentals artificiels! Un homme dont les pensées ou les aspirations sont méprisables, brutales, sensuelles, avaricieuses, ne peut pas se déplacer dans le monde sans entraîner partout avec lui un milieu empesté qui lui est propre, qui est peuplé des êtres dégoûtants qu’il s’est donnés pour compagnons; ce milieu n’est pas seulement un danger pour lui-même, mais aussi pour tous ceux qui ont le malheur d’être en rapport avec lui, par le risque de contagion morale qu’il implique. Un sentiment d’envie ou de haine envers une autre personne projette une influence mauvaise qui s’attache à cette personne et cherche en elle le point faible pour agir» [I pensieri della maggior parte degli uomini sono così indecisi e vaghi che gli elementali che ne risultano non hanno che pochi istanti d’esistenza; ma un pensiero che si riproduce spesso, o un desiderio molto vivo, formano un elementale che può vivere per diversi giorni. Poiché è a noi stessi che generalmente pensiamo di più, gli elementali risultanti permangono in certo modo intorno a noi, e tendono costantemente a provocare la ripetizione dell’idea che rappresentano, perché tale ripetizione, pur non generando nuovi elementali, rafforza i primi e conferisce loro un sovrappiù di vita. Dunque, un uomo che ritorna spesso sul medesimo desiderio, si crea un compagno astrale, nutrito dal suo stesso pensiero, il quale può abitarlo e ossessionarlo per anni e acquisire un’influenza sempre più forte su di lui. Ne consegue che, se il desiderio in questione è d’ordine maligno, l’effetto sulla natura morale di quell’uomo può avere le caratteristiche più disastrose. Quando i pensieri sono rivolti agli altri, i risultati sono ancor più rilevanti, perché allora non investono chi pensa, ma l’oggetto dei suoi pensieri […] Tutto quanto è stato detto sui pensieri positivi o sui desideri amichevoli si applica analogamente, alla rovescia, ai pensieri e ai desideri malvagi. Se si considera per un istante la quantità di invidia, di odio, di malizia e di malevolenza diffusa nel mondo, ci si rende agevolmente conto del gran numero di creature terribili che devono esistere tra gli Elementali artificiali. Un uomo i cui pensieri o le cui aspirazioni sono spregevoli, brutali, sensuali, ingenerose, non può circolare nel mondo senza trascinare con sé dovunque il contesto impestato che gli è proprio, popolato degli esseri disgustosi che quell’uomo si è formato per compagni; e quel contesto è un pericolo non solamente per lui stesso ma, dato il rischio di contagio morale che implica, anche per tutti coloro che hanno la sventura d’essere in rapporto con lui. Un sentimento d’invidia o di odio verso un’altra persona proietta una influenza maligna che si attacca a quella persona e ne cerca il punto debole per agire]. Il passo citato fa parte del medesimo paragrafo, intitolato Elémentals formés inconsciemment, parafrasato in parte da Mattia Pascal nella prima stampa del romanzo (v. RI, pp. 1010-1) e in parte tradotto dal dottor Leandro Scoto nella novella Personaggi (p. 239).

9 Colti alla sprovvista, frastornati. V. La ricca I 127.

10 Boccale (v. Sua Maestà, n. 12).

11 Portamonete.

12 Moneta d’argento da cinque lire.

13 Serpente innocuo e agile. V. Di guardia, p. 76.

14 Ciocche arruffate di capelli.

15 Monete d’oro (così dette perché coniate originariamente a Torino dopo la battaglia di Marengo del 1800).

16 Non è serio infatti credere a uno «spirito maligno». Nella prima stampa, toccava al funzionario di polizia che arresta il Noccia trarre le conclusioni: «– Ecco, – diceva a se stesso, sorridendo, il saggio delegato, dopo l’interrogatorio. – È questione spesso di chiamar le cose con un nome anziché con un altro. Tutto sommato, può esser anche un’idea chiamare il furto spirito maligno» (v. NUAII, p. 1004). Carlo Noccia sconta come un peccato di hybris la fatua volontà di passare per astuto e disonesto e, in forza di quella fatuità, finisce vittima di una cattiva fama che è diventata, a sua insaputa, coazione a ripetere. Desideroso di essere accettato e rispettato in un paese di ladri e di mentitori, egli ha mentito una volta e s’è giocato per sempre la possibilità di venir creduto dicendo la verità. Incapace di capire che maligno è stato lo spirito suo, soggettivo ed interiore, che gli ha suggerito la prima menzogna, egli finisce con l’oggettivarlo e farne, proiettandolo fuori di sé, un demone persecutorio. E quel poco serio demone lo fa arrestare per furto e lo fa impazzire.

La Lega disciolta

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 6 giugno 1910, e nel 1912 venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves), in entrambe le stampe col titolo La lega disciolta. Entrò infine, con la Lega del titolo maiuscola, a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad, 1928).

2 Il fez, ossia il «copricapo di lana a forma di cono o di calotta appiattita, con un fiocco di cordoncini neri o blu, tradizionale nei paesi arabi del Mediterraneo» (Devoto-Oli). In spregio al fallimento della poesia della cristianità, anche il mago Cotrone de I giganti della montagna indosserà «un vecchio fez da turco» (v. MNII, pp.1313 e 1329).

3 V. La mosca, n. 10.

4 Bastoncino.

5 Il narratore fa i nomi di questi proprietari nobili per accrescere l’effetto di realtà del suo racconto, ma un po’ anche come se quei nomi titolati dovessero essere ben noti al lettore. E, nel caso, potrebbero qualora il lettore abbia presente l’onomastica del corpus novellistico: l’elegante marchese Nigrelli e il barone Ragona, nominati l’uno di seguito all’altro, sono infatti suocero e genero nella novella del 1902 Tanino e Tanotto.

6 Pascolo collinare.

7 Recinto a cielo aperto.

8 Che aveva appena partorito.

9 Vitellino (dal vezzeggiativo latino bucellus, a sua volta formato su buculus, diminutivo di bos).

10 Vedi sotto, p. 518: «tre “tarì” al giorno (lire 1,25)»; e v. La berretta di Padova, n. 6.

11 Al figurato, l’espressione (calco dell’omologo modo di dire dialettale siciliano jittari ‘u sangu) vale “si rompe le ossa dalla fatica”, “si sfinisce di lavoro”.

12 Dallo spuntare.

13 Zulì Bombolo ha organizzato e dirige una lega sindacale contadina in puro stile mafioso. E in termini squisitamente mafiosi, ossia fondati tacitamente sul ricatto e sull’estorsione, egli gestisce trattative salariali e compone vertenze.

14 La conforto informandola. La lingua di questa novella contadina aderisce, italianizzandole senza tuttavia obliterarle, a strutture sintattiche e lessicali del dialetto.

15 Giovanotti, uomini (v. Le medaglie, n. 19). Ma nella fattispecie non è fuor di luogo rammentare che con picciotto viene anche designato il membro di grado più basso d’una cosca mafiosa.

16 Benevolenza, generosità.

17 Magazzino (v. La casa del Granella, n. 38).

18 Il quartiere di San Gerlando è il ripido rione girgentano, tutto a vicoli, che digrada dal poggio della cattedrale. V. Il vitalizio, n. 67 e La verità, p. 723: «[…] ritornato a casa fradicio e inzaccherato, una sera di sabato, dalla campagna sotto il borgo di Montaperto nella quale lavorava tutta la settimana da garzone, aveva trovato uno scandalo grosso nel vicolo dell’Arco di Spoto, ove abitava, su le alture di San Gerlando».

19 Mance.

20 Vasettini.

21 In attesa (v. Benedizione, n. 26).

22 Uno dei promontori che delimitano l’insenatura di Porto Empedocle (v. NUAIII, p. 915: «Oltre il porto, il mare si stende vastissimo, rischiarato dalla luna, fino all’orizzonte chiuso a sinistra da Punta Bianca, a destra da Monte Rossello, in ampio semicerchio»). V. anche Il vitalizio, n. 28, Lillina e Mita, n. 3 e la prima stampa de La morta e la viva: «Punta Bianca, che s’allunga su l’aspro azzurro come il capo d’un niveo enorme cetaceo dormente» (NUAIII, p. 1255).

23 Fattori.

24 Vera e propria associazione politico-sindacale, sul modello dei Fasci dei lavoratori costituitisi in Sicilia durante il primo governo Giolitti (1892-93) e poco dopo la fondazione, nel 1892, del partito socialista dei lavoratori italiani. Pur appoggiati dai socialisti, i Fasci siciliani non furono associazioni di ispirazione marxista e rappresentarono piuttosto la rabbiosa reazione contadina e proletaria alla miseria che s’era venuta ancora aggravando nel periodo del governo Crispi. Sono queste le vicende storiche che Pirandello tratteggia nel romanzo I vecchi e i giovani.

25 Nel caso, i dirigenti più combattivi.

26 Come il Titta Marullo della novella La balia (v. I 788-9). Francesco Crispi, tornato al governo alla fine del 1893, decretò lo stato d’assedio in Sicilia e represse duramente il movimento dei Fasci, i cui capi furono deferiti in giudizio dinanzi ad una corte marziale e subirono condanne pesantissime.

27 Nell’ottica di Bòmbolo (della quale è veicolo una focalizzazione interna dominante) questa mafia apostolica, non violenta e molto georgica, è il solo modo di amministrare in Sicilia una giustizia vera ed equa e di correggere gli squilibri sociali. Un padrino disinteressato e autorevole, che gode della fiducia cieca d’una delle parti e sa rispettare, rispettato, l’altra parte, incarna l’unico possibile arbitro fra le contrapposte esigenze. L’implicita immagine dell’autorità e delle istituzioni dello Stato è complementarmente sempre la medesima, nel corpus pirandelliano: quella d’una inefficienza distratta e iniqua, dalla quale rifuggono sia i poveri che i ricchi.

28 Custodia di cartone legata con un nastro.

29 «Libro in cui erano elencati, a nome del rispettivo possessore, tutti i beni di un comune con il corrispondente valore, sulla base del quale si calcolava la decima» (GDLI).

30 A modo suo, Bòmbolo supplisce, registri alla mano e dopo accurata istruzione d’ogni pratica, a compiti di esazione e di redistribuzione della ricchezza completamente disattesi dal governo e dalla pubblica amministrazione. Il suo è, umoristicamente, un prelievo fiscale forzoso in piena regola, e non estorsione.

31 Crosta. Nel Taccuino di Coazze è annotato: «Roccia, il sudiciume su la scorza del cacio» (v. SPSV, p. 1205).

32 Si spalancava vuota.

33 Terrosa (v. La veglia, n. 22).

34 Faceva il suo verso, gracidava.

35 Il lavoro cui si sobbarcava a loro beneficio.

36 V. Il vitalizio, n. 48 e Il «fumo», nn. 32 e 88.

37 Stupido, sciocco.

38 Non vedeva l’ora (v. La signorina I 213).

39 Impietrito.

40 Sissignore (v. anche Alla zappa! I 718).

41 Bombetta di forma tondeggiante.

42 Il re-arbitro, l’intransigente apostolo ha smentito se stesso abdicando al proprio potere e s’è dimostrato un profeta candido. Era lui stesso a ritenere amaramente che l’unica giustizia possibile fosse, «senza né patti né condizioni», quella d’un arbitrato super partes che imponeva ai contadini di lavorare e ai padroni di pagare secondo coscienza. E proprio lui, candidamente, si illude che, tolta di mezzo la sua severa sovranità, la giustizia gli sopravviva come regola naturale d’un mondo di padroni e di servi. In realtà, con Zulì Bòmbolo abdicatario ed esule scompaiono l’etica intransigente del suo apostolato e l’evangelica mafia dei poveri, e sopravvivono, insieme, soltanto lo sfruttamento e il ricatto: in prospettiva, un mondo di padrini e di padroni esosi. Per un verso, la buonafede tradita di Bòmbolo somiglia alla buonafede non creduta del coevo Carlo Noccia de Lo spirito maligno; per un altro verso, la «giusta» del sabato sera nel fondaco di San Gerlando sembra adombrare il rito civile comunitario d’una cittadella d’utopia, e la storia della Lega somiglia alla leggenda d’una mitica mafia buona, nemica delle iniquità e della cattiva giustizia, travolta insieme al suo pacifico messia dalla nequizia d’un «paese di carogne». Il narratore, che non s’è mai compromesso con il suo re-sacerdote ma non gli ha negato una tacita simpatia, per il fatto stesso di raccontarne l’ineluttabile rovina pare avere una visione ancora più amara di quella di Bòmbolo e ritenere che nessuna giustizia sia possibile.

43 V. La maestrina Boccarmè, n. 4.

Leviamoci questo pensiero

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 19 luglio 1910. Nel 1912 venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Il motivo della spettacolarità inevitabilmente teatrale, per quanto sincera, della manifestazione delle passioni, è destinato a ricomparire più volte, sia nel corpus novellistico che altrove. V. quantomeno Piuma III 275: «Ella ascoltò da prima sbigottita; ma poi, protraendosi a lungo lo spettacolo un po’ teatrale di quella disperazione pur sincera, non ascoltò più»; Jeri e oggi III 340: «Era senza dubbio esaltato; accennava a quel suo misterioso discorso con quel signore sconosciuto, come per nascondervi un proposito che aveva intanto un ben curioso effetto: quello di fargliela vedere, come da fuori, a lui stesso, la sua esaltazione mascherata di calma, e di fargliene forse provare ora rimorso, ora fastidio, di fronte alla nuda schiettezza, alla commozione forte e muta del figlio che soffriva del pianto della sua mamma e le faceva coraggio più con le carezze che con le parole»; e Pena di vivere così III 367: «e restava lì, Dio, restava lì, certo con la vergogna, ora, del suo atto teatrale mancato, che pur avrebbe voluto sostenere fino all’ultimo perché vi era stato trascinato dalla foga d’un sentimento sincero». Ma l’affioramento tematicamente più complesso e carico di conseguenze (perché connesso a un altro motivo di grande peso, quello dello sguardo autoptico straniato che può portare a insanabili fenditure dell’io), è certamente quello che si ritrova nel primo atto di Enrico IV, per il quale v. Pena di vivere così, n. 20.

3 Questa predicazione (rassegnazione/testardaggine) costituzionalmente contraddittoria basta a fare di Bernardo Sopo un personaggio segnato da stigmate tematiche non comuni. Il comparante asinino per l’umana rassegnazione verrà recuperato nel 1914 per il Belluca de Il treno ha fischiato… (v. III 20): «cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte». Nel 1917, viceversa, ricorrerà ne Il piacere dell’onestà per illuminare la connaturata doppiezza dell’uomo: «Volerci in un modo o in un altro, […] è presto fatto: tutto sta, poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Non siamo soli! – Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. – Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione. – Vada a persuader l’asino a non andare rasente ai precipizii: – si piglia nerbate, cinghiate, strattoni; ma va lì, perché non ne può far di meno. E dopo che lei l’ha bastonata, pestata ben bene, le guardi un po’ gli occhi addogliati: scusi, non ne sente pietà? – Dico pietà; non scusarla! – L’intelligenza che scusi la bestia, s’imbestialisce anch’essa. Ma averne pietà è un’altra cosa! Non le pare?» (v. MN1, p. 571). La stessa temeraria caparbietà dell’asino è evocata anche in uno degli appunti del Taccuino segreto: «Gli animali non hanno opinioni? Non è un’opinione quella dell’asino di camminare rasente i precipizii?» (v. TS, p. 5). Ancora un’altra è la motivazione per l’ultimo transitorio affioramento della medesima testarda consuetudine degli asini: transitorio perché, presente nella prima stampa in rivista (gennaio 1919) de Il giuoco delle parti, viene cassato fin dalla ristampa in volume dello stesso 1919. Dice il protagonista Leone Gala: «[…] Nel mezzo, la vita, Dio mio, è come tutti la vivono, comune, usuale. Il sapore della vita, tu lo sai, è, come il rischio, nei margini, sui limiti rasenti i precipizii, dove gli asini materialmente, e moralmente le donne si struggono di camminare» (v. MN2, p. 882). E la congiunzione, repentinamente instaurata, fra sapore della vita, rischio e morale femminile è degna di segnalazione.

4 Titolo obbligazionario dello stato.

5 Molla.

6 In uno dei Foglietti pubblicati da M. Lo Vecchio-Musti è conservato un primissimo appunto della novella: «Erano le ineluttabili necessità naturali. / Urtava perciò quell’omino» (v. SPSV, p. 1233).

7 Divanetto (v. La signorina, n. 32).

8 Offrire.

9 Filosofia desolata e smaniosa quella di Bernardo Sopo, il quale, circondato dalla tenebra, e dunque dal vuoto, li esorcizza con la surrogatoria e tormentosa evasione di tutte le quotidiane «necessità dell’esistenza», che obliterano quel vuoto con una maniacale affannosa pienezza.

10 Frusta.

11 Affannato, smanioso (v. anche In silenzio, p. 180).

12 Il capoverso merita d’essere sottolineato per intero, perché verbalizza in termini paradigmatici ed esemplari un motivo la cui ricorrenza sfiora la pervasività, quello appunto dell’ansia di un’attesa ignota, coniugato (come quasi sempre avviene) con quelli del senso di sospensione e della sensazione di vuoto. Quella descritta è una delle angosciose condizioni di soglia (v. Formalità, n. 17) che invischiano i personaggi fra un prima connotato e un dopo sconosciuto o, come qui, fra le cose fatte e il «presentimento vago» di qualcosa da fare. L’«ansia inquieta, quasi d’ignota attesa», emersa nel 1901 con la prima stampa de La levata del sole (v. NUAII, p. 1400), riemersa come «l’ansia d’un’attesa ignota» nella prima versione de La casa del Granella (v. NUAI, p. 1223), stringe nel 1909 i due protagonisti de Il lume dell’altra casa: «L’uno di faccia all’altra, benché avessero entrambi schivato di guardarsi e avessero quasi finto davanti a se stessi d’essere alla finestra senza alcuna intenzione, tutti e due – ne era certo – avevano vibrato dello stesso tremito d’ignota attesa, sgomenti del fascino che così da vicino li avvolgeva nel bujo» (v. p. 447), prima di dispiegarsi qui in tutta la sua portata. Anche in seguito il sintagma ricorrerà, come un senhal tematico, ne La trappola (v. p. 695: «sospesi nell’orrore di quell’ignota attesa»), in Ignare (v. p. 791: «Era ancora come stordita dalla sciagura. Non concepiva affatto l’orrore che ne provavano le altre due; e le guardava e le spiava negli occhi, quasi sospesa in una paurosa, ignota attesa»), ne La veste lunga (v. p. 817: «Avrebbe ella sempre sentito quel vuoto, quella smania di un’attesa ignota, di qualche cosa che dovesse venire a colmarglielo, quel vuoto, e a ridarle la fiducia, la sicurezza, il riposo?»; e p. 819: «L’ignota attesa, l’irrequietezza del suo spirito, dove, in che si sarebbero fermate?»). E questi sono soltanto i rinvii cui perentoriamente obbliga la ricorsività d’un medesimo sintagma, poiché il motivo situazionale denominabile come sospensione-attesa ricorre in numerosissimi altri testi: il corpus è anzi letteralmente disseminato di spasimi d’attesa, di angosciose aspettazioni, di silenzi d’attesa, di terrori e smanie legati ad oscure aspettative. A puro titolo d’inventario, le novelle che registrano affioramenti più o meno rilevanti del motivo sono nell’ordine: «Vexilla Regis…», La maestrina Boccarmè, La paura del sonno, Come gemelle, Senza malizia, La casa del Granella, Dal naso al cielo, Un cavallo nella luna, Stefano Giogli, uno e due, Felicità, La trappola, Il coppo, Ignare, La vendetta del cane, Zuccarello distinto melodista, O di uno o di nessuno, La camera in attesa, La mano del malato povero, Piuma, Il pipistrello, Pubertà, Uno di più, Un’idea, La casa dell’agonia. E quest’elenco non tiene conto dei numerosi casi nei quali il predicato dell’attesa migra per metonimia dai personaggi agli oggetti e agli arredi domestici, ossia alle cose legate agli uomini da lunga consuetudine.

13 Piccolo schermo di cuoio fissato alla briglia all’altezza degli occhi del cavallo (o del somaro) per evitare che si adombri.

14 Prima di Bernardo Sopo, dell’inconcludenza eterna della natura s’era naturalmente venuto convincendo Luigi Pirandello, che nel 1909 aveva intitolato Non conclude una noterella saggistica stampata sul trisettimanale politico-militare «La Preparazione» (la si può ora rileggere, con una premessa di Giancarlo Mazzacurati, nell’appendice ad AA.VV., Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Pisa, Nistri-Lischi, 1990, pp. 437-9), noterella nella quale, in relazione al vano bisogno di concludere che agita l’uomo, si ritrova anche l’«attesa smaniosa» dalla quale l’individuo è preso non appena s’è appunto levato qualche pensiero. Il passo di riferimento, che costituisce con tutta evidenza la filigrana ipotestuale dei tre capoversi novellistici che precedono questa nota, è il seguente: «E l’uomo si accorge allora, che per un pezzo, per venire a una conclusione, s’era imposto quasi un paraocchi, che gli escludeva la vista delle altre cose intorno. Ora, caduto il paraocchi, la mèta raggiunta si vede come sperduta tra tutte quest’altre cose intorno, che chiamano, attirano e tolgono il piacere della giunta. / – Che ho concluso? – si domanda allora l’uomo. / Ma il riconoscimento più forte di non aver concluso nulla avviene quando, astraendoci dalle contingenze effimere, dalle brighe quotidiane, dalle passioni, dai desideri, dai doveri che ci siamo imposti, dalle abitudini che ci siamo tracciate, abbattiamo i limiti illusorii della nostra coscienza presente, allarghiamo i confini della nostra abituale visione della vita, ci solleviamo spassionati a contemplare e a considerare da una altezza tragica e solenne la natura. / È il riconoscimento dei vecchi, che appunto al grembo eterno della natura si riaccostano. / E da questo riaccostarsi alla natura deriva il riconoscimento. / Perché la natura, nella sua eternità, non conclude. E noi che siamo in lei, che siamo lei stessa, ma che per alcun tempo ci siamo visti e considerati come parti per noi medesimi staccate e distinte, quando s’approssima il momento di rientrare e di perderci in essa, nella sua eternità, riconosciamo vana, illusoria, arbitraria ogni conclusione nostra, riconosciamo che veramente non concludiamo nulla. Rimane eterna dopo ciascuno di noi la natura: eterna appunto perché non conclude». Nel medesimo intorno di tempo, analoghe considerazioni svolge nel romanzo I vecchi e i giovani (v. RII, pp. 509-10) don Cosmo Laurentano, e a identiche non-conclusioni perverrà fra non molto (nel 1913) Memmo Viola, il cuoco-filosofo di Quando s’è capito il giuoco (v. p. 834 e n. 14). E Non conclude si intitolerà nuovamente, addirittura nel lontano 1926, il quarto e ultimo capitolo del conclusivo ottavo libro di Uno, nessuno e centomila, il romanzo estremo nel quale, sulla traccia di remote considerazioni provenienti da L’umorismo (v. SPSV, pp. 151-2) e che, nella noticina de «La Preparazione», erano già accostate alle riflessioni sull’inconcludenza, si legge: «La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita» (v. RII, p. 800).

15 Pranzettino.

16 Andavano fuori dai gangheri (v. Richiamo all’obbligo, p. 246 e n. 16).

17 Rassegnato all’inconcludenza ma custode testardo delle necessità, preda del suo ossimorico paradosso filosofico, Bernardo Sopo si aliena nell’ossessiva draconiana allegoria vivente dei doveri e dei bisogni, e diventa a sua volta un ossesso senza requie. Memmo Viola, che è il suo complementare e il suo contrario, dedurrà, da dentro il suo «perpetuo letargo filosofico», che «un accadere eterno, cioè senza fine, vuol dire anche senza un fine», e si ritrarrà da qualunque accadere. Bernardo, pur persuaso che non può esserci conclusione e dunque non esiste un fine, è tuttavia travolto e trascinato da un accadere senza fine.

Lo storno e l’Angelo Centuno

1 Fu pubblicata per la prima volta, con il sottotitolo (miracoli), sul «Corriere della Sera» il 4 settembre 1910. Con il titolo attuale fu ristampata nel 1914 nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e, nel 1920, in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che riprende sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Venne infine inclusa nell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925), tributaria per undici quindicesimi delle due precedenti raccolte. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Ch’era ancora notte.

3 Muretti a secco, di quelli che delimitano i campi o fiancheggiano le stradette di campagna.

4 Lo storno comune è un uccello sia sedentario che di passo, che d’autunno arriva nelle nostre regioni, dove sverna, in stuoli immensi. Lungo una ventina di cm, è nero macchiettato e lineato di bianco gialliccio.

5 Tutta intera.

6 Accidenti che stomaco!

7 Pirandello ha annotato nome e cognome in un foglietto (v. BRB, p. 70).

8 Per Montelusa, v. La mosca, n. 10.

9 Notevole, ragguardevole.

10 Come se grandinasse.

11 Custode di casa.

12 V. Concorso per referendario al Consiglio di Stato, n. 22.

13 Posta è detta «ciascuna delle quindici o delle dodici parti del rosario completo […], in cui si commemora un mistero della vita della Madonna, recitando un paternostro, dieci avemaria e un gloria» (GDLI).

14 Dalle smorfie che faceva.

15 Una invecchiata donna Gesa sarà chiaramente riconoscibile nella Sgricia de I giganti della montagna: «La Sgricia è una vecchietta […]. Quando parla è sempre un po’ irritata e sbatte di continuo le palpebre sugli occhietti furbi irrequieti. Di tratto in tratto si passa rapidamente un dito sotto il naso arricciato» (v. MNII, p. 1311). Di fatto, però, La Sgricia risulterà da una combinazione di donna Gesa e della Poponè.

16 Fama.

17 Impietrito.

18 Accostando la mano cava all’orecchio, come se non avesse sentito bene.

19 Poiché era, per il fatto ch’era.

20 Così erano denominati gli ufficiali che comandavano una centuria di legionari romani, ossia cento soldati.

21 Soprannominati.

22 Che ha il vizio di provocare.

23 Il povero Tararà ripeterà questa massima dopo averne fatto amara esperienza: v. La verità, p. 727.

24 Apparteneva ad una corporazione d’arte e mestiere.

25 Signora, che è il nome di rispetto, mentre comare è l’appellativo col quale si chiamano fra loro, paritariamente, le popolane. Con piccole varianti, il capoverso corrisponde ad uno dei frammenti riprodotti da Barbina (v. BRB, pp. 69-70), già stampato nell’Almanacco letterario Bompiani 1938: «Non portava la mantellina di panno, lei, come le villane; portava il guardaspalle di lana a pizzo con la frangia e non voleva esser chiamata comare» (v. SPSV, p. 1220).

26 Lasciava perdere, non replicava.

27 Fitti, folti.

28 Tessuto un po’ grossolano, di pelo di capra o di cammello.

29 Un qualcosa che la faceva sembrare appartenente a ceti più elevati.

30 Si prodigasse eccessivamente.

31 Mi si accappona ancora la pelle.

32 Favara dista meno di dieci chilometri da Agrigento in direzione est. V. anche Un invito a tavola I 370.

33 V. Il vitalizio, n. 19.

34 Secchio (di legno).

35 Si agitò terribilmente (v. anche Lontano I 657).

36 Efficiente, pronta a sparare. V. L’altro figlio, p. 35.

37 V. L’altro figlio, p. 35: «un certo Cola Camizzi, capo-brigante, […] ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come fossero mosche, per provare la polvere, – diceva, – per vedere se la carabina era parata bene».

38 Rimessa.

39 Basto.

40 Signora. V. Il vitalizio, n. 74.

41 V. La giara, n. 21.

42 Quello di donna Gesa è, come sempre accade nella tradizione orale di eventi memorabili e miracolosi, il racconto di un racconto. Non può dunque sorprendere l’implicito segnale veridittivo contenuto nel passaggio dal sonno alla veglia. È al risveglio, e non nel sonno, che la Poponè vede le due file di soldati celesti. Ma l’incredulo è libero di pensare che sia su una confortante scena di sogno che la devota vecchietta apre gli occhi.

43 Uscì di casa. V. Benedizione, n. 28.

44 Più di vent’anni più tardi, nell’ospizio mitico della Scalogna e in quella specie di Wunderkammer allegorica che sono I giganti della montagna, la Sgricia, che reincarna insieme donna Gesa e la Poponè e che è andata a vivere «agli orli della vita» con gli Scalognati «dacché la Chiesa non volle ammettere il miracolo che le fece l’Angelo che si chiama Centuno», racconterà di nuovo, con l’aiuto di Cotrone e d’una voce d’en haut, la sua miracolosa peripezia (v. MNII, pp. 1337-9).

45 Nel saggio del 1893, Arte e coscienza d’oggi, Pirandello aveva evocato Lev Tolstoj e scritto: «nel libro Le mie confessioni del celebre romanziere e filosofo russo si legge, press’a poco, così: “Perdetti assai presto la fede. […] La scienza mi disse soltanto: La vita è un male privo di senso. Volevo uccidermi. Finalmente mi venne l’idea di guardare come viveva la maggior parte degli uomini, quella che non si dedica come noi delle così dette classi elevate, a scrutare ed a pensare; ma che lavora e soffre e tuttavia è calma, tranquilla e conscia dello scopo della vita. Compresi che per vivere come quella gente bisognava far ritorno alla sua semplice fede”» (v. SPSV, p. 866). Ne I vecchi e i giovani, quando circola voce che si stiano organizzando i primi fasci di lavoratori e si temono fiammate di rivolta, il vescovo monsignor Montoro parla della medesima fede a partire da un’ottica molto diversa, assai più opportunistica e repressiva che non pastorale e spirituale: «E come poteva più il popolo starsi quieto tra le tante tribolazioni della vita, se più la fede non gliele faceva accettare con rassegnazione e anzi con giubilo, come prova e promessa di premio in un’altra vita? La vita è una sola? questa? le tribolazioni non avranno un compenso di là, se con rassegnazione sopportate? E allora per qual ragione più accettarle e sopportarle? Prorompa allora l’istinto bestiale di soddisfare quaggiù tutti i bassi appetiti del corpo» (v. RII, p. 11).

46 Una svolta apertamente ilare e leggera pone fine bruscamente a una discussione destinata a concludersi senza vinti né vincitori qui e sempre nel corpus. Il miracolo metaforicamente iperbolico che interviene è un puro artificio narrativo che vale a troncarla lasciando impregiudicate le ragioni reciprocamente irriducibili della ragione e della fede.

Il viaggio

1 Apparve a stampa per la prima volta su «La lettura» nell’ottobre del 1910; fu poi raccolta nel volume del 1912 Terzetti (Milano, Treves). Venne infine inclusa, come novella d’apertura, nel dodicesimo e omonimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928), che recupera dieci delle diciotto novelle di Terzetti. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 L’incipitale similitudine («casa antica, silenziosa come una badia») non potrebbe sprigionare né prima né più forte il senso antifrastico di monacazione forzata e di clausura rigida che connota il matrimonio e tutta la vita domestica delle donne siciliane. Nel suo insieme, il primo paragrafo di questa novella traccia il quadro più risentito e critico della condizione femminile isolana che sia dato reperire nel corpus pirandelliano.

3 In forte pendenza.

4 Rovinata, scoscesa.

5 Si ingerivano, se ne occupavano di persona.

6 Si abbigliavano, si agghindavano.

7 Remissiva.

8 Bocche sporgenti di scarico dell’acqua raccolta dalle grondaie.

9 È un motivo, non solo paesaggistico, frequente nelle novelle siciliane di Pirandello. Per un verso le zolfare sono il cancro che minaccia le campagne (si veda soprattutto Il «fumo») e il luogo di tortura degli zolfatari (Ciàula scopre la luna), per un altro sono la causa frequente di improvvisi e irreparabili tracolli economici per chi vi investe la propria fortuna (si veda ad esempio La ricca, la prima stesura di Sole e ombra, Lontano, Al valor civile, Formalità, La veste lunga).

10 Secco, arido.

11 Stridio (v. La levata del sole, n. 16).

12 Un appunto per questo capoverso è annotato su uno dei foglietti reperiti da Alfredo Barbina nella casa romana di via A. Bosio: «Aliva il cielo, aliva la terra, da cui nel silenzio grave, rotto da ronzii d’insetti, dal fritinnio tranquillo, del canto lontano d’un gallo, vaporava denso e lento l’odore di tante erbe appassite, del grassume delle stalle sparse» (v. BRB, p. 68).

13 V. l’antecedente umbro di Benedizione, p. 490.

14 Pelo di capra (v. Lo storno e l’Angelo Centuno, n. 28). In un foglietto si trova annotato: «Con la veste di baracane» (v. BRB, p. 67).

15 Grossi tubi.

16 Poco o molto.

17 Circolo cittadino.

18 Quattro anni prima, Lillina Lumìa s’era immaginata «divenuta come le altre donne del paese… Là, la pancettina bella piena e la calzetta in collo!» (v. Lillina e Mita, p. 221).

19 Degradare a grossolanità.

20 Il dettaglio viene a completare un ritratto spregevole e avvilente, ma è, nella sua particolare crudezza venerea, psicologicamente molto sottile.

21 Subdola.

22 Nel 1921, quest’impressione trapasserà puntualmente nella rievocazione della propria vita di segregazione e avvilimento da parte dello stralunato Marco Mauri di Come prima, meglio di prima: «Una vita che non si può figurare! come nessuno di voi, che vi marcite dentro qua, può conoscere! – Neanche tu, sai, Flora, che pure hai conosciuti tutti gli orrori della vita! Ma, Dio mio, sono orrori almeno! – Non una vita fatta di niente. – Niente! – Ombra. – Silenzio d’un tempo che non passa mai. – Neanche acqua da bere. – Acqua di cisterna, amara, renosiccia… – Ma non sarebbe nulla! È quel silenzio! quel silenzio! Figuratevi che vi si sente anche un soffio di vento, quando scuote la fune della cisterna giù in piazza, e la carrucola che ne stride; mentre voi, dentro…» (v. MN2, p. 535).

23 La tunica che riveste i polmoni.

24 Gancettini.

25 Una condizione immobile di non più avvertita continuità e ripetitività viene bruscamente interrotta da una scoperta inattesa. È un canonico motivo dinamico di trasformazione. Lo specchio, oggetto – nel bene e nel male – quasi magico e spesso perciò presente con un ruolo attivo nella dinamica narrativa, svela d’un tratto la recondita alterità che si nasconde in una identità fatta interamente di soggezione a regole esterne e non soggettive. Quella di Adriana è una identità sociale fatta di lutto, vedovanza, maternità, sudditanza domestica, vecchiaia presunta e accettata: lo specchio la smentisce in un istante riflettendo l’immagine intatta d’una donna giovane, bella, desiderabile. Ed è il soggetto stesso, guardandosi, che è riluttante a riconoscersi in quell’immagine trasgressiva di sé, subito sentita come invereconda e colpevole. Pochi righi sotto Adriana vorrà infatti sottrarsi allo sguardo del cognato «come se egli l’avesse sorpresa nuda»; e si ostinerà a ritenere «caricatura» e «maschera» non la sua pluriennale immagine repressivamente luttuosa, ma questa, che di quella maschera la spoglia.

26 Fin qui, i turbamenti di Adriana erano potuti restare segreti e indefinibili, sepolti e repressi senza bisogno di parole per nominarli e giustificarli. La turbavano infatti i viaggi del cognato, le assenze e i ritorni di lui, tutti risvolti d’una realtà esterna ed altrui. Ora, d’un tratto, trovandosi «sola con lui» e in viaggio insieme a lui, il represso bussa alle porte della coscienza, e la donna, incapace di dominare e censurare il nuovo turbamento, per potersi offrire un movente del quale non arrossire, del quale non doversi vergognare, deve quasi ingannare se stessa, fingere sapendo di fingere.

27 Riprendere fiducia in, risentirsi sicura di.

28 A confronto.

29 Studiata, troppo controllata.

30 V. Formalità, n. 25.

31 Corso Calatafimi e via Vittorio Emanuele.

32 Una riscrittura di questa visione palermitana troverà posto in Uno, nessuno e centomila: «E in quella testa lì, immobile e dura, potevo mettere tutti i pensieri che volevo, accendere le più svariate visioni: ecco: […] d’una via cittadina brulicante di vita sotto un nembo sfolgorante di sole che accendeva di riflessi purpurei i volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli specchi, i cristalli delle botteghe» (v. RII, pp. 757-8). Ma conviene tener presente che già dieci anni prima la Mirina di Salvazione aveva rievocato una analoga scena e analoghe sensazioni: «Ah quel primo volo dal nido, com’egli le aveva detto stringendole il braccio col braccio sul suo petto. Qui tutti i ricordi di Mirina s’accendevano, e il cuore già intirizzito le s’infocava ancora alla fiamma di quella sera che tante lagrime versate dipoi non eran valse a spegnere; ché anzi da quelle lagrime essa era risorta più pura nel suo ardore, quasi purgata dalla colpa e dagli affanni. / Sì, sì, proprio tra le fiamme le era parso di camminar quella sera, sola con lui, a braccetto con lui, per le vie della città, di cui serbava nella memoria come un tramenío voraginoso, un turbinoso fragore» (v. I 482).

33 Il passo può essere considerato uno dei più nitidi paradigmi della turbinosa sensazione di imbevimento e inebriamento vitale da cui possono venire travolti i personaggi che, come Adriana Braggi, abbiano patito una prolungata asfissia fatta di silenzio, vuoto, lutto. I passaggi repentini che il tratto testuale magnifica e moltiplica per riflesso, per rifrazione, per accensioni balenanti, sono quello dall’ombra alla luce (ed è, lo si rammenti, il percorso inverso rispetto a quello che compiva il vecchio Ciunna in Sole e ombra), e quello dall’immota solitudine al «brulichio della folla rumorosa». Adriana viene al mondo, viene alla luce, apre gli occhi alla vita, respira per la prima volta l’aria aperta, e la sua esperienza ha una portata così pervasiva da configurarsi, di fatto, come una seconda nascita.

34 Il nome d’un ristorante (il fr. chalet significa villino e designa piuttosto un edificio montano che non marino).

35 Passeggiata palermitana sul lungomare, famosa fino a tutto l’Ottocento.

36 I fiori degli agrumi e soprattutto dell’arancio.

37 Questa vivida impressione di Adriana deriva direttamente dalla amorosa memoria che, ne I vecchi e i giovani, Lando Laurentano serba di una passeggiata con la cugina Giannetta Montalto, «colei che nella prima giovinezza gli aveva fatto intendere l’eternità in un attimo di luce: luce sfavillante da due occhi neri e da un vanente sorriso, una sera di maggio, lungo la marina di Palermo illuminata, tra il fragor delle vetture, l’odore delle alghe che veniva dal mare, il profumo delle zagare che veniva dai giardini» (v. RII, p. 317).

38 Le tre parole: infinito, lontananza, sogno, compongono la formula pirandelliana del rapimento estatico o dell’astrazione meditativa, e si richiamano perciò l’una con l’altra di circostanza in circostanza (v. Canta l’Epistola, p. 638, Il coppo, p. 730, La carriola III 155-6, La cattura III 323). In uno dei Foglietti pubblicati il 1° gennaio 1934, è annotato un appunto in prima persona che è forse servito da spunto per questa sequenza novellistica: «Nel cielo, al tramonto, fra fasce d’oro e sanguigne e lembi d’azzurro verdino, come di sogno, infinitamente lontano. E così io mi sentivo lontano, sì, lontano anche da me stesso, senza conoscenza, senza pensiero» (v. SPSV, p. 1215).

39 Vasto parco settecentesco palermitano, che si estende ai piedi del versante sud-ovest del Monte Pellegrino.

40 La vasca d’Ercole, così chiamata perché su una colonna dorica è collocata una copia dell’Ercole Farnese, il cui originale si trova al Museo di Napoli.

41 Molle strato erboso che galleggia su laghi o stagni.

42 V. sopra la n. 33 e La toccatina, n. 21. Per analoghe estasi metacroniche, o felici, lievitanti deliri d’eternità, v. Da sé, pp. 885-6 (e la n. 18 per una nitidissima e del tutto diversa contestualizzazione del motivo ne I vecchi e i giovani), La carriola III 155-6 e soprattutto Visita III 570 e 571-2. Una ripresa di questo passo sarà ben riconoscibile in una battuta del protagonista di Ma non è una cosa seria: «MEMMO […] Scusate: non abbiamo forse sentito tutti, in certi momenti, aprirsi, accendersi dentro di noi come una luce d’altri cieli, che ci permette di vedere nelle più misteriose profondità dell’animo, e che ci dà la gioja infinita di sentirci in un attimo… in quell’attimo – eterni – e che s’è vissuto – e che può bastare?» (v. MN2, pp. 48-9).

43 Argani.

44 Denso, oleoso.

45 L’evento notturno e rapinoso cui la luna presiede, e in cui è perfettamente condensata la contraddittorietà fra piacere e dolore, fra presagio di vita e profezia di morte, è appunto «l’angoscia e lo sgomento di quella delizia che la rapiva». Ancora, dunque, la luna come spia lugubre e divinità ctonia (v. Sole e ombra, n. 37). Il motivo è doviziosamente e quasi ossessivamente presente soprattutto nella poesia di Pirandello. Si vedano: nella raccolta Mal giocondo del 1889, Allegre II, 16-20: «Ma già la Luna supera, tonda e flammea, del mare, / e vaste treman l’acque continuamente sotto / il luminoso bacio. Lenta ella sale, e pare, / pe i silenzi del murmure misurati dal fiotto, / una diva che passi intenta a vigilare» (v. SPSV, p. 458); Pasqua di Gea XXI, 41-5: «Un nume / che venga a vigilare, / la bianca Luna or pare, / tarda dei colli fuori / sorgente» (ivi, p. 531); Elegie renane VII, 11-12: «In fuga la luna tra l’onde dell’aer sconvolte / la morta terra, quasi sgomenta, spia» (ivi, p. 565), X, 9: «e la placida Luna, spiando pe’ madidi vetri» e X, 29-30: «Erano dolci a voi con l’acque del Reno i colloqui, / mentre sorgea la Luna candida a vigilare?» (ivi, p. 567), XVI, 1-2: «Sale, e pe’ chiusi vetri la gelida Luna a spiare / nella mia buja, squallida stanza viene» (ivi, p. 571); in Zampogna (1901), Le nubi e la luna 6-8: «e vien dal colle su, grande, la Luna. / Sale pian piano, come diva intenta / a vigilare, e a sé le nubi chiama» (ivi, p. 599). Dalle poesie si riversa nel corpus novellistico e anche nei romanzi: v. ad esempio Il fu Mattia Pascal, in RI, p. 467: «Avevo lasciato aperta la gelosia, aperti gli scuri. A un certo punto, la luna, declinando, si mostrò nel vano della mia finestra, proprio come se volesse spiarmi, sorprendermi ancora sveglio a letto, per dirmi: / “Ho capito, caro, ho capito! E tu, no? davvero?”».

46 Per il medesimo tramite dello specchio che le aveva restituito «la sveltezza e l’aria d’una fanciulla» (v. p. 546), e che stavolta le si mostra ostile e funesto, Adriana si stacca dalla sua immagine nuova di donna giovane e bella, cui l’amore l’aveva trascinata ad aderire. Lo specchio milanese, impietoso, riflette già una morta.

47 Questa geniale modulazione di sensazioni notturne precede e preannuncia la catastrofe. Adriana prova dapprima la «strana impressione» che si fa verbo nella forma, a sua volta strana (e nel caso quasi perturbante), della metafora: «un giorno di velluto», un giorno dolce al tatto e nel contempo impalpabile; tessuto, dunque, di liscia morbidezza, di serica delicatezza, di leggerezza silenziosa. Poi, incerta, Adriana si prova a interpretare la propria sensazione scindendola, analizzandola, ed ecco la perfida serie discendente: il velluto cullante e riposante dei cuscini della gondola, l’ombra vellutata dei canali (che evoca anche, per associazione, il velluto lubrico e infido, sul quale non si può reggersi, dei muschi marini), infine l’imbottitura di velluto della bara. E, nell’interpretazione tripartita della donna disfatta e insonne, il percorso è obbligato e irreversibile: interrogativo nelle due prime fasi retrospettive, nell’ultima, prospettiva e scorata, rabbrividito e tuttavia assertivo.

48 È la legge del corpus, implacabile. Adriana è stata sposa e moglie, poi soltanto madre. Per pochi giorni, e in articulo mortis, è stata donna e amante. Ma questi ruoli e quelli non sono compatibili e, per morire, torna madre.

«Leonora, addio!»

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 6 novembre 1910. Nel 1912 venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) e, nel 1928, entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

Nel 1928-29, durante una permanenza in Germania che è in parte un semivolontario esilio, Pirandello scriverà Questa sera si recita a soggetto (v. MN, pp. 221-311), una pièce complessa, largamente adibita a parlare del teatro e a discutere criticamente, facendo teatro, alcune tendenze teatrali di quegli anni. In quest’opera sarà un estraneo, ossia il dottor Hinkfuss, sorta di regista-mago e di ripugnante nano in frak, a voler fare ciò che l’autore Pirandello ha fatto altre volte: trasformare in teatro un testo novellistico. E la novella prescelta sarà appunto «Leonora, addio!». Addebitandone la responsabilità alle ambizioni spettacolari e all’invadenza ubiqua del personaggio-regista, Pirandello sottoporrà la tessitura chiusa e serrata, sostanzialmente realistica, della novella a trazioni, deformazioni, stiramenti stranianti, espansioni grottesche. Ma fermissime terrà, nel grande finale, le ragioni del cuore, quelle di cui palpita fino in fondo l’infelicità di Mommina prigioniera.

2 Fra i militari di leva e non di carriera, alcuni frequentano un corso apposito al termine del quale ottengono il grado di sottotenente.

3 Si compiaceva.

4 Soprannominata.

5 Stravaganze, pazzie.

6 Palco di proscenio (V. Tirocinio, n. 17).

7 Pestando con grande impeto sui tasti.

8 Il Faust (1859) è un «dramma lirico in cinque atti» di Charles Gounod (1818-1893), su libretto di J. Barbier e M. Carré (la cui versione ritmica italiana si deve ad A. De Lauzières). Siebel (la cui parte è scritta per una voce femminile) è un giovane amico di Valentino ed è innamorato della sorella di lui, Margherita. Le parlate d’amor – o cari fior è l’aria di Siebel con cui si apre il terz’atto dell’opera.

9 V. Un cavallo nella luna, n. 6.

10 La forza del destino (e l’opera verdiana che porta questo titolo ha notoriamente fama iettatoria) è già al lavoro. La fiamma cupa («subito, da buon siciliano, aveva preso sul serio lo scherzo») di Rico Verri e la saggezza pensosa e sacrificale di Mommina non promettono nulla di buono; anzi, nel carattere remissivo di lei e in quello persecutorio di lui, caratteri che producono due complementari disamorate irremovibilità, è già iscritta la loro sorte ossidionale.

11 Per le possibili memorie autobiografiche sottese a tale furibonda gelosia, v. GG, p. 164.

12 Nonostante le tante cose che Mommina capisce, il suo appassionato candore trasfigura Rico Verri in tre magnanimi tenori innamorati. Raul è il protagonista degli Ugonotti (v. n. 24), Ernani e don Alvaro sono due generosi e sventurati amanti verdiani: l’uno nell’opera che prende nome da lui, l’altro ne La forza del destino.

13 I due versi (citati imprecisamente: nel libretto suonano «né togliermi dal core / L’immagin sua saprò») si riferiscono all’ultimo dei tre eroi operistici, don Alvaro, e provengono dal drammatico cantabile d’un’altra Leonora, Pace, mio Dio (citato più sotto a p. 560), nel quarto e ultimo atto de La forza del destino. Nel citare a memoria, la sentimentale Mommina, presa nella rete romantica delle amorose parole melodrammatiche, non pensa certamente al fatto che Leonora le pronuncia nella solitudine claustrale e carceraria in cui l’ha costretta il suo infelice destino; non vi legge cioè una allusiva profezia della propria sorte.

14 Anche se non fosse stata in precedenza definita una «città su la costa meridionale dell’isola», il «colle isolato» e il «mare africano» sono connotati più che sufficienti a far riconoscere Girgenti.

15 In Questa sera si recita a soggetto Pirandello, per bocca del dottor Hinkfuss, ribadirà: «La novella rappresenta appunto uno di questi casi di gelosia, e della più tremenda, perché irrimediabile: quella del passato» (v. MN, p. 234). L’ossessiva folle gelosia di Rico Verri non ha altro paragone che quello di Cesira Piovanelli, anche lei, non a caso, inguaribilmente gelosa del passato (v. L’uscita del vedovo, n. 5).

16 V. Scialle nero, n. 26.

17 Uno dei Foglietti di appunti pubblicati da Corrado Alvaro contiene una traccia della novella che muove da questa situazione: «La moglie e le due figliolette. Il marito rosso di pelo, orso ferocemente geloso. La moglie da giovane tra gli ufficiali, ricevimenti, teatri, la zia Pepè. Mondo lontano. Ora prigioniera con le figlie. Terrore. Gli occhi di tutte e tre. Si guardano e s’intendono. L’orso freme, sospetta. L’unica delizia, viver della vita lontana della madre. Appena egli esce, ella si chiama accanto le figlie e racconta racconta… canta, recita, rappresenta tutte le parti, si anima, diventa un’altra, e le figliole, beate, la stanno a sentire» (v. SPSV, p. 1214). Ancorché sia consentita solo una cauta congettura, il rapido sommario lascia intravvedere l’ipotesi d’un intreccio altrimenti distribuito, nello sviluppo del quale quella che è la prima parte di «Leonora, addio!» sarebbe forse intervenuta, dopo un attacco in medias res, come flash-back memoriale della protagonista.

18 Istupidita. (V. La mosca, n. 40).

19 Il ricordo congiunto della sera, della musica, dell’odore delle zagare compare anche ne Il viaggio, novella cronologicamente vicinissima (v. p. 550), e riaffiorerà ancora, arricchito dai gelsomini, nel racconto-fantasticheria I due giganti (v. III 266). Gli odori pungenti, mescolati, della salvia e del mentastro sono per eccellenza le fragranze campestri e selvatiche (v. La signora Speranza, n. 53), i profumi penetranti e inebrianti dei gelsomini e delle zagare compongono invece l’incanto olfattivo dei parchi e dei giardini (v. anche Felicità, p. 583) o degli agrumeti (v. La veste lunga, p. 810).

20 L’una di notte.

21 Dapprima, sul momento.

22 In fretta, concitatamente.

23 Giunta appena al quarto verso del grande arioso («Pace, pace, mio Dio; cruda sventura / M’astringe, ahimè, a languir; / Come il dì primo da tant’anni dura / Profondo il mio soffrir»), Mommina, stremata, deve arrestarsi. Ma, a questo punto della sua vicenda, è ormai anche per altre ragioni fatale che Mommina interrompa qui il suo canto che, seguitando, l’avrebbe costretta a rievocare un’altra volta l’amore per don Alvaro (v. viceversa quanto detto alla n. 13).

24 Opera del 1836 di Giacomo Meyerbeer (1791-1864), su libretto di Eugène Scribe.

25 Sporgenti e spalancati, come se stessero per schizzarle dalle orbite.

26 Attonite.

27 Si tratta di una canzone guerriera e antipapista che il vecchio Marcello canta nel primo atto dell’opera.

28 Versi cantati dal coro delle damigelle di Margherita di Valois nella terza scena del secondo atto, che è ambientata negli ameni giardini del castello di Chenonceaux.

29 Rabbuiandosi (V. L’amica delle mogli I 165).

30 Il Trovatore (1853) è fra le opere più celebri di Giuseppe Verdi. Il Miserere è un pezzo corale del quarto atto, anche in questo caso citato non correttamente. Il libretto recita: «Miserere d’un’alma già vicina / Alla partenza che non ha ritorno».

31 I quattro versi costituiscono la ripresa del cantabile di Manrico nell’ultimo atto del Trovatore. La prima volta, il protagonista canta sulle parole seguenti: «Ah, che la morte ognora / È tarda nel venir / A chi desia morir!… / Addio, Leonora!». Stavolta è ben lecito pensare che Mommina, «imprigionata nella più alta casa del paese», si identifichi appieno con l’eroe operistico, il quale lancia il suo addio all’amata dall’interno d’una «torre, ove di Stato / Gemono i prigionieri».

32 V. sopra, alla p. 555, l’immagine speculare del passato. L’enorme Momma, la deforme e oltraggiata Mò trova pateticamente modo, travestendosi come un tempo, di resuscitare la propria giovinezza e di morire, almeno, tornando Mommina nei panni dell’innamorato Manrico.

33 L’urlo di rabbia, il suo avventarsi, il gesto di rimuovere col piede il corpo della moglie dimostrano che il delirio spietato di Rico Verri non si placa neppure di fronte alla morte: nel folle teatro della sua gelosia, Mommina è morta cantando d’amore e tradendolo.

La morta e la viva

1 Fu pubblicata per la prima volta sulla «Rassegna contemporanea» nel novembre del 1910. Nel 1912 venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) e, nel 1928, entrò infine a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad). La novella era stata inviata, come le altre di questo periodo, al «Corriere della Sera», ma la direzione del giornale preferì non pubblicarla e Pirandello, sebbene, come altre volte, non convinto, fece buon viso al rifiuto (v. CAR, pp. 158-9).

2 Piccolo veliero da carico o da pesca.

3 Nel piccolo spazio di mare protetto dal molo.

4 Dardeggiano riflettendo la luce del sole.

5 V. Lontano I 633 e nn. 8 e 9.

6 Agili e veloci unità da guerra armate di siluri (torpedini).

7 Avanzare sull’abbrivio.

8 Estremità superiore dell’albero.

9 Asta orizzontale di sostegno della vela latina.

10 Piccoli battelli a remi.

11 Strabico.

12 La preghiera alla Vergine che si recita al calar della sera.

13 Signora. (V. Il vitalizio, n. 74).

14 Normalmente, la fune che serve a trainare da terra i natanti.

15 Gomena.

16 La motivazione realistica, che disegna una peripezia degna di un romanzo d’avventure di età classica, vuole che Filippa, finita in America su una nave russa, ritorni da laggiù via Genova. Ma non è né da Genova né dall’America, in realtà, che Filippa ritorna; bensì, come altri personaggi, da una landa assai più remota e misteriosa, ossia da «due anni e otto mesi» di pazzia.

17 Cinereo, grigiastro.

18 A pianterreno.

19 V. Sole e ombra I 310.

20 V. La paura del sonno, n. 22.

21 Molti dei compaesani di Nino Mo, ma pare che la direzione del «Corriere della Sera» abbia respinto la novella proprio perché preoccupata che molti lettori gridassero a loro volta allo scandalo dinanzi ad una così semplice e ragionevole storia di bigamia.

22 Il devoto e scrupoloso Nino Mo è in qualche misura il complementare dell’adultero capitano Petella di Richiamo all’obbligo (e Pirandello ha fatto sì che le due novelle si richiamassero reciprocamente collocandole in stretta prossimità nel corpo della raccolta La giara). Oneste e quiete, ed eque, le ragioni di padron Nino, furenti e disoneste, nonché inique, quelle del Petella: ciò non toglie che i comportamenti opposti dei due personaggi conducano in entrambi i casi a situazioni umoristicamente paradossali.

23 Avvocato, legale.

24 Solo apparentemente e presuntamente legittimo.

25 Sultano era il sovrano dell’impero ottomano o un principe sovrano d’uno stato musulmano; al titolo di pascià avevano diritto coloro che ricoprivano una carica altissima nello stato turco; bey era detto il sovrano d’uno stato vassallo dell’impero ottomano. Ciascuno dei tre titoli, in quanto appunto «turco», cioè musulmano, legittimerebbe la poligamia.

Paura d’esser felice

1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Il saltamartino, sulla «Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali» il 31 gennaio 1911. Il 24 maggio 1918 fu ristampata su «Il Messaggero della domenica» e nello stesso anno venne compresa nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves). Infine, con il nuovo titolo, entrò a far parte del nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 La faccia verticale.

3 La superficie orizzontale dello scalino.

4 Storte.

5 La corazza dorsale, il carapace.

6 «Tipo di pavimento costituito da uno strato di terra battuta o di pastina di cemento trattata con apposito attrezzo» (Devoto-Oli).

7 Capire, rendersi conto.

8 V. Notizie del mondo I 584 e nn. 44 e 46; e Al valor civile I 732. Nel luglio del 1915, sotto il titolo La tartaruga, Pirandello ristampò, riscritto con poche variazioni alla prima persona e al presente, su «La Riviera Ligure» l’intero episodio della tartaruga (lo si veda ora in SPSV, pp. 1012-3). La tartarughesca e animale probità consiste nell’equilibrio anestetico con il quale la bestia vive la stretta del paradosso che la schiaccia fra l’assolutezza del desiderio (la coazione a iterare i suoi tentativi di scalare il gradino) e la ripugnanza, ugualmente assoluta, che la spinge a rifuggire dalla soddisfazione dei suoi sforzi. La sua naturale saggezza consiste proprio nella perfetta ignoranza della «paura d’esser felice», ossia della paura del desiderio (soddisfatto) che, risparmiandole il fantasma di qualunque «saltamartino», la mette al riparo dalla necessità di guardarsene.

9 Sentirsi indispettito da, provare dispetto per.

10 Saltamartino è sia il «Nome pop. d’insetti dalle zampe posteriori molto sviluppate che li rendono atti al salto, come il grillo e la cavalletta» (Devoto-Oli), sia il nome d’un giocattolo che il Fanfani, nel suo Vocabolario dell’uso toscano, descrive come segue: «trastullo fanciullesco che si fa con un mezzo guscio di noce forato ai lati nella larghezza dell’orlo: dentro a’ fori si passa un filo incerato e si annoda: vi si rigira poi dentro un fuscellino, il cui capo libero forzatamente si porta a uno dei punti estremi della lunghezza dell’orlo, dove è posta un poco di cera o pece, che vel tiene appiccato qualche momento, dopo di che il fuscello si stacca, e, scattando, fa saltare esso guscio. Su per le fiere si vendono di legno e in forma di ranocchio, ma col medesimo ordigno».

11 Questa metaforica «ventata» proveniva, nella prima stampa della novella, da un refolo di vento molto realistico legato a un preciso ed esemplare episodio della vita del personaggio: «Giuoco feroce, che a Fabio Ferotta si rappresentava in tanti aspetti svariati, ma più specialmente – per la memoria di una sua avventura giovanile – in uno sbuffo di vento. Sicuro. Si era innamorato di una bellissima donna, la quale, poco dopo il suo innamoramento, si era ammalata di una malattia mortale, per cui medici e parenti avevano proibito a tutti di vederla. L’ultima volta ch’egli era stato ammesso in casa, la malata aveva manifestato il desiderio ardentissimo di alcuni fiori, che sarebbe stato difficile, forse impossibile trovare in quella stagione. Ebbene, egli dopo alcuni giorni d’affannose ricerche, a gran stento e senza badare a spesa, quantunque come sempre in ristrettezze finanziarie, era riuscito a trovar quei fiori, e li recava composti in un bel mazzo alla malata, quando, tutt’a un tratto, nell’attraversare una piazza, l’assalto di due furie improvvise: un’automobile, di dietro; una raffica di vento, davanti. Donde era mai venuto, come s’era levato così d’un subito quel vento? Proprio in quell’attimo s’era levato per portargli via il cappello, mentr’egli d’un balzo si scansava per schivar l’automobile. Istintivamente aveva levato le mani per fermare il cappello; il mazzo di fiori gli era caduto; le ruote dell’automobile vi eran passate sopra; e tutta la gente s’era messa a ridere dell’atteggiamento in cui egli era rimasto, col cappello ammaccato tra le mani. Non aveva altra scusa che quei fiori per presentarsi in casa della malata e rivederla per l’ultima volta. Ebbene, sempre così! Una ventata […]» (v. NUAII, p. 1270). È del tutto evidente che, nonostante la sua funzione esemplarmente motivante, il bizzarro episodio sfiora la gratuità, e Pirandello non esitò a cassarlo.

12 Questa è, in effetti, la regola aurea e ferrea, tutta passiva e negativa, dei più tetragoni e tragici personaggi pirandelliani: non aver paura, in sostanza, di non essere felici. S’è già avuto occasione di notare come la speranza, l’illusione e soprattutto il desiderio siano ineluttabilmente gravati d’una marca negativa e infausta. Dare seguito alle pulsioni che questi moti istintivi suscitano è per un verso temerario come prestare ascolto al canto delle sirene, per altro verso colpevole come cedere alle tentazioni. Fabio Feroni è vissuto a un passo dal rispetto pieno della regola di totale ascesi e di stoica remissione che la ragione gli ha fatto intravvedere, ma bastano le sue minimali infrazioni o renitenze (dovute all’irresistibilità delle pulsioni vitali) a farne un catecumeno cui è negato l’ingresso nel tempio della assoluta rinuncia e che perciò resta esposto ai trabocchetti della vita, per guardarsi dai quali precipiterà nella follia ossessiva. La nichilistica considerazione riecheggerà nei vv. 5-6 di un breve componimento annotato nell’ultimo taccuino: «Vivi, poiché non ne puoi fare a meno. / La vita è questa. E tutto è come può, / e come deve; e non sta a noi che sia. / Il voler nostro è sol quel poco anch’esso / ch’esser può, ch’esser deve: e non volere / nulla è forse miglior consiglio. Nulla / cangia. La vita è sempre questa, e ancora / la stanca terra non può farne a meno» (v. TS, p. 17).

13 Sfiducia (v. La giara, p. 423).

14 Nascosta, dissimulata.

15 Mirabilmente descritto, il meccanismo psicologico non ancora malato ma già viziato cui il personaggio ricorre è quello dell’autoinganno e della finzione con se stesso, attraverso il quale passa, mistificata, un’autonegazione che oggettivizza ed estrania gli atti mancati e le frustrazioni come eventi del tutto spiegabili cui l’io non è interessato. È questa la prima forma di autoterapia di difesa contro il «saltamartino».

16 L’asserzione del contrario è già una fase successiva, e ossessiva, del processo patogeno. Ma non si dimentichi quanto il protagonista dirà nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «Avete voi riso della favola della volpe e dell’uva? Io no, mai. Perché nessuna saggezza m’è apparsa più saggia di questa, che insegna a guarir d’ogni voglia, disprezzandola» (v. RII, p. 716).

17 La mania persecutoria dilaga, e le «stravaganti superstizioni» (v. p. 574) sono ormai trabordate in una infilzata di rituali fobici e ossessivi diretti a schivare gli agguati del «saltamartino».

18 Si coprivano d’un velo vitreo di lacrime. V. La levata del sole, n. 10.

19 Scivolare, sdrucciolare (arcaismo desueto, da mucciare, “sgusciare”, rafforzato con s- durativa).

20 Il seme della canapa, usato come mangime.

21 Il delirio persecutorio ha la meglio su tutte le precauzioni e le difese ed esplode in tutta la sua devastante portata, sebbene la verbalizzazione di esso assuma non la forma grave della tragedia della follia, ma quella umoristica della caccia all’insidia del caso entro le tazzine da caffé.

22 Spiccar salti (v. Notizie del mondo, n. 36).

23 È infine la possessione psicotica, la logica circolare della pazzia che si richiude su se stessa introiettando il proprio stesso fantasma ossidionale. Perduto ogni contatto con la realtà, Fabio Feroni non ha più nulla da cui guardarsi fuori di sé né alcuna ragione, ormai, d’aver paura d’essere felice.

Felicità

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 26 aprile 1911. L’anno dopo venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912). Entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Istupidita (v. La mosca, n. 40).

3 Cittadina dell’entroterra siciliano, in provincia di Enna.

4 V. Lillina e Mita, n. 40.

5 Aridità. V. Un cavallo nella luna, n. 10 e, per analogia contrastiva, Ignare, p. 786.

6 Conquistato, sedotto (propriamente, “catturato col vischio”).

7 Titolo distintivo dei «gentiluomini di camera» della corte borbonica. Ne Il fu Mattia Pascal se ne fregiava il marchese don Ignazio Giglio d’Auletta, un altro lealista sopravvissuto alla storia (v. RI, p. 535).

8 Strada che attraversa il centro di Palermo.

9 Parco palermitano. V. Il viaggio, n. 39.

10 Separandole e dislocandole nel corpo di due raccolte non prossime e tematicamente diverse, Pirandello ha occultato la vicinanza cronologica e la curiosa parentela per opposizione che lega Paura d’esser felice e Felicità. Ma i due testi, che immediatamente si susseguono nell’ordine delle prime stampe, sono, nonostante l’inconfrontabilità delle ambientazioni, della trama, dei protagonisti, del registro narrativo, in qualche misura una proposizione e una risposta in contrappunto su una linea tematica analoga. L’una indaga la paura filosofica d’essere felici e l’ingorgo patologico in cui la logica simmetrica paura-desiderio può sprofondare l’individuo; l’altra descrive la parabola d’una voglia soggettiva e solitaria di felicità (quella femminile connessa alla maternità) che non si fa arrestare da alcuna paura e da alcun prezzo, per pesante e umiliante che possa essere. Nessun artificio e nessuno stratagemma è in grado di arrestare la spirale psicotica in cui si avvita il terrore della felicità raggiunta, e nessun sacrificio, nessuna privazione, nessun oltraggio è viceversa capace di appannare lo specchio terso della felicità materna, voluta e ottenuta a dispetto di ogni possibile sommissione e rispetto alla quale tutto il resto è sfondo residuale insignificante.

11 Tornato a Palermo per riposare, proprio lì accanto era andato ad abitare, ne L’esclusa, Gregorio Alvignani: «Trovò pochi giorni dopo l’arrivo a Palermo, la casa che in quel momento gli conveniva meglio, in una via deserta, fuori Porta Nuova: in via Cuba, lontana dal centro della città, quasi in campagna» (v. RI, pp. 146-7).

Zafferanetta

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 27 maggio 1911. L’anno dopo venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912). Entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Centro sull’estuario del grande fiume.

3 Bastimento a vapore (dall’inglese steam, “vapore”).

4 Località (come la precedente Mesània) del profondo interno congolese.

5 Giocata per intero sullo spaesamento, sull’alterità e sulle alterazioni che l’alterità spaesata produce nelle relazioni, lo scompiglio, la confusione e la storpiatura delle lingue e dei segni sono un veicolo costante e privilegiato del viluppo tematico fondante.

6 Il corpo di volontari che prese parte, nel 1897, alla guerra greco-turca (v. Le medaglie, n. 10).

7 I Boeri (dall’olandese boer, “contadino”) sono gli antichi coloni europei insediatisi fin dal ’600 in Sudafrica. Con una breve ma aspra guerra (1899-1901), l’Inghilterra ottenne di annettere ai propri già vasti dominî africani le repubbliche boere dell’Orange e del Transvaal.

8 La conferenza di Berlino del 1885 aveva riconosciuto l’esistenza di uno Stato libero del Congo. Un escamotage politico-diplomatico permise che della corona di esso si fregiasse il re del Belgio Leopoldo II a titolo esclusivamente personale, e non come sovrano belga. È nel 1908 che il Congo diventa una colonia del Belgio.

9 V. «Leonora, addio!», n. 2.

10 V. Benedizione, n. 6. Nella frazione di Stravignano, a 5 chilometri da Nocera (e nella quale era ambientata la novella Benedizione), si trovano alcune sorgenti di acqua minerale.

11 Sventato, inaffidabile.

12 Tutte e tre le stampe della novella precedenti la mondadoriana del 1938 recitano: «come in un turbine». E, per l’uso della medesima espressione, v. Il lume dell’altra casa, p. 447: «La passione d’amore […] investì, schiantò, travolse come in un turbine quella donna». La variante postuma d’autore è dunque, quasi certamente, un refuso da sanare.

13 Regione laziale il cui capoluogo è la città di Rieti.

14 Per un analogo gesto, v. «Leonora, addio!», p. 559.

15 Pampino, tralcio (la forma femminile è un toscanismo).

16 “Uomo bianco” nella lingua congolese (v. poco oltre: molenghe ti bungiu, “figli dei bianchi”).

17 I quattro settenari provengono dall’ultima aria di Faust (Giunto sul passo estremo) nell’epilogo del Mefistofele (1875) di Arrigo Boito.

18 Questi due versi provengono viceversa dal cullante motivo che Azucena intona «tra il sonno e la veglia» nell’ultimo atto del Trovatore di Giuseppe Verdi.

19 Divano (v. La signorina, n. 32).

20 Lo strato di foglie secche e stecchi che si deposita sotto gli alberi.

21 «Punto d’ornato formato di due punti obliqui che passano l’uno attraverso l’altro incrociandosi nel mezzo» (Devoto-Oli).

22 Nella sconclusionatezza indecifrabile delle memorie africane riaffioranti a lampi, anche la voce congolese «mokungi» rimane, come il resto, inspiegata e misteriosa.

23 «Variante di ‘mommo’, il bere dei bambini [dalla serie onomatopeica b… m…, propria dei movimenti della bocca, incr. con bere]» (Devoto-Oli).

24 Voce infantile per indicare “male”, “dolore”.

25 Gli stigmi del fiore di zafferano, giallo-rossi quando sono freschi, assumono da secchi una colorazione più scura.

26 Folti e crespi. V. Lo storno e l’Angelo Centuno, n. 27.

27 Lanosi, gonfi.

28 Staccarla. Ma il termine figurato pirandelliano (come il precedente avviticchiate), richiamando i viticci o cirri con cui la vite e altre piante si avvolgono intorno a sostegni o fili, suona assai più pregnante.

29 Applicati artificialmente, posticci, innaturali.

30 Contratte, irrigidite dallo spasimo.

31 Babbo, papà.

32 Rivoltare violentemente.

33 Color rame. Ma anche il ramata entra, insieme a metallici, ebano, cera dipinta, macchinale, a comporre, nell’ottica estranea e piena di raccapriccio con cui Norina guarda al «mostriciattolo» africano, un’impressione di non vero e di non vivo (come poco oltre sarà confermato). La povera Titti è talmente altra e spaesata da oscillare, agli occhi della futura matrigna, fra la degradazione dell’animalesco (la scimmietta) e l’orrore dell’inanimato (bambola o automa).

34 Faceva effetto.

35 Il nomignolo con cui viene chiamata Titti è complementare ai vezzeggiativi africaneggianti coi quali Sirio chiama la madre, la moglie e il cugino. L’uno e gli altri non solo alterano i nomi propri, ma di fatto li sostituiscono con etichette che conclamano l’alterità e obliterano l’identità. Zafferanetta è una Titti rinnegata e ridotta a «pupattola ramata», ma (all’insaputa dell’esuberante Sirio) anche Nianò ed Elinanò sono una Norina ripudiata nell’atto stesso di appellarla alla congolese e ben prima che un vero ripudio le tocchi per essersi mostrata sorda al richiamo del Congo.

36 Il passo dispiega, a confronto, i paradigmi dell’identità (reale, comune, presente) e dell’alterità (finto, non vero, diverso, lontano). V. sopra la n. 33.

37 Offrì di provarsi a.

38 Studio.

39 L’explicit – una partenza senza ritorno – suona fatale e quasi canonico eppure è, tutto sommato, un falso finale, un movimento che tronca una storia anziché concluderla. È soltanto l’esclusività che si richiude su se stessa, è la sanzione dell’intransitività delle relazioni vitali e amorose primarie, è il trionfo dell’irriducibile e repulsiva alterità. Non c’è colpa né malvagità nei protagonisti, vittime tutti quanti di una vicenda impossibile. L’arrivo di Titti è lo svelamento epifanico dell’impossibile, il male innominabile di cui la bimba muore (o rischia di morire) è la conferma di quella esiziale impossibilità. L’estroso ulisside Sirio s’è provato a forzarla con un atto vitalistico di hybris, ma deve infine arrendersi. Di quel divieto sventatamente infranto e di una storia che non poteva felicemente avverarsi restano le separate macerie: un padre vedovo con una figlietta orfana e una madre vedova con un orfano in grembo.

L’uomo solo

1 Fu pubblicata il 9 luglio 1911 sul «Corriere della Sera»; fu poi raccolta nel volume del 1915 La trappola (Milano, Treves). Venne infine inclusa, come novella d’apertura, nel quarto e omonimo volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

Il titolo, pur così emblematico per Pirandello, è in parte ingannevole in rapporto alla vicenda che sta per essere raccontata. La condizione dell’«uomo solo» è infatti una dimensione simbolica ed estrema che caratterizza i più singolari e straordinari personaggi pirandelliani, quelli che alla solitudine pervengono per via di conquista e pagando il prezzo di una Bildung soggettiva ardua e riservata a pochi. Qui, viceversa, la solitudine è quella pateticamente connotata a p. 595: «Ciascuno, […] pensando alla propria casa senza donna, vuota, squallida, muta, compreso da una profonda amarezza, sospirava». Ne consegue il timbro narrazionale che contrassegna l’intera novella, quello di un’ottica penetrante e disvelante che solo per il rovescio di uno spietato denudamento circonda di pietà la storia di quattro inconsolabili solitudini. E l’oggetto del racconto, il tormento della privazione, è qualcosa di così fisico, corporale e viscerale, di così irriflesso, che in un simile clima anche il minimo scarto umoristico risulta inabilitato a prodursi, come se la carne torturata e gemente di cui si narra non potesse sopportare il bruciore supplementare del sentimento del contrario.

2 Una delle più celebri strade romane, che sale da piazza Barberini verso Porta Pinciana e Villa Borghese.

3 La convivente separatezza di padre e figlio è una delle tracce più dolorose e toccanti della vicenda, e toccherà un culmine straziante nel capoverso irreparabilmente disgiuntivo di p. 600 («E lo respinse da sé» ecc.).

4 In uno dei foglietti di appunti pirandelliani si legge: «Il vedovo, lo scapolo, il tradito dalla moglie. Questo, nel caffè, accanito a strapparsi alcuni peli dal naso, che lo fanno lacrimare e starnutare. Passano coppie di sposi. Passano donne sole. Quello che dice il vedovo, quello che dice il tradito, quello che dice lo scapolo» (v. SPSV, p. 1214). E pare inequivocabilmente l’annotazione dello spunto su cui sarà sviluppata la novella.

5 Strabici.

6 Birra (designata per metonimia col nome di una delle marche più note e di una delle più tradizionali località di produzione della bevanda).

7 V. La signorina, n. 24. Oltrepassata Porta Pinciana, la via Veneto del capoverso incipitale praticamente immette nel parco.

8 Regolare e ben curato.

9 Soffocata, oppressa.

10 Impomatarsi.

11 Trasandato (Dal naso al cielo, p. 304 e n. 11).

12 V. Dal naso al cielo, n. 10.

13 È la prima, limpida versione borghese della sequenza tradimento noto e tacitotolleranzacoazione ad accorgersireazione, che starà al fondo de La verità, di Certi obblighi e infine de Il berretto a sonagli.

14 Viziava, avvezzava male.

15 Quella di Mariano Groa sembra proprio una delle «innombrables légendes de l’amour trompé, du dévouement méconnu, des efforts non récompensés» [innumerevoli leggende dell’amore ingannato, della devozione misconosciuta, degli sforzi senza ricompensa»], alle quali allude Baudelaire ne Les veuves, una delle prose dello Spleen de Paris (v. Ch. BAUDELAIRE, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1961, pp. 244-7). E il narratore di questa novella sembra rappresentare bene l’«oeil expérimenté» del poeta-filosofo che non s’inganna nel decifrare per tanti piccoli tratti il segreto delle sofferenze altrui.

16 Riconoscibilissima ripresa, in chiave risentitamente patetica, del conflitto tra anima e corpo che s’è visto declinato, su altro registro, sia in Acqua amara, p. 117 (v. la relativa n. 34), che in Scialle nero I 1025, che in Quand’ero matto I 768 (e v. la n. 26). Da Acqua amara proviene presumibilmente, per analogia, anche l’avvilente metafora suina. Ma appunto il confronto tra Bernardo Cambiè, guarito e umorista, e l’inguaribile Mariano Groa, consente di misurare l’inconciliabile distanza che separa, nel corpus pirandelliano, i destini di coloro che alle aggrovigliate distrette della vita e delle pulsioni vitali riescono a sottrarsi per la via della solitaria riflessione e della umoristica consolatio philosophiae, e quelli di chi, avvelenato dal troppo amore per la vita, si macera nel desiderio, nel rimpianto, nel tormento della privazione senza che né il tradimento, né il disprezzo, né il pudore oltraggiato valgano, nonché a guarirli, neppure ad alleviarne le pene. La distanza che separa coloro cui riesce di spogliarsi del proprio corpo, o di staccarsene, e di farsi tutti anima, da coloro il cui corpo e il cui sesso continuano invece a reclamare i propri diritti anche contro la tenerezza del loro cuore «semplice, di bambino». Per Bernardo Cambiè è possibile, nonostante l’esuberanza corporea, sublimarsi nella vergine inglesina che è la sua anima; Mariano Groa non troverà altro modo di tacitare gli insostenibili desideri del suo «corpaccio da maiale» che dandosi furiosamente la morte.

17 Coperti da un velo vitreo di lacrime; v. La levata del sole, n. 10.

18 Risplendesse, brillasse.

19 Nella novella del 1934 C’è qualcuno che ride III 565 si leggerà: «e che peccato questa pallida rosa già disfatta che serba nelle foglie cadute un morente odore di carne incipriata».

20 Sconvolto e agitatissimo.

21 Guardò fisso.

22 È un semplice percorso che conduce al Tevere attraverso il centro di Roma.

La patente

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 agosto 1911. Nel 1915 venne compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Sullo scorcio del 1917 o nelle prime settimane del 1918, Pirandello ricavò dalla novella un atto unico, che venne stampato sulla «Rivista d’Italia», come «novella sceneggiata», il 31 gennaio 1918; e che andò in scena nella versione dialettale, protagonista Angelo Musco, al Teatro Alfieri di Torino il 23 marzo di quello stesso anno.

2 Folti (v. Lo storno e l’Angelo Centuno, n. 27).

3 Senza più nome, il curioso personaggio riapparirà, ancora nei panni di giudice, in Uno, nessuno e centomila: «Aveva della talpa, con quelle due manine sempre alzate vicino alla bocca, e i piccoli occhi plumbei quasi senza vista, socchiusi; scontorto in tutta la magra personcina mal vestita, con una spalla più alta dell’altra. Per via, andava di traverso, come i cani; benché poi tutti dicessero che, moralmente, nessuno sapeva rigare più diritto di lui» (v. RII, p. 897).

4 Si rammenti il finale di Dal naso al cielo (p. 313): «Dall’alto delle corone di quegli ippocastani pendeva un esilissimo filo di ragno, che s’era fissato su la punta del naso del piccolo senatore. / Di quel filo non si vedeva la fine. / E dal naso del piccolo senatore un ragnetto quasi invisibile, che sembrava uscito di tra i peluzzi delle narici, viaggiava ignaro, su su, per quel filo che pareva si perdesse nel cielo».

5 La certezza negativa del giudice D’Andrea corrisponde al postulato aureo della saggezza socratica: sapere di non saper nulla.

6 Raffreddore.

7 «Magistrato al quale, nel procedimento giudiziario, è affidata la fase diretta alla determinazione della materia del contendere e delle ragioni addotte dalle parti e alla raccolta degli elementi di convinzione utili alla decisione» (Devoto-Oli).

8 Sonnecchiare.

9 Rattrappendosi.

10 Diventato frate. E frate si dice normalmente «il baco da seta che, non trasferito tempestivamente al bosco, fa il bozzolo sulla stuoia» (Devoto-Oli).

11 Scrollata (qui involontaria, nel sonno).

12 I tradizionali amuleti che i superstiziosi portano addosso contro la iettatura.

13 Bizzarro, stupefacente (v. anche La casa del Granella, p. 96).

14 D’essere beneficati.

15 Color grigio topo.

16 Scartò bruscamente.

17 Il bastone di bambù.

18 Corrucciato.

19 Confuso per lo stupore, attonito.

20 Irrefutabili.

20 Impiegato addetto alla stesura e trascrizione di atti.

21 Abbigliato.

22 Edifici in costruzione.

23 Bersaglio di una imperscrutabile iettatura atavico-etnologica, il pensatore socratico dalla dirittura morale inflessibile, giudice per forza che da sé non aveva trovato modo alcuno di evitare la sanzione anche giudiziaria, e beffarda, dell’iniquità di cui già la società aveva reso vittima un poveruomo, abbraccia fraternamente lo iettatore presunto e sofista per forza, che ha scoperto la via del callido e disperato paralogismo per ritorcere contro la società persecutrice la sua stessa sanzione punitiva.

24 Nel corpus, la società e la giustizia che ne emana vengono senza eccezioni rappresentate come macchine che privilegiano e premiano i ricchi e i prepotenti e puniscono viceversa gli inermi e i poveri. A questi ultimi non rimane altra risorsa per difendersi che quella di diventare interpreti straordinariamente acuti e smaliziati delle norme sociali come di quelle giudiziarie, interpreti così sottili da costringere la giustizia, e la società che se ne serve, a rispettare con implacabile rigore e senza transazioni di sorta la loro stessa logica. E a pagar dazio se in quella logica c’è contraddizione. Delle due l’una: o la mala fama di Chiàrchiaro deve venire smentita e risarcita da una condanna per diffamazione dei denigratori che gliel’hanno gettata addosso, oppure un prezzo va pagato affinché Rosario Chiàrchiaro si astenga dall’esercitare il suo potere iettatorio conclamato. Purtroppo, e naturalmente, la genialità giurisprudenziale di Chiàrchiaro (come più tardi quella di Quaquèo in Certi obblighi e di Ciampa nella commedia Il berretto a sonagli) non si traduce mai in una vera rivalsa sociale e non produce veri risarcimenti. Solo con le parole Chiàrchiaro rovescia come un guanto la realtà mostrando come suoni falso il tintinnio innocuo di gobbetti d’argento e cornetti di corallo in presenza d’un uomo gettato sul lastrico, di una moglie paralitica e dello zitellaggio coatto di due figlie. L’unica vittoria vera resta quella, tutta narrativa, del disvelamento umoristico nei confronti della mistificante, e al fondo giustificazionistica, aderenza realistica.