1 Seconda novella del trittico sottointitolato Tonache di Montelusa, fu pubblicata per la prima volta sulla «Rassegna contemporanea» nell’agosto del 1911. Nel 1915 venne compresa (insieme alle altre due, Difesa del Mèola e Visto che non piove, e sotto il titolo complessivo sopra citato di Tonache di Montelusa) nella raccolta Erba del nostro orto (Milano, Studio Editoriale Lombardo), che l’editore milanese Facchi ristampò nel 1919. Entrò infine a far parte del primo volume delle «novelle per un anno», Scialle nero (Firenze, Bemporad, 1922).
2 Colui che occupa il più alto dei trentatré gradi gerarchici nella massoneria di rito scozzese antico.
3 V. Il marito di mia moglie, n. 13.
4 V. Difesa del Mèola, p. 409.
5 Appiccicosa.
6 Di traverso.
7 Senza aver fatto testamento.
8 Gonfiavano di noia stizzita (v. Acqua amara, p. 116).
9 V. Sua Maestà I 909 e n. 34. Nel silenzio della visita di condoglianza, ci si aspetterebbe piuttosto irritantissimo. E invece, anche qui, la grottesca curvatura metaforico-metonimica trasferisce e sfoga nelle scarpe la stizza di cui frigge il barone.
10 Di pelle laccata.
11 Adesso (è variante regionale che proviene per apocope dall’avverbio latino modo, di uguale significato).
12 Sottinteso: per cento.
13 Propriamente, “soffiare”. Al figurato: avvampare alte, come spinte dal vento.
14 Relativi a cambiali.
15 Dilazioni di pagamento.
16 Smettevano, cessavano.
17 Il nome è antico e culto. E infatti oblato (nome derivato dal participio del verbo latino offero e che significa appunto “offerto”, “consacrato”) si chiamava, nel Medioevo, la «persona consacrata a Dio sin dall’infanzia, per offerta (oblatio) dei genitori a una chiesa o a un convento, con atto paragonabile a quello della dedizione in servitù» (Devoto-Oli). Ma quel nome suona quasi schernevole nel momento in cui la realtà che designa, vagamente carceraria, non sottintende più alcuna oblazione ma solo la derelizione di orfani e bastardi.
18 Fabbricato, edificio.
19 Un po’ sporgenti.V. Tra due ombre, n. 5).
20 Questo tratto della fisionomia di monsignor Landolina verrà ereditato nel 1913 da monsignor Montoro, vescovo di Girgenti ne I vecchi e i giovani (v. RII, pp. 111 e 460), e nel 1926 dal canonico Sclepis di Richieri, anch’egli rettore del Collegio degli Oblati, in Uno, nessuno e centomila (v. RII, p. 886).
21 Saliva.
22 Cilicio, cintura di penitenza.
23 Questo paragrafo della novella, dal principio e fino a questo punto, verrà puntualmente ripreso in Uno, nessuno e centomila (v. RII, pp. 885-6), dove sarà però don Antonio Sclepis (il vecchio segretario del vescovo di Difesa del Mèola (p. 406) a occupare il posto di monsignor Landolina. E il travaso non porrà problemi, poiché quello che è qui il tormento di don Arturo Filomarino sarà nel romanzo il tarlo di Vitangelo Moscarda, erede anch’egli delle fortune usurarie del padre.
24 Fremito.
25 Nel corpus pirandelliano, uno zelo generoso di pietà e di carità si ritrova solamente in fanciulli devoti e candidi o nelle rare bizzarre figure di santi-matti. Viceversa la pietà e la carità, e la stessa fede, non sono mai generose e fino in fondo persuasive nei personaggi che vestono un abito sacerdotale. Quello di monsignor Landolina è l’esempio estremo, e mirabile, della spietatezza e della gelidità disumane di cui anche l’opera pietosa e caritatevole si ammanta quando obbedisce ad una fede disincarnata e avara, tutta punitiva e penitenziale. In questa figura bianca e diafana di prete non c’è traccia di candore, e la sua incorporea lievità che fila «tra le labbra bianche que’ suoi grumetti di biascia» è destinata a suscitare solo fremiti di orrore e di ribrezzo. Se il povero don Arturo si sentiva scottato come dalle fiamme dell’inferno dall’usura paterna, ben ghiacciata è l’aria del paradiso che spira dallo zelo implacato di monsignor Landolina «esattore di Dio» (v. Padron Dio, n. 5).
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 2 ottobre 1911. L’anno seguente venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912) ed entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Ulteriore travestimento narrativo di Porto Empedocle.
3 Nello scritto intitolato Presentazione, e pubblicato nel febbraio del 1909 su «La preparazione», Pirandello discorreva umoristicamente del terremoto che aveva da poco distrutto Messina e Reggio Calabria, della retorica e dello snobismo che avrebbero persuaso a ricostruirle nei medesimi luoghi sebbene fossero zone sismiche, e del silenzio del buon senso. E a questo proposito scriveva: «Ma forse il nostro buon senso se n’è stato zitto perché la sa più lunga di tutti: sa che una città, un villaggio non si fabbricano, dove si vuole; ma nascono quasi da sé dove urge la vita. O come si spiegherebbero allora certi paesi situati pazzescamente, all’orlo d’un precipizio, o in gole buje, o in un terreno paludoso che li appesta? Lì urge, stramba o triste, la vita. E a fabbricare altrove Reggio e Messina ci sarebbe il rischio di veder le case avviarsi in processione strette agli scialli dei loro intonachi e sotto il cappello dei loro tetti, al posto di prima, dove la vita le chiama e le vuole, a dispetto della morte che si diverte a buttarle giù» (v. SPSV, p. 1024).
4 Per una analoga caratterizzazione d’ambiente, v. L’altro figlio, pp. 21-2.
5 Presi nelle loro brighe.
6 Abbrutiti.
7 Rese furiose come cani idrofobi.
8 Farsi una posizione, sistemarsi.
9 Il metro rigido su cui si misurano i tessuti. V. Il vitalizio, n. 24.
10 Compenso dovuto alle balie (v. Va bene, n. 23).
11 Sonnecchiando.
12 Fiutando.
13 V. Mondo di carta, p. 418 e n. 18.
14 Ce la.
15 Dignità di vacca, dunque. Ma la greve metafora non ha valore spregiativo e oltraggioso: intende solo crudamente esprimere l’oggettiva degradazione del livello di vita e di coscienza delle miserabili donne di Nisia.
16 Sotto specie di, col pretesto di una.
17 Incrostati di brago. V. L’altro figlio, p. 22.
18 V. L’altro figlio, p. 22: «Per la strada intanfata di fumo e di stalla ruzzavano ragazzi cotti dal sole, alcuni ignudi nati, altri con la sola camicina, a brendoli, sudicia; e le galline razzolavano, e grugnivano, soffiando col grifo tra la spazzatura, i porcellini cretacei».
19 «Arnese fatto ad arco, di vimini o di legno, che si colloca nei lettucci o nelle culle dei bimbi appena nati, sotto le coltri, per impedire che queste li soffochino; trespolo» (GDLI).
20 Lattante, neonato. Nutrico è voce strettamente regionale, «dal sicil. nutricu, deverb. da nutricari, ‘allevare, nutrire’» (GDLI).
21 Fatte, deposte (v. Benedizione, n. 10).
22 Chioccia.
23 Afferrare, impedire che cada.
24 Smorfie.
25 Dilazione.
26 In disordine, spettinata. V. Pallino e Mimì, n. 42.
27 E il ciclo si riapre, la giostra dell’avidità e della fame riprende a girare. Tra le tante novelle siciliane, è questa una delle più capuanianamente «paesane». La trama narrativa esilissima tessuta intorno a Rosa Marenga e al mercato dei libretti rossi, resta ancillare rispetto alla pittura del quadro d’ambiente preannunciato dall’incipit sulla nascita e la crescita di Nisia. E anche le striature umoristiche, immesse in una tavolozza cruda, e crudele, quasi naturalistica, stentano ad alleggerire le tonalità cupe e fosche. Gli interventi allocutivi della voce narrante aggiungono d’altronde un ulteriore registro al testo senza peraltro giovare alla fusione del tutto. Il racconto non va oltre lo stato di uno studio a più strati.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 19 ottobre 1911. Nel 1915 venne ristampata in testa alla raccolta La trappola (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Nella stampa in raccolta del 1915, la novella era stata sottotitolata (a modo di prefazione).
2 Sciascia annota al proposito: «Erano, nei paesi, il giorno e le ore delle udienze della cosiddetta Conciliazione, in cui un giudice di nomina, non di professione, risolveva le piccole controversie. Quel giorno e quelle ore Pirandello, forse inavvertitamente balenandogli la parola “conciliazione”, e il senso, li adotta per dare udienza ai suoi personaggi: per conciliarli, nell’arte, a se stessi: con giustizia spietata e insieme con grande misericordia» (v. L. SCIASCIA, Alfabeto pirandelliano, Milano, Adelphi, 1989, p. 83).
3 Straordinariamente bizzarri.
4 I quattro capoversi incipitali, con la sceneggiatura dell’attività autorale creativa in forma di udienza, sono palesemente una libera riscrittura dell’identico movimento d’apertura della novelletta-saggio del 1906, Personaggi (v. p. 235).
5 Si adombri (v. La casa del Granella, n. 7).
6 V. Personaggi, p. 236: «Vorrebbero essere tutti belli, i miei signori personaggi, e moralmente inammendabili».
7 La considerazione sarà ripresa alla lettera da Angelo Baldovino, protagonista della commedia del 1917 Il piacere dell’onestà: «Volerci in un modo o in un altro, signor marchese, è presto fatto: tutto sta, poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Non siamo soli! – Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. – Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione» (v. MN1, p. 571). La bestia non è presente nella novella, ma il fantasma di essa è evocato, nel capoverso precedente, dalla trittologia verbale dell’ostinazione bestiale («aombri e s’impunti e recalcitri furiosamente»). Per l’ambito tematico sollevato dalla contraddizione essere/voler essere, v. anche Non è una cosa seria, nn. 3 e 4.
8 Diffondendo la voce. V. Il nido, n. 15.
9 Già in Personaggi (v. p. 236) si leggeva: «Ah che canaglia! dopo che io ho dato loro il mio sangue, la mia vita, e ho sentito come miei i loro dolori, le loro sventure, – sissignori! – appena usciti dal mio studio, vanno dicendo per il mondo che io sono uno scrittore beffardo, che invece di far piangere la gente su le loro miserie la faccio ridere, ecc. ecc.».
10 V. pp. 474-85.
11 V. Personaggi, p. 235: «Voi avete la fortuna, signori miei, d’esser ombre vane».
12 Il dottor Fileno, qui presentato come personaggio di un lungo romanzo altrui, dunque come un fantasma proveniente non dalla fantasia inventiva ma dalla lettura, è una maschera narrativa dal passato singolarmente ambiguo e complesso. Mentre non è legato da alcuna parentela con Leandro Scoto, il dottore in scienze fisiche e matematiche di Personaggi, ha già circolato nel corpus prosastico pirandelliano, fregiandosi del medesimo titolo di «dottore» ma sotto altro nome o, meglio, sotto lo pseudonimo di Paulo Post. Materialmente pseudonimico è il suo atto di nascita, poiché, a firma Paulo Post, Pirandello aveva stampato nell’ormai lontano 1896 (il 9 e il 18 marzo), sulla rivista «La Critica» diretta da Gino Monaldi, due articoletti: Una spazzola! e I filatori (v. SPSV, pp. 1019-22). A quell’altezza era l’elzevirista Pirandello che si compiaceva di spingere umoristicamente lo sguardo avanti e indietro nel tempo sotto il nome avverbiale, e non dottorale, latino di Poco Dopo. Ma nel 1909 egli pubblica su «La preparazione» un trittico di brevi scritti (Presentazione, Feminismo e Ricomincio a veder l’Europa) sovraintitolato Da lontano (v. SPSV, pp. 1023-34), e Paulo Post nasce per la seconda volta, come pseudonimo del dottore-personaggio oggetto della presentazione, ma figura la cui schiva riservatezza diffida dallo svelarne l’identità. Nella prima delle tre prosette, colui che scrive o, meglio, colui che parla per iscritto in prima persona, deliberatamente favorendo presso il lettore la confusione tra la voce sua e quella di Pirandello (autore sottoscritto), mentre finge di lodare il tempo presente («oggi come oggi, tutto va bene»), dichiara di temerne le tendenze massificanti e collettivizzanti e di sentirsi di scommettere solo sull’uno, e non sul numero, come eventuale salvatore nel caso che «domani, scoppiando una guerra, ci trovassimo assai male e, durando questa pace, fors’anche peggio». Constatata d’altronde l’assenza di grandi capitani e di grandi statisti, «abbiamo bisogno», dice lo scrivente, «di uno che almeno insegni a guardare le cose da un certo lato, che ci nasconda o ci attenui le asprezze disgustose e ci insegni a lamentarci con tristezza decente e con qualche dignità». E continua: «Ebbene, quest’uno ho trovato io. Oggi ve lo presento; ma vi chiedo licenza di non nominarlo. So che egli non legge e forse non ha letto mai in vita sua giornali; so che da anni e anni non esce più di casa, appartato come un eremita tra i suoi libri di storia e di filosofia; ma se venisse a sapere, per una combinazione qualsiasi, che io ho messo fuori il suo nome, se n’avrebbe tanto a male, che mi priverebbe subito della sua vista e de’ suoi lumi, schivo com’egli è, non dico modesto, e serio. Per dargli un nome, lo chiameremo, se non vi dispiace, il Dottor Paulo Post» (v. SPSV, p. 1025). A questo punto il complicato gioco delle maschere letterarie è quasi fatto e la prosa del 1909 ci mette direttamente sulle tracce del dottor Fileno, che uno scrittore di scarso talento e pochi scrupoli ha infilato in un romanzo tradendone lo scontroso riserbo senza neppure capirne la grandezza.
13 Il povero dottor Fileno ha perduto i caratteri soterici che due anni prima l’elzevirista ironico de «La preparazione» aveva creduto di poter riconoscere al dottor Paulo Post, ma questo nulla toglie alla testuale dimostrazione che i due dottori del lontano sono un personaggio solo. Di seguito a quanto riportato nella nota precedente, di Paulo Post si leggeva infatti: «A chi legge ogni mattina od ogni sera il giornale e va appresso a tutte le notizie minute che il telegrafo e il telefono diffondono da ogni punto del globo; notizie spesso inutili, di rado liete; a chi in somma affoga nella cronaca, mi figuro che debba far piacere il vedersi a quando a quando sollevato nella storia attraverso la cronaca stessa trasformata, concentrata, semplificata, o meglio, idealizzata nei suoi caratteri essenziali, mondata di tutte le scorie pigre e disutili, spoglia di tutte le contingenze senza valore, di tutti i particolari ovvii, comuni, caduchi, di tutti i miseri ostacoli quotidiani, che ce la fanno parer triste e greve, ingombrante, oppressiva e disgustosa: veder in altri termini la cronaca fatta storia; tutte le miserie, grosse e piccine, che ci affliggono, tutte le doglie, tutte le noje, i pericoli che ci sovrastano, i bisogni che ci dan pensiero, le cure che ci angustiano, in somma tutta la vita nostra d’oggi vederla allontanata nel tempo, pur restandoci dentro, sprofondata nel passato, pur restando attorno a noi, con noi e in noi presente. / Questo è il metodo del dottor Paulo Post. E con questo metodo egli è guarito di tutti i suoi mali, si è liberato da ogni pena e ha trovato, senza bisogno di morire, la pace: una pace austera e serena, soffusa di quella certa mestizia senza rimpianto, che serberebbero ancora i cimiteri su la terra, anche quando tutti gli uomini vi fossero morti. / Il dottor Paulo Post legge da mane a sera libri di storia e vede nella storia anche il presente, e lontanissimo. Non si sogna neppure di trarre dal passato ammaestramenti per il presente: sa che sarebbe tempo perduto, e da sciocchi. La storia per lui è una composizione ideali d’elementi raccolti secondo la natura, le antipatie, le simpatie, le aspirazioni, le opinioni degli storici, e che perciò questa composizione ideale non è applicabile mai alla realtà viva, effettiva, in cui gli elementi sono ancora scomposti e sparpagliati. Non si sogna neppure il dottor Paulo Post di trarre dal presente previsioni per l’avvenire. Egli fa proprio il contrario: si pone idealmente nell’avvenire per guardare il presente e lo vede come passato. Pochi giorni or sono, per esempio, gli è morta una figliuola: l’altro jeri sono andato a visitarlo: ebbene, era come se quella figliuola gli fosse morta da cent’anni. La sua sciagura ancor calda egli la aveva perfettamente allontanata nel passato. Ma bisognava vedere da quale altezza e sentire con quanta dignità ne parlava. / Ha come un cannocchiale il dottor Paulo Post. Lo apre, ma non si mette già a guardare verso l’avvenire, dove sa che non vedrebbe nulla; ma persuade l’anima sua a esser contenta di porsi a guardare dalla lente più grande, volta all’avvenire, attraverso la piccola, appuntata nel presente. E la sua anima così guarda col cannocchiale rivoltato; e il presente subito s’impiccolisce e s’allontana. / Da varii anni egli attende a comporre un libro, che farà epoca certamente. Il libro s’intitola appunto Filosofia del lontano. Vedrà la luce, quando il suo autore non la vedrà più – (così mi ha detto)» (v. SPSV, pp. 1025-6). Un paio di osservazioni si impone. Innanzitutto, per quanto riguarda il primo capoverso citato, e a proposito dunque di cronaca e storia, va detto che nell’idea di storia ivi proposta non si possono non riconoscere, riformulati quasi alla lettera, quei medesimi caratteri di semplificazione-idealizzazione attribuiti al racconto letterario in Personaggi, alla letteratura non umoristica ne L’umorismo e ai personaggi letterari in Illustratori, attori e traduttori (v. Personaggi, pp. 235-7 e nn. 9 e 25). Sottratta alla cronaca, e dunque alla dolorosa e irritante prossimità del vissuto, per via di selezione e depurazione prima, di ricombinazione e ricomposizione poi, la storia palesa già qui quella virtù balsamica e analgesica di distanziamento e pacificazione che a suo tempo la renderà strumento terapeutico, e serissimamente ludico, insostituibile in mano allo sventurato protagonista di Enrico IV. L’altra osservazione, contigua e interconnessa, riguarda il «cannocchiale rivoltato» che in qualche modo rappresenta il concreto emblema ottico della filosofia della storia come filosofia del lontano. Ne L’umorismo, il telescopio compariva, dopo l’infelicitante macchinetta della logica di cui la natura stessa aveva provveduto a dotare l’uomo, come l’ultimo degli strumenti di tortura che l’uomo si era apprestato da sé: «Ci diede il colpo di grazia la scoperta del telescopio: altra macchinetta infernale, che può fare il pajo con quella che volle regalarci la natura. Ma questa l’abbiamo inventata noi, per non esser da meno. Mentre l’occhio guarda di sotto, dalla lente più piccola, e vede grande ciò che la natura provvidenzialmente aveva voluto farci veder piccolo, l’anima nostra, che fa? salta a guardar di sopra, dalla lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento, che subissa la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze» (v. SPSV, p. 156). A prima vista, il telescopio rivoltato ottiene un effetto curiosamente opposto a quello del cannocchiale di Paulo Post-Fileno. In realtà, anche a prescindere dal fatto che là il sistema di lenti usato alla rovescia, ossia come ottica rimpicciolente e distanziante, sia maliziosamente puntato sulle glorie dell’uomo e qui invece, con funzione storicizzante lenitiva, sulle miserie, le doglie, le noie, i pericoli, i bisogni, le cure angustiose, anche nell’Umorismo un colpo di tallone umoristico, e pascaliano, ribalta positivamente la visione subissante: «Fortuna che è proprio della riflessione umoristica il provocare il sentimento del contrario; il quale, in questo caso, dice: – Ma è poi veramente così piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l’infinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo?».
14 V. Personaggi, p. 240: «Consideri, per citare un esempio, che Don Abbondio, santo Dio, che è? un pretucolo di villaggio, un’animella spaventata, e sissignori! che bella fortuna ha avuto quello là! Vive eterno!».
15 Entrando in agitazione, in confusione.
16 Il beneficio, il vantaggio.
17 Nel 1909, lo scrivente che aveva presentato il dottor Paulo Post concludeva così: «Per consolazione dei lettori di questo giornale, che ne avranno voglia, io mi propongo di sottomettere di tanto in tanto al cannocchiale rivoltato del dottor Paulo Post i fatti più notevoli, le questioni più ardenti, gli uomini più celebri nell’arte, nella politica, nelle scienze dei giorni nostri. Vedremo che bella figura essi faranno veduti da lontano, impostati nel passato, concentrati e riassunti nella storia. / Ma ho gran paura che molti non si vedranno più» (v. SPSV, pp. 1026-7).
18 Come già al Leandro Scoto di Personaggi, tocca anche al dottor Fileno, contraddittoriamente incapace di mettere a frutto per sé il suo metodo filosofico, patire il rifiuto autorale. L’artificio metanarrativo su cui si fonda la novella si ritorce in artificiosità e non trova soluzione se non nella leggibilità simbolico-allegorica del testo, allusiva di una condizione insoddisfacente, frustrante e deformante dell’uomo moderno, della sua perdita d’identità in una realtà sofferta come aliena e nelle peripezie d’un vissuto in cui non si riconosce, e del suo inutile ricorso ad un autore altro (demiurgo, salvatore, dio? anch’esso peraltro destituito di aura) che gli garantisca emancipazione, realizzazione di sé e speranza d’immortalità. Solo in questa congetturale luce allegorica può assumere senso e significare la tragedia romanzesca ed estetica degli Scoto e dei Fileno; come più tardi quella drammaturgica dei Sei personaggi.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 17 dicembre 1911. Venne poi compresa nella raccolta E domani, lunedì (Milano, Treves, 1917) ed entrò infine a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese.
2 Nella cassa minuscola della doppia antifrasi attributiva (splendida invenzione pirandelliana del 1917) sono ritratte in miniatura e incapsulate insieme due ottiche irriducibilmente distanti, quella del mittente che ha scelto quel foglietto bello e supremamente elegante e quella della destinataria che ha ricevuto quel foglietto di volgarissimo gusto provinciale. Non potrebbe darsi, da parte di chi, narrando, è capace di fondere discorsivamente l’irreparabile disgiunzione, incipit più crudelmente e oggettivamente infausto: tutto è fin da principio fuori luogo.
3 Forma arcaica e poetica per devi.
4 Stare dentro, farsi contenere
5 I tendaggi pesanti che coprono le porte.
6 A confronto con quello della Momolina «placida placida» che era stata, questo della vedova signora Moma è il ritratto vivente e smanioso dello spaesamento. Colei che il matrimonio col procelloso musicista aveva materialmente spaesato sradicandola dal suo «paesello nativo»; che aveva vissuto ventotto anni di smarrita e frastornata marginalità, sempre sulla soglia d’una vita musicale per lei incomprensibile, sulla soglia della profonda intimità affettiva che aveva legato il marito e la figlia ma non lei, sulla soglia della corte festosa e adorante che aveva circondato il celebre consorte e la figlia bellissima ignorando lei; colei che, rimasta sola, non riesce tuttavia a rendersi conto di non essere mai stata al centro di qualche cosa e di non potere perciò più essere al centro di alcunché, mentre rifiuta infastidita l’amorosa centralità cui la richiama, dal remoto passato delle sue origini, il solo che l’avrebbe voluta al centro della vita, incarna dunque appieno l’implacabile eumenide dello spaesamento oggettivo e soggettivo.
7 A lei, costituitasi a sua insaputa in figura vuota e nulla dell’insignificanza, nessun vivente ha mai avuto nulla da dire, e alla sua impalpabile presenza incapace di lasciar traccia nella vita, nulla sanno dire neppure quegli attori inanimati ma vivi e memori che sono gli oggetti domestici. Ancor più miseranda risulta perciò, per contrasto, la sua presunzione rabbiosa d’aver tante cose da dire: Moma è la personificazione dell’insignificanza che pretende pateticamente di significare qualcosa di diverso da se stessa.
8 La spiegazione che il narratore sussurra, invitando gli inattesi narratari («voi che adesso la chiamate “una terribile seccatrice”») a una discrezione complice e pietosa, non potrebbe ugualmente essere più crudele di così: la placida Moma, da sempre soggetto di predicati esclusivamente passivi, a cominciare dall’innamoramento che, per quanto nel suo caso tiepido, è comunque evento per eccellenza passivo, ha vissuto solo di riflesso e obliquamente la vita che le veniva dagli altri. Una realtà che potesse chiamarsi la vita di Moma non è mai esistita, sommersa dalla vita della moglie del maestro Sorave e da quella della madre della figlia di lui, così come ora da quella della vedova Sorave. La casa di Moma è stata abitata da queste proiezioni seconde, da questi fantasmi della relazione e della complementarità subalterna, non da lei. E perciò, assente di fatto dalla propria vita, Moma è stata anche quasi assente dalla casa che per metonimia avrebbe dovuto significarla, e dunque, come in seguito il Fausto Silvagni de La rosa (v. III 89-90) e i viaggiatori smarriti di Nell’albergo è morto un tale (v. III 95), assente anche da sé. Non può essere taciuto che la redazione prima della novella (utilmente leggibile in NUAIII, pp. 1400-4) era nell’insieme considerevolmente diversa da questa, definitiva, risalente alla ristampa in raccolta del 1917. A parte una differente disposizione dell’intreccio, anche l’impianto narrazionale era altrimenti bilanciato da una voce narrante più diretta ed esplicita. Ben prima, e ben più brutalmente, il narratore spiegava al lettore le ragioni dell’abbandono di cui soffre la signora Moma: «Quell’abbandono proveniva da una ragione profondamente triste, di cui la signora Moma non riusciva peranche a capacitarsi. / Ella non era mai esistita. / Proprio così» (ivi, p. 1401). E con ordine, spietatamente, veniva chiarendo: «ella non era mai esistita […] per il marito, se non forse nei primi momenti del loro incontro casuale»; «E neppure per la figliuola era mai esistita, non appena questa aveva cominciato a vivere per sé, nel mondo paterno»; «Tanto meno poi era esistita per questi altri». Nel 1917, la comprensione dell’infilzata di meccanismi esclusivi cui va incontro la protagonista è affidata molto di più alla semantica del racconto e alle inferenze di lettura, e molto meno all’autorevole gestione assertiva del narratore.
9 Il poemetto virgiliano in quattro libri (che tratta della vita agreste, della coltivazione, delle cure da dedicare ad alberi e animali, della vita delle api) è notoriamente testo di non facilissima lettura. Giorgio Fantini, pretendente respinto, è un non-protagonista narrativo: tanto più desolante per la protagonista Moma è l’implicita sottolineatura della superiorità di colui che la donna si appresta a congedare con sprezzante fatuità. Attaccato alle proprie radici, Fantini ha saputo crescere, arricchirsi, coltivarsi e consistere; Moma, sradicata in boccio, è restata l’incolta e scipita nullità che era a sedici anni. Il bon ton dei suoi rimproveri all’irriflessivo spasimante sarà tanto più penoso in quanto fondato su una menzogna vanitosa e inconsapevole, della quale, come del fatto che la donna che s’è profferto di sposare non ha niente da dire a nessuno, il Fantini fa presto a rendersi conto.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 31 dicembre 1911. Venne poi compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915) ed entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Eravate stato ordinato sacerdote?
3 Nella gerarchia ecclesiastica della chiesa cattolica, prima della riforma introdotta con la lettera apostolica Ministeria quaedam del 15 agosto 1972, ordine era detto ciascuno dei gradi della gerarchia stessa. Erano ordini minori l’ostiariato, il lettorato, l’esorcistato e l’accolitato; ordini maggiori il suddiaconato, il diaconato, il sacerdozio, l’episcopato.
4 L’epistola è «la parte della Messa in cui si dà lettura di qualche brano della Sacra Scrittura, per lo più tratto dalle Lettere degli Apostoli» (Devoto-Oli). Il cantare allude alle celebrazioni delle messe solenni.
5 Le ampolline contenenti l’acqua e il vino.
6 «Piattello di metallo (per lo più prezioso), a largo orlo, usato per coprire il calice e per contenere l’ostia, prima e dopo la consacrazione, nella Messa» (Devoto-Oli).
7 La parte della messa dedicata alla consacrazione eucaristica.
8 Sgangherate, sguaiate.
9 Simile e diverso era il caso del professor Luca Blandino nella prima stampa (1901) de L’esclusa: «In gioventù questi era stato lì lì per diventar prete; ma urtato dalle ipocrisie clericali e non trovando, a suo dire, assai acqua per la sua sete nelle pile delle chiese e nei calici dell’olocausto, aveva smesso l’abito talare prima di prender gli ordini religiosi. Tuttavia era rimasto credente, né i libri di filosofia, né lo spirito scettico e positivo della nuova generazione, erano valsi a scuotere la sua fede tormentata» (v. RI, p. 907).
10 È il primo e fatale rovescio umoristico della storia di Tommasino. Normalmente, la perdita della fede si configura come una caduta rispetto alla sete di spiritualità e di elevazione di cui la fede si alimenta; come una resa, per quanto amara e sofferta, alle ragioni terrene e grevi della materialità e della corporalità. Nel rapporto che la fede instaura fra l’io e Dio, fra l’uomo e la trascendenza, è solitamente l’individuo a non reggere alle mortificazioni e alle rinunce che gli imperativi della fede impongono, e a cedere. Tommasino, viceversa – come già peraltro l’altro seminarista dimissionario, il Cosmo Antonio Corvara Amidei di Va bene –, non essendo affatto preda della «violenza di appetiti terreni», non cede, non cade, non precipita per mancanza di vigore e di zelo; viene anzi proiettato oltre la fede da una sete di spiritualità così bruciante da non trovare sollievo e soddisfazione neppure nella santità della vita dedicata al ministero religioso. Poiché ha rigettato la norma dell’abito e degli ordini, di Tommasino può esser detto legittimamente che è «uscito suddiacono dal seminario senza più tonaca, per aver perduto la fede». In fondo, però, egli non ha fatto altro che disubbidire alla norma d’una fede che ha deluso la sua «sete d’anima»: l’insufficienza, la mancanza, il difetto di fede, ossia di sostanza delle cose sperate, stanno tutti dalla parte delle istituzioni della fede e della religione e non dalla parte dell’individuo. È stata la povertà asfittica di quella fede ridotta a rito ripetitivo e a pura liturgia ad irritare la sete spirituale del candido suddiacono e a farla diventare arsura, smania e infine insofferenza e abiura. Come dire che Tommasino era troppo pieno di fede per accontentarsi dello zelo richiesto e del nutrimento spirituale offerto dalla vita di chiesa. Per troppo vigore di santità egli diventa ribelle, anacoreta e martire.
11 Trattenuto dal.
12 Finemente (detto con ironia).
13 Proclamando.
14 La prima redazione conteneva a questo punto l’inserto seguente: «si sprofondò nella lettura dei libri di filosofia antica e moderna, che un suo amico, uscito insieme con lui dal seminario, gli mandava in prestito da Roma» (v. NUAI, p. 1284). Ma era, tutto sommato, il cedimento ad un motivo stereotipo; e Pirandello vi rimediò: la seconda iniziazione del candido suddiacono apostata non si fonda sui libri e non si nutre di filosofia; proviene esclusivamente da ascesi meditativa e dalla compulsazione solitaria del gran libro della natura.
15 Pian della Britta si intitola anche una lirica pubblicata il 16 gennaio 1909 sulla «Nuova Antologia» e raccolta nel 1912 in Fuori di chiave (Genova, Formìggini), che arieggia, in tutta la prima parte (vv. 1-15), il clima ambientale della novella: «Pian de la Britta, che fragor di mare / fan questi tuoi castagni alti e possenti! / Ma l’ombra, sotto, qua e là di rare / luci trafitta, ire non sa di venti, / e tra tanto fragor sospesa pare: // recesso eccelso, a cui la maestà / di questi tronchi immani una solenne, / misteriosa aria di tempio dà; / e quel fragore ad un oblio perenne / di tutto invita: ombra e vento che va… // Pian de la Britta, oblio di tutto… Eppure, / forse per altro l’alte vette adesso / dei tuoi castagni fremono alle pure / aure del monte. Sentono da presso / la sega strider, picchiare la scure» (v. SPSV, pp. 657-8). E il curatore Manlio Lo Vecchio-Musti avverte (ibid. p. 656): «Il “Piano della Britta” sorge nei pressi di Soriano nel Cimino, luogo di villeggiatura frequentato da Pirandello».
16 Si rammenti la modulazione del medesimo motivo in Quand’ero matto… I 770: «M’usciva dalla gola un mugolìo sordo, continuo, che si confondeva col violento stormire delle foglie, come se il mio corpo, ferito, si dolesse per suo conto, mentre l’anima, sconvolta, stupita, non gli badava».
17 La redazione del 1911 parlava di «un corpo enormemente pasciuto e satollo e pago, da padre abate» (v. NUAI, p. 1285), e rinviava ancor più chiaramente di questa al precedente di Acqua amara, p. 108 («faccione da padre abate satollo e pago»). Il riaffioramento del pacioso comparante conventuale è fortemente indiziario e tutt’altro che casuale, poiché anche il Bernardo Cambiè di quella novella aveva dovuto fare, ancorché con esito assai più felice, i suoi bravi conti con la lacerazione fra corpo ed anima. Qui è proprio questa ingovernabile divaricazione fra corpo (e corporalità) e spirito che fende verticalmente il personaggio e lo dilania fra un’apparenza di sanità e benessere e una intima invisibile essenza di macerazione e melanconia: la sua inesausta «sete d’anima» lo tormenta e lo scava mentre il suo corpo sazio e disappetente lo schernisce e lo espone al dileggio. Ma è anche evidente che la totale identificazione dell’io dimidiato con uno spirito fissato «in un dolore profondo o in una tenace ostinazione ambiziosa», uno spirito immalinconito e stremato dalle «disperate meditazioni», e il simultaneo completo distacco dell’io (v. p. 641: «stanco dell’ingombro di quella sua stupida carne») dal corpo e da ogni desiderio carnale, se configurano l’incorporea leggerezza dell’estasi e del rapimento mistico, configurano però anche, in termini di tetra anestesia e di abulia morbosa, la malattia. Il binomio ossimorico santità-follia, già sotteso nel 1902 alla vicenda allegorico-umoristica di Quand’ero matto, viene qui pienamente ripreso e ritematizzato ben più drammaticamente. Tornando per un momento alla redazione del 1911 e alla dittologia attributiva «satollo e pago» che vi riaffiora per l’ultima volta nell’ambito del corpus novellistico, si può conclusivamente notare che anch’essa, tra Scialle nero (I 1031) e Benedizione (v. p. 490 e n. 21) da una parte, e Acqua amara e Canta l’Epistola dall’altra, rivela la sua semantica ancipite, divisa fra la connotazione propria di una essenza bestiale che si manifesta nella sazietà dell’uomo-porco e quella, ingannevole, di un’apparenza grossolana e soddisfatta, e ambigua (da padri abati troppo ben pasciuti per essere puri di spirito e mondi di concupiscenza), che perseguita e rende irriconoscibili personaggi astinenti, casti e meditativi come Bernardo Cambiè e Tommasino Unzio.
18 Per un analogo gioco con nomignoli e accrescitivi, v. ancora Acqua amara, p. 105: «qua mi chiamano Il marito della dottoressa. Cambiè mi chiamo. Di nome, Bernardo. Bernardone, perché son grosso».
19 Tutta la narrazione si dipana nel raffronto tra una vicenda immaginaria e presunta (quella supposta dal satiresco dottor Fanti, dal rozzo padre del protagonista, dal focoso tenente De Venera e dai paesani stupefatti dinanzi agli eventi che portano al duello mortale) e una vicenda vera e segreta, costituita dai moti e dalle pulsioni profonde di Tommasino e ignota a tutti gli altri personaggi del racconto; una vicenda di cui un narratore onnisciente si fa veicolo presso i lettori e che sarebbe altrimenti inconoscibile. La storia congetturale, quella che «gli sfaccendati del paese» gradirebbero sentir raccontare, sarebbe quella futile ma sapida d’un giovane avviato alla vita ecclesiastica e che se ne strappa per dar sfogo a sane esigenze corporali e sessuali. La storia vera, e per quella cerchia incredibile e incomprensibile, è tutt’altra, e la traccia indiziaria che qui ne dà il narratore non potrebbe essere più chiara. Tommasino, come tutti gli assetati d’anima, prova fastidio o ribrezzo del proprio corpo e non desidera il corpo femminile. Si dà il caso che, nel corpus, siano personaggi maschili piuttosto che femminili a patire quella sete, et pour cause (v. al proposito La levata del sole, n. 5), ma accade anche puntualmente che quella brama spirituale sia inversamente proporzionale alla virilità di chi la prova. Tanto più il personaggio è bruciato da quella sete e tanto meno è maschio e virilmente concupiscente, tanto più propende alla misoginia o a un atteggiamento fobico nei confronti della donna, e tanto più tende invece a manifestare una sensibilità e a provare sentimenti (quello materno in particolare) palesemente e contraddittoriamente femminili. In Pirandello, è molto più spesso l’uomo che aspira ad essere tutto anima (spirito, pnèuma, psyché) e molto più spesso è la donna a restare gravata dall’istintuale e dal corporale (in primo luogo perché trascinata e travolta irresistibilmente dalla sua uterinità), ma in compenso l’anima è istanza intimamente femminile e perciò, nei personaggi maschili, castrante e sublimante (v. Acqua amara, p. 117 e n. 34).
20 Un lontano ascendente di questo moto d’estraniamento è riconoscibile persino in un sonetto del 1890, Depressione (vv. 12-4): «Atomo umano, guarda in ciel le nubi: / estraneo a tutto sei, estraneo passi. / Scenda pei sogni miei, scenda l’oblio» (v. SPSV, p. 763). E una nitida replica di questo stremato desiderio echeggerà nel terzultimo capitolo di Uno, nessuno e centomila: «Ah, perdersi là, distendersi e abbandonarsi, così tra l’erba, al silenzio dei cieli; empirsi l’anima di tutta quella vana azzurrità, facendovi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!» (v. RII, p. 896).
21 Abbacinanti (v. Quand’ero matto… I 762).
22 Questa clausola frastica, e la circostanza relazionale uomo-natura che la accompagna e la produce, costituiscono un cliché forte e ricorrente. Forgiato per caratterizzare il personaggio dell’anziano don Cosmo Laurentano nel romanzo I vecchi e i giovani (v. RII, p. 42: «Guardò gli alberi, davanti alla villa: gli parvero assorti anch’essi in un sogno senza fine, da cui invano la luce del giorno, invano l’aria smovendo loro le frondi tentassero di scuoterli. Da un pezzo ormai, nel fruscio lungo e lieve di quelle fronde egli sentiva, come da un’infinita lontananza, la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita»), connota qui il desiderio di estraniazione (un vero e proprio anti-desiderio) della repressa giovinezza di Tommasino e verrà ancora una volta rimodulato a contrassegnare la stanchezza rassegnata del vecchio Guarnotta ne La cattura (v. III 323).
23 A questo punto, dietro la vicenda di Tommasino ormai prossima alla sua catastrofe apparentemente bizzarra, può essere scorta un’altra pagina di Schopenhauer, una pagina del medesimo quarto libro di Die Welt als Wille und Vorstellung cui già Quand’ero matto aveva senza ombra di dubbio rinviato (v. nn. 12 e 14): «La volontà si distoglie oramai dalla vita: ha orrore dei suoi piaceri, nei quali riconosce l’affermazione di quella. L’uomo perviene allo stato della volontaria rinunzia, della rassegnazione, della vera calma e della completa soppressione del volere. […] La sua volontà muta indirizzo, non afferma più la sua propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, bensì la rinnega. Il processo, con cui ciò si manifesta, è il passaggio dalla virtù all’ascesi. Non basta più a quell’uomo amare altri come se stesso, e far per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per l’essere, di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di quel mondo riconosciuto pieno di dolore. Quest’essenza appunto, in lui medesimo palesantesi e già espressa mediante il suo corpo, egli rinnega; il suo agire sbugiarda ora il suo fenomeno, entra con esso in aperto contrasto. Egli, che non altro è, se non fenomeno della volontà, cessa di volere, si guarda dall’attaccar la sua volontà a una cosa qualsiasi, cerca di rinsaldare in se stesso la massima indifferenza per ogni cosa. Il suo corpo, sano e forte, esprime per mezzo dei genitali l’istinto sessuale, ma egli rinnega la volontà e sbugiarda il corpo: non vuole la soddisfazione del sesso, a nessun patto. Volontaria, perfetta castità è il primo passo nell’ascesi, ovvero nella negazione della volontà di vivere» (v. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari, Laterza, 19936, pp. 496-7).
Un’impressione di pari intensità aveva provato l’anno prima la protagonista de Il viaggio (v. p. 550). Ma là si trattava di uno strano incanto straniante prodotto dal recondito e simultaneo appressamento dell’amore e della morte; qui non si tratta di una sensazione o di un’emozione, ma di un moto ottativo, di un estenuato desiderio di perdita di coscienza e di panica astrazione e dispersione dell’io. Va certo rammentata l’amara e recente considerazione del protagonista di Paura d’esser felice (v. p. 573 e n. 12), ma questa voglia alla rovescia, questa espressione di nolontà coscienziale, intellettuale ed emotiva vanno oltre quella stessa considerazione. Il melanconico io-anima auspica d’essere dilavato di ogni identità e soggettività («senza più affetti, né desiderii, né memorie, né pensieri»), di diventare strumento imperturbato e remoto di registrazione della «vanità d’ogni cosa» e del «tedio angoscioso della vita», di liberarsi della propria natura pensante e senziente e di regredire ad animale, a vegetale, a cosa inanimata. La discesa invocata lungo la scala bestia-pianta-pietra non esprime propriamente una pulsione di morte, ma piuttosto un percorso mitico regressivo verso l’unità opaca e indifferenziata del cosmo vivente, verso quel tutto unico felicemente inconsapevole ed atarattico dal quale la nascita ci ha sciaguratamente staccati (v. al proposito La trappola). Certo, il non-desiderio di Tommasino è anche un cupio dissolvi, ma è appunto, e letteralmente, voglia non tanto di morte-dissoluzione quanto di scioglimento e di riflusso nel magmatico fiume dell’essere. Questo groviglio psichico e mitico, verbalizzato qui per la prima volta in forma forte e pressoché paradigmatica, arriverà fino a segnare, nel 1925, il capitolo conclusivo di Uno, nessuno e centomila (v. RII, p. 901: «Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo») e addirittura l’explicit di quell’ultimo romanzo: «muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori» (ivi, p. 902). Senza tuttavia esaurirsi, poiché, nove anni più tardi, quell’istanza di metamorfica ed umile persistenza riaffiorerà prepotente in Di sera, un geranio (v. III 559).
Breve glossa aggiuntiva: sarà forse soprattutto una suggestiva coincidenza tematico-situazionale, ma certo è che Tommasino, «sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca», richiama non senza ragione un poetico protagonista, anteriore di qualche anno, che, «supino nel trifoglio», «estranio / ai casi della vita», «sente fra le sue dita / la forma del suo cranio». Alludo all’io lirico de La via del rifugio, la poesia eponima della prima raccolta gozzaniana (1907), il quale si definisce «questa cosa vivente / detta guidogozzano» (vv. 35-6), manifesta un non-desiderio curiosamente simile a quello di Tommasino Unzio: «Oh la carezza / dell’erba! Non agogno / che la virtù del sogno: / l’inconsapevolezza» (vv. 41-4), e considera la vita «un gioco affatto / degno di vituperio, / se si mantenga intatto / un qualche desiderio» (vv. 165-8), ragione per cui la sua scelta ultima e rinunciataria è precisa: «Un desiderio? Sto / supino nel trifoglio / e vedo un quatrifoglio / che non raccoglierò» (vv. 169-72). E invece la signorina Olga Fanelli distrattamente recide e raccoglie il filo d’erba amorosamente allevato da Tommasino, così come le nipotine di guidogozzano catturavano e trafiggevano a morte, con innocente e fatua crudeltà, una bella farfalla (v. G. GOZZANO, La via del rifugio, in Poesie, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1973, pp. 5-12). A una pura coincidenza non credo, tanto più che il corpus pirandelliano contiene, sparsi, numerosi segni di una qualche inclinazione verso curvature crepuscolari di stampo gozzaniano, e la cosa non può sorprendere più di tanto se si tengono presenti la dose cospicua di autoironia che caratterizza la poesia di Gozzano e le forti figure di straniamento che stirano i suoi racconti in versi e vi determinano, a volte, quasi una declinazione discorsiva di tipo umoristico.
24 L’intero passo, dall’insorgere del desiderio di inconsapevolezza («Non aver più coscienza» ecc.) a questo interrogativo, andrà a costituire il capitolo IX del secondo libro di Uno, nessuno e centomila, intitolato, come il capoverso-emblema novellistico, Nuvole e vento (v. RII, pp. 774-5).
25 V. sopra la n. 15.
26 La zona del Viterbese intorno al monte Cimino era ben nota a Pirandello, che vi ha spesso soggiornato d’estate. Proprio nel settembre del 1911 da Soriano nel Cimino aveva scritto ad Alberto Albertini: «sono qua tra i castagni e i faggi del Cimino» (v. CAR, p. 168).
27 Anche lo sguardo interiore e disincarnato di Tommasino si affaccia sulla faglia oscura che separa le sorti labili degli uomini dalla opaca e ben più duratura impassibilità delle cose e dall’eternità della natura. È la voragine metafisica, misteriosa, che ogni tanto rischiosamente attrae l’attenzione di personaggi dalla vista interiore particolarmente acuta e irrequieta. Si tratta di un’esperienza conoscitiva di distacco dell’io dalla realtà oggettiva che assume a volte (come qui) l’aspetto dell’elevazione e dell’ascesi, altre volte quello pauroso dell’alienazione e della perdita di realtà (v. quanto meno La trappola, p. 695 e, anche per ulteriori rinvii, Pena di vivere così III 370 e n. 36), e altre volte ancora (si tengano presenti Il viaggio, p. 550 e La carriola III 155-6) quello d’un rapimento mistico in una dimensione spazio-temporale felicitante, altra e nel contempo intima e genuinamente propria. Quella faglia era stata descritta umoristicamente, nel 1906, nella prosetta Le cose (v. Sole e ombra, n. 5), ma le sue epifanie si verificano soprattutto in luoghi testuali ove il tumulto passionale o il silenzio meditativo sono più profondi e tesi.
28 V. Notizie del mondo I 584: «Che diresti tu, amico pipistrello, se a un tuo simile venisse in mente di scoprire un apparecchio da aggiustarti sotto le ali per farti volare più alto e più presto? Forse dapprima ti piacerebbe, ma, e poi? / Quel che importa non è volare più presto o più piano, più alto o più basso, ma sapere perché si vola».
29 Tutta quanta la parte conclusiva di questo paragrafo (da «Su nel bosco dei castagni» in poi) sarà ripresa e riscritta e costituirà il capitolo X, L’uccellino, del libro II di Uno, nessuno e centomila (v. RII, pp. 775-6). Quella zona dell’ultimo romanzo è del resto una vera e propria, e deliberata, centonizzazione di precedenti novellistici; tant’è vero che ai due capitoli provenienti da Canta l’Epistola seguirà immediatamente la ripresa di Alberi cittadini.
30 Tanto più il povero Tommasino è tormentato dalla insaziabile «sete d’anima» che gli ha fatto perdere la fede, e tanto più è beffardamente sospettato d’essere mosso dalla «violenza di appetiti carnali».
31 Il motivo dell’amore-tenerezza per la creaturalità effimera, emerso nel corpus precocissimamente (v. L’onda I 188, Il giardinetto lassù I 426-7, Padron Dio I 457), da Quand’ero matto… I 767 e da Il guardaroba dell’eloquenza, p. 377, riaffiorerà più tardi nitidissimo ne La maestrina Boccarmè III 453. Accanto a questa di Canta l’Epistola – e con questa strettamente apparentata dalla memoria autorale –, nel medesimo 1911 ne va segnalata un’altra estesa occorrenza, quella contenuta nel romanzo Suo marito: «Silvia Roncella […] aveva rivolto lo sguardo e il pensiero alla verde campagna lontana, ai fili d’erba che colà crescevano, alle foglie che vi brillavano, a gli uccelli per cui cominciava la stagione felice, alle lucertole acquattate al primo tepore del sole, alle righe nere delle formiche, che tante volte ella s’era trattenuta a mirare, assorta. Quell’umilissima vita, tenue, labile, senz’ombra d’ambizione, aveva avuto sempre potere d’intenerirla per la sua precarietà quasi inconsistente. Ci vuol tanto poco perché un uccellino muoja; un villano passa e schiaccia con le scarpacce imbullettate quei fili d’erba, schiaccia una moltitudine di formiche… Fissarne una fra tante e seguirla con gli occhi per un pezzo, immedesimandosi con lei così piccola e incerta tra il va e vieni delle altre; fissar fra tanti un filo d’erba, e tremar con esso a ogni lieve soffio; poi alzar gli occhi a guardare altrove, quindi riabbassarli a ricercar fra tanti quel filo d’erba, quella formichetta, e non poter più ritrovare né l’uno né l’altra e aver l’impressione che un filo, un punto dell’anima nostra si sono smarriti con essi lì in mezzo, per sempre…» (v. RI, pp. 620-1). A controprova di quanto osservato alla n. 17, si noterà che questa tenera affettività è un predicato capace di caratterizzare quasi indifferentemente personaggi femminili e maschili. Negli uni costituisce abbastanza chiaramente una proiezione sostitutiva della pulsione alla maternità, negli altri mantiene questo carattere fondamentalmente femminile in concomitanza con un bassissimo tasso di virilità.
32 Striati. V. Scialle nero, n. 18.
33 La commutazione di genere che l’aggettivo «materna» opera sul soggetto maschile implicito non può più sorprendere dopo quanto detto alle nn. 17 e 23.
34 Tutta la vergine vitalità di Tommasino, ed anche la sua fanciullesca e casta mascolinità, si sono trasferite e sublimate in questa sua fragile metafora vegetale.
35 La risposta alla domanda paradossale è negativa, s’intende. Ma è ormai anche chiaro che il gesto distratto e all’apparenza futile della signorina Fanelli significa una violenza tanto più orribile quanto più gratuita. Dell’ingombro della sua stupida carne Tommasino era stanco, ma la donna (inconsapevole baccante sempre temuta ed evitata) lo mutila crudelmente della sola virilità che gli rimanga e cui tenga, quella dell’anima.
36 È questa una consuetudine costante da parte di personaggi che non potrebbero essere più innocui e meno aggressivi e che vengono sfidati e controvoglia chiamati a battersi. Si rammenti il Bernardo Cambiè di Acqua amara, p. 119: «Le impose lui, le condizioni: alla pistola. Benissimo! Ma io pretesi allora, che si facesse a quindici passi»; e si pensi al Memmo Viola di Quando s’è capito il giuoco, p. 833: «Ma da che ci siamo, ohè, Gigi, bisogna far le cose sul serio. L’oltraggio è stato grave, e gravi debbono essere le condizioni». La differenza rispetto ad ambedue gli altri casi consiste nel movente (la sua disanimata stanchezza) che spinge Tommasino Unzio a pretendere condizioni gravissime; un movente che trasforma la sua partecipazione al duello in un suicidio camuffato che ha valore di martirio.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 22 gennaio 1912. Venne poi compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915) ed entrò infine a far parte del quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Due motivi si intrecciano angosciosamente: quello dell’ingannevole realtà della memoria e dunque della fallacia di ogni illusione di persistenza e di durata oggettiva; e quello della natura tutta soggettiva ed emotivo-sentimentale del ricordo, che priva i contenuti presuntamente certi della memoria d’ogni riscontro reale. Non sono i mutamenti della realtà esterna a deludere l’ostinazione conservativa della memoria, non è la realtà a non essere più quale la si ricorda, sono i mutamenti soggettivi a impedire all’individuo di porsi con la medesima realtà nella medesima relazione di un tempo.
3 In grado, in condizione.
4 Primo anno della scuola finalizzata a formare i maestri elementari.
5 Cappello a tre punte (v. Benedizione, n. 15).
6 Prete titolare di un beneficio ecclesiastico.
7 Sotto gli occhi esterrefatti di Carlino Bersi in persona, lo sconosciuto dottor Palumba dimostra d’essere il custode non di qualche ricordo, ma del colorito leggendario paesano d’un Carlino Bersi ignoto a sé medesimo.
8 In questa versione definitiva, la novella si chiude drammaticamente sul balbettio rotto e confuso, inarrestabile, di Palumba, che esprime la sua crisi d’identità e di relazione e che, in due riprese verbalizzato, incornicia l’excusatio e le spiegazioni del narratore-protagonista pervadendo l’intero spazio dell’explicit. Il resto qui non è silenzio, ma marasma. La redazione del 1911, nella quale non a caso il protagonista non faceva cenno alla propria crudeltà, amplificava narrativamente quello che qui è solo un tentativo dichiarato, e mancato, di Carlino di venire in aiuto al povero Palumba («Cercai di confortarlo, di calmarlo») e si chiudeva in tal modo con un finale più accattivante e, appunto, assai meno crudele. Visto immediatamente, da questa prima battuta vaneggiante di Palumba, l’effetto fulminante e disorientante del proprio brusco disvelarsi, Carlino Bersi badava subito a rimediare: «– Carlino, Carlino… – gli dissi, alzandomi e aiutandolo a mettersi in piedi per farlo respirare. – Proprio io, caro Lover… cioè, Palumba adesso, caro Palumba! Càlmati, càlmati… perdonami se t’ho fatto questo scherzo; ma tu sei stato per una mezza giornata come un incubo per me! E sono stato uno sciocco a meravigliarmi tanto, perché già avevo sperimentato io stesso che non hanno alcun fondamento di realtà quelli che noi chiamiamo i nostri ricordi. Basta ritornare un po’ sui luoghi, per scoprirli una finzione nostra, caro Lover… cioè, Palumba adesso, caro Palumba! / Il povero dottore seguitò un pezzo a balbettare, in preda a un crescente tremor nervoso: / – Ma come?… che dice?… Ma dunque lei… cioè, tu… tu dunque non ricordi? / Lo interruppi di nuovo, battendogli una mano su la spalla: / Illusioni, caro, illusioni! Di tutto quello che tu dici, che tu credi di ricordare, niente è vero, amico mio, niente… niente… ma non perché tu sii in mala fede, no! Tu ti eri composta una bella favola di me… Me n’ero composta una anch’io, per conto mio, che è subito svanita… appena ritornato qua… Ora, se mi sono apparsi vani i miei stessi ricordi, figurati i tuoi, caro Palumba! Vedi? ti stavo di fronte, e non mi hai riconosciuto… Ma perché tu vedevi entro di te Carlino Bersi, non quale io sono, ma come tu mi hai sempre sognato… / Gli strinsi forte forte la mano per scuoterlo da quell’imbalordimento pietoso in cui era caduto, e mi accomiatai, ripetendo: / – Credi, credi, sì: era tutto un sogno tuo, tutto un sogno tuo, mio buon amico; e mi duole di avertene svegliato» (v. NUAI, pp. 1400-1).
9 A distanza di quasi dieci anni, la novella risuscita e modula la vicenda comico-farsesca di Amicissimi. Ma lì la dinamica era quella della buffa dimenticanza, e la saggia crudeltà conclusiva era quella dell’amicissimo non riconosciuto che rifiuta di svelare la propria identità; qui l’elemento nucleare della vicenda è la sorprendente e inquietante plasticità, dunque l’illusorietà, della memoria, e la crudeltà consiste nello svelamento, il quale non produce una felice agnizione né una ricomposizione della memoria-sentimento e della realtà (del soggettivo e dell’oggettivo), ma soltanto lo smarrimento e il vuoto irrisarcibili d’una inutile reificazione.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 4 febbraio 1912. Nel 1922 entrò infine a far parte del primo volume delle «novelle per un anno», Scialle nero (Firenze, Bemporad). Messo sull’avviso dallo sdegno suscitato nei lettori da Pensaci, Giacomino! e dal rifiuto opposto dal «Corriere» a La morta e la viva, il 9 gennaio 1912 Pirandello aveva scritto all’Albertini mettendo le mani avanti: «Le mando […] la nuova novella richiestami. Se per caso dovesse parerLe che possa urtare la suscettibilità dei lettori del Corriere, me la rimandi senza cerimonie. A me, veramente non pare. Ma Ella è più buon giudice di me» (v. CAR, p. 172).
2 Prima che alla signorina Anita, questo tratto seducente era appartenuto, ne Il fu Mattia Pascal, a un’altra bruna, Romilda: «[…] occhi d’uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l’ebano» (v. RI, p. 345).
3 Sono versi innamorati da accreditare senz’altro al sentimentale amico Marino, come esplicitamente detto nella prima stampa: «Bruna, occhi bellissimi: / negli occhi suoi la notte si raccoglie / profonda, con due stelle ilari, acute… / ricordo i tuoi versi» (v. NUAI, p. 1181).
4 In particolare.
5 Vergogna su chi ne pensa male. È il motto del supremo ordine cavalleresco inglese, l’Ordine della Giarrettiera, risalente al 1347. La tradizione vuole che il re Edoardo III in persona abbia raccolto e graziosamente restituito alla contessa di Salisbury la giarrettiera casualmente cadutale a corte, al tempo stesso gelando con la sferzante arguzia i sorrisi maliziosi dei cortigiani.
6 Un tacchino. V. Richiamo all’obbligo, p. 241.
7 Il metodo è, naturalmente, quello di una serissima lettura umoristica dei fatti, capace di relativizzarli e di decifrarli traguardandoli attraverso la mutevole e contraddittoria filigrana delle relazioni anziché irrigidirli in termini di predicazione univoca e assoluta.
8 V. Va bene, n. 58. È una tradizionale meta balneare per i romani.
9 Luna quasi piena, essendo la quintadecima il 15° giorno del novilunio, ossia il plenilunio.
10 In Trovarsi, commedia del 1932, Pirandello riutilizzerà, in altra chiave, la circostanza del morso salvifico in mare (v. MNII, pp. 925-7).
11 Ciascuno a suo modo si intitolerà una commedia del 1924.
12 Verbalizzazione nitidissima del motivo denominabile “uno, nessuno e centomila”, del quale qui resta sotto narcosi solo la polarità nullificante. E non è certo un caso se proprio sul ribollente nodo tematico sotteso alla «spiegazione» la riscrittura pirandelliana è intervenuta, a un decennio di distanza, per riaggiustare l’originaria stesura del 1912, che era (dall’inizio del capitoletto e fino a questo punto) la seguente: «Causa di tutti gli errori di giudizio, e perciò di tutte le ingiustizie e dei crudeli tormenti che ne derivano, è il credere alla nostra unità. Mi spiego. Tu conosci la signorina Anita, e secondo la conoscenza che ne hai, le dai una realtà per te. Ma credi che la signorina Anita che conosci tu sia quella stessa che conoscono gli altri? No, caro. Ciascuno la conosce a suo modo e le dà a suo modo una realtà. E per sé stessa la signorina Anita ha tante realtà quante persone conosce, perché in un modo ella si conosce con te e in un altro modo con un terzo, con un quarto e via dicendo. Il che vuol dire che la signorina Anita è realmente una con te, un’altra con un terzo, un’altra con un quarto e via dicendo, pur avendo l’illusione anche lei, anzi lei soprattutto, d’essere una con tutti, perché noi crediamo in buona fede d’esser tutti in ogni nostro atto» (v. NUAI, p. 1182). L’anno seguente il motivo sarà un’altra volta estesamente verbalizzato, in prima persona e in chiave leggera, nell’atto unico Cecè (v. MN1, pp. 113-4). Intorno al medesimo motivo, ancor più pertinenti delle considerazioni sulla molteplicità dell’anima umana contenute nell’Umorismo (v. SPSV, pp. 150-1), e debitrici del libro di Giovanni Marchesini Le finzioni dell’anima (v. Una voce, n. 20), appaiono due foglietti rintracciati da Barbina tra le pagine d’un libro della residua biblioteca pirandelliana. Nel primo si legge: «L’errore sta in questo: nel considerare proprio la vita come un sol tutto, cioè nel concetto unitario della vita. Noi non siamo mai tutti in ogni nostro atto: e non parlo degli atti incoscienti e involontarii, cioè operati all’insaputa di noi stessi. Parlo della realtà che noi ci diamo, con la perfetta coscienza d’essere e di volerci in un dato modo. Questa realtà non è mai una, questo dato modo non è mai uno, noi non siamo mai tutti in un dato modo, cioè in questa realtà che ci diamo cosciente e volontaria. Noi siamo sempre tanti, perché ogni unità non è mai in sé sola, in un solo tutto, ma in tanti tutti. L’unità c’è in quanto c’è il molteplice, e il molteplice è sempre nell’uno: cioè ogni unità è nella relazione delle parti tra loro. Mutate le relazioni muta l’unità. E l’unità muta continuamente. Noi ne vediamo una alla volta e crediamo che questa unità sia un sol tutto, ma non è mai così: noi non siamo mai uno ma tanti, sempre»; e nell’altro: «Per ogni nostra azione, facciamo una scelta: in ogni scelta è un’inclusio unius e per conseguenza un’esclusio alterius. Noi dunque dalla unità che ci diamo per una data azione, escludiamo tant’altre parti di noi, poiché è in noi una possibilità d’essere altrimenti; e come dunque in ogni nostro atto si può essere un sol tutto, se tanta parte ne abbiamo lasciata fuori? Come ogni singolo atto può impegnare tutta la vita? cioè tutta la possibilità d’essere in altro modo, contemporaneamente, come in realtà siamo? Noi abbiamo impegnato una nostra unità, non tutte le altre che contemporaneamente sono in noi e che si svolgono nella molteplicità delle relazioni diverse e non si assommano tutte in quell’una» (v. BRB, p. 64). Le considerazioni contenute nel primo foglietto trovano un assetto ancor più serrato e stringente nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «Abbiamo tutti un falso concetto dell’unità individuale. Ogni unità é nelle relazioni degli elementi tra loro; il che significa che, variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l’unità. Si spiega così, come uno, che a ragione sia amato da me, possa con ragione essere odiato da un altro. Io che amo e quell’altro che odia, siamo due: non solo; ma l’uno, ch’io amo, e l’uno che quell’altro odia, non son punto gli stessi; sono uno e uno: sono anche due. E noi stessi non possiamo mai sapere, quale realtà ci sia data dagli altri; chi siamo per questo e per quello» (v. RII, pp. 581-2).
13 Come già s’è detto (v. Il dovere del medico, n. 29), il motivo del fatto come gancio e dell’orrore di restare malignamente agganciati ad un atto solo è forte e insistente. Questa formulazione riscrive un passo di Personaggi (v. p. 236) e si ripresenterà pressoché intatta sia nella partitura drammaturgica dei Sei personaggi in cerca d’autore (v. MN2, p. 701) che in quella romanzesca di Uno, nessuno e centomila (v. RII, p. 799).
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 21 febbraio 1912. Nel 1915 venne compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) e nel 1922 entrò a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
Il cosiddetto Taccuino segreto conserva tre abbozzi che consentono di risalire fin quasi allo stato embrionale della novella. Il primo, stringatissimo, disegna sommariamente il tratto filosofico-morale che caratterizza un anonimo personaggio: «Considerava il dovere come qualche cosa che gli fosse prescritta dalle sue relazioni con gli altri uomini, dalla convivenza, non nel senso che dovesse sforzarsi di modificare quelle relazioni, per renderle migliori o migliorarsi. Accettava senza scrupoli le necessità della sua professione. Si regolava come le bestie. Egli era volpe. È imputabile la volpe delle sue azioni?» (v. TS, p. 5). Solo il secondo e più esteso frammento, intitolato Bobbio, fornisce un’identità al personaggio in fieri, e nel contempo ne arricchisce il ritratto: «Si vergognava di andarsene, come ora forse gli sarebbe toccato, da questo mondo, confessando a se stesso in segreto di non averci in fondo capito nulla. Si era infatti finora contentato di spiegazioni prese senz’alcun fondamento reale e senza costrutto, campate in aria, tanto per quietarsi ogni volta lì per lì. / Non aveva rimorsi gravi, perché sempre era vissuto con fede in certi sentimenti onesti, ma aveva accettato sempre senza scrupoli tutte le necessità della sua condizione e della sua professione e considerato il dovere come qualche cosa che gli fosse prescritta dalle sue relazioni con gli altri uomini, dalla convivenza, non nel senso che dovesse sforzarsi di modificare quelle relazioni, per renderle migliori o migliorarsi. Per attender a questo, adesso, era troppo tardi. Lo confortava la fede serbata a quei sentimenti onesti; ma alla sua ragione questa fede ormai non bastava più. Voleva la cognizione assoluta» (ivi, p. 7). Infine, nel terzo lungo abbozzo Pirandello rinviene sia l’incipit della novella che il motivo dinamico (il mal di denti) che costituirà il motore narrativo del «caso singolarissimo» accaduto al filosofo miscredente di Richieri: «Marco Saverio Bobbio, notajo a Richieri tra i più stimati, avendo ormai da un pezzo perduto tutti i denti e anche la moglie (gli eran doluti sempre, moglie e denti, quasi allo stesso modo), avendo accasati convenientemente i figliuoli, pensò di chiudere lo studio notarile e di ritirarsi a vivere in campagna, col vecchio cagnolino Piccinì, ultimo residuo della sua famiglia, per sistemare alla fine le sue molte cognizioni sconnesse, e cercar così, nella solitudine, se gli riuscisse di risolvere in qualche modo i massimi problemi della vita e della morte. Si portò con sé una cassa di libri, che gli promettevano ajuto in quell’indagine suprema e gli corroboravano la fiducia nel potere illimitato della ragione umana e, appena rassettatosi in villa, intraprese coraggiosamente lo studio. / Notò, intanto, che Piccinì, chi sa per qual segreta simpatia, aveva eletto per sicura cuccia quella cassa di libri, che pure non doveva offrirgli molta comodità. Tre volte lo aveva cacciato, tre volte il vecchio cagnolino era ritornato cauto cauto ad accucciarsi là. Alla fine Bobbio ve lo lasciò dormire in pace. / – L’uomo vale più del bruto, perché sa, – diceva il libro su cui Bobbio vegliava, mentre Piccinì dormiva saporitamente su gli altri nella cassa. / Aggrondato, spiando obliquamente con la coda dell’occhio quel sonno di Piccinì, Bobbio si domandava che cosa egli in verità sapesse. / Di certo, proprio di certo, una cosa sola: che doveva morire. Il fine poteva essere dubbio e da ricercare: la fine era indubbia. / Piccinì poteva dormire, perché, da bruto, non sapeva di dover morire. Rappresentava questo sapere una superiorità incontestabile dell’uomo rispetto ai bruti? La filosofia, senz’altro, rispondeva di sì. Ma a Bobbio sembrava anche certo che Piccinì non dovesse invidiargli questa superiorità. Anche perché la certezza della morte includeva per la sua ragione stessa la tenebra più fitta. / Eppure, per acquistare un giusto senso della vita, per trovare nel cammino della vita la giusta via, bisognava che il lume venisse proprio di là, da quella tenebra fitta e impenetrabile. / Il lume che la fede accendeva per rischiarare quella tenebra, era un lume acceso di qua. Bisognava che il lume invece fosse acceso di là, da qualche morto caritatevole. Ma nessun morto finora aveva avuto questa carità; il che poteva essere una prova contro ciò che i libri di filosofia chiamano la permanenza dei valori oltre la morte. Gli occhi degli ingenui si volgevano alle stelle, che eran l’unico lume nelle tenebre non acceso dalla mano dell’uomo o dal di dietro di quelle care bestioline, che sono le lucciole. Gli ingenui non pensavano però che la tenebra della notte non è quella della morte, e che le stelle non sono propriamente lumi accesi per conforto degli uomini spauriti dalla morte. / Se non che, – dicevano i libri che Bobbio s’era portati in campagna, – come la fede è un lume che noi accendiamo di qua, non è forse anch’essa la morte una tenebra che projettiamo noi di qua? L’ombra c’è, perché c’è il lume: spento il lume, non ci sono più neanche le ombre. / Bobbio si domandava: / – Ma qual’è il lume che bisogna spegnere, perché spariscano anche le ombre? / Piccinì, sempre su la cassa dei libri […] riori e con una delle posteriori si grattava rabbiosamente la testa. / – Padrone, come io le pulci, tu caccia via i pensieri. / – Già, – pensava Bobbio, guardandolo, – il lume che si dovrebbe spegnere non può esser altro che quello de la ragione. / Se non che – tornava a interloquire il libro aperto su la scrivania, – chi ti dice questo, se non la ragione? E può stare che la ragione consigli a sé stessa di spegnersi? / Questo non poteva stare» (ivi, pp. 8-10). Bobbio non è tuttavia ancora precisamente quello che sarà nella novella: da un lato somiglia ad alcuni altri personaggi tormentati dai massimi problemi (come il vecchio Anselmo Paleari de Il fu Mattia Pascal, l’avvocato Zummo de La casa del Granella, il Bernardo Sopo di Leviamoci questo pensiero, il coevo Bernardo Morasco de Il coppo, il professor Sabato di Sopra e sotto), dall’altro si confonde in parte ancora con Serafino Gubbio, che nei Quaderni (v. RII, pp. 526-8) ne ripeterà infatti alcuni argomenti.
2 Nella «nobile città di Richieri» (v. RII, p. 744), ulteriore e pressoché isovocalico travestimento di Girgenti, sarà ambientato anche l’ultimo romanzo pirandelliano, Uno, nessuno e centomila.
3 V. Il marito di mia moglie, n. 3.
4 La congettura di Bobbio allude probabilmente al pessimismo schopenhaueriano, per cui il Wille e la congenita volontà di vivere sono anche il principio d’ogni male e d’ogni dolore. Per i precedenti del motivo, v. Pallottoline! I 439-40 e n. 26.
5 Per quest’immagine del «pozzo», instaurata nella redazione del 1915, Annamaria Andreoli avanza l’ipotesi (v. TS, p. 158) che anche a essa (v. Quand’ero matto, n. 12) soggiaccia una suggestione nietzschiana: «Ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l’uomo conoscersi? Egli è una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli, l’uomo può trarsene settanta volte sette e non potrà dire: “ecco, questo tu sei realmente, questa non è più corteccia”. Inoltre è un inizio tormentoso, rischioso scavare se stessi in tal modo e discendere con violenza per la via più breve nel pozzo del proprio essere. Quanto facilmente, nel far ciò, egli può ferirsi in modo tale che nessun medico riesca a guarirlo» (v. F. NIETZSCHE, Opere, vol. III, ed. italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, versione di M. Montinari, Milano, Adelphi, 1972, p. 362). Provenendo dalle primissime pagine della terza delle Considerazioni inattuali, intitolata Schopenhauer come educatore, l’immagine sarebbe agevolmente entrata nel gioco allusivo di una novella inaugurata dalla congettura sulla dentatura guasta di Schopenhauer. E bisognerebbe allora cogliere l’intertestuale umorismo instaurato da Bobbio e dalla amara relazione ch’egli stabilisce fra filosofia e denti cariati, proprio tenendo conto della venerazione incondizionata che Nietzsche tributa viceversa a Schopenhauer.
6 Per la filiera diacronica extranarrativa che presiede a questo luogo del testo, si rinvia alla nota che segue. Nella stampa 1937, la porzione di periodo che precede recita incongruamente: «E intendeva forse significare con questo che, oltre i limiti della memoria, vi sono percezioni e azioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali ora siamo, viviamo in noi, quali fummo in altro tempo, con pensieri e affetti già da lungo oblio oscurati in noi, cancellati, spenti» (v. NUAI, pp. 507-8; corsivo nostro). Pare doveroso, nel caso specifico, documentare per esteso la travagliata vicenda del passo novellistico riportandone le varianti a stampa (v. NUAI, p. 1313). Nel 1912, sul «Corriere della Sera», il capoverso suonava così: «È vero, intanto, che ciò che noi conosciamo di noi stessi non è che una parte, forse una piccolissima parte, di quello che siamo, e che i limiti della nostra memoria non sono assoluti, e che di là da essi vi sono percezioni e ragionamenti e azioni, che rimangono ignoti alla nostra coscienza presente, poiché non soltanto noi, quali ora siamo, viviamo in noi stessi, ma anche noi, quali fummo in altro tempo, viviamo tuttora e sentiamo e ragioniamo con pensieri e affetti già da un lungo oblío oscurati in noi, cancellati, spenti; ma che, al richiamo improvviso d’una sensazione, d’un odore, di un colore, d’un suono, possono ancora dar prova di vita, mostrando vivo in noi un altro essere insospettato». Nella raccolta milanese del 1915, la redazione era la seguente: «È vero, intanto, che ciò che noi conosciamo di noi stessi non è che una parte, e forse piccolissima, di quello che siamo. Bobbio anzi diceva che ciò che chiamiamo coscienza è paragonabile alla poca acqua, che si vede nel collo d’un pozzo senza fondo. Intendeva forse con ciò significare che oltre i limiti della nostra memoria vi son percezioni e azioni, che rimangono ignoti alla nostra coscienza presente, poiché non soltanto noi, quali ora siamo, viviamo in noi, ma anche noi, quali fummo in altro tempo, viviamo tuttora e sentiamo e ragioniamo con pensieri e affetti già da un lungo oblío oscurati in noi, cancellati, spenti; ma che, al richiamo improvviso d’una sensazione, d’un sapore, d’un colore, d’un suono, possono ancora dar prova di vita, mostrando vivo in noi un altro essere insospettato». Rispetto a questa lezione, la Bemporad del 1922 si limita a correggere «son» in «sono» e (essendo scomparsi già nel 1915 i «ragionamenti» che giustificavano una concordanza al maschile) «ignoti» in «ignote». Questa la stratigrafia dei ritocchi. Ma, una volta dimostrato che neppure l’approdo fiorentino pone fine al travaglio delle riscritture successive e che solamente l’ultima malcerta revisione parrebbe segnare, con un’abbastanza radicale semplificazione, una deriva sensibile rispetto alla versione originaria, resta tuttavia insoluto il problema, ineludibile, della leggibilità del luogo testuale. Pirandello s’è corretto e riscritto senza tregua; la sua scrittura, pur esibendo nell’insieme una stabilità lessicale, sintattica e stilistica notevole, è venuta negli anni evolvendo e mutando. Mai però, neppure negli anni estremi, nei quali le increspature innovative non mancano certamente, ha indulto a tentazioni asintattiche o a giunzioni arditamente anacolutiche. Persino l’espressione linguistica del delirio di certi suoi personaggi mantiene sempre, sotto le frantumazioni e le ellissi che verbalizzano la confusione e il balbettio incontrollato, una trasparenza molto limpida e una perfetta leggibilità. Dunque, pur in difetto di prove documentali, mi sento di escludere che la lezione postuma del 1937 sia una lezione plausibile e come tale proponibile. L’ipotesi viceversa più probabile è che ci si trovi dinanzi a un luogo testuale che un malaugurato incidente redazionale-tipografico (divenuto esiziale in assenza di adeguati soccorsi correttorî) oppure l’errata decifrazione di una correzione autografa pirandelliana hanno malamente corrotto e sfigurato al limite dell’illeggibilità. E il caso singolo potrebbe sollevare il problema (non più solubile, purtroppo) dell’affidabilità filologica di quella «novissima edizione» che fu la mondadoriana 1937-38 approntata (con la collaborazione di Angelo Sodini) da Manlio Lo Vecchio-Musti. Ma, caso ancor più curioso, il «passo dubbio» (e ben più che dubbio) che ci interessa trova nella riedizione delle novelle per la collana mondadoriana de «I classici contemporanei italiani» (L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, 2 voll., Milano, Mondadori, 1957) un assestamento inatteso e chiarissimo: «E intendeva forse significare con questo che, oltre i limiti della memoria, vi sono percezioni e azioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in altro tempo, con pensieri e affetti già da un lungo oblío oscurati in noi, cancellati, spenti» (ivi, vol. I, p. 468). Nell’impossibilità di accreditare con certezza il restauro testuale al «materiale preparato da Luigi Pirandello», bisognerà metterlo sul conto del «buon senso», il ricorso al quale andrebbe però quantomeno giustificato e che non rappresenta, ahimè, il criterio filologico per eccellenza. Mario Costanzo, coperto dall’usbergo della fedeltà al suo criterio generale d’edizione (che identifica nella mondadoriana del 1937-1938 la ne varietur di riferimento), ha riprodotto l’insostenibile lezione 1937 senza palesare perplessità e passando del tutto sotto silenzio il tardo restauro artigianale del 1957. Sulla sua scorta dichiarata, altrettanto hanno fatto i curatori dell’ultima riedizione delle novelle (v. L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, 3 voll., a cura di Pietro Gibellini, prefazioni e note di Novella Gazich, Marisa Strada, Giacomo Prandolini, Firenze, Giunti, 1994). L’enigma del piccolo dissesto testuale non è purtroppo risolto e penso che non sarà risolto mai. Il dilemma che si pone è quello fra il sacrificio di un criterio editoriale (ristampare l’edizione Costanzo come la più affidabile) e il sacrificio della leggibilità del testo. Un autore come Pirandello, dal dettato sempre limpido, non consente tentennamenti al proposito. In teoria abbiamo a disposizione due lezioni ugualmente chiare: la bemporadiana del 1922 e la mondadoriana del 1957. Tra le due corre una sostanziale differenza: quella del 1922 è al cento per cento una lezione autorizzata dall’autore, mentre quella del 1957 proviene da un ipotetico controllo non ricontrollabile del curatore di allora. Stando così le cose, la scelta sembrerebbe facile e pacifica. Non è proprio così. Non si può infatti tacere il fatto che l’inserto causale proposto dalla lezione del 1937 («perché veramente non sono più nostre») non può non essere una correzione d’autore che costituisce, in termini instaurativi, la vera novità e, nel contempo, l’elemento ipotattico il quale, introducendo una deviazione nel decorso del periodo, sembra essere all’origine del successivo sconquasso sintattico. In altri termini, questo nuovo membro proposizionale, che non c’è ragione di ritenere spurio, comportava di necessità un intervento correttorio sul seguito del periodo: o Pirandello ha apportato la correzione, senza segnalarla graficamente con chiarezza sufficiente a evitare qualunque fraintendimento, o ha solo pensato di averla apportata per intero. Tutto ciò equivale a dire che, mentre la stampa guasta del 1937, che non dà senso, è sicuramente frutto di una disattenzione o di un malinteso, l’autenticità della tarda ricucitura editoriale del 1957, che offre un’interpretazione plausibile di quella correzione, ancorché troppo sbrigativamente giustificata, non può essere perentoriamente esclusa. La lezione del 1922 è sicuramente autentica e ad essa mi pare obbligatorio risalire per restituire leggibilità al testo. È tuttavia doveroso riconoscere che questa scelta dolorosamente comporta l’obliterazione di elementi di novità posteriori e non dubitabili, ed equivale dunque a mummificare proprio uno dei passaggi più pregnanti e più tormentati della novella. Offerti al lettore interessato tutti i dati del problema, metto a testo, per il solo passo corrotto e tra croci, la bemporadiana del 1922.
7 Questo capoverso risale direttamente a quanto si legge ne L’umorismo: «Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono anch’essi illusioni, sono le condizioni dell’apparir della nostra individualità relativa; ma, nella realtà, quei limiti non esistono punto. Non soltanto noi, quali ora siamo, viviamo in noi stessi, ma anche noi, quali fummo in altro tempo, viviamo tuttora e sentiamo e ragioniamo con pensieri e affetti già da un lungo oblío oscurati, cancellati, spenti nella nostra coscienza presente, ma che a un urto, a un tumulto improvviso dello spirito, possono ancora dar prova di vita, mostrando vivo in noi un altro essere insospettato. I limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là da quella linea vi sono memorie, vi sono percezioni e ragionamenti. Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo». E Pirandello stesso chiosava a piè di pagina questo passaggio con i dovuti rinvii: «Vedi nel libro di Alfredo Binet Les altérations de la personnalité quella rassegna di meravigliosi esperimenti psico-fisiologici, da cui queste e tant’altre considerazioni si possono trarre, come notava già G. Negri nel libro Segni dei tempi» (v. SPSV, pp. 149-50). Pirandello aveva evocato Alfred Binet anche in apertura del saggio del 1908 Arte e scienza (v. SPSV, p. 163: «Rileggendo nel libro di Alfredo Binet Les altérations de la personnalité quella rassegna di meravigliosi esperimenti psico-fisiologici, dai quali, com’è noto, si argomenta che la presunta unità del nostro io non è altro in fondo che un aggregamento temporaneo scindibile e modificabile di varii stati di coscienza più o meno chiari, pensavo qual partito potrebbe trarre da questi esperimenti la critica estetica per la intelligenza del fenomeno non meno meraviglioso della creazione artistica»). Ai medesimi esperimenti (e, pur tacendole, alle medesime fonti) rinvia infine uno dei cosiddetti Foglietti (appunti di incerta datazione pubblicati a cura di Corrado Alvaro sulla «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1934), che parrebbe piuttosto precedere che non seguire la stesura del saggio sull’umorismo: «Da altri esperimenti […] della scienza psico-fisiologica è dimostrato che non soltanto noi, quali ora siamo, viviamo in noi stessi, ma anche noi, quali fummo in altro tempo, viviamo tutt’ora e sentiamo e ragioniamo con pensieri e affetti già da un lungo oblio oscurati, cancellati, spenti nella nostra coscienza presente, ma che al comando imperioso della scienza possono ancor dar prova di vita mostrando vivo in noi un altro essere insospettato. Per conseguenza, i limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là da quella linea vi sono memorie, vi sono percezioni e ragionamenti. Ciò che conosciamo di noi stessi non è che una parte di quello che noi siamo» (v. SPSV, p. 1225). La seconda metà del passo è infatti la traduzione pressoché puntuale di quanto Binet scrive nel cap. II, intitolato Le rappel des personnalités anciennes par suggestion, della parte III del suo libro: «une foule de souvenirs anciens, que nous croyons morts, car nous sommes incapables de les évoquer à volonté, continuent à vivre en nous; par conséquent les limites de notre mémoire personnelle et consciente ne sont pas plus que celles de notre conscience actuelle des limites absolues; au delà de ces lignes, il y a des souvenirs, comme il y a des perceptions et des raisonnements, et ce que nous connaissons de nous-même n’est qu’une partie, peut-être une très faible partie, de ce que nous sommes» [una folla di ricordi remoti che, essendo noi incapaci di evocarli a piacere, crediamo morti, continuano a vivere in noi. Di conseguenza, i limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti, così come non lo sono quelli della nostra coscienza attuale. Al di là di quei confini, ci sono ricordi e ci sono ugualmente percezioni e ragionamenti, e quanto conosciamo di noi stessi non è che una parte, forse una modestissima parte, di ciò che siamo] (v. A. BINET, Les altérations de la personnalité, Paris, Félix Alcan, 1892, p. 243). Il libro dello psico-fisiologo francese è del 1892. La prima edizione del volume di Gaetano Negri di cui Pirandello fa cenno (Segni dei tempi. Profili e bozzetti letterari, Milano, Hoepli) esce l’anno successivo, e contiene un saggio-recensione, datato 1892 e intitolato Il problema dello spiritismo, nel quale l’autore discute, a confronto, il libro Per lo spiritismo, di Angelo Brofferio e, molto tempestivamente, proprio l’opera di Binet, che utilizza come affidabile testimonianza scientifica contro l’infatuazione spiritica del Brofferio e a fianco della quale, da pensatore positivo, apertamente si schiera. Pirandello aveva potuto leggere con tutta facilità il saggio di Negri in una delle tre edizioni di cui il suo libro godette prima della quarta, postuma, della quale per comodità ci serviamo. E che lo abbia letto è dimostrato al di là di ogni dubbio dalle prime righe del passo dell’Umorismo citato ad apertura di questa nota, righe che sono tacitamente riprese alla lettera proprio dalle conclusioni di Negri: «Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono illusioni, sono le condizioni dell’apparizione della nostra individualità relativa, ma nella realtà quei limiti non esistono punto» (v. G. NEGRI, Segni dei tempi. Profili e bozzetti letterari, Milano, Hoepli, 1909, pp. 367-8). Stabilito ciò, si può constatare che Negri ha anche tradotto (ibidem, pp. 356-7) un passo del Ribot (studioso ben noto e professore di psicologia sperimentale e comparata al Collège de France, al quale il libro di Binet è dedicato) citato in sede di Conclusion da Binet (op. cit., p. 318): «L’unità dell’io è la coesione, durante un dato tempo, d’un certo numero di stati di coscienza chiari, accompagnati da altri meno chiari, e di una folla di stati fisiologici che, senza essere accompagnati di coscienza come i loro stati congeneri, agiscono al pari di questi. Unità vuol dire coordinamento». Si direbbe proprio una parafrasi riassuntiva di questo passo quella che lungo la filiera Ribot-Binet-Negri perviene all’incipit di Arte e scienza sopra riportato. E nelle pagine di Negri (ed. cit., p. 360) si ritrova infine anche la traduzione del passo di Binet sopra citato nell’originale: «[…] il soggetto ipnotizzato è costretto dallo sperimentatore a risvegliarsi, ricollocandosi in un’epoca anteriore della sua esistenza, e rivivendo una parte della sua vita già da tempo chiusa e dimenticata. Queste esperienze, come dice il Binet, c’insegnano che una quantità di memorie antiche, che noi credevamo spente perché siamo incapaci di richiamarle a nostra volontà, continuano a vivere in noi; per conseguenza, i limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Al di là di quella linea, vi sono memorie, percezioni e ragionamenti. Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è se non una parte, forse una piccolissima parte, di quello che noi siamo». Una traduzione pressoché puntuale anche questa, e nella quale risulta cassato, proprio come in quella pirandelliana, il medesimo membro proposizionale di Binet («plus que celles de notre conscience actuelle»). A questo punto, può insorgere una più che giustificata perplessità sul fatto che Pirandello si sia davvero sobbarcato alla lettura del libro di Binet, abbastanza ponderoso, sostanzialmente tecnico e quasi per intero fondato su referti di sonnambulismo patologico e su esperimenti di ipnosi e suggestione condotti su soggetti isterici. Quanto d’altronde Negri ne riferiva e riportava, manifestando la propria ammirazione sgomenta e giungendo fino a giudicarlo un libro «in fondo […] terribile» proprio per le convincenti prove sperimentali che contiene e che demoliscono la trincea, ritenuta inattaccabile, dell’unità, continuità e indivisibilità dell’io, era largamente sufficiente a suscitare la consentanea curiosità di Pirandello e a soddisfarla.
Non va beninteso dimenticato che le medesime considerazioni sulle stratificazioni della coscienza e sul ritorno repentino del represso erano già presenti nella novella del 1906 L’uscita del vedovo (v. p. 216) e, nel 1907, in Tra due ombre (v. p. 292 e n. 14) nonché, fin dalla prima stampa, in una pagina de I vecchi e i giovani (v. RII, pp. 232-3). E, al di là di quanto fin qui detto, va anche tenuto ben presente che l’idea di «un altro essere insospettato» capace di mostrarsi «vivo in noi» ha un cospicuo futuro nell’opera pirandelliana, non tanto in termini di dinamica del ritorno del superato, quanto come idea veicolare della tematica del doppio e di quella della moltiplicabilità dell’io; tematiche nelle quali si deve accettare di veder convergere suggestioni positive come quelle provenienti dalla linea Binet-Negri e suggestioni assai più fumose, di ascendenza teosofica, come quelle che provengono invece, auspice l’Anselmo Paleari de Il fu Mattia Pascal, dalla linea Leadbeater-Besant Wood (v. Personaggi, nn. 21 e 22). Nel 1911 l’esistenza di un altro, di un estraneo nell’io era stata sospettata da Silvia Roncella in Suo marito: «In verità, forse perché non era mai riuscita a tenersi, a comporsi, a fissarsi in un solido e stabile concetto di sé, ella aveva sempre avvertito con viva inquietudine la straordinaria disordinata mobilità del suo essere interiore, e spesso con una meraviglia subito cancellata in sé come una vergogna, aveva sorpreso tanti moti incoscienti, spontanei così del suo spirito, come del suo corpo, strani, curiosissimi, quasi di guizzante bestiola incorreggibile; sempre aveva avuto una certa paura di sé e insieme una certa curiosità quasi nata dal sospetto non ci fosse in lei anche un’estranea che potesse far cose ch’ella non sapeva e non voleva, smorfie, atti anche illeciti, e altre pensarne, che non stavano proprio né in cielo né in terra; ma sì! cose orride, talvolta, addirittura incredibili, che la riempivano di stupore e di raccapriccio» (v. RI, p. 727). Nel 1915-16, in Se non così… (poi La ragione degli altri), Elena Orgera mostrerà di rammentare le impressioni del protagonista di Tra due ombre e le parole del narratore che qui interpretano quelle di Bobbio, quando rievocherà, parlando con la moglie dell’ex-fidanzato di cui è diventata l’amante, il secondo incontro con lui: «Ebbene, a tutti tranne che a lui avrei dovuto chiedere ajuto! Se l’ho chiesto a lui, signora, potete esser sicura che nulla più di vivo poteva esserci in me, da farmi provare poi un piacere in ciò che dall’incontro con lui dopo tanti anni, purtroppo è seguito. Come, io stessa non lo so. Forse perché ciò che fummo, rimane sepolto in noi. In un momento, dagli occhi che s’incontrano, può essere rievocato» (v. MN1, pp. 217-8). E nel 1925 ne renderà testimonianza Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila, quando ad esempio dirà: «Così volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter più levarmi di torno e ch’ero io stesso: l’estraneo inseparabile da me» (v. RII, pp. 748-9). Piaccia o no, questo «estraneo inseparabile» somiglia molto più al «camerata invisibile» o al «compagnon astral» della letteratura teosofica che non alla personalità alterata e doppia rigorosamente studiata e descritta da Binet in soggetti malati. L’ultimo personaggio pirandelliano a rievocare rabbiosamente (e puntualmente) quest’esperienza di sdoppiamento e ritorno del passato sarà nel 1929 il Rico Verri di Questa sera si recita a soggetto che, divorato da una gelosia paranoica, accuserà la moglie, come di un tradimento e di un male che, sposandola, s’è portato sciaguratamente in casa, delle memorie gaie del passato: «VERRI Quella che fosti – gli stessi pensieri, gli stessi sentimenti – li credevi cancellati in te spenti? – non è vero! Il più piccolo richiamo – e rieccoli in te, vivi, quegli stessi! MOMMINA Li richiami tu… VERRI No, un niente li richiama, perché vivono sempre – tu non lo sai, ma ti vivono sempre – appiattati sotto la coscienza! L’hai viva sempre, dentro di te, tutta la vita che hai vissuta! Basta un niente, una parola, un suono – la più piccola sensazione – guarda, in me, l’odore della salvia, e sono in campagna, d’agosto, ragazzo d’otto anni, dietro la casa del garzone, all’ombra d’un grande olivo, con la paura d’un grosso calabrone azzurro, fosco, che ronza ingordo dentro il calice bianco di un fiore; lo vedo tremare sul gambo quel fiore violentato, all’urto della voracità feroce di quella bestia che mi fa paura; e l’ho qua ancora, alle reni, questa paura, l’ho qua! – Figuriamoci tu, tutta quella tua bella vita, le cose che avvenivano tra voi ragazze e tutti quei giovanotti per casa, chiusi in questa, in quella camera…» (v. MN, p. 304).
8 Cappello a cilindro.
9 Variazione ennesima sul motivo del conflitto corpo-anima. Il «corpaccio» di Bobbio (via via paragonato a un mostro, un gigante, una bestia ombrosa, un orso) racchiude e imprigiona un’anima fanciullesca. Col corpaccio si accordano la ragione e la coscienza scettica, all’anima corrisponde un inconscio infantile e femmineo che conserva intatta una fede vergine e candida.
10 Frenarglielo (come appunto si para una bestia ombrosa che si sfrena).
11 Pareva diventare idrofobo.
12 Gamba.
13 Renderlo più rabbioso.
14 Nella fattispecie, l’espressione colloquiale figurata pretende alla letteralità.
15 In chiave grottesca, l’episodio miracoloso dell’avemaria sarà ripreso molti anni più tardi in Questa sera si recita a soggetto, dove, tra i tanti teatri suscitati, sarà montato anche un teatrino della fede, o dello scongiuro superstizioso, tramite il quale la signora Ignazia tenterà di farsi passare il mal di denti (v. MN, pp. 272-4).
16 Canapè. V. Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, n. 8.
17 Michel de Montaigne (1533-1592), ritiratosi a trentotto anni dalla magistratura, attese nel castello della terra da cui prende il nome, situata al confine fra il Périgord e la Guyenne, alla lettura e alla stesura degli Essais, cominciati in forma di chiose in margine ai libri che veniva leggendo e via via cresciuti fino a diventare la gigantesca peinture du moi che sono, ossia il libro della sua vita, pubblicato per la prima volta nel 1580 e ristampato, con sostanziose aggiunte, nel 1588.
18 Proprio così si intitola il XXVII capitolo del primo libro degli Essais: «È follia giudicare il vero e il falso in base alla nostra competenza» (v. M. DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di Fausta Garavini, Milano, Adelphi, 1992, p. 237).
19 «Quando leggiamo, in Bouchet, i miracoli delle reliquie di sant’Ilario, passi; la sua autorità non è abbastanza grande per toglierci la libertà di contraddirlo. Ma condannare in blocco tutte le storie simili, mi sembra un’impudenza straordinaria. Quel grande sant’Agostino testimonia» (M. DE MONTAIGNE, ed. cit., p. 240). L’africano Agostino (354-430), convertito al cristianesimo e diventato vescovo di Ippona, è uno dei quattro grandi dottori della Chiesa occidentale.
20 Il passo è la traduzione letterale del seguito della pagina di Montaigne, sopra interrotta dai puntini di sospensione. La sola interpolazione, mentale, da parte di Bobbio consiste nella correzione-precisazione «o diciamo, autentica».
21 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
22 V. sopra, p. 661: «fattovi sopra da una donna di recente battezzata». Esperio, che a Bobbio non interessa, è un servo della donna miracolata che sant’Agostino attesta «aver cacciato gli spiriti che infestavano la sua casa con un po’ di terra del Sepolcro di Nostro Signore» (v. M. DE MONTAIGNE, cit., p. 241).
23 «Una donna che in una processione aveva toccato la cassa di santo Stefano con un mazzo di fiori, e si era poi strofinata gli occhi con questo mazzo, aver riacquistato la vista da lungo tempo perduta» (ibidem).
24 Piena di grazia… Il Signore è con te… il frutto del tuo ventre… ora e nell’ora della morte…
25 Così sia (voce del latino ecclesiastico, dall’ebraico amen, “vero, sicuro”).
26 Bobbio respinge e rinnega furiosamente il sé insospettato che bussa alla porta della sua coscienza, e non si rende conto che si appresta a rimuovere soltanto il sintomo, non la malattia, ossia la sua costituzionale duplicità. È facile e ovvio inferire che, una volta sdentato, il suo doppio infantile e dolorante si manifesterà altrimenti e altrove. Nel finale del 1911, molto più stringato ma anche più meccanico, proprio a questo perturbante puer absconditus spettava l’ultima parola: «Chiuse gli occhi e recitò l’avemaria. La recitò questa volta in latino, per rispetto al Santo e al filosofo. / Attese. Riaprì gli occhi. Attese ancora un po’… Ave Maria… Ma che! Non gli passava… Gli veniva più forte… Ecco, ahi, ahi… più forte! Richiuse gli occhi; si recò di nuovo la mano alla guancia e due grosse lagrime gli sgorgarono dalle pàlpebre chiuse e gli rigarono le guance: due lagrime che a Bòbbio non parvero sue. / Erano difatti del fanciullino, del fanciullino ch’egli ancora aveva dentro, e che gli diceva in fondo all’anima così: / – Oh Bòbbio grosso, notajo onesto, ma filosofo imbecille: come hai tu recitato la preghiera? L’hai recitata con le labbra e per fare una prova e come per una sfida. E non comprendi che l’altra volta il mal di denti ti passò perché lasciasti pregar me, dal tuo cuore, e con la nostra fede ingenua d’allora?» (v. NUAI, p. 1316). Ed era, ancorché non scevra di qualche ambiguità, quasi una vittoria del sottile fanciullo-dottore sul grosso filosofo positivo. Questo nuovo finale nega viceversa la parola al fanciullino interiore ed enfatizza umoristicamente solo la rabbiosa renitenza dell’adulto incredulo, che preferisce la tortura del dentista al subdolo balsamo anestetico della fede, preferisce la mutilazione allo sdoppiamento.
1 Fu pubblicata per la prima volta, col titolo Certi obblighi…, sul «Corriere della Sera» dell’11 marzo 1912; due anni più tardi fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini, 1914) e, nel 1920, nel volume Tu ridi (Milano, Treves), che ristampava quasi per intero la raccolta fiorentina. Entrò infine, con l’espunzione dei puntini dal titolo, nell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925), il quale, su quindici novelle, ne recupera ben undici dalle due raccolte citate. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
Per gli elementi di inventio che legano Certi obblighi e La verità, che di questa novella è in qualche modo il rovescio rustico e cruento, alla commedia siciliana del 1916 ‘A birritta cu ‘i ciancianeddi e alla versione italiana del 1918 Il berretto a sonagli, si vedano le note a La verità. Per il titolo, v. Senza malizia, n. 1.
2 Gamba (specie se, come qui, difettosa).
3 Sconcia non tanto esteticamente, quanto perché sta al posto che è delle corna.
4 Lo burlano gridandogli insulti. Si vedrà poco oltre, nella novella La verità che sta con questa in un rapporto di antifrastica solidarietà tematica, che Tararà, marito contadino, aveva potuto contare per un certo periodo su un prudente silenzio rusticano. Quaquèo, cittadino, non può giovarsene ed è ridotto a zimbello. Egli sa perciò bene quanto poco conti che uno voglia non sapere per non dover fare: gli altri sono lì, pronti a richiamarlo al dover sapere e al dover fare. E dunque ad un obbligo non si può sfuggire se non dimostrando («Ora me lo dici? Ora che debbo illuminare la città?») di doverne rispettare prioritariamente un altro. Quaquèo, che è già caduto una volta dalla scala e ha battuto la testa, è uomo della Realpolitik, e usa la sua sottigliezza di loico e di ragionatore per farsi una corazza della natura costrittiva dei codici (quello d’onore e quello civile) così come sono.
5 L’equivoco è ovvio, e legittimato dai becchi degli auspicati lampioni a gas. La parola, impronunciabile davanti a un qualsiasi sposo onorato, può trovare un provvisorio alibi se un marito becco fa, guarda caso, il lampionaio.
6 Il rustico Tararà né è ricorso alla legge né capisce il ruolo della giustizia; Quaquèo, invece, coerentemente, ricorre in primo luogo alla consulenza legale del cavalier Bissi.
7 Quaquèo non solo non scarta d’una virgola dal codice sociale dell’onore fondato sul dovere di fronte all’opinione pubblica – ne prevede anzi un’applicazione meticolosa e incrollabilmente severa –, ma ne espunge ogni elemento passionale ed ogni procedura indiziaria per farne un meccanismo probatorio razionale e millimetrico. È chiaro anche, e lo si vedrà, che Quaquèo conosce un altro insigne precedente giurisprudenziale, quello di Otello, ed è palese che considera quest’ultimo un sublime imbecille come tutti coloro che uccidono senza che ci sia scandalo e, soprattutto, senza prove.
8 Tale, cioè, da non ammettere replica.
9 V. il precedente de La levata del sole I 523: «Lo sfavillio delle stelle, che trapungeva e allargava il cielo, non arrivava ad esser lume in terra».
10 Le lunghe aste parallele o convergenti della scala a pioli.
11 Oscillavano.
12 Certo il lampionaio stilita e filosofo è personaggio la cui statura tematica va al di là dell’astuto stratagemma con cui si sottrarrà al delitto che per burla feroce gli si vorrebbe far commettere. Lo dimostra la sua pratica di crocifiggersi ai lampioni tre volte al giorno, e meditare, e lo dimostra questo suo strano sogno, ambiguamente sospeso tra una avventura mirabolante degna del barone di Munchausen e la profetica visione di Giacobbe: «E vide in sogno una scala rizzata sulla terra la cui cima toccava il cielo» (Gen. 28.12). Sarà anche in memoria del lampionaio sciancato che ne I giganti della montagna il «nano grasso, vestito da bambino, di pelo rosso e con un faccione di terracotta che ride largo, d’un riso scemo nella bocca ma negli occhi malizioso» (v. MNII, p. 1311) si chiamerà Quaquèo.
13 Per questo motivo del lampionaio e della luna, v. Lontano I 652 e n. 59.
14 V. la ripresa puntuale di Romolo III 171.
15 Si mette a sedere.
16 Provocano.
17 Quaquèo, rassegnato, veste i panni dell’Alfio verghiano di Cavalleria rusticana e di Tararà, snuda il coltello a va verso casa. Giuntovi, però, vi entra, si richiude l’uscio alle spalle e vi inscena un melodramma furibondo e terrificante sulla base di stravolte citazioni da Rigoletto prima («Dov’è? dimmi dov’è! dove l’hai nascosto?») – tant’è che la moglie, malamente strapazzata, lo chiama «buffone» –, e infine, grandiosamente, da Otello ovvero dall’atto II, scena V, della sua versione più celebre e vulgata, quella operistica verdiano-boitiana: «Tutto il mio vano amor esalo al cielo; […] Nelle sue spire d’angue / L’idra m’avvince! Ah! sangue! sangue! sangue!». Quaquèo intende persuadere delle sue serissime intenzioni omicide i concittadini conformisti e ignoranti, che non possono cogliere l’aspetto comico-parodistico di un tale centone operistico. Il linguaggio e gli atti della tragedia, che a lui, lampionaio semi-filosofo, sono totalmente estranei, li prende a prestito dall’enfatico guardaroba del melodramma per rovesciarli disordinatamente sugli astanti; e l’effetto parodico più spettacolare è proprio quello che deriva dal confronto fra la contraffatta terribilità siculo-rusticana e l’eco della togata, poetica tragicità con cui si esprimeva la minaccia del moro di Venezia.
18 Armadio a muro; ma qui una semplice nicchia coperta da una cortina.
19 Una volta scoperto chi sia il seduttore destinato fino a un istante prima al macello, alla carneficina, ad essere scannato insieme all’adultera, Quaquèo è veramente a confronto diretto col codice dei doveri che ha sempre difeso. Ma, a differenza di quel che accade a Tararà, la non esistenza, o comunque l’assenza e il silenzio, d’una signora Bissi, gli consente d’essere lui, e lui solo, presente alla constatazione del delitto. E Quaquèo, che non s’è mai illuso di poter privatizzare il pubblico, capisce immediatamente come a certe condizioni possa essere conveniente pubblicare il privato. Proprio perché ha sempre pensato che il codice d’onore, o meglio quello ch’egli chiama l’obbligo di curarsi dei torti della propria moglie, ha come unico valore il prestigio presso l’opinione pubblica, l’approvazione degli altri, egli ha chiaro che a contare è ciò che appare e non ciò che è, tanto più che, «in cuor suo», di ciò che è non si cura più affatto. Così la sua storia può non finire né nel sangue né in tribunale, perché c’è non luogo a procedere, perché il fatto non sussiste e la sua insussistenza viene suffragata da una pubblica constatazione di non adulterio. Sotto la sua ridicola e misera apparenza di sciancato, Quaquèo appartiene già alla bennata prosapia filosofica del Memmo Viola di Quando s’è capito il giuoco e anticipa la sottigliezza di Ciampa (v. La verità, n. 32), personaggi come lui capaci di difese disperate e incrollabili.