1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 31 marzo 1912. Nel 1915 venne compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 A stanghetta.
3 Cotone ritorto. I guanti di filo sono indumento normalmente femminile (v. anche Distrazione, n. 17).
4 Il topico spettro della matrigna tiranna e crudele induce la comunità del vicinato a rielaborare e iperbolizzare le considerazioni e le previsioni che il furore geloso e censorio aveva già suggerite alla Teresa Piovanelli de L’uscita del vedovo (v. p. 209): «Una donna che ha figliuoli e che per necessità riprende marito, anche avendo altri figliuoli da questo secondo marito, non cessa mai d’amare i primi; non solo, ma riesce a farli amare anche dal padrigno. Sfido! Li ha fatti lei, questi e quelli: suo sangue, sua carne! Un vedovo, invece, con figli, che riprenda moglie, anche se non abbia altri figliuoli dalla seconda moglie, non ama più quelli come prima, perché la madrigna se n’adombra, la madrigna se ne ingelosisce; e se poi questa gliene dà altri, lo tira ad amare i proprii e a trascurare i poveri orfanelli; e lui, vigliacco, schifoso, mascalzone, farabutto, obbedisce!».
5 Decisa, che sapeva il fatto suo.
6 «Tanto grande e grosso quanto semplicione» (Devoto-Oli). Puntuale l’appunto registrato in uno dei foglietti: «Badalone, grande e grosso» (v. BRB, p. 68).
7 Storte, curvate in fuori.
8 Si veda la morbosa domanda che la gente eccitata rivolge a Quaquèo che ha giurato d’ammazzare la moglie adultera, nella limitrofa Certi obblighi (p. 668): «La scanni davvero?». Ma la pertinenza diretta è probabilmente un’altra. La figlia di Lietta Pirandello, M. Luisa Aguirre D’Amico, reca testimonianza della memoria autobiografica che suggerisce questa (e l’ultima) battuta infantile di Ninì: «Lietta si ricordava che Fausto andava dal padre, seduto dietro la scrivania, per fare le rimostranze contro Stefano. Il padre, alzando per un momento gli occhi dal lavoro, diceva con aria terribile: “Stefano, bada che ti ammazzo!”. E Fausto, piccolo, con la lingua ancora imbrogliata, lo interrogava preoccupato: “Lo ammassi davvero?”» (v. Album Pirandello, con un saggio biografico e il commento alle immagini di Maria Luisa Aguirre D’Amico, Milano, Mondadori, 1992, p. 93).
9 Intitolata agli sfortunati Nené e Ninì, soggetti fatalmente passivi, la novella è giocata in realtà sul contrappunto, perverso più ancora che malizioso, fra apparire ed essere; ossia fra l’esibizione chiassosa d’una tenera pietà per i due bambini e la scherma sotterranea di esigenze, propositi e interessi che niente hanno a che vedere con una loro equilibrata educazione e con la loro felicità. I poveri orfanelli che tutti coccolano a gara, sono in realtà preda ed esca di donne impegnate a maritare le figlie, di ragazze in cerca di marito, di un vedovo che ha bisogno di risposarsi. Nessuno li maltratta, ma tutti li usano.
10 Incrociando, accavallando.
11 Imbrogliata.
12 Si sentiva rivoltare.
13 Nella redazione del 1912, la novella finiva qui. Ma l’intero intreccio era in quella prima stesura bilanciato in tutt’altro modo, a muovere dal fatto che, sollecitato da altri presagi funesti risalenti al breve tempo del matrimonio e che riassalgono il protagonista subito dopo la morte della moglie (v. NUAI, p. 1359: «Ah, la casetta – non c’era da dire – era proprio bellina, la casetta e messa bene; ma situata, santo Dio, in una strada, da cui non passavano che carrozze da morto. Non per nulla, fin da principio aveva fatto questa osservazione! La mogliettina gli era piaciuta, e tutto il contorno dell’arredo, mobili, tappezzeria, ninnoli, sì, tutto gli era piaciuto; solo quel transito di carrozze da morto sotto le finestre… Presentimenti!»), il sospetto che i due bambini portassero con sé un destino di morte entrava molto più precocemente nella dinamica narrativa e non si configurava dunque come fissazione depressiva che aggredisce il professor Del Donzello alla vigilia della catastrofe, ma come una taciuta arrière-pensée che gli aveva avvelenato fin da principio l’ipotesi di un secondo matrimonio.
14 Avesse pure torto il professor Del Donzello a temere il terribile potere dei due bambini, angeli per tutti coloro che non li devono accudire e diabolici ministri di un destino di morte inarrestabile per i genitori veri e per quelli putativi, sta di fatto che nei due animaletti coi quali Nené e Ninì giocano crudelmente all’uscita del racconto, una gattina viva e un pappagalletto impagliato, pare proprio di poter riconoscere l’ancor viva Caterina (dotata di virtuosa mansuetudine come «mansa» è la gatta di Nené) e il defunto Erminio, finito vittima di una pappagallesca coazione a ripetere. I due orfanelli non saranno angeli sterminatori, ma certo è che l’affettuosità mentita, la tenerezza finta, la dolcezza interessata da cui sono stati circondati, malignamente mescolandosi alle prevenzioni e ai sospetti paurosi di cui sono stati nutriti, non producono due bambini buoni e sereni, ma due creature strane, due inquietanti complici candidamente perversi, i quali giocano, «ignari e felici», con parole di morte. Nella prima stesura, anche questa scenetta, accorciata e priva d’ogni sintomo di crudeltà, era dislocata nella prima parte del racconto e antifrasticamente legata ai cattivi auspici che tormentavano Erminio Del Donzello: «[…] e così, via via, una serie infinita di sostituti genitori sarebbe passata per quella casetta, che per quattro finestre su la facciata guardava il transito molto animato di tante carrozze da morto… / I due bambini, intanto, Nenè e Ninì, se la ridevano, ignari affatto della sciagura [la morte della madre]. Avevano trovato in casa d’una vicina una gattina mansa e un pappagalletto imbalsamato, e ci giocavano» (v. NUAI, pp. 1359-60). È evidente che dislocazioni e inversioni come questa e come quella segnalata (varianti a parte) alla nota precedente non modificano solo la compositio narrativa, ma incidono profondamente sulla semantica del racconto. Qui, come in alcuni altri casi (si rammenti ad esempio Un cavallo nella luna), pur restando formalmente legittimo parlare di varianti, bisogna avere ben chiaro che la riscrittura o il rifacimento comportano di fatto un diverso orientamento della semantica narrativa e pervengono a esiti dei quali sono da privilegiare, in sede di lettura, assai più gli elementi differenziali che non l’omologazione suggerita dal rapporto di filiazione fra una stesura e la successiva.
1 Fu pubblicata per la prima volta, limitatamente ai tre primi paragrafi, su «Roma. Rassegna illustrata della Esposizione del MCMXI» il 15 aprile 1912. Providenti osserva: «Sull’ultimo numero della rivista (a. III, n. 6-7) apparve la prima puntata di questa novella che al prossimo numero lasciò interrotta, benché sia ovvio supporre che essa fosse già stata interamente scritta» (v. NBOG, p. 739). Nel 1915 venne compresa, stavolta per intero, nella raccolta La trappola (Milano, Treves), e nel 1922 entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Nel 1929, Pirandello trasse dalla novella l’omonima commedia in tre atti che andò in scena a Torino il 4 novembre di quello stesso anno. La transcodificazione teatrale, frutto dello smaliziato mestiere pirandelliano ma di tutt’altra stagione creativa, è scaltra ma stanca. Giocata nel primo atto su un registro più leggero, nei due successivi smussa la logica ferrea e, sia pur cupamente, umoristica della trappola relazionale in cui i protagonisti si dibattono, pagando però al realistico e al patetico una pesante contropartita.
2 La situazione narrativa d’innesco è palesemente una replica di quella di Pari, novella del 1907: v. p. 329 («Bartolo Barbi e Guido Pagliocco, entrati insieme per concorso al Ministero dei Lavori Pubblici […] erano divenuti, dopo tanti anni di vita comune, indivisibili amici») e p. 333 («Ma purtroppo il matrimonio, nelle presenti tristissime condizioni sociali, doveva esser considerato come un lusso, che pochi solamente potevano concedersi»).
3 In Pari, il problema economico del matrimonio si intrecciava fastidiosamente, per i protagonisti maschi, con la questione femminile e la pretesa d’emancipazione delle donne (v. p. 333). Qui lo spinoso quesito non si pone neppure: i due assennati amici sottraggono la ragazza padovana alla prostituzione e ne fanno la loro mantenuta; e la docile Melina, ben lungi dall’adontarsene, si dimostra anzi gratissima. Con grande lievità e naturalezza si svolgono i fatti, e con altrettanta lievità il narratore può raccontarli.
4 La lezione del 1912 recitava: «Erano l’uno e l’altro legati ancora alla propria famiglia lontana, con tutta l’anima, con tutti i ricordi dell’intimità domestica insaporati di quel particolare alito che spira nella propria casa e che dà alla vita quasi un odore, che più s’avverte quando ci vien meno, quando, entrati in un’altra casa, vi avvertiamo un alito diverso» (v. NUAI, p. 1345). E ancora nel 1915 questa redazione era restata pressoché immutata. Nel medesimo 1915, però, nel numero di gennaio della rivista «Sapientia» vedevano la luce, sotto il titolo Ricostruire, quelli che sarebbero diventati dieci anni più tardi i capp. VI-XI del secondo libro del romanzo Uno, nessuno e centomila (v. RII, p. 1057). E in quella sede, in forza del complicato sistema di vasi comunicanti che collega i testi pirandelliani, sopravvive la porzione di testo che verrà cassata nella lezione 1922 della novella e che invece si conserverà intatta nella stampa definitiva del romanzo: ««i vostri mobili sono, come i ricordi della vostra intimità domestica, insaporati di quel particolare alito che cova in ogni casa e che dà alla nostra vita quasi un odore che più s’avverte quando ci vien meno, appena cioè, entrando in un’altra casa, vi avvertiamo un alito diverso» (v. RII, p. 772). Per il motivo della casa natale e della sua irriproducibile intimità, v. anche Colloquii coi personaggi III 187 e n. 27.
5 Vengono ancora una volta denotate, e con particolare nitidezza, la recondita duplicità e una delle linee di potenziale scissura che caratterizzano il soggetto. La forbice tematica fondante è quella essere/apparire, che qui si traduce nell’attrito fra la necessità e la volontà di apparire adulti duri e freddi, oppure ispidamente virili, e il fatto di conservare, al fondo, una creaturale e infantile inermità e debolezza. L’insopprimibile puer absconditus che l’uomo porta in sé fa sì che l’adulto sia quasi sempre diviso fra il rimpianto nostalgico per l’infanzia e la vergogna di questa nostalgia, fra il represso e la repressione.
6 Istituto o reparto ospedaliero riservato alle partorienti e ai neonati abbandonati. Nella commedia del 1929, l’avvocato Merletti, amico dei due amici, dirà più chiaramente: «Ci son ben per questo gli ospizii di maternità, dove si lasciano i figliuoli» (v. MNII, p. 770).
7 In superficie, senza approfondire.
8 I due amici si ingannano, reciprocamente accusandosi: essi sono in realtà perfettamente d’accordo come sempre. Ciò che li rende discordi e cordialmente nemici non è affatto la propensione a compiere scelte opposte, ma solo l’irreparabile incrinatura della parità gemellare, la quale è provocata in realtà non dalla gravidanza di Melina, alla quale vogliono entrambi rimediare nell’identico modo (v. p. 679: «l’avrebbero mandata a liberarsi in qualche ospizio di maternità, da cui […] sarebbe ritornata a loro, sola»), ma dal desiderio della donna di tenersi il figlio. Perché quel figlio della loro Melina non è loro, ma dell’uno o dell’altro. E quella congiunzione disgiuntiva rompe irrimediabilmente il loro sistema di condivisione paritaria della vita. La superficie dell’intrigo non deve ingannare (e il titolo della novella non è infatti ingannevole): la vicenda non è una storia a tre. La dolce Melina non è mai stata altro che un ingrediente della storia duale di Carlino e Tito. L’incomodo terzo è il non condivisibile nascituro.
9 Ribadiva.
10 È naturalmente vero il contrario: se Melina avesse parlato prima con Tito, la vicenda sarebbe stata la medesima a parti invertite.
11 La vicenda, silenziosamente ingranatasi all’annuncio della gravidanza di Melina, procede ormai come un meccanismo perverso e inarrestabile. E il racconto è reso urtante dal determinismo dei successivi scatti psicologici che lo scandiscono. Deliberatamente urtante, poiché descrive lucidamente, passo per passo, proprio l’ottusità morbosa di una relazione a due che ha cambiato di segno e ha preso a procedere a rovescio, senza perciò allentarsi o sciogliersi. È una patologia relazionale quella che la novella racconta, e il dato peggiore delle patologie di questo tipo è appunto la loro tendenziale indissolubilità. Il nodo sarebbe assai meno stretto, e facilmente recidibile, se uno dei due amici volesse tenere il figlio e l’altro volesse liberarsene. Purtroppo non si tratta di questo. Inizialmente d’accordo per far sì che Melina abbandoni il bambino, d’accordo successivamente (pur senza volerlo apertamente dichiarare) per consentire alla ragazza di tenerlo, i due amici sono messi uno contro l’altro non da una disparità, per quanto grave, di scelte pratiche, ma dalla crisi della loro relazione gemellare paritaria e dall’orrore della complementarità che ne consegue; dall’eventualità paventata, e per l’uno come per l’altro intollerabile, di venir subdolamente costretto ad accettare con l’altro un rapporto complementare subalterno. Nessuno dei due è in grado di restaurare lo stabile equilibrio dell’antico rapporto di condivisione, ma nessuno dei due può spezzare il vincolo che li lega senza sentirsi per ciò stesso conculcato e sconfitto. Nec tecum nec sine te: questo il paradosso che li vincola, molto simile a quello che il delirio di gelosia instaura tra coniugi. E altrettanto simile è il jeu de massacre che ne deriva.
12 Resi pesanti (v. La trappola, p. 698).
13 Stoffa colorata posta sotto il ricamo per farne risaltare il disegno (v. anche La maestrina Boccarmè III 448 e n. 14).
14 Città laziale dell’interno, in provincia di Frosinone.
15 «Costruite con enormi blocchi rozzamente lavorati, sovrapposti gli uni agli altri senza malta, secondo il sistema di costruzione delle mura pelasgiche e poligonali di diverse località della Grecia continentale e insulare, dell’Etruria e del Lazio, dalla tradizione attribuite ai Ciclopi» (Devoto-Oli). Quella di Alatri, risalente al IV sec. a.C., è in effetti la più importante acropoli italiana.
16 Contrarsi per lo spasimo come artigli.
17 Rassicurata.
18 Il celebre episodio biblico del Terzo Libro dei Re (3.16-27) è il seguente: «In quel tempo vennero due donne meretrici al re e si presentarono dinanzi a lui. Una di esse disse: “Ascoltami, te ne prego, o mio signore; io e questa donna abitavamo nella medesima casa, e io partorii presso di essa nella stessa stanza. Tre giorni dopo che io ebbi partorito, anche costei ebbe un figliuolo, e stavamo insieme, e non v’era altri con noi nella casa all’infuori di noi due. Ora morì il figliuolo di questa donna durante la notte, avendolo essa soffocato mentre dormiva. Levatasi allora nel cuor della notte, di nascosto tolse il mio figlio dal fianco della tua ancella, che dormiva, e se lo collocò sul suo seno, mentre il suo figlio, che era morto, lo pose sul mio seno. Il mattino nell’alzarmi per dare il latte al figliuol mio, lo vidi morto; ma avendo guardato con maggior diligenza alla luce del giorno, m’accorsi che non era quello che io aveva generato”. L’altra donna rispose: “Non è vero quanto tu dici, ma il figlio tuo è morto; il mio vive”. Al contrario l’altra diceva: “Tu menti, poiché il mio figlio vive e il tuo è morto”; e così litigavano alla presenza del re. Allora il re disse: “Una dice: – Il mio figlio vive e il figlio tuo è morto. – E l’altra risponde: – No, ma è il figlio tuo che è morto, il mio vive –”. E il re continuò: “Portatemi una spada”. Quando ebbero portata la spada davanti al re, egli soggiunse: “Dividete il bambino vivo in due parti e datene una metà all’una e una metà all’altra”. La donna, madre del figlio vivo, (siccome si sentì commuovere le viscere per amor del proprio figliuolo), disse al re: “Te ne scongiuro, o signore, dà a lei il bambino vivo e non volerlo uccidere”. Al contrario l’altra diceva: “Non sia né mio, né tuo, ma sia diviso”. Rispose allora il re e disse: “Date a costei il bambino vivo e non si uccida, poiché costei è la vera madre”».
19 Echeggia qui un ricordo del lontano analogo legame fra il campagnolo Tanotto e il gracile Tanino: v. Tanino e Tanotto I 690.
20 Il racconto, apertosi col preannuncio di un’incidenza che segna una rottura, si chiude, con simmetria troppo esibita per non essere umoristica e non risultare addirittura sarcastica, con l’annuncio di una ricomposizione perfetta sancita dal logoro luogo comune della clausola: amici come prima. In realtà i due protagonisti, che sono stati più che amici in un tempo che, per così dire, precede la vera e propria diegesi, sono avviati a tornare amici in un tempo che si colloca oltre la diegesi e al di là dell’explicit del racconto. Il racconto copre, invece, solo il tempo in cui, entrambi sotto la divisa o di uno o di nessuno, si sono sbranati in una guerra nella quale ogni loro bene è andato sperperato. Prima di quella guerra la loro pace si era fondata sul fatto che tutto (e prima di tutto Melina, affidataria del cuore di entrambi) era stato dell’uno e dell’altro; ora la loro pace riposa sul fatto che Nillì, nuova metonimia di tutti i loro affetti, non è né dell’uno né dell’altro. La parità e la condivisione si restaurano sulla mancanza, sul vuoto.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 23 maggio 1912, e successivamente, «a modo di conclusione» (così fu nell’occasione parenteticamente sottointitolata), in fondo alla raccolta omonima del 1915, La trappola (Milano, Treves). Fu infine inclusa nel quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922), che recupera nove racconti della citata raccolta. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Questa locuzione (che, con piccole variazioni, ricorre nel corpus con frequenza più che significativa) ha l’emblematica stringatezza di una divisa. Questi istanti di arresto e di angosciosa immobilità fra un prima e un dopo, fra una qualunque certezza (positiva o negativa che sia) e la minaccia dell’inconsistenza o d’una catastrofe, costituiscono una sorta di prova iniziatica cui vengono sottoposti numerosissimi personaggi e, naturalmente, c’è chi la supera e chi no. A parlarne è, qui, un ragionatore tagliente e rabbioso, troppo a lungo trattenutosi in quello stato di soglia e tutt’altro che pacificato. Questo filosofo stranamente risentito e impietoso la dice lunga sulla filosofia e le sue ipotetiche consolazioni, illuminando il vizio di ragionare o, come viene definita in Certi obblighi (p. 663), «la cattiva abitudine di ragionar con se stesso», della luce di angoscia, d’inquietudine, di terrore, di malattia che la caratterizza. Ragionare è, assai prima e più che non filosofare, soffrire, e come la forma discorsiva specifica della sofferenza vanno intesi gli apparenti filosofemi e i sagaci sofismi dei personaggi. Pirandello lo sostenne del resto con convinta fermezza nello scritto Gli scrupoli della fantasia, pubblicato il 22 giugno 1921 su «L’Idea nazionale» e da allora fatto seguire come avvertenza a tutte le ristampe de Il fu Mattia Pascal: «mentre lo zoologo riconosce che l’uomo si distingue dalle altre bestie anche per il fatto che l’uomo ragiona e che le bestie non ragionano; il ragionamento appunto (vale a dire ciò che è più proprio dell’uomo) è apparso tante volte ai signori critici, non come un eccesso se mai, ma anzi come un difetto d’umanità in tanti miei non allegri personaggi. Perché pare che umanità, per loro, sia qualche cosa che più consista nel sentimento che nel ragionamento. / Ma volendo parlare così astrattamente come codesti critici fanno, non è forse vero che mai l’uomo tanto appassionatamente ragiona (o sragiona, che è lo stesso), come quando soffre, perché appunto delle sue sofferenze vuol veder la radice, e chi gliele ha date, e se e quanto sia stato giusto il dargliele; mentre, quando gode, si piglia il godimento e non ragiona, come se il godere fosse suo diritto?» (v. RI, p. 581). E poco prima aveva affidato l’appassionata perorazione del medesimo argomento al personaggio del Padre, nella prima redazione dei Sei personaggi in cerca d’autore: «IL PADRE […] Ma creda ch’io «sento», «sento» quello che penso, e sembra ch’io ragioni soltanto a chi non pensa a quello che sente, perché nel proprio sentimento s’acceca. So, so che a tanti quest’accecarsi sembra molto più «umano»; ma è vero il contrario, signore; perché l’uomo non ragiona mai tanto (o sragiona, che è lo stesso), come quando soffre, perché delle sue sofferenze vuol vedere la causa, e chi gliel’ha date e se sia stato giusto o ingiusto il dargliele; mentre, quando gode, si piglia il godimento e non ragiona più, come se godere fosse suo diritto. Delle bestie, signore, è il soffrire senza ragionare. Faccia che un uomo, soffrendo, ragioni. Non s’ammette! Soffra come una bestia; e allora, sì, ecco – è «umano»! IL DIRETTORE Ma vede, vede intanto che lei seguita a ragionare? IL PADRE Perché soffro, signore! Io non ragiono; grido così il perché delle mie sofferenze!» (v. MN2, pp. 1029-30).
3 Gonfie.
4 Concrezioni calcaree in vicinanza di articolazioni, specialmente nei malati di gotta (etimologicamente legato al lat. tofus, “tufo”).
5 Si sono stazzonati.
6 In una delle poesie sparse, Esame V, 12-4, si legge: «La verità? Ma ell’è come un sereno / lago, uno specchio che per sé non vede / e in cui sé stessa ogni persona mira» (v. SPSV, p. 822). E pari pari nel romanzo Suo marito: «La verità: uno specchio che per sé non vede, e in cui ciascuno mira sé stesso, com’egli però si crede, qual’egli s’immagina che sia» (v. RI, p. 640).
7 Questo orrore smanioso del protagonista (maschio e misogino) de La trappola riaffiorerà tale e quale in quella «bizzarra creatura» che sarà Anna Rosa, la venticinquenne «vergine matura» di Uno, nessuno e centomila, della quale Vitangelo Moscarda dirà: «Avevo indovinato in lei l’insofferenza assoluta d’ogni cosa che accennasse a durare e stabilirsi. Tutto ciò che faceva, ogni desiderio o pensiero che le sorgevano per un momento, un momento dopo erano già come lontanissimi da lei; e se le avveniva di sentirsene ancora trattenuta, erano smanie rabbiose, scatti d’ira e perfino scomposte escandescenze» (v. RII, pp. 887-8).
8 Un precedente di questo vano gioco coi peli, trattato peraltro con tutt’altra leggerezza umoristica, è ravvisabile nella novelletta del 1901 Prudenza.
9 Allo stesso proposito, nella Prefazione del 1925 ai Sei personaggi in cerca d’autore, si leggerà: «Il conflitto immanente tra il movimento vitale e la forma è condizione inesorabile non solo dell’ordine spirituale, ma anche di quello naturale. La vita che s’è fissata, per essere, nella nostra forma corporale, a poco a poco uccide la sua forma. Il pianto di questa natura fissata è l’irreparabile, continuo invecchiare del nostro corpo» (v. MN2, p. 663).
10 La logica circolare perversa che stringe l’uomo nel vortice doppio e ambivalente della sua perpetua mutevolezza e delle sue innumerevoli attimali illusioni di persistenza e consistenza, costituisce un nodo tematico così irresolubile, che queste medesime considerazioni riaffioreranno puntuali in Uno, nessuno e centomila: «Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto. / Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà. E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione. / Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate sorprese» (v. RII, pp. 778-9). E però, altrettanto puntualmente, in uno dei Foglietti stampati da Corrado Alvaro sulla «Nuova Antologia» il 1° gennaio 1934, si legge: «Vivendo, noi tutti tendiamo a fissarci. La coerenza è una fissazione» (v. SPSV, p. 1215).
11 È la aforistica formulazione di uno dei corni della contraddizione tematica che attraversa da capo a fondo l’opera pirandelliana. Il suo contrario simmetrico sarà formulato altrove diverse volte: per non uscire dal corpus delle novelle, possiamo citarne l’occorrenza, posteriore di solo tre anni, del primo dei Colloquii coi personaggi: «La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra. Un cataclisma, una catastrofe, guerre, terremoti la scacciano da un punto; vi ritorna poco dopo, uguale, come se nulla fosse stato. Perché la vita, così dura com’è, così di terra com’è, vuole se stessa lì e non altrove, ancora e sempre uguale. E vorrà anche il cielo, per tante cose; ma, sopra tutto, creda, per dare respiro a questa terra» (v. III 183-4). E il nucleo di questa formulazione sarà ripreso, a distanza di vent’anni, in Di sera, un geranio III 559: «Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra!». Per un verso la vita è flusso, soffio, alito, cioè anima, e il corpo è durezza, gravezza, morte. Per un altro verso la vita è terrosa consistenza, zolla feconda, generante corporalità, e l’eterea lievità dell’anima non è che pneuma, aria che serve a far respirare il corpo.
12 Il ragionatore feroce de La trappola ha reciso (o è vicino a recidere) il nodo della contraddizione che stringe l’uomo: è schierato, furiosamente, contro la miserabile coerenza delle forme e contro l’irrazionalità cieca dell’illusione di vivere che genera la trappola delle forme; e vagheggia un mito regressivo che lo attira, al di là di ogni principio di piacere, verso la magmatica fluidità indistinta e non individuata d’un flusso vitale primigenio, condizione prenatale che all’uomo, una volta nato, non può essere restituita che dalla morte. Ma per cogliere fino in fondo l’ambivalenza del motivo (nec tecum nec sine te è la paradossale e ineluttabile relazione dell’uomo con la forma), conviene richiamare e allineare la sequenza delle sue occorrenze maggiori. Ne L’umorismo si leggeva: «La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto» (v. SPSV, pp. 151-2). L’anno dopo, nel romanzo I vecchi e i giovani, il personaggio di Lando Laurentano sviluppava analoghe considerazioni: «Composizioni artificiose, vita fissata, rappresa in forme immutabili, costruzioni logiche, architetture mentali, induzioni, deduzioni – via! via! via! / Muoversi, vivere, non pensare! / Che angoscia, che smanie talvolta, se s’affondava nel pensiero che anch’egli, inevitabilmente, coi concetti e le opinioni che cercava di formarsi su uomini e cose, con le finzioni che si creava, con gli affetti, coi desiderii che gli sorgevano, fermava, fissava in sé e tutt’intorno a sé in forme determinate il flusso continuo della vita! Ma se già egli stesso, con quel suo corpo, era una forma determinata, una forma che si moveva, che poteva seguire fino a un certo punto questo flusso della vita, fino a tanto che, man mano irrigidendosi sempre più, il movimento già a poco a poco rallentato non sarebbe cessato del tutto! Ebbene, certi giorni, arrivava a sentire per il suo stesso corpo, così alto e smilzo, per il suo volto bruno pallido, dalla fronte troppo ampia, dalla barba nera, quadra, dal naso imperioso in contrasto con gli occhi da arabo sonnolento e voluttuoso, una strana antipatia. Se li guardava nello specchio come se fossero d’un estraneo. Dentro quel suo stesso corpo, intanto, in ciò che egli chiamava anima, il flusso continuava indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti ch’egli imponeva per comporsi una coscienza, per costruirsi una personalità. Ma potevano anche tutte quelle forme fittizie, investite dal flusso in un momento di tempesta, crollare, e anche quella parte del flusso che non scorreva ignota sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopriva a lui distinta, e ch’egli aveva con cura incanalato nei suoi affetti, nei doveri che si era imposti, nelle abitudini che si era tracciate, poteva in un momento di piena straripare e sconvolger tutto. / Ecco: a uno di questi momenti di piena egli anelava!» (v. RII, pp. 311-2). Nel 1924, nella commedia Ciascuno a suo modo, toccherà a Diego Cinci tornare sul medesimo argomento: «DIEGO […] Per toccare qualche cosa e tenerti fermo, ricaschi nell’afflizione e nella noja della tua piccola certezza d’oggi, di quel poco che, a buon conto, riesci a sapere di te: del nome che hai, di quanto hai in tasca, della casa che abiti: le tue abitudini, i tuoi affetti – tutto il consueto della tua esistenza – col tuo povero corpo che ancora si muove e può seguire il flusso della vita, fino a tanto che il movimento, che a mano a mano si va rallentando e irrigidendo sempre più con la vecchiaja, non cesserà del tutto, e buona notte! / FRANCESCO Ma tu stavi parlando di Delia Morello – / DIEGO – ah, sì – per dirvi tutta la mia ammirazione – e che almeno è una gioja – una bella gioja spaventosa – quando, investiti dal flusso in un momento di tempesta, assistiamo al crollo di tutte quelle forme fittizie in cui s’era rappresa la nostra sciocca vita quotidiana; e sotto gli argini, oltre i limiti che ci eran serviti per comporci comunque una coscienza, per costruirci una personalità qualsiasi, vediamo anche quel tanto del flusso che non ci scorreva dentro ignoto, che ci si scopriva distinto perché lo avevamo incanalato con cura nei nostri affetti, nei doveri che ci eravamo imposti, nelle abitudini che ci eravamo tracciate, straripare in una magnifica piena vorticosa e sconvolgere e travolgere tutto. – Ah, finalmente! – L’uragano, l’eruzione, il terremoto!» (v. MN, pp. 194-5). E infine sarà Vitangelo Moscarda a ritessere il ragionamento e beneficio del giudice che lo interroga in quanto vittima del tentato omicidio a opera di Anna Rosa: «Lei ha l’ufficio di raccogliere e preparare gli elementi di cui la giustizia domani si servirà per emanare le sue sentenze? E viene a domandare a me le mie considerazioni sulla vita, quelle che per l’imputata sono state la cagione d’uccidermi? Ma se io gliele ripetessi, signor giudice, ho gran paura che lei non ucciderebbe più me, ma se stesso, per il rimorso d’avere per tanti anni esercitato codesto suo ufficio. No, no: io non gliele dirò, signor giudice! È bene che lei anzi si turi gli orecchi per non udire il terribile fragore d’una certa rapina sotto gli argini, oltre i limiti che lei, da buon giudice, s’è tracciati e imposti per comporre la sua scrupolosissima coscienza. Possono crollare, sa? in un momento di tempesta come quello che ha avuto la signorina Anna Rosa. Che rapina? Eh, quella della gran fiumana, signor giudice! Lei l’ha incanalata bene nei suoi affetti, nei doveri che s’è imposti, nelle abitudini che s’è tracciate; ma poi vengono i momenti di piena, signor giudice, e la fiumana straripa, straripa e sconvolge tutto. Io lo so. Tutto sommerso, per me, signor giudice! Mi ci sono buttato e ora ci nuoto, ci nuoto» (v. RII, p. 897).
13 Di questo aforisma amaro serberà memoria, quasi un quindicennio più tardi, lo scultore Nono Giuncano, uno dei protagonisti di Diana e la Tuda, il quale riprenderà con analoga smaniosità più d’uno dei rabbiosi argomenti qui sviluppati. Qui si parla di piccole alterazioni artificiali della fisionomia e là di statue, ma si tenga presente questo tratto dell’atto secondo: «GIUNCANO Quando me le vidi davanti – là, immobili, perfette – e di fronte ad esse vidi il mio corpo in cui la vita riprendeva a muoversi – logoro, vecchio… Quest’orrore della forma – guarda: / indica una delle statue / se è lì, statua, arte – TUDA – non si muove più! – GIUNCANO – fa’ che si muova – corpo, vita – / s’afferra il corpo / – eccola qua – ti s’invecchia! TUDA (con sorpresa quasi ingenua) Oh, l’ho detto io pure, sa? della statua e di me che mi sono sciupata… GIUNCANO Presi in trappola – io – tu – tutti quanti! – TUDA – la vita? – GIUNCANO – chiamala vita! – Bambina, tu ti movevi di più – guizzavi – ora un po’ meno – e sempre meno, sempre meno – finché – hai creduto di vivere? – hai finito di morire!» (v. MN, pp. 443-4).
14 Nella prima parte, discorsiva e non narrativa, quasi teorica, di questa novella-saggio, che non fortuitamente ha il suo precedente diretto nelle pagine saggistiche de L’umorismo, viene sviluppato un mito primario pirandelliano; e perciò il testo manifesta una inusitata densità e rigidità tematica, attualizzando in forma per così dire pura una rete di relazioni oppositive. Nell’ordine ideale, mitico e primigenio, precedente a ogni nascita d’uomo, la vita è flusso continuo (atemporale) e indistinto; nell’ordine reale, la vita è separatezza, distacco (ossia distinzione), fissazione nel tempo e incombente immobilità. Perciò nascere significa cominciare a morire. Il grande mito, nostalgico e regressivo, è non nascere; la sua traduzione pratica è l’ostinata renitenza ad aderire ad una identità immutabile, a immedesimarsi in un ruolo e a conformarvisi, a lasciar consolidare le consuetudini, a intrappolarsi fino in fondo facendo ciò che tutti fanno. La pagina novellistica acerbamente riecheggia alcune insistite riflessioni pascaliane delle Pensées. Ad esempio la seguente: «Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo, che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in un angolo di quest’immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po’ di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. […] Tutto quel che so è che debbo presto morire» (v. B. PASCAL, Pensieri, cit., p. 82). E in Pascal questo è non per caso un discorso ipotetico riportato che viene commentato così: «Chi vorrebbe come amico uno che discorresse in siffatto modo?». Ma ugualmente quest’altra, forse più suggestiva ancora nel tono della parte conclusiva: «Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e financo che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano, io mi spavento e stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, non essendoci nessuna ragione perché sia qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo furon destinati a me?» (ivi, p. 94).
15 Si veda lo sviluppo di questo motivo ne La carriola III 157-8.
16 Le considerazioni sviluppate nella pagina che precede potrebbero essere, oltreché un’eco particolarmente cupa delle Pensées pascaliane, anche il riecheggiamento, radicalizzato e incrudito, di un certo schopenhauerismo (v. ad esempio i paragrafi 58-60 del libro quarto in A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari, Laterza, 19936, pp. 421-36).
17 Sgambetti, guizzi (con la solita s- intensiva).
18 Si indurisce e si irrigidisce.
19 Sarà ancora un personaggio di Diana e la Tuda, una donna inaridita e incattivita, che nel 1926 coniugherà con gelida ironia (duramente scontrandosi con Giuncano) i contrari della rigidità e della pesantezza, ossia la fusione e la leggerezza: «GIUNCANO Voi siete di quegli sciagurati che, per parere esperti della vita, fanno i cinici. SARA Non siamo più avvezzi alla bontà, che volete? Fare i cinici, come voi dite, è pure un modo di dare leggerezza alla vita quando comincia a pesare. GIUNCANO La leggereza della mosca! SARA Niente di più leggero, infatti, e niente di più seccante. Bisognerebbe che la vita fosse invece come una piuma. Ma sì! Mantenere l’anima continuamente come in uno stato di fusione; per non farla rapprendere, irrigidire. Ci vuole il fuoco, caro Maestro. Se dentro di voi il fornellino è spento? Se la morte viene e ci soffia su?» (v. MN, p. 451). Ma ben prima, per quanto in tutt’altro contesto interlocutivo e dialogico, le medesime categorie erano state messe in gioco ne I vecchi e i giovani: «– Ma se la vita è una piuma, donna Caterina! Un soffio, e via… Lei vuol dar peso a una piuma? / – Voglio, caro Selmi? – gli aveva risposto donna Caterina. – Non l’ho voluto io… Per voi la vita è una piuma; un soffio e via; per me, è diventata di piombo, caro mio. / – Appunto questo è il male! – aveva subito rimbeccato lui. – Farla diventar di piombo, una piuma! Dovendo vivere, scusi, non le sembra che sia necessario mantenere l’anima nostra in uno stato… dirò così, di fusione continua? Perché fermare questa fusione e far rapprendere l’anima, fissarla, irrigidirla in codesta forma triste, di piombo? / Donna Caterina aveva tentennato un po’ il capo, con le labbra atteggiate d’amaro sorriso. / – La fusione… già! Ma per mantener l’anima, come voi dite, in codesto stato di fusione, ci vuole il fuoco, caro amico! E quando, dentro di voi, il fornellino è spento? / – Non bisogna lasciarlo spegnere, perbacco! / – Eh, caro: quando il vento è troppo forte; quando la morte viene e ci soffia sù» (v. RII, pp. 197-8).
20 Appesantito, divenuto pesante.
21 Si abbia fin d’ora presente lo sviluppo tangenziale che questo atteggiamento d’insofferenza esistenziale avrà ne La mano del malato povero (v. III 162-3).
22 Non dipendeva da lei la mancanza.
23 Passando, beninteso, per l’occorrenza altrettanto notevole di All’uscita (1916), dove l’Uomo grasso, da un limbico aldilà, presagisce l’uccisione di sua moglie ad opera dell’amante e ne spiega al Filosofo la ragione: «Per non sentirla ridere. Alla prima risata, la ucciderà. Per ora ella si tiene, forzata dall’apparenza del dolore che deve darsi per la mia morte recente. Ma io già gliela sento gorgogliare nelle viscere convulse la tremenda risata, che alla fine proromperà in faccia a lui da quella sua feroce bocca rossa tra il taglio dei lucidi denti. Ride come una pazza. Vedete, v’ho detto che la vostra filosofia non poteva strappare le rose del mio giardino; ma la risata di quella donna altro che questo poteva! Ogni qual volta la sentivo ridere, mi pareva ne tremasse la terra, e il cielo si sconvolgesse, e il mio giardino si riducesse arido, irto di cardi spinosi. Le scatta dalle viscere come una frenetica rabbia di distruzione. È terribile, terribile quella risata su lo spasimo di chi la sente. Certo egli la ucciderà» (MN1, p. 250), da Lumíe di Sicilia (v. I 504 e n. 19) a Uno di più (v. III 513 e n. 8) il riso femminile (e tanto più il riso aperto e sonoro, la «risata») è legato al sesso da una contiguità circostanziale, metonimica e simbolica. E il riso che adombra o accompagna la sessualità femminile è sempre fattore degradante, o come sintomo di impudicizia e impudenza o come segno di scherno aggressivo e provocatorio. Un’altra occorrenza esemplare è quella contenuta nel romanzo Suo marito, quando il fedele Giustino manda a vuoto la capricciosa seduzione di Dora Barmis: «Giustino, nel bujo, si sentì stringere con violenza un braccio. Più che mai sbalordito, sgomento, tremante, ripeté: / – Signora mia… / – Ma stupido! – scattò allora quella con un fremito di riso convulso, afferrandolo per l’altro braccio e scotendolo. – Stupido! stupido! Che fate? Non vedete? È stupido… sì, stupido che voi partiate così… Dove sono le valige? Saranno nella vostra camera. Dov’è la vostra camera? Su, andiamo, v’ajuterò io! / E Giustino si sentì trascinare, strappare. Reluttò, perduto, balbettando: / – Ma… ma se… se non ci portano un lume… / Una stridula risata squarciò a questo punto il bujo e parve facesse traballare tutta la casa silenziosa. / Giustino era ormai avvezzo a quei subiti prorompimenti d’ilarità folle nella Barmis. / Trattando con lei era sempre tra perplessità ambasciose, non riuscendo mai a sapere come dovesse interpretare certi atti, certi sguardi, certi sorrisi, certe parole di lei. In quel momento, sì, in verità gli pareva chiaro che… – ma se poi si fosse sbagliato? E poi… ma che! A parte lo stato in cui si trovava… ma che! sarebbe stata una nequizia bell’e buona, di cui non si sentiva capace. / Trovò in questa coscienza della sua inespugnabile onestà coniugale il coraggio di accendere risolutamente e anche con un certo sdegno un fiammifero. / Una nuova, più stridula, più folle risata assalì e scontorse la Barmis alla vista di lui con quel fiammifero acceso tra le dita» (v. RI, pp. 716-7; corsivi nostri). Ciò non toglie, naturalmente, che l’interpretazione, che ne dà qui il protagonista della novella, sia anche il frutto evidente e distorto della sua rabbiosa fissazione persecutoria: egli presume senz’altro che la donna sia diabolicamente consapevole di tutti i suoi tormenti e rida dopo essersene crudelmente beffata.
24 Il proposito suicida chiude, in forma di serpente che si morde la coda, il cerchio della contraddizione dalla quale non si vede altra linea di fuga. Nel superiore ordine cosmico-naturale e mitico la vita è volatile libertà, e mortale è solamente l’eventualità dell’intrappolamento nelle forme vischiose e rapprese del tempo-spazio; nell’ordine della realtà umana, il vivere stesso è trappola (e perciò, per successivi spostamenti metonimici, trappola è nascere e crescere, trappola è essere trascinati a generare, trappola è il grembo materno della donna) e la sola possibile liberazione è la morte. Nel suo rovello, il protagonista percorre e descrive una doppia spirale assiologica della quale solo i capi estremi sono chiari nella loro contraddittoria specularità: la vita è bene e male è la morte nell’assoluto del mito, nella temporalità dell’uomo la vita è male (ed è leopardianamente funesto a chi nasce il dì natale) e buona, liberatrice, è solo la morte.
25 Il proposito è quello della morte per asfissia, per la quale v. In silenzio, n. 39.
1 Un passo della lettera che Pirandello scrisse a Ugo Ojetti il 6 marzo 1912 consente di datare la stesura del racconto al 1911: «Ho letto su la Lettura “Cent’anni”: bellissima! Se scrivi a Simoni, digli che per il mese d’aprile faccia andar la mia: gliel’ho mandata agli ultimi di dicembre! È intitolata Superior stabat lupus» (v. CAR, p. 65). La novella fu pubblicata per la prima volta su «La lettura» del maggio 1912. Due anni più tardi fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini, 1914) e, nel 1920, ripubblicata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che ripropone sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
Il titolo è ricavato dal secondo verso della celebre favola di Fedro (I, 1) Lupus et agnus: «Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, / siti compulsi. Superior stabat lupus, / longeque inferior agnus» [Il lupo e l’agnello erano venuti allo stesso ruscello, spinti dalla sete. Il lupo stava più a monte, l’agnello assai più in basso].
2 L’incipit narrativo giocato su un repentino rovesciamento (il misogino innamorato) e questa beffarda osservazione del narratore che deride, sollecitando la complicità dei lettori, il derisore già implacabile, paiono promettere uno sviluppo umoristico della vicenda che esibirà viceversa, contraddittoriamente, tutt’altra declinazione e tutt’altro registro.
3 In fretta, concitatamente.
4 «Occlusione di un’arteria del cervello da parte di un embolo partente dalle cavità cardiache di sinistra o dalle vene polmonari» (Devoto-Oli).
5 Quest’ordine stizzoso è il primo gesto aggressivo da parte del lupo favolistico evocato dal titolo e che agisce «fauce improba […] incitatuts», ossia mosso dalla voracità. È certamente Corrado Tranzi il primo prepotente della vicenda. Ma non sarà il solo, e più oltre (p. 707) un’analoga ingordigia caratterizzerà proprio Marco Perla, l’agnello inizialmente scacciato: nella favola iperrealistica pirandelliana la separazione fra buoni e cattivi, fra persecutori e vittime, non è così netta, e le vittime non sono tanto inermi da non potere a loro volta perseguitare, ingannare e vendicarsi.
6 Istituto tecnico che abilita alle professioni di capitano marittimo, di macchinista di bordo e di perito nautico. Più oltre (v. p. 710) si apprenderà che la prima parte della storia ha luogo a Palermo.
7 Va detto che solo nel 1925 Pirandello attenua, con questa impossibilità psicologica, il segno d’un rifiuto ancor più profondo, e rispetto al quale quell’«impossibile» costituisce quasi una razionalizzazione: nelle prime tre stampe si leggeva: «le sarebbe parso mostruoso sposarlo» (v. NUAII, p. 1201). Dunque la prima Ebe aveva recalcitrato all’idea di sposare il cugino-fratello come dinanzi ad un incesto, ed identica sarà l’impressione di ribrezzo della figlia quando, dopo aver sposato lo pseudo-zio e padre putativo, verrà a sapere che egli aveva amato la madre (v. p. 707).
8 Questo stringatissimo sommario evenemenziale, intriso di drammaticità e di patetismo passionale, che chiude la prima parte del racconto, avvia anche la deriva realistica che disattiva ogni valenza umoristica.
9 Il sintagma (quasi una mise en abîme) non potrebbe essere più profetico: di qui in avanti la vicenda si dipana come una fatale replica variata della sua prima occorrenza tragicamente conclusasi con la morte di Ebe Tranzi.
10 Per la sopravvivenza nel profondo di sentimenti remoti e sepolti, v. Tra due ombre, n. 14 e L’avemaria di Bobbio, n. 7. Ma qui il «ritorno misterioso» dell’identico a maggior ragione si configura, per Marco Perla, anche come una sorta di «arresto in sé», poiché è strettamente intrecciato al motivo sempre inquietante del doppio. La reincarnazione nella piccola Ebe della sua «mamma piccina» è il richiamo prodigioso che costringe il sé infantile a riaffiorare nell’adulto e maturo Marco.
11 Soffocato, oppresso. V. anche L’uomo solo, p. 595.
12 Questi due vecchi armadi anticipano (in altra chiave) la cassapanca-bara de La veste lunga (v. p. 817): «L’alito della famiglia era racchiuso là, in quella cassapanca antica, di noce, lunga e stretta come una bara; e di là, dalle vesti della mamma, esalava, a inebriarla amaramente coi ricordi dell’infanzia felice».
13 La voce onomatopeica (che imita il verso del cuculo) è anche il richiamo dei bambini che giocano a nascondino.
14 Il gioco con Bebè era tutto sommato confessabile e ammissibile, ma Marco Perla non potrebbe più onestamente confessare di sentire un «fuoco per tutte le vene» per il fatto d’essere stato baciato da una ragazzina dodicenne, né giustificare questa eccitazione perversa come una perfetta replica dell’ardore innocente di vent’anni prima.
15 Il termine è quasi un hapax in Pirandello ed è peraltro aderentissimo, poiché l’io lacerato di Marco Perla è propriamente un ibrido in cui convivono il fanciullesco e l’adulto, il padre e l’innamorato.
16 Nella nominazione dei due ruoli ineluttabilmente frustranti (fratello e padre) che gli sono stati offerti in corresponsione dell’amore un tempo non fraterno ed ora non paterno, appare scoperto l’innesco patogeno della coazione a ripetere.
17 Assegnatario d’una borsa di studio.
18 V. Lo scaldino, nn. 16 e 17. Nel vecchio quartiere di Macao, di cui il viale di Castro Pretorio costituisce uno dei limiti, ha sede anche il Ministero delle Finanze.
19 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).
20 Emetteva un rantolo, un brontolio sordo (rugliare è un toscanismo derivato dall’incrocio di ruggire e mugliare, ed è solitamente riferito ad animali).
21 Fra lupi ed agnelli, le vittime sono fatalmente questi ultimi (la univoca morale della favola di Fedro era: «Haec propter illos scripta est homines fabula / qui fictis causis innocentes opprimunt» [Questa favola è scritta per gli uomini che per finte ragioni perseguitano gli innocenti]). Ma in fondo a questa vicenda, cominciata con lievità e diventata via via più fosca fino a concludersi con un delitto truce, non è quasi più possibile dire chi sia il lupo e chi l’agnello. I lupi, spesso mascherati da agnelli, che impediscono agli agnelli di dissetarsi innocentemente e che finiscono per trasformare anche gli agnelli in lupi, sono la sessualità e il bisogno. La brama sessuale rende sordido e ripugnante l’amore fra uomo e donna, il bisogno rende avaro e gretto l’amore parentale. La storia dipana di fatto, con greve realismo, un groviglio intricato e ossessivo di amori impossibili e di amori mostruosi, come se l’impossibilità e la mostruosità fossero i due soli e alternativi destini che si aprono davanti alla passione amorosa e agli affetti. Gli amori non mostruosi (quello del quindicenne Marco per la cugina e della seconda Ebe per il giovane pittore) sono impossibili, gli amori possibili (quello divorante e possessivo di Corrado Tranzi per Ebe De Vitti prima e per la figlia poi, quello surrogatorio e perverso di Marco per Bebè, quello dei genitori per la prima Ebe e quello della zia-nonna per Marco e per la nipote) sono mostruosi. Un lupo allegorico e feroce affonda il proprio muso di belva nella sorgente dell’amore e la inquina inesorabilmente, con crudeltà deterministica. I due sopravvissuti di questa storia tetra, bieca, fosca, sono due strani complici condannati per sempre al disamore. Come altri sopravvissuti pirandelliani, per quest’ultimo aspetto, ma questa volta la mano narrativa di Pirandello è insolitamente pesante e il racconto paga senza dubbio il prezzo d’una oltranza dell’inventio e anche di una gravezza verbale e stilistica inusitata.
1 Terza novella del trittico sottointitolato Tonache di Montelusa, fu pubblicata per la prima volta in «Italia!» di Roma, n. 5, maggio-giugno 1912 (v.M. RAK, Pirandello illustrato, in «Rivista di studi pirandelliani», XI [1993], 11, p. 87, e SFP pp. 21 e 48-51). Insieme a Difesa del Mèola e I fortunati, e sotto il titolo complessivo sopra citato di Tonache di Montelusa, venne ripubblicata nella raccolta Erba del nostro orto (Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915), che l’editore milanese Facchi ristampò nel 1919. Nel 1922 entrò a far parte del primo volume delle «novelle per un anno», Scialle nero (Firenze, Bemporad).
2 V. Difesa del Mèola, n. 2.
3 Festa, appunto, dell’Immacolata Concezione di Maria.
4 La lettiga, o portantina, sulla quale si portano in processione le statue dei santi.
5 Patrono di Agrigento.
6 Di quel certo giovedì, dal momento che l’otto dicembre non cade sempre di giovedì.
7 Si intendono per prebenda gli enti patrimoniali ecclesiastici dai quali ciascun canonico di un capitolo ha diritto a trarre il proprio reddito individuale.
8 Riscuoteva.
9 La confraternita dei laici francescani, essendo la statua dell’Immacolata custodita tutto l’anno nella chiesa di S. Francesco.
10 Il vescovo di Montelusa. V. Difesa del Mèola, e in particolare la p. 406.
11 Vicario vescovile in seno al capitolo della Cattedrale.
12 Custode di casa, domestica.
13 Il giorno era spuntato.
14 Uscire di senno, perdere la ragione.
15 V. I fortunati, p. 613.
16 La vicenda era stata raccontata nel 1909 in Difesa del Mèola.
17 A genio.
18 V. Difesa del Mèola, p. 407.
19 Il narratore, montelusano e liberale, che nella prima novella del trittico s’era compiaciuto di assumere, pur con tutta l’ironia del caso, la difesa del Mèola, prende, nel raccontare quest’ultima peripezia cittadina, una distanza ancora maggiore dalla vicenda e dai protagonisti di essa; e assurge ad una imparzialità che è distaccata equidistanza dalle parti in causa. I preti e i clericali così come i liberali mangiapreti sono, a Montelusa, soggetti di piccole trame, di ricatti ideologici, di affari meschini, e si combattono in una finta guerra che è fatta di una apparenza tutta propagandistica di sacrosanti irrinunciabili princìpi e di una sostanza occulta di collusioni astute e squallide compromissioni. Nulla è ciò che sembra a Montelusa, nulla è genuino, nulla è autentico e vero; nessuna fede e nessuna devozione è sincera. Il sarcastico narratore ha cura di tenere i piedi ben discosti da questa melma. Si può forse riconoscere in questa posizione dell’istanza narrante una traccia dell’atteggiamento autorale, e se ne può allora inferire l’isolamento ideologico di Pirandello, anticlericale ma non liberale, avverso alle maggioranze retrive ma estraneo alle opposizioni corrive ai compromessi con il potere e gli affari. Da una anarchica e sdegnata separatezza di questo tipo possono ben scaturire, non appena un movimento nuovo paia essere intenzionato a spezzare il cerchio delle vecchie collusioni, scelte di campo umorali e sorprendenti.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 23 giugno 1912, e successivamente nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915). Fu infine inclusa nel quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922), il quale recupera nove racconti della citata raccolta. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). La verità va a stampa sul «Corriere» poco più di tre mesi dopo che vi era apparsa Certi obblighi, e costituisce quasi una risposta retrorsa rispetto a quella novella. Pirandello preferì occultare, in seguito, la stretta parentela tematica fra i due racconti, destinandoli fin dal 1914-15 a raccolte diverse e confermando la loro separazione nelle «novelle per un anno». Nonostante ciò, proprio dalla relazione per contrasto fra le due vicende novellistiche prende spunto nel 1916 la commedia siciliana in due atti (che Angelo Musco mise in scena a Roma il 27 giugno 1917) ‘A birritta cu ‘i ciancianeddi (la si veda ora in TD1, pp. 93-154), la cui versione italiana, Il berretto a sonagli, venne pubblicata nel 1918 e rappresentata nel dicembre del 1923 (v. MN1, pp. 633-84). In estrema sintesi, si potrebbe dire che nella commedia la signora Fiorìca (il cognome viene conservato), spudoratamente tradita da suo marito, fa rabbiosamente ciò che fa ne La verità; mette cioè un marito tradito di fronte all’evidenza dell’adulterio e nella necessità di reagire vendicando anche lei. Ma, anziché il rustico Tararà, che non sa se non impugnare l’accetta, si trova dinanzi, nello scrivano Ciampa, un Quaquèo ancora più sottile, e tanto più determinato, e spietato, nel difendersi, quanto maggiore è la sua sofferenza.
2 Soprannominato.
3 V. Scialle nero I 1035: «parenti e amici dello sposo innumerevoli, attendevano nella villa, tutti parati a festa, con gli abiti di panno turchino, gli uomini».
4 Orecchini maschili, secondo un vecchio uso contadino e popolare (v. Il «fumo» I 994 e La Lega disciolta, p. 521).
5 Sentore, tanfo.
6 Fetore.
7 Sudice, unte.
8 Anche il paradosso umoristico è lampante: la pretesa di stabilire una verità unica che valga per due mondi alieni e inconciliabili, dati, in questo incipit narrativo, come il mondo delle bestie e quello degli uomini.
9 Senza rimedio.
10 È, per via di similitudine, la definizione canonica della relazione di ineluttabilità, e tuttavia di perfetta estraneità, che lega il mondo contadino all’istituzione giudiziaria. V. La casa del Granella, n. 35.
11 Borgata negli immediati dintorni di Agrigento.
12 V. Il vitalizio I 540 e La Lega disciolta, n. 18.
13 Cipria a base di uva sultanina essiccata e polverizzata.
14 In occasione di feste e donazioni devote.
15 Funzionario (v. Il tabernacolo I 833 e n. 22).
16 Istruiti; e dunque capaci, in primo luogo, di leggere e scrivere. In un foglietto (v. BRB, p. 68) si legge l’appunto: «Vossignoria è alletterato».
17 Sia La verità che Certi obblighi (v. p. 667) sono serissime vicende imperniate sull’onore coniugale, ma il codice di quell’onore è passato al vaglio dell’umorismo sia nell’una (che pure contiene un uxoricidio) come nell’altra (in cui un flagrante adulterio è farsescamente occultato e tacitato). E il riso che quella serietà suscita, così come la tristezza che deforma quelle risa in smorfia, si fanno scena nel codazzo dei provocatori che seguono Quaquèo per i vicoli di Girgenti e nelle risate che scuotono l’aula del tribunale nel quale Tararà viene giudicato. L’assoluta, realistica serietà è ormai remota e sta altrove, ad esempio nel modello prossimo fornito da Verga con Cavalleria rusticana (1880).
18 Soggetto sottoposto a giudizio, imputato. La parola fuori dell’uso configura un piccolo sfoggio di linguaggio tecnico da parte dell’avvocato.
19 Confondere.
20 Per guadagnare quattro soldi. E sembra che Tararà alluda esclusivamente alla necessità che aveva lui di starsene zitto o la moglie d’accettare i favori del cavaliere. Ma l’espressione è destinata (v. p. 727: «Può aversi a male vossignoria d’una sporca contadina? Il cavaliere, con lei, mangia sempre pane fino, francese; lo compatisca se, di tanto in tanto, gli fa gola un tozzo di pane di casa, nero e duro») ad assumere retrospettivamente un valore equivoco.
21 Stupido, bestia (v. La Lega disciolta, p. 521 e n. 37).
22 V. La Lega disciolta, n. 11.
23 L’arringa autodifensiva di Tararà è tutta fondata sulla disamina puntigliosa delle modalità (il dovere, il potere, il volere connessi al sapere e al fare) che regolano la vita associata. Ed è del tutto ossequiosa delle regole sociali la prova che Tararà adduce a sostegno del proprio poter non sapere e addirittura del proprio non poter sapere. A questi meccanismi che evitano la coazione ad agire, egli aggiunge l’avvertimento, il quale, nella modalità del potere, è un poter dire ed implica un poter sapere, mentre tradotto nella modalità del dovere, se non può porsi come una costrizione, può ben configurare una stringente opportunità, ossia una regola del quieto vivere che, pur non avendo la forza costrittiva delle regole sociali e non potendo sovvertirle, impone tuttavia la considerazione delle conseguenze di ogni atto e quella degli obblighi di ciascuno, le sole che possano indurre a far uso delle precauzioni necessarie ad evitare scandali e sangue. Come si ricorderà, proprio per mezzo di un astuto avvertimento in extremis, camuffato da minaccia furiosa, Quaquèo era stato in grado di sottrarsi al dovere di scannare la moglie e l’amante (un altro compìto cavaliere, anche in quel caso). Tararà conosce le regole quanto Quaquèo, ma per un verso ha avuto l’ingenua presunzione di credere di poterle neutralizzare con la propria pacifica volontà, per l’altro ha avuto la sfortuna di scontrarsi con una contraria volontà cimentosa e d’ordine gerarchico superiore. Proprio le candide e positive emergenze della sfera della scelta sono andate incontro a uno scacco clamoroso e lo hanno portato a perdere senza scampo la partita. Il non aver voluto lasciare le cose quiete, da parte della signora Fiorìca, ha vanificato tutte le difese e ha avuto l’effetto scatenante di annullare ogni alternativa e di restituire tutta intera l’autorità al dovere. È stato un atto di arbitrio che s’è limitato ad assumere ed esercitare il potere e che perciò stesso ha restaurato, complementarmente, la costrizione per il più debole: «l’ho fatto propriamente – dice Tararà – perché non ne ho potuto far di meno, ecco; e basta».
24 Lasciarsi punzecchiare. Ma l’espressione usata è quasi un rozzo eufemismo per “lasciarsi dar del becco in faccia”.
25 La deposizione difensiva di Tararà davanti alla corte, candida e retoricamente disarmata, lo porta dritto alla condanna per uxoricidio. Nel 1918, Ciampa, protagonista de Il berretto a sonagli (ma la versione dialettale,’A birritta cu ‘i ciancianeddi, risale al 1916), la tradurrà in uno scaltro e armatissimo discorso preventivo, nel quale, al posto del diretto intendersela con qualcuno, c’è solo un figurato prender aria alla finestra con il rischio di rompersi il collo: rischio tutto oggettivo, e ben diverso dalla eventualità tutta soggettiva ipotizzata da Tararà: «sarei corso a casa con l’accetta a spaccarle la testa», eventualità tanto più truce in quanto messa più tardi in atto: «CIAMPA […] Marcio con un principio: Moglie, sardine ed acciughe: queste, sott’olio e sotto salamoja; la moglie, sotto chiave. Eccola qua! / Cava dalla tasca una chiave e la mostra. / FIFÌ Bel principio, per mia sorella! / CIAMPA (ponendogli le mani sul petto) Ognuno il suo, caro signor Fifì! / BEATRICE (a Fifì) Quasi che, chiudendo la porta, devi dirgli, non restasse poi aperta la finestra! / CIAMPA Va bene, signora. Ma obbligo del marito è chiudere la porta. / BEATRICE Ah, davvero non avrei mai supposto che foste così terribile, voi! / CIAMPA Terribile? io? Ma no! Perché? Quando si sono messi i patti belli chiari avanti… – Questa è la finestra. (La porta la chiudo). Affàcciati. Ma bada che nessuno deve venire a dirmi: «Ciampa, tua moglie sta per rompersi il collo dalla finestra!» – Mi pare che in questo non ci sia niente di terribile. L’uomo considera la donna che ha bisogno di prender aria alla finestra; la donna considera l’uomo che ha l’obbligo di chiudere la porta. E basta» (v. MN1, pp. 644-5).
26 Costituiscono sfregi infamanti.
27 V. Lo storno e l’Angelo Centuno, p. 536 e n. 22.
28 Nubile.
29 L’immaginaria battuta, popolarescamente colorita, non sopravvivrà alla ripulitura anche linguistica della versione italiana de Il berretto a sonagli; ma il manoscritto della originaria redazione dialettale della commedia la conserva, ancorché sottratta all’emancipato protagonista Ciampa e messa in bocca al paesano delegato di polizia Spanò, che si sforza di indurre Beatrice a perdonare: «Sì, bisogna pirdonarli: chiudiri un occhiu, signora… eccu… ‘un abbia fastidio. Mi lasci dire! Guardi com’è… Facissi cuntu che qua cc’è una bellissima tavula cunzata… tutto fino… tuttu sempri dilicatu… sempri pani francese… E chi voli? Ogni tantu po’ viniri lu spinnu d’un tozzu di pani niuru, di casa… Questo è!» (v. MN1, p. 1034).
30 Di fatto, Tararà non racconta ma spiega e giustifica il proprio comportamento alla luce del codice d’onore, e con questo codice non scritto ma vigente (l’unico codice che gli sia noto, l’unico che faccia parte della sua cultura) confronta, commentandole, singole fasi, reali o ipotetiche, della sua vicenda. Di questo solo codice egli è buon perito perché ne conosce gli articoli ed anche quella che si usa chiamare la giurisprudenza: è al corrente certamente dei casi (verghiani) di Alfio di Licodia e del pastore Jeli di Vizzini e forse anche, se le date del «Corriere della Sera» fanno fede, di quello del conterraneo Quaquèo; mentre ha usato l’accetta per ammazzare la moglie come Nanni per uccidere «la lupa», memore del fatto che il coltello è riservato al duello e agli uomini.
31 Accalorata.
32 In grazia della realtà che altri hanno voluto sconsideratamente denudare e che diventa verità giudiziaria, Tararà viene disonorato e condannato. Il Quaquèo di Certi obblighi, che gli altri vogliono spingere a forza nel medesimo vicolo cieco, e che sa che l’onore è ormai valore pubblico e cittadino, relega l’arcaico concetto d’onore nella retorica iperbolica della minaccia e sfugge al trabocchetto coprendo la realtà nell’atto di fingere di scoprirla, ossia nascondendo l’amante della moglie nello stipo a muro per dimostrare a tutti che in casa sua non c’è nessuno. Una volta che i traditori siano costretti alla connivenza e che gli altri abbiano constatato l’insussistenza del fatto, la vita e l’onore sono salvi: in grazia della verità così astutamente occultata – potremmo parafrasare –, Quaquèo fu lasciato libero di illuminare in pace la città. Il caso di Ciampa, ne Il berretto a sonagli, è assai più complicato. Anch’egli ha sempre attuato la prassi tararèa del lasciare le cose quiete, e perciò viene allontanato apposta dalla signora Fiorìca, che vuole lo scandalo e sa che Ciampa, presente, troverebbe il modo di ricorrere al rimedio di Quaquèo. Gli adulteri vengono sorpresi e arrestati come don Agatino e Rosaria; e Ciampa, di ritorno da Palermo, si ritrova praticamente nella condizione di Tararà al ritorno dai campi. Come se non bastasse, l’essenza dello scandalo è molto più profondamente dolorosa per Ciampa che non per Tararà o Quaquèo, consapevoli che si hanno certi obblighi più che sofferenti. Egli è costretto a mortificare e reprimere il proprio essere molto più di loro: una sua battuta coperta dal velo penoso della denegazione non lascia dubbi al proposito: «Ah, signora. – Io ora parlo… non per me… parlo in generale… – E che può saper lei, signora, perché uno, tante volte, ruba; perché uno, tante volte, ammazza; perché uno, tante volte – poniamo, brutto, vecchio, povero – per l’amore d’una donna che gli tiene il cuore stretto come in una morsa, ma che intanto non gli fa dire: – ahi! – che subito glielo spegne in bocca con un bacio, per cui questo povero vecchio si strugge e s’ubriaca – che può saper lei, signora, con qual doglia in corpo, con quale supplizio questo vecchio può sottomettersi fino al punto di spartirsi l’amore di quella donna con un altro uomo – ricco, giovane, bello – specialmente se poi questa donna gli dà la soddisfazione che il padrone è lui e che le cose son fatte in modo che nessuno se ne potrà accorgere? – Parlo in generale, badiamo! Non parlo per me!» (v. MN1, p. 677). Non gli resta che l’apparire, sul piano del quale, però, la levata di capo ribelle e isterica di donna Beatrice lo ha quasi completamente scoperto, privandolo sia della possibilità d’usare il come se non di Tararà sia della facoltà di ricorrere, come Quaquèo, al trucco, all’occultamento. Già quest’ultimo aveva intuito, pur senza potersene giovare, che nella vita sociale esistono più codici in conflitto che possono essere gerarchizzati e giocati l’uno contro l’altro (si rammenti il suo tentativo di neutralizzare il codice coniugale per mezzo del codice delle funzioni pubbliche). Ciampa sa anche che il contratto sociale si regge sulla transazione e su un compromesso fra codici conviventi e discrepanti. Attacca dunque il punctum minoris resistentiae, ossia il comportamento più irregolare e meno protetto dal codice: quello di donna Beatrice. Mostra, nel farlo, di conoscere a memoria il processo Tararà e i suoi retroscena, e dimostra a tutti come non gli sia lasciato altro codice di riferimento se non il più vetusto e il più rozzo, quello tradizionale dell’onore, quello del Tararà omicida e, a ritroso, dell’Alfio verghiano di Cavalleria rusticana; e davanti a tutti dichiara d’essere deciso ad applicarlo, citando al tempo stesso Quaquèo e Tararà: «Io dico qua, con la massima calma, […] che questa sera stessa, o domani, appena mia moglie ritorna a casa, io con l’accetta le spacco la testa! […] E non ammazzo soltanto lei, perché forse farei un piacere, così, alla signora! Ammazzo anche lui, il signor cavaliere – per forza, signori miei! per forza!» (ivi, p. 679). Di fronte a questa che, più che una minaccia, è una argomentazione stringente e irrefutabile fondata sul dovere, sul non poter non fare, la comunità sociale si trova in difficoltà; all’autorità venerabile e intransigente del codice d’onore non sa quale codice opporre, se non quello legale, che Ciampa facilmente respinge come estraneo e formale. Assuefatta ai compromessi, vacilla e finisce con l’offrire a Ciampa, che le ha teso un agguato disperato, uno dei suoi codici d’emergenza, quello estremo ed esorcistico della pazzia. Codice antico, ma sempre recuperabile e aggiornabile quando dev’essere adibito all’autodifesa da parte della società. È, se si vuole, l’anti-codice per eccellenza, nel senso che serve a depenalizzare e ad annullare le infrazioni a qualsiasi altro codice e a bloccare le previste sanzioni. La pazzia è per definizione non veritiera, non offensiva, non colpevole; tutto quel che un pazzo fa e dice è falsificabile e perdonabile; gli atti di pazzia non reclamano vendetta né sangue né condanna. L’infermità mentale è un derubricatore universale di ogni discorso e di ogni gesto. Basta perciò che la pazzia sia fatta figuratamente balenare («Ma se lo scandalo è stato per una pazzia!», dice senza pensarci su, e per sdrammatizzare, il fratello di Beatrice) e che la comunità imbarazzata si aggrappi per un attimo a quella metafora, perché Ciampa afferri il filo che gli viene offerto: gli interlocutori impazienti e la sua sventata nemica sono rapidamente ridotti all’impotenza. Il povero Tararà dice: «Ho ammazzato mia moglie, è la verità. E non se ne parla più»; Ciampa può dire trionfalmente: «– È p a z z a ! – e non se ne parla più! – Si spiega tutto!» (ivi, p. 682). Non era impresa da Tararà, e forse neppure da Quaquèo.
1 Fu pubblicata per la prima volta sulla «Rassegna contemporanea» del giugno 1912. Nel 1915 fu compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). La novella era stata respinta dal «Corriere della Sera», e non è senza disappunto che Pirandello, pur attentissimo, come sempre, a non irritare la direzione del giornale, ne scrive il 26 aprile 1912 ad Alberto Albertini: «Rileggo la novella rimandata. È raro il caso che una cosa mia, alla rilettura, mi soddisfaccia; ma se avviene, vuol dire che la cosa non dev’esser brutta. Badi, non discuto la sua impressione, Le dico la mia. La novella non mi è sembrata affatto oscura. È la crisi d’un uomo, superata per l’indugio d’un attimo di quello strano ordegno da pesca, in cui si era cacciato per finirla. Mi pare che questo risulti chiarissimo. Forse Le è sembrato oscuro il principio? Ma è il soliloquio d’un esaltato, nel quale anche operano i fumi del vino. Anche il dramma mi pare che risulti evidente. E allora? Impressioni! Non si discutono… Le manderò, appena mi sarà possibile, un’altra novella. In questa non saprei proprio che cosa aggiungere o mutare. Non creda, per carità, che io m’offenda: Ella ormai mi conosce! Soltanto, sinceramente mi dispiace che questa novella non sia apparsa nel Corriere, perché creda pure che non è brutta» (v. CAR, p. 173). Come già in altri casi, Pirandello crede (o finge di credere) ai rilievi critici dell’Albertini, che qui gli rimprovera, pare, una certa oscurità. In realtà, e lo scrittore doveva averlo capito perfettamente, la direzione del «Corriere» si preoccupava esclusivamente di offrire cose gradite al pubblico del giornale, composto di conservatori e di benpensanti pronti ad adontarsi e a protestare dinanzi a eventi narrativi non inappuntabili, come la digestio post mortem d’una salma (L’illustre estinto), un caso di bigamia tollerata (La morta e la viva), il riaffiorante motivo del suicidio (L’uccello impagliato).
2 Il motivo non è nuovissimo, ma l’immagine che lo esprime è altamente emblematica: l’io è un detenuto, la coscienza una galera, i doveri gli intrattabili secondini comandati da un Super-io implacabile. Le istanze dell’Es e del desiderio (l’amore, la fuga) sono state invariabilmente respinte.
3 Questi, come i successivi delle pp. 730 e 731, sono paraggi del centro di Roma spesso frequentati dai personaggi delle novelle (v. Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me I 249 ed E due! I 601) e dei romanzi (v. Il fu Mattia Pascal, in RI, pp. 547).
4 V. La veglia I 903 e n. 27.
5 A distanza di soli tre mesi (v. «Superior stabat lupus», p. 517: «Corrado Tranzi, fino a ventiquattr’anni disprezzatore implacabile di tutte le donne»), è questo il secondo sprezzante misogino che prende moglie con esito catastrofico.
6 Il memorabile «disonor» librettistico cui corre l’autoironica rimembranza di Bernardo Morasco è molto probabilmente quello del fatale duetto fra Don Carlo e Don Alvaro nel quarto atto de La forza del destino verdiana: «Una suora mi lasciasti / Che tradita abbandonasti / All’infamia e al disonor».
7 Quadri di maniera fatti in serie così come i tordi si appendono in filza a un filo.
8 Contadinelle della Ciociaria (cfr L’eresia catara, n. 4).
9 La celebre piazza romana su cui si affaccia la scalinata di Trinità dei Monti.
10 Guardiani a cavallo di mandrie di bestiame allevate allo stato brado.
11 Non vi sono riscontri che autorizzino una correzione del testo, ma la sintassi pretende che si legga «fatta».
12 Uno dei colli di Roma, ricco di verde e meta di passeggiate (v. già Il nido I 265).
13 Il grande parco pubblico romano.
14 Queste sensazioni e impressioni si preciseranno nella grande visione estatica de La carriola III 155-6.
15 Piatti. – Quest’accordo di percussioni era già stato evocato alcuni anni prima nell’ambito d’un episodio di Allegri! (prima versione di Guardando una stampa), quando i tre mendicanti fanno confusione nella vendita delle pianete alle villeggianti: «Accorsero, tutte fruscianti, con gli ombrellini aperti, rossi, bianchi, ranciati, azzurri, gialli e violetti; e vollero prender tutte, come le donne del popolo, le pianete, ma sicuro! le pianete dalle mani tremolanti del cieco: del povero Brogio, che nella fretta, nella confusione, non riuscendo più a tener dietro ai segni e a gli avvertimenti del Rosso, impiccato se ne indovinò una! / Meglio così, però. / Che risate, che risate, quelle signorine a cui toccò la ventura del caporale o della maritata! Peccato veramente che, tranne queste pianete, quei tre poveri diavolacci non avessero saputo concertare altro. Un grancassa coi piatti e la zampogna, per esempio! Che ci voleva?» (v. p. 200).
16 Scarpata.
17 Pur a distanza di molti anni, i tre segni «ritenevano», «smalto» e «soavissimo», nonché le «acque tranquille» del fiume, rinviano al paesaggio e al crepuscolo tragico di Scialle nero: «La vasta piaggia, sotto, era tutta verde di biade; il mare, in fondo, placidissimo, riteneva insieme col cielo una tinta rosea un po’ sbiadita, ma soavissima, e le campagne in ombra parevano smaltate» (v. I 1047; corsivi nostri). Ancor più incredibile è scoprire che la redazione del 1904 suonava «una tinta d’amaranto un po’ sbiadita», come se il «soavissima» che completa la tavolozza nel 1922 provenisse appunto dal posteriore impasto de Il coppo. Nell’arco di tempo fra le due novelle, l’impressione pittorico-emotiva riaffiora anche ne I vecchi e i giovani (v. RII, p. 58): «Quest’ora crepuscolare, in cui le cose, nell’ombra calante, ritenendo più intensamente le ultime luci, quasi si smaltano nei lor chiusi colori, era alla solitudine di don Cosmo più d’ogn’altra gradita».
18 L’ora, la vista e il luogo sono pressoché gli stessi di una scena de I vecchi e i giovani: «Arrivarono, ch’era già il tramonto, di là dal recinto militare, in prossimità del Poligono, su la sponda destra del Tevere. Monte Mario drizzava il suo cimiero di cipressi nel cielo purpureo e vaporoso, e la vasta pianura, che serve da campo di esercitazione alle milizie, e le sponde erbose del fiume, nell’ombra soffusa di viola, parevano smaltate. Nel silenzio quasi attonito, più che la voce si sentiva il movimento delle acque dense, d’un verde morto, tinte dai riflessi rosei del cielo e qua e là macchiate da qualche cuora nera» (v. RII, pp. 355-6).
19 Le nasse, attrezzi per la pesca di crostacei, seppie e pesci di fondo, sono normalmente fatte di giunco o di vimini.
20 Quest’istante impreveduto di arresto, di bilico immobile, designa la condizione estrema di soglia sulla quale il personaggio si trova a pencolare; non quella, pure frequente, fra un prima e un dopo, ma quella fra l’essere e il non essere, fra la vita e la morte. A sperimentare questo tempo morto non previsto Bernardo Morasco è stato spinto dalla sensazione disperata della propria vita come fallimento e come maceria, ma proprio questo attimo librato e affilato come un rasoio è necessario affinché egli possa fulmineamente confrontare il vuoto della vita con il niente della morte. E da questo nulla insensato si ritrarrà inorridito.
21 Guizzò, nella variante intensiva già affiorata ne La trappola (p. 697).
22 Il suicidio è un motivo ossessivamente presente: attuato, mancato o solamente considerato come eventualità o proposito, il gesto suicida (maschile più spesso che femminile e, in termini di vagheggiamento della morte, quasi esclusivamente maschile) incombe su non meno di un quinto delle storie novellistiche. Se gli aspetti quantitativi possono acquistare senso quando si discorre di un corpus, si tratta di una percentuale impressionante. Il suicidio costituisce di solito la sanzione d’una vicenda che sfocia, realisticamente e drammaticamente, in una infelicità così disperata da far ritenere insostenibile il vivere oltre. Salvo casi assolutamente eccezionali ed altamente ambigui (si pensi a Da sé), il suicidio riuscito è anche pressoché incompatibile con una gestione umoristica della narrazione. Molto più interessanti, e più ricchi di valenze tematiche aperte e interrogative, sono perciò i casi di suicidi rinunciati o mancati, come questo de Il coppo.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 1° agosto 1912. Nel 1915 fu compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Cittadina abruzzese in provincia de L’Aquila (da cui dista una settantina di chilometri) e stazione ferroviaria sulla linea Roma-Pescara.
3 Per la ripresa e lo sviluppo dell’immagine, v. La rosa III 78.
4 Reciproca è l’illusione e complementare il disinganno di chi resta e di chi parte. La vita intima e confortante della casa parentale si fonda sulla struttura relazionale che ne fa un microcosmo chiuso e perfetto. La fuoruscita di uno qualsiasi dei suoi componenti rompe quell’ermeticità protettiva ed apre una crepa dalla quale il «caldo alito familiare» inesorabilmente esala. Chi parte se ne sente privato come chi resta. Come quello del bambino dalla madre alla fine dell’infanzia, lo strappo dei figli dai genitori non è ricucibile né risarcibile e, appunto come l’altro, induce nel corpus un buon numero di sindromi regressive.
5 V. La signora Speranza, n. 4.
6 Paesino abruzzese situato su un colle (di qui la sua designazione come «alto umido paesello») a 18 chilometri da Pescara, verso l’interno.
7 Al di qua delle motivazioni e dei dati circostanziali specifici subito sotto esplicitati, la «follia di prender moglie» (che altre volte è sciocchezza o bestialità o errore fatale) è una predicazione squisitamente maschile che affiora troppo spesso nel corpus perché possa essere di volta in volta spiegata esclusivamente con la dinamica infelicitante delle singole vicende. Prender moglie è quasi sempre stolido e colpevole, come se l’uomo, consegnandosi a questo atto inconsulto, venisse meno alla sua più nobile e profonda vocazione e quasi alla sua vera natura, quella di uomo solo; come se tradisse, legandosi a una donna, le istanze e le aspirazioni più alte e parzialmente abdicasse all’umanità stessa cedendo a un richiamo che, provenendo dal basso, dalla debolezza-paura e dalla corporalità-bestialità, lo diminuisce e snatura.
8 Ammuffire, marcire (toscanismo).
9 V. già Va bene, p. 142: «Da molti e molti anni, fra una grave sciagura e l’altra, i diuturni dolori gli avevano quasi vestito la mente d’una scorza di stupidità».
10 Terrosa.
11 Da intendersi alla lettera: sporcato dal fumo di carbone della locomotiva a vapore.
12 Centro costiero situato sulla sinistra della foce del fiume Pescara e aggregato, dal 1927, alla città di Pescara.
13 Sulla linea ferroviaria che fiancheggia l’Adriatico in direzione nord (Ancona) o sud (Foggia).
14 Caffè notturno sarà nel 1918 il provvisorio titolo de La morte addosso, ma già nel 1894 un caffè di stazione era stato il luogo d’uno strano e inquietante incontro nella novella Se… Un po’ come le taverne o le locande dei racconti d’avventura, del romanzo picaresco e del Don Chisciotte, questi caffè annessi alle stazioni ferroviarie sono non casualmente i luoghi privilegiati di smistamento e di sosta nei quali accade che destini separati e diversamente segnati si incrocino e si confrontino brevemente.
15 È la descrizione più segnata e scavata della emblematica condizione del viaggiatore, ossia di colui che, nel mezzo di un tragitto che è quasi un guado ctonio, è ormai lontano dal luogo di provenienza (amato o odioso che fosse) e lontano ancora dalla meta (agognata o paventata). E questo né… né, questo non più e non ancora non è affatto uno stato anestetico e neutro, ma anzi, connessa al grande motivo ulissèo del viaggio, la condizione di spaesamento e di smarrimento per eccellenza.
16 L’immagine, d’ascendenza carducciana, dei treni come veicoli mostruosamente fragorosi della follia umana, rinvia ai vv. 37-42 di Esame, una poesia pubblicata il 16 agosto 1910 sulla «Nuova Antologia»: «Sbuffa in preda al demon che lo trambascia / un ferreo mostro, e dove mai m’invola / con la sua furia? M’accorcia il cammino; // e avanti, avanti, nella notte sola, / gelida, nera, mi conduce fino / all’orlo di un abisso, e lì mi lascia» (v. SPSV, p. 821).
17 Appunto in Basilicata, dove il Noli aveva trascorso un anno.
18 Cittadina abruzzese dell’interno, in provincia di Chieti.
19 Prive, spogliate (è termine letterario e arcaico derivato dal participio latino excussus).
20 Concitatamente.
21 La porzione posteriore e inferiore della massa cerebrale.
22 Resa idrofoba.
23 La forzata sosta notturna e i luoghi estranei determinano una sorta di atemporalità e di atopìa, ossia una dimensione sospesa che in altro clima narrativo sarebbe la più adatta ai prodigi e agli incontri straordinari. Qui l’unico fuggevole incontro che ha luogo è quello fra il vuoto algido e tetro di Silvestro Noli e il vuoto febbricitante e rabbioso di Nina Ronchi, i quali possono soltanto sfiorarsi e subito respingersi.
24 V. La vita nuda, n. 12.
25 Cittadina sul Tirreno a poco più di trenta chilometri a nord di Reggio Calabria.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 25 agosto 1912. Nel 1914 fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 venne ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che ripropone sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 V. Il vitalizio, n. 19.
3 Fitto e incessante.
4 V. Il coppo, p. 732: «come avrebbe potuto rinnovarsi il corpo già logoro? Come andar più con quel corpo in cerca d’amore?». È motivo insistentemente connesso alla vedovanza maschile.
5 Nelle tre stampe antecedenti alle «novelle per un anno» si leggeva: «la sua robicella screpolata e affumicata, cioè la sua casetta colonica». Si veda sotto la n. 19.
6 Cittadina dell’interno a 17 chilometri da Agrigento.
7 Addette alla raccolta delle spighe di frumento lasciate dalla mietitura.
8 Viene chiamato cembalo un «tamburello col fondo di cartapecora circondato tutt’intorno da piccoli sonagli che si suona percuotendolo con le nocche o le palme delle mani» (Devoto-Oli).
9 Lo stornello è un breve canto popolare la cui forma più diffusa consiste in un quinario e due endecasillabi rimati aBA. L’improvvisazione di stornelli era frequente nelle gare canore contadine.
10 Inimicizia (arcaismo).
11 Fatto balenare il suo sprazzo di luce.
12 Zia.
13 Chiamata, soprannominata.
14 Inzaccherata, sporca di terra.
15 Muso.
16 Per il dibattito semiserio sulla grassezza inutile, utile o stupida, v. Pallino e Mimì, p. 150 e Il Signore della Nave III 232-3.
17 Pentola di coccio.
18 Minestra di fave. V. Il vitalizio, n. 59.
19 V. sopra la n. 5 e anche Il vitalizio, n. 3. Nel seguito, il medesimo termine designa anche più genericamente beni e sostanze che compongono il patrimonio di famiglia: roba sono ad esempio le «terre e case e bestie da soma e da lavoro» di cui è proprietario Pitrinu Cinquemani (v. p. 745). È il caso di rammentare che La roba è intitolato un celebre racconto verghiano (1880) delle Novelle rusticane.
20 Appassire e rinsecchire, come gli ortaggi che, maturando eccessivamente, si allungano e induriscono.
21 Scialli.
22 Parte centrale della tomaia.
23 Pelle laccata.
24 Testone, stupide (propriamente, la baggiana è una varietà di fave a semi molto grossi).
25 Allibì, trasecolò.
26 Giovanottone.
27 Terreno cintato (v. L’altro figlio, n. 26).
28 Nudo, spogliato di tutto. V. Il tabernacolo, n. 10.
29 Lo stretto indispensabile (calco dal dialetto).
30 Papà, padre.
31 Fitta di presagi procellosi e funesti (il triplice richiamo della moglie e il suo nascondersi il volto col grembiule, il canto dei galli e la cresta «sanguigna» dell’animale che risponde al richiamo come se raccogliesse una sfida), la truce scena pare preludere allo scatenamento d’una tragedia rusticana. L’unico segnale minaccioso ma nel contempo confortante (e però destinato a venir sommerso dagli altri) è il primo, ossia il nome dell’arma impugnata da Saru: un «trincialardo».
32 Istupidita.
33 V. Concorso per referendario al Consiglio di Stato, n. 2.
34 Nel poemetto Laòmache II, 4-6, le cui due prime parti furono pubblicate sulla «Rivista di Roma» il 25 febbraio 1906, si legge: «Zighi sommessi / di lepri in amore, fritinnii lunghi di grilli, / strani fili di lucidi suoni, in quell’alba lunare» (v. SPSV, p. 706).
35 Satolla pienezza, sazietà.
36 Tagliare longitudinalmente sul davanti per estrarne le interiora.
37 «Capace recipiente di terracotta a tronco di cono rovesciato con pareti di notevole spessore e bordo rilevato» (Devoto-Oli).
38 V. Il Signore della Nave III 237.
39 Il trincialardo è stato usato per lo scopo per cui è proprio: nessuna tragedia contadina, dunque; ma solo una festa invida e cruenta della grettezza e dell’avidità, solo una crudele beffa campagnola, che delle più fosche tragedie mima parodicamente anche l’atto terribile di invitare una madre a cibarsi della carne dei figli. A pagarne il prezzo è l’innocente e pacifica scrofa assuefatta alle carezze. Non siamo ancora all’indubitabile sarcastico slittamento dell’attributo della suinità dai porci agli uomini, intorno al quale ruoterà Il Signore della Nave, ma la domestica troia, scannata a tradimento mentre quasi umanamente pare voler sorridere, fa già le spese della antifrastica e livida bestialità degli uomini.
1 Fu pubblicata per la prima volta su «Noi e il Mondo» nell’agosto 1912. Nel 1914 fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 venne ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che ripropone sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Non inclusa da Pirandello nelle «novelle per un anno», e dunque non più riveduta, fu recuperata solamente nell’Appendice di L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, vol. II, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, 1938.
2 Si tratta, come dal seguito si vedrà, di quella che noi chiameremmo piuttosto intonazione o modulazione discorsiva.
3 Quelle cioè (tipico il caso dei pronomi personali e delle particelle pronominali) che si appoggiano, per l’accento, rispettivamente sulla parola che precede e su quella che segue. L’osservazione è ovvia, e dunque l’inciso parentetico del professor Della Torre connota un suo scrupolo pedantesco, che peraltro l’ignoranza dell’interlocutore giustifica nella circostanza pienamente.
4 Le encicliche sono in realtà le lettere apostoliche papali. Il povero Pannelli è così digiuno di cultura che non solo non coglie il senso del discorso, ma non ha colto neppure il significante della parola ignota.
5 V. L’uscita del vedovo, n. 18.
6 Così viene chiamato il professore di ruolo nei due o tre anni di servizio immediatamente successivi alla nomina, denominati appunto straordinariato.
7 Guida turistica. Chiamata così, per antonomasia, dal cognome dei tipografi-librai tedeschi che inaugurarono questo genere di pubblicazioni nella prima metà dell’Ottocento.
8 Stelle alpine (v. Pallottoline! I 434).
9 Prego… prego… stiano zitti… prego!
10 Private.
11 Signorina.
12 Deboli, malandati. Il segno si lega all’immagine limitrofa della covatura: barlaccio o barlacchio è infatti detto l’uovo andato a male perché covato troppo a lungo.
13 Strada romana che immette nella piazza dell’«esedra di Termini» dal lato opposto rispetto alla sunnominata via Nazionale.
14 Il lato dell’attuale piazza della Repubblica sul quale viene a sboccare via Nazionale è costituito da un ampio emiciclo porticato.
15 Stirpe pura dagli occhi azzurri.
16 Scrive Tacito in De origine et situ Germanorum 4: «Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem extitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida» [Personalmente inclino verso l’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania non siano contaminati da incroci con gente di altra stirpe e che si siano mantenuti una razza a sé, indipendente, con caratteri propri. Per questo anche il tipo fisico, benché così numerosa sia la popolazione, è eguale in tutti: occhi azzurri d’intensa fierezza, chiome rossicce, corporature gigantesche, adatte solo all’assalto] (v. CORNELIO TACITO, Agricola, Germania, Dialogo sull’oratoria, introduzione, traduzione e note di Mario Stefanoni, Milano, Garzanti, 19932, pp. 66-7). E a uno dei significati del latino sincerus (schietto, puro in quanto non mescolato), solo parzialmente conservatosi in italiano, si lega il successivo godibile dialogo fra i due personaggi sulla sinceritas tacitiana dei tedeschi e sulla disponibilità a mescolarsi della signorina Wenzel.
17 Così dolce, così dolce.
18 Coblenza, città tedesca della Renania, sita alla confluenza del Reno con la Mosella. La zona della Germania è ancora una volta quella nota a Pirandello: la direttrice è infatti Colonia-Bonn-Coblenza-Wiesbaden.
19 Si scervellò.
20 Giallastro (ma letteralmente “giallo limone»). V., in altra declinazione, Quand’ero matto… I 762.
21 Ciaff cioff, io, certo, affatto, sì, no.
22 Geloso.
23 Dritta, impettita.
24 La lieve novelletta si permette nel finale un ulteriore piccolo risvolto malizioso alle spalle del povero Taìti, visto che l’ex-signorina Wenzel «in italiano voleva essere amata; voleva amare in italiano, lei adesso!».