L’imbecille

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» l’11 settembre 1912. Nel 1915 fu compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) e nel 1922 entrò a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Da questa novella Pirandello ricavò, con le poche varianti necessarie a riunire la scena nel caffè e quella in casa di Paroni, l’omonimo atto unico che andò in scena al Teatro Quirino di Roma il 10 ottobre 1922 e venne pubblicato nel 1926 (Firenze, Bemporad).

2 Gancio, staffa. Uno dei foglietti registra il seguente appunto: «Se la campana si stacca dall’ànsola. Una lampada appesa all’ànsola» (v. BRB, p. 69).

3 Contratte, irrigidite.

4 V. Sua Maestà I 907.

5 V. Sua Maestà, n. 3.

6 Fin dal 1895, Pirandello aveva stampato sulla «Gazzetta letteraria» una poesia, La via, che comincia così: «Mi trovo qui per caso, di passaggio. / Vi starò quanto men vi potrò stare. / Non che m’annoj, tutt’altro! Anzi il viaggio / m’ha divertito. Ma è pur forza andare» (v. SPSV, p. 777). Nel 1912 (l’anno stesso della prima stampa de L’imbecille) pubblicò la sua ultima raccolta di poesie, Fuori di chiave, e in essa trova posto una lirica che replica, nella medesima accezione metafisica, l’espressione di Luca Fazio. Si tratta di Ingresso 22-8: «Io son un che arriva adesso. / Sarà tardi? Nel viaggio / ho la via forse smarrita… / Ma – potendo – col permesso, / lesto lesto, di passaggio, / visitar vorrei la vita. / Me ne vado subito…» (v. SPSV p. 621). E al medesimo ordine filosofico di considerazioni apparterrà, nel 1931, una precisa allusione della voce narrante in I muricciuoli, un fico, un uccellino III 532: «Non si sa mai che cosa può diventare all’improvviso un uomo che pensa sotto un fico. Non diventa niente, stupidello. Un uomo di passaggio. Fra poco s’alza e se ne va. Coi suoi pensieri. Di passaggio, e pensieri di passaggio. E tu resti, uccellino eterno. E vivo, e non sai quale contraddizione risolvi con un tuo trillo!».

7 Ossia la ricchezza.

8 V. Sua Maestà I 905.

9 V. Sua Maestà I 906-7.

10 «Feltro semirigido da uomo con una infossatura sulla cupola nel senso della lunghezza e una falda più o meno larga con orlo rialzato. [Dal lombardo lobia ‘loggia’ in senso metaforico, accostato al nome del deputato C. Lobbia (1832-1870), il quale nel 1869 subì un processo, che ebbe vasta risonanza, intentatogli dalla Regia dei Tabacchi]» (Devoto-Oli).

11 Frastornato, istupidito.

12 Lucio Quinzio Cincinnato, console di Roma nel 460 a.C. e dittatore due anni più tardi, antonomastico rappresentante dell’uomo integerrimo che dalle massime cariche pubbliche si ritira senza averne alcuna ricompensa né vantaggio personale.

13 Studio.

14 La tetra disperazione del morituro si spinge anche oltre, e cioè a immaginare di uccidere «il primo che passa per via», ma ciò non toglie che il suo disprezzo investa in primo luogo le «pagliacciate», le «buffonate» e le lotte livide della politica. Come nel vasto affresco romanzesco de I vecchi e i giovani, dopo le grandi e generose fiammate rivoluzionarie e le eroiche battaglie risorgimentali, la lotta politica parlamentare e gli scontri senza esclusione di colpi fra i partiti vengono in genere guardati da Pirandello con gli occhi con cui Luca Fazio guarda qui il militante repubblicano: «Ti vedo da lontano, e mi sembri così piccolo e miserabile». Tutta quanta la dialettica politica dell’Italia postunitaria appare una melmosa, sordida e tutto sommato incomprensibile miscela di propaganda e di affari, di patteggiamenti, di transazioni e di compromessi. Nessuna corrente di simpatia lega più le istanze narranti pirandelliane a questa o quella parte politica. Di qui la perfetta specularità che lega il repubblicano Paroni e il socialista Mazzarini; di qui anche la totale estraneità della storia vera e tragica di Luca Fazio rispetto alla fatua teatralità dei gesti e delle parole della politica. È anche in questa totale incomprensione e in questo distacco risentito che trova probabilmente di che nutrirsi la successiva singolare scelta pirandelliana di adesione al fascismo. Sopravvive nel Pirandello maturo un giovanile (e forse infantile) anarchismo ribelle e individualista, che a un certo punto si ribalta in fiducia nella retorica della fermezza e della dirittura predicata dall’uomo della Provvidenza.

15 V. Il marito di mia moglie, n. 13.

16 Con la palma concava dietro l’orecchio.

17 È la seconda, e tutta diversa, pratica di questo genere che ha luogo nel corpus. Ne La patente il povero Chiàrchiaro, rovinato dalla mala fama di iettatore, pretendeva che gliene fosse rilasciata patente in modo da poter svolgere quell’ufficio legalmente e cavarne sostentamento. Qui Luca Fazio, divorato dalla tisi e dalla nausea per l’arroganza cinica dei politicanti, vuole almeno togliersi la rabbiosa soddisfazione di strappare a Paroni, il quale si è permesso di ascrivere ad imbecillità il suicidio di Lulù Pulino, anche lui tisico senza speranza, una confessione autografa e firmata – oggi si direbbe una autocertificazione – di imbecillità. Poi, anche lui da imbecille (secondo gli uomini come Paroni), si suiciderà, ma avrà cura che in tasca gli sia trovata quella “patente”, la quale attesta non solo la nullità dei Paroni ma anche il fatto che egli poteva ammazzare Leopoldo Paroni e non l’ha fatto, così come Lulù non avrebbe assassinato l’onorevole Mazzarini, perché gli infelici come lui e Pulino non sono disponibili a svolgere il ruolo losco degli utili idioti.

Tu ridi

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 6 ottobre 1912. Nel 1914 fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 venne ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che ripropone sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Entrò infine a far parte del settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad, 1924).

2 Balzò di soprassalto (ma v. Notizie del mondo, n. 36).

3 Uno dei «futili pretesti» seriali che avevano motivato una delle tante scenate di gelosia femminile de L’uscita del vedovo (v. p. 210: «E sua moglie, intanto, certe scene, certe scene […] Una volta, perché, distratto, s’era un po’ arricciati i baffi, per via. Un’altra volta perché, in sogno, aveva riso… Una terza volta perché ella aveva letto nella cronaca d’un giornale che un marito aveva ingannato la moglie ed era stato scoperto») germina e fiorisce in racconto autonomo. Esempio nient’affatto unico della miriade di storie virtuali che nel corpus sono condensate in una proposizione o stipate in un sintagma, e che per la maggior parte restano inattuate e sepolte. Ed esempio, anche, di come un mondo narrato produca e contenga i propri narrabili, accumuli cioè e conservi i semi della propria riproduzione.

4 Agitazione, spasimo nervoso.

5 Abbattuto.

6 Resa quasi idrofoba.

7 Il cenno è a metà diagnostico e a metà malizioso.

8 Pozione sedativa contenente galbano, assa fetida, valeriana, camomilla ed altri componenti a effetto tranquillante.

9 Accidenti (v. Visitare gl’infermi, n. 41).

10 Nome dato al nitrato d’argento, usato un tempo per cauterizzare.

11 Inasprirgli, esacerbargli.

12 La filosofica incredulità che la sorte, «con tanto impegno», ha fatto maturare al signor Anselmo, richiama per contrasto la fede ostinata d’un vecchio personaggio del 1899, il Nuccio D’Alagna di Dono della Vergine Maria (v. I 462 e n. 2). L’altro elemento comune a quella antica novella e a questa, ma anche ad altre storie (come Il professor Terremoto e Il treno ha fischiato…), è d’altronde proprio l’accumulazione iperbolica dei mali che colpiscono l’incolpevole protagonista e allogano anche la sua vicenda fra quelle che gli eccessi medesimi del reale fanno ripiegare verso una declinazione umoristica.

13 Per il medesimo «sonno di piombo» e lo stento del risveglio, v. la ripresa de Il treno ha fischiato III 23: «Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. / Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai». Il sonno plumbeo e la negazione del sogno vengono invece combinati un’altra volta, in termini di dialogo drammatico, molti anni più tardi (nell’inverno 1928-29) in Questa sera si recita a soggetto: «VERRI […] Dunque confessi? MOMMINA Che confesso? VERRI Che pensi a cose che non mi puoi dire! MOMMINA Te l’ho detto, a che penso: d’andare a dormire. VERRI Con questi occhi, a dormire? con questa voce…? Vuoi dire, a sognare! MOMMINA Non sogno. VERRI Non è vero! Sogniamo tutti. Non è possibile, dormendo, non sognare. MOMMINA Io non sogno. VERRI Tu mentisci! Ti dico che non è possibile. MOMMINA E allora sogno; come vuoi tu… VERRI Sogni, eh?… Sogni… Sogni, e ti vendichi! – Pensi, e ti vendichi! – Che sogni? dimmi che sogni! MOMMINA Non lo so. VERRI Come non lo sai? MOMMINA Non lo so. Lo dici tu che sogno. Tanto greve è il mio corpo e tanto stanca mi sento, che cado, appena a letto, in un sonno di piombo. Non so più che voglia dire sognare. Se sogno e, svegliandomi, non ricordo più i sogni che ho fatto, mi pare che sia lo stesso che non aver sognato. E forse è Dio che m’ajuta così!» (v. MN, pp. 299-300).

14 V. Il bottone della palandrana, p. 800.

15 Verificarsi, essere possibile.

16 Accreditate, autorevoli.

17 Certo, provato.

18 Istupidito.

19 La leggerezza e la giocondità del sogno naturale rinviano alla «delizia nuova» e alla «beatitudine» che il povero Nuccio D’Alagna doveva ammettere di provare quando si prestava agli esperimenti ciarlataneschi di don Bartolo Scimpri e si lasciava ipnotizzare: v. Dono della Vergine Maria I 467-8.

20 Senza che egli ne avesse coscienza.

21 Lì lì per piangere. V. Il «fumo» I 998 e n. 43.

22 Storte.

23 Come rappreso e bloccato.

24 Che il signor Anselmo debba alla fine scoprire che ciò che lo fa tanto divertire nel sogno è una scena sadica di sodomizzazione, può dar luogo a qualche inferenza e a molte illazioni. Tanto più che la diagnosi-interpretazione del medico è stata perentoria: «Sogna cose liete e ride». Bisognerebbe dunque presumere che, a prescindere dalla generale funzione risarcitoria della rappresentazione onirica, quella sia una scena lieta per il sognatore-voyeur; né conterebbe granché il fatto che, svegliatosi a quella vista, il suo riso si trasformi «in una smorfia di profondo disgusto», poiché una cosa è la censura della coscienza desta ed altra cosa la libertà trasgressiva e inconscia del sogno. A partire da questi indizi, non sarebbe impossibile spingersi fino a leggere nel sogno di Anselmo lo svelamento della latente omosessualità dell’infelice marito di una nevrotica gelosa, sebbene proprio l’esplicitezza dell’episodio onirico sollevi di per sé qualche ostacolo. A questa congettura si oppone però soprattutto il fatto che la memoria di quell’unico spettacolo onirico priva crudelmente il povero Anselmo anche dell’illusione che il sonno lo conduca «leggero leggero, come una piuma, pei freschi viali dei sogni più giocondi»; e che non la censura, ma il suo «spirito filosofico», laico e scettico, lo persuada viceversa che, a partire da condizioni di infelicità profonde quanto le sue, il riso dei suoi sogni non può essere provocato che da stupidaggini, ossia da cose non propriamente «liete», ma piuttosto buffe o grottesche. Quel sogno è forse solo una allegoria metonimica, e il solo soddisfacimento, il solo piacere che regala al sognatore è quello di poter ridere della propria pena quotidiana trasformata in scena onirica, oggettivata e spostata: in quel capo-ufficio cav. Ridotti che con un bastone fa inciampare e sodomizza per gioco un pover’uomo che sale a stento una scala e scalcia invano per difendersi prende corpo la sua stessa sorte, ma la mancata agnizione consente al dormiente di non riconoscersi nell’altro onirico, nel «compagno d’ufficio» Torella, e gli permette di ridere.

I due compari

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 1° dicembre 1912. Nel 1914 fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 venne ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che ripropone sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Entrò infine a far parte del settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad, 1924).

2 Fattoria.

3 Fattori. V. anche La Lega disciolta, p. 518.

4 Radunavano, ammucchiavano.

5 V. Ritorno, n. 10.

6 Tacchini

7 Recinto.

8 V. La levata del sole, n. 25.

9 Il capoverso paesaggistico costituisce una riscrittura evidente di quello contenuto in Un cavallo nella luna, pp. 324-5, una più concisa variazione del quale è riconoscibile anche ne Il viaggio, p. 542.

10 V. Il vitalizio, n. 69 e La verità, p. 723.

11 L’impianto della novella esibisce un travestimento rusticano e contadino del motivo della parità e dell’identità gemellare intorno a cui ruotava la novella del 1907, Pari. Se nell’ambientazione campagnola viene meno, come premessa della storia, la solitaria omosessualità dei protagonisti (da intendersi alla lettera, come identità sessuale e come renitente cautela rispetto al rapporto con l’altro sesso), non viene però meno un’altra caratteristica delle relazioni gemellari: la complementarità. Giglione e Butticè, come già gli amicissimi di Notizie del mondo, de La toccatina e di Pari, non sono affatto uguali, ma appunto complementari, e proprio perciò diversissimi. Sulla perfetta concordia delle loro diversità, che adombra in qualche modo il modello del due in uno e uno in due pienamente teorizzato in Pari, si fonda la loro uguaglianza, che non è dunque identità né specularità, ma concreta e materiale parità, ossia, come si conviene a contadini, pari capacità di lavoro e di guadagno e pari capacità di generare braccia nuove per il lavoro. Ma c’è dell’altro: le vicende parallele di Giglione e Butticè non si fondano su una antica e solida intimità amicale, ma viceversa sul fatto che, già vissuti da fanciulli e da ragazzi come «rivali accaniti», solo da uomini, e non spontaneamente, «s’erano appajati, cangiando in emulazione l’antica rivalità». E in questo senso la loro storia contiene un movimento inverso rispetto a quelle di altri amicissimi: la loro leale amicalità nasce dalla composizione, in parte coatta, della loro rivalità, laddove per gli altri la rivalità o il dissidio o la separazione intervenivano a scomporre la fiduciaria amicizia originaria. L’amicizia che ha legato e legherà i gemelli borghesi del corpus è un barlume di civiltà filadelfica e configura il nucleo minimo d’una società di uguali, ed è anche solidarietà difensiva nei confronti delle insidie del mondo esterno, rappresentate in primo luogo dalle donne. La pacifica emulazione dei due compari è invece opera delle donne e rappresenta un tentativo di esorcizzare, in una società arcaica e selvaggia, l’incombente destino fratricida di Caino e Abele.

12 V. TS, p. 64: «Lucerna a olio».

13 Terreno declive.

14 Favara dista meno di dieci chilometri da Agrigento in direzione est.

15 Allibì, trasecolò.

16 V. La veglia, n. 27.

17 V. TS, p. 58: «Fremito animalesco».

18 La beffa della sorte fa sì che le «maniere graziose» passino bruscamente da Butticè a Giglione e che lo sfavorito Butticè diventi alla fine il «taciturno irremovibile».

19 La metamorfosi-regressione che investe Butticè si esprime chiaramente attraverso gli occhi e gli sguardi. Egli era colui che addolciva la durezza di Giglione «col perpetuo riso lucente degli occhi azzurri, mobili e maliziosi» (p. 774). Dinanzi al mutismo degli altri, che gli dà conferma della prevista sciagura, quel «riso lucente» si deforma e degrada: «Gli occhi ilari gli lucevano di follia» (p. 776). Ma anche questo lucore di follia smette qui di apparire ilare e diventa, nei suoi occhi azzurri, un baleno di acciaio gelido e aggressivo. Poco sotto, l’ultima occorrenza del motivo sarà infine appiattita su un’espressione comune e nel contempo inappellabilmente funesta: «gli occhi da pazzo».

20 V. il finale di Scialle nero (I 1048). A proposito di quanto già osservato altrove, e prima, sul ruolo della luna (v. la remota Sole e ombra I 302: «la luna, comparendo all’improvviso, di sorpresa, pareva dicesse a un uomo d’altissima statura che, in un’ora così insolita, s’avventurava solo a quel bujo mal sicuro: / “Sì, ma io ti vedo”. / E come se veramente si vedesse scoperto, l’uomo si fermava», e v. Prima notte, n. 18), va segnalato che la prima stampa de I due compari forniva una conferma precisa. Vi si leggeva infatti: «[…] vide ferma in cielo la luna. Ecco, lei sì, dall’alto, lo aveva scoperto. E avvertì nella coscienza oscura come un brulichio, tra di dispetto e di sgomento, quasi la natura nemica, che aveva pure avviato per quelle remote solitudini la morte a sorprendere e a ghermirgli la compagna, avesse ora mandato la luna, per dirgli: – “Ma io ti scopro! Va’ dove vuoi, da me non puoi nasconderti!”» (v. NUAII, p. 1162).

21 Spaiato, solo (perché privo della compagna).

22 In ambienti meno elementari e in climi meno sanguigni la rottura dell’equilibrio e della parità può trovare soluzioni di compromesso e soprattutto prestarsi a declinazioni umoristiche; qui no: lo sbilanciamento irreparabile delle sorti comporta il riaffioramento livido e devastante della rivalità e il riallineamento della dinamica narrativa sui binari semplici e feroci del realismo rusticano. Nella società contadina smisuratamente orgogliosa e diffidente, solo una perfetta parità può neutralizzare l’odio invidioso per il superiore e il disprezzo insultante per l’inferiore. Se si perde la parità, non serve che l’altro sia generoso: la sua pietà e la sua carità, segni di una superiorità che automaticamente patenta l’inferiorità dell’altro, offendono come oltraggi.

Ciàula scopre la luna

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 29 dicembre 1912. Nel 1914 fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 venne ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che ripropone sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Vedi sotto alla n. 8.

3 Incaricato della sorveglianza dei lavori.

4 Si scagliò infuriato.

5 Zio Scarda. V. Il vitalizio, n. 19.

6 Garzone (v. Il «fumo», n. 10). Questo racconto pirandelliano serba memoria di una delle più celebri novelle verghiane di Vita dei campi: Rosso Malpelo (1878). Già per questa prepotenza che percorre la scala gerarchica dei ruoli scaricandosi sui punti di minore resistenza e arrendendosi ai molti o ai più forti, si tenga presente quanto Malpelo per similitudine diceva: «La rena è traditora […]; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, […] allora si lascia vincere» (v. G. VERGA, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1979, p. 179).

7 Paese a una ventina di chilometri a nord di Agrigento (v. Un invito a tavola I 369).

8 Accrescitivo di «calcara» (forno per la cottura del calcare), il calcherone (o calcarone) è il «forno rudimentale ancora usato in Sicilia per l’estrazione dello zolfo. V. Il «fumo», n. 5.

9 V. Il «fumo» I 992.

10 Si faceva scivolare (in questa accezione il verbo, derivato dal latino deducere, implica movimento dall’alto verso il basso).

11 Muglio, ringhio.

12 Tabacco da fiuto (dal fr. râpé, “trinciato”).

13 Faceva splendere di riflesso (v. La levata del sole I 523).

14 V., in GG, p. 71, la citazione da S. F. Romano, Storia dei Fasci siciliani: «La catena della servitù personale, in cui il caruso si era impigliato all’inizio del suo lavoro in miniera, non si spezzava neanche nell’età matura, chè spesso egli restava caruso fino all’età di trent’anni».

15 Crosta di sudiciume. È termine popolare toscano: v. La Lega disciolta, n. 31.

16 A sventola.

17 Grosso panno di lana.

18 Ciàula è «nome regionale di varî uccelli della famiglia dei Corvidi (corvo, cornacchia, taccola) e del gracchio corallino» (Devoto-Oli).

19 Il sacco «attorto dietro la nuca» (v. p. 783) con il quale i carusi, che trasportavano il minerale grezzo, si proteggevano la testa e le spalle: si veda anche poco sotto: «con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte».

20 L’antecedente situazionale è fornito da Il «fumo» I 1002: «cento, duecento metri sottoterra c’era gente che s’affannava […] a scavare, poveri picconieri sepolti laggiù, a cui non importava se su fosse giorno o notte, poiché notte era sempre per loro».

21 Scalini che hanno sia la pedata che l’alzata inclinate.

22 Gracchiare.

23 Già nell’incipit della novella Il «fumo» (v. I 992) era stato raccontato questo movimento di risalita dei minatori dal buio sotterraneo verso l’aria aperta e la luce: «Appena i zolfatari venivan su dal fondo della “buca” col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde là della collina lontana». Ma là si trattava soprattutto appunto d’un confronto fra la vita di miniera e quella di campagna: assai più del contrasto luce-buio contava quello fra l’inferno delle zolfare e il verde riposante, edenico, di quella collina. Qui, invece, importante è soprattutto l’amore di Ciàula per la luce.

24 Al ragazzo cavatore di rena verghiano, in cui – morto il padre – tutti, parenti, compagni di lavoro e paesani, presumono innata la cattiveria in forza del pregiudizio popolare connesso al colore dei capelli, Pirandello sostituisce il povero scemo Ciàula, zolfataro trentenne. Ma i due sono legati da più di un elemento comune, e in primo luogo dalla rassegnata consuetudine con la spietata durezza del lavoro nelle viscere della terra. Perciò Ciàula non teme il buio della miniera come Malpelo non teme quello della cava: «Ei narrava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano» (v. G. VERGA, Tutte le novelle, cit., p. 181).

25 Curioso, singolare.

26 Altro puntuale ricordo del Malpelo verghiano: «egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato» (v. G. VERGA, Tutte le novelle, cit., p. 180).

27 Zone di estrazione del minerale.

28 Sospendere il lavoro.

29 Giova ricordare, a questo punto, che la sua stessa scontrosità di predestinato alla notte perpetua spingeva invece Malpelo ad amare le notti buie e stellate e a non amare le notti di luna: «Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – allora la sciara sembra più brulla e desolata. – Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, pensava Malpelo, ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto» (v. G. VERGA, Tutte le novelle, cit., p. 185). Come s’è visto, né Malpelo né Ciàula hanno paura del buio delle caverne labirintiche in cui lavorano da sempre. Ma Malpelo è davvero un tragico folletto ctonio e notturno, che nell’abiura alla luce e nel rinnegamento della realtà orrorosa di superficie porta iscritta anche la sua sorte finale (v. G. VERGA, Tutte le novelle, cit., pp. 188-9: «Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. […] Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui»). Il ragazzo Malpelo è la funebre civetta che «sente i morti che son […] sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli»; non è cattivo come gli altri pensano, ma non è né candido né semplice e deve vedere cose che non vuol vedere: non saprebbe forse dirlo di sé, ma dell’asino grigio morto dice: «Se non fosse mai nato sarebbe stato meglio». La cornacchia Ciàula, Ciàula lo scemo in questo non gli somiglia: nella sua semplicità, non teme la tenebra materna della terra, ma teme la «sterminata vacuità» notturna della volta stellata, «il bujo, ove doveva esser lume» e l’irriconoscibilità delle cose orbate della luce. Distingue, per istinto, il buio accogliente e rassicurante della tana sotterranea e il buio pauroso del mondo senza lume.

30 Ammassarlo, ammucchiarlo.

31 Tremito fitto e continuo.

32 Su un foglietto si trova annotato: «Non far la carogna (lavora!)» (v. BRB, p. 66).

33 Con questa espressione antifrastica, la voce narrante sottolinea il fatto che, per Ciàula, la sola distrazione e l’unico sollievo rispetto all’insopportabilità della fatica è, paradossalmente, proprio la paura del buio che lo attende.

34 Con un gioco sottile della narrazione, quasi una focalizzazione interna alla rovescia, il narratore vede, e fa vedere al lettore prima che al personaggio stremato e impaurito, la «deliziosa chiarità d’argento» che illumina lo sbocco della miniera. È ben vero che per chi ha scritto e letto il titolo della novella, l’evento non giunge inatteso, ma, tanto più leggeri di lui, noi scopriamo la luna prima di Ciàula.

35 Luminosità.

36 Maiuscola qui e sempre nel seguito, e nel capoverso conclusivo designata coi pronomi personali «ella» e «lei». È l’ottica di Ciàula che presiede alla scoperta e all’estasi, e per lui non è una presenza cosale quella cui si trova dinanzi, ma la vivente epifania d’una serena divinità protettiva e consolatrice. Ciàula non lo sa e non parla: lo sente; ma il narratore lo sa e sa come si scrivono i nomi delle divinità.

37 Non solo Ciàula «sapeva che cos’era» la luna, ma non si deve neppure inferire erroneamente che egli non l’avesse mai vista prima. Ciò che gli avviene per la prima volta, che ha la grandezza dell’evento prodigioso e che determina la sua stupefazione estatica è di scoprirla riaffiorando di notte, sfinito, dalla sua buca. Era abituato a rivedere ad ogni risalita la luce del sole e a trovar conforto nella vista delle cose illuminate; aveva provato terrore nell’unica funesta circostanza in cui gli era avvenuto, pur senza carico, di sbucare dalla miniera in una notte illune, ed ora la paura di quel terrore lo aveva accompagnato mentre risaliva vacillante «sotto il carico enorme». Ma stavolta c’è la Luna.

38 In tutt’altra chiave, la stupefazione di Ciàula era stata in parte anticipata, tre anni prima, da quella del cavalier Spigula-Nonnis ne L’illustre estinto (v. p. 435). Ma d’una simile scoperta conoscitiva (di cui la novella fa capace anche il semplice Ciàula) e dello scarto che essa determina appunto rispetto alle «tante cose» che «si sanno», mostrerà matura e macerata coscienza, e saremo al 1934, il Romeo Daddi di Non si sa come, il quale muoverà proprio dalle cose che si sanno in quanto culturalmente e socialmente stabilite, e che sono per ciò stesso considerate indiscutibili: «Io volevo appunto affermare questa bellezza di solidità – là – delle cose stabilite, che tutti sanno e, anche se non sanno, accettano – là – perché si sono stabilite. Un cieco, non vede la luna, ma sa che c’è. Tutti sanno che in cielo c’è la luna; e che sulla terra ci sono i boschi. Crediamo, almeno, di saperlo! Ma poi tutt’a un tratto ci accorgiamo di non averlo mai saputo veramente, quando ne abbiamo un sentimento vero, così raro, che ce ne crea d’improvviso, misteriosamente, la realtà; e la scopriamo allora, la luna, il bosco, la luna che è “quella”, ora sì, “la luna” […] “il bosco”, quello! che non han più nulla da vedere con la luna e col bosco degli altri, come comunemente si sa che ci sono, l’una in cielo e l’altro in questa o in quella parte dela terra. Ah, eccola, è questa la Luna! Se ne ha una volta sola il sentimento vero! E tanti non lo hanno mai, e vivono delle cose che si sanno, senza nessuna vera realtà per loro. E tanti che lo hanno avuto una volta, cercano di riaverlo, e non lo trovano più. È questa – questa dei sentimenti veri – misteriosi – la vera vita – che non si sa come si crei in un attimo, e ti rapisca, e ti può anche far commettere delitti che tu non sai, terribili, e non se ne sa più nulla, passato quell’attimo, estinto il mistero. Le cose che si sanno non significano allora più nulla» (v. MNII, pp. 868-9).

39 La sorte del caruso trentenne non è meno determinata di quella di Malpelo. Ma il finale della sua povera vicenda non è segnato dal determinismo fosco e funebre che marca quella del ragazzo cavatore verghiano, il quale l’aveva per parte sua anche soggettivamente introiettato (e proprio questa introiezione costituiva forse l’aspetto più disperato della sua storia). La commozione creaturale di Ciàula, il suo «gran conforto» stupito dinanzi alla luna grande e placida che illumina il suo ritorno al mondo, alleviano e alleggeriscono il patetismo dell’explicit novellistico. Ciàula non viene risarcito delle sue disgrazie né la sua mente si aprirà alla saviezza e alla sapienza, ma la sua paura cessa. Per qualcuno, incatenato ad una vita impossibile, fischia di notte un treno, a un altro infelice una pagina d’atlante schiude mondi mai visti: Ciàula scopre la luna. E questa sua scoperta levita e si eleva a evento mitico e antropologico, a estasi conoscitiva così straordinaria e prodigiosa da colmarne la notte.

Ignare

1 Fu pubblicata per la prima volta nel 1912 nella raccolta Terzetti (Milano, Treves); nel 1928 entrò a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad). Franz Rauhut la suppone composta nel 1910 (v. FR, p. 458). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Arido, di cose essiccate. La prima stampa lo determinava come un tanfo «di vernice e di salso» (v. NUAIII, p. 1308).

3 Dal candore abbagliante.

4 Si leggerà poco oltre che «erano arrivate, ferite e morenti, da Candia». Si tratta dunque dell’isola di Creta, di cui Candia, città affacciata alla costa settentrionale, è la capitale. La storia dell’isola mediterranea è tormentata: tra il 1770 e il 1866 si contano almeno quattro violente sommosse indipendentistiche della popolazione greca contro il dominio turco. La parziale autonomia concessa dalla Turchia nel 1868 non valse a pacificare il paese, e ancora nel 1896 e al principio del 1897 le comunità cristiane subirono dei massacri che persuasero le potenze europee a procedere ad una occupazione militare internazionale dell’isola.

5 Suora laica.

6 Carrozza scoperta a quattro ruote e con sedili laterali.

7 V. TS, p. 65: «Svolazzavano le tele della giardiniera».

8 Cornetta è detto il copricapo di lino inamidato, a larghe tese laterali, portato dalle suore di san Vincenzo de’ Paoli, più comunemente chiamate suore di carità.

9 Rigido pettino inamidato dell’abito delle suore. V. le monache «tutte bene appettate sotto il modestino bianco insaldato» di Resti mortali III 471.

10 «Fabbricato rustico con funzioni di magazzino e deposito» (Devoto-Oli).

11 Tessuto grossolano, di pelo di capra (o di cammello).

12 I polpacci.

13 Allegro chiasso. V. anche Il giardinetto lassù I 427.

14 Per questi profumi accoppiati, v. La signora Speranza I 870 e La corona, p. 314.

15 Risvolto dell’impaccio ontoso e dell’insofferenza che nel corpus pirandelliano non smettono mai di accompagnare la corporalità, le sue necessità, le sue pulsioni, le sue epifanie, è anche, in contrasto con la sacralità che quasi sempre circonda la maternità, il disagio o il ribrezzo per il corpo gravido della donna. La prima occorrenza risale addirittura al 1894 e a L’onda, e fin da allora, obliquamente, l’istanza narrante spinge la donna ad esprimere tale disagio come proprio: «Agata s’era messa penosamente a abbigliarsi con più cura, […] avvilita dinanzi allo specchio del suo volto languido e del corpo sformato» (v. I 193). Successivamente, nelle prime due stampe (del 1910 e del 1912) de La morta e la viva, si legge della giovane moglie Rosa che «apriva come due laghi di lagrime i grandi occhi chiari nel viso smunto, diafano, che non le si reggeva ritto sul busto deformato dalla gravidanza» (v. NUAIII, p. 1257). Qui è agli occhi delle ignare suore violentate che «la castità dell’abito» appare offesa «dal progressivo sformarsi del corpo» e, pur con qualche ambiguità enunciativa, è Rosaria stessa a parlare del proprio «sconcio ventre». Anche a prescindere dall’occorrenza ultima, la più violenta e crudele, quella de La distruzione dell’uomo, che sarà ben altrimenti motivata dall’interno, è significativo che, pur coperto in parte dall’alibi estorto ai personaggi femminili, il discorso sul fisico manifestarsi della gravidanza sia puntualmente intriso di un senso di ripulsa e quasi di schifo. È infatti una curiosa ambivalenza quella che vuole che la donna, per ascendere al ruolo sacro di madre, debba patire una metamorfosi sconciante.

16 Per i capelli tagliati cortissimi. Nel capoverso incipitale della stampa del 1912 si parlava appunto di «capelli tagliati a tondo, maschilmente» (v. NUAIII, p. 1308). Ed è forse collegabile a Ignare l’appunto di TS, p. 46: «Col testoncino rapato come un maschio».

Il bottone della palandrana

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 15 gennaio 1913. Già l’anno dopo venne compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini, 1914) e successivamente ristampata in Tu ridi (Milano, Treves, 1920), silloge che recupera sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Entrò infine a far parte del settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad, 1924).

2 Beccare (propriamente, pinzare si dice del “pungere” di insetti).

3 Lasciato scivolar giù, calato (è un arcaismo).

4 Uccelli insettivori del genere Paro, agili e sempre in movimento, «hanno di norma la testa nera alla sommità, guance bianche, becco cortissimo e per lo più una sorta di bavaglino nero sotto la gola» (Devoto-Oli).

5 Uccelli dei Silvidi, grigi olivastri di sopra e di sotto biancastri, così chiamati perché ghiotti di fichi.

6 Faccia atteggiata a espressione truce e minacciosa.

7 «Cappotto o soprabito lungo, largo e privo di garbo» (Devoto-Oli).

8 V. TS, p. 51: «Non apriva bocca con nessuno».

9 Fissare con intenzione.

10 Lucentezza, brillio.

11 Impettito. Così, «rigida, interita», anche la signora Taìti in Maestro Amore, p. 759.

12 Tutt’altra cosa è aver capito il gioco, come Memmo Viola dimostrerà in questo medesimo 1913. Quella di don Filiberto è viceversa una impervia e poco stabile costruzione intellettuale, che egli è costretto a sostenere e puntellare di continuo e a proteggere con una austerità e una inflessibilità catoniane giorno per giorno, pur di riuscire a «tenere anche d’estate rigorosamente abbottonata quella sua palandrana» palesemente metonimica, che fa tutt’uno con la «gravità» e il «decoro», con la decente umanità che rappresenta di contro alla «bestialità festosa» o alla «espansiva spontaneità di bestia impudente» che caratterizzano Meo Zezza. Va detto, al proposito, che la rigidezza, l’ordine intransigente, la propreté a tutti i costi sono sempre, nel corpus, «forme» anelastiche e fragili, coperture velleitarie d’un sistema precario e appunto «sospeso e pericolante». Sono scelte difensive e repressive, sono scelte dettate dalla paura di essere toccati e sporcati dalla realtà. Coloro che mostreranno d’aver capito il gioco non saranno rigidi e austeri, ma anzi duttili, elastici, affabili, comprensivi e spesso, all’apparenza, sciatti e incuranti dell’ordine. La loro renitenza rispetto alla realtà, incomparabilmente più forte e incrollabile, non assumerà mai le forme della rigidezza, ma anzi quelle opposte della tolleranza massima. Don Filiberto non saprebbe riconoscere nell’«incuria» e nella «rilassatezza» di Memmo Viola l’ascesi placida e il rigore senza forma capaci di impedire in ogni circostanza che l’universo venga scombussolato da un evento imprevisto. Eppure, invincibile è proprio quella imperturbabile rilassatezza, mentre la rabbiosa severità può venire ad ogni istante travolta.

13 Ossuto, simile a teschio (v. Soffio, n. 14).

14 Trattenere, frenare.

15 V. Quand’ero matto… I 773: «Tutti quelli che esercitarono sulla mia cospicua ricchezza la loro professione, non meritano l’encomio della gente savia. Potevano rubare con garbo, comodamente, e con prudenza e avvedutezza, e crearsi un’onorevole e rispettabilissima posizione».

16 Anche per questo aforisma umoristico, v. Quand’ero matto… I 774: «Non è tanto ladro il ladro, […] quanto è imbecille chi si lascia rubare».

17 Toponimo di fantasia tra i meno fantasiosi.

18 Furfante (v. E due!, n. 12).

19 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).

20 Lente singola, monocolo (v. anche Formalità I 973).

21 Don Filiberto, homo ethicus, vive una sorta di rivelatrice apocalisse umoristica: scopre che nel marchese monocolo, istanza suprema dell’azienda-modello, dunque figura vicaria di un padreterno onnisciente che presiede all’ordine del mondo, severo, fisso, truce è solo l’occhio di vetro, l’occhio che non vede; l’altro, che il dio stanco volentieri si copre, vede tutto ma tutto tollera purché la macchina del mondo continui a funzionare. A breve distanza di tempo, Pirandello riutilizza l’artificio dell’inquietante e disorientante differenza-indipendenza dei due occhi dell’interlocutore: v. Tu ridi, p. 770.

22 Sbalordito.

23 Il povero don Filiberto deve constatare che amministrazione eccellente non è quella priva di irregolarità, ma quella che è perfettamente al corrente delle irregolarità che sono la conditio sine qua non della massimizzazione dei profitti, e le mette a frutto. Scopre in sostanza che qualsiasi ordine, ed anche il presunto «regno dell’ordine», si fonda sul disordine. E deve naturalmente prendere atto, nonostante la misericordiosa cortesia del marchese, che in quel sistema egli è davvero un delatore superfluo, una spia patetica, mentre Meo Zezza non è un ladro, ma un uomo profittevolmente «desideroso di arricchirsi».

24 V. TS, p. 53: «stonato, stordito».

25 Sistemato.

«Requiem aeternam dona eis, Domine!»

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 16 febbraio 1913. Nel 1915 venne compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 V. La verità, p. 721: «Qualche donna, vestita di nero, con la mantellina di panno tirata fin sopra gli orecchi, si mise a piangere perdutamente».

3 Si coprivano di un velo vitreo di lacrime. Per il termine v. La levata del sole, n. 10.

4 V. La verità, p. 721: «Dalla folla di tutti quei contadini si levava denso, ammorbante, un sito di stalla e di sudore, un lezzo caprino, un tanfo di bestie inzafardate, che accorava».

5 Traspirare (propriamente “vomitare”: voce formata sul verbo arcaico bomicare rafforzato con s- estrattiva).

6 Inimicizia, ostilità.

7 Chiodati. V. Il vitalizio I 536: «Che fracasso facevano su quei lisci lastroni scivolosi gli scarponi imbullettati di Maràbito».

8 Alcuni particolari descrittivi di questa prima parte del racconto provengono da una pagina del romanzo I vecchi e i giovani, che proprio nel 1913 venne stampato per intero in volume: «La città [Girgenti] era piuttosto tranquilla; ma nelle campagne e nei paesi della provincia i reati di sangue, aperti o per mandato, per risse improvvise o per vendette meditate, e le grassazioni e l’abigeato e i sequestri di persona e i ricatti erano continui e innumerevoli, frutto della miseria, della selvaggia ignoranza, dell’asprezza delle fatiche che abbrutivano, delle vaste solitudini arse, brulle e mal guardate. In piazza Sant’Anna, ov’erano i tribunali, nel centro della città, […] s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino, con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padovane; con cerchietti o catenaccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte protratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato» (v. RII, pp. 161-2).

9 Scricchiolanti (v. Gioventù I 627).

10 “L’eterno riposo dona loro, o Signore”. È la più comune preghiera per i defunti.

11 V. GG, p. 222 n. 2: «Colui che a ogni costo voleva evitare che quei contadini avessero il loro cimitero nelle sue terre, non era, nella realtà dei fatti, un barone, ma semplicemente il suocero di Pirandello, Calogero Portulano, il quale possedeva le terre presso monte Suzza, a quindici chilometri da Girgenti, di cui una parte era dote di Antonietta, moglie dello scrittore. Il prefetto presso cui premeva Calogero Portulano e a cui ricorsero i contadini per avere giustizia fu il Rebucci. L’anno in cui si svolsero i fatti fu il 1910».

12 Funzionario di polizia.

13 Sbuffando rumorosamente.

14 Guardiani agricoli.

15 Aizzava, sobillava.

16 È una controversia arcaica, feudale e per così dire medievale, nella quale si fronteggiano un signorotto-padrone e un patriarca contadino, portata dinanzi all’autorità borghese d’un prefetto. E stride, umoristicamente, l’incongruità temporale degli attori e dei fatti, stride la sopravvivenza sanguigna e feroce d’un superato sociale entro assetti di potere che si pretendono moderni.

17 Per “forza pubblica”: nel caso «guardie e carabinieri a cavallo».

18 V. la remota Natale sul Reno I 335 e n. 6.

19 – Santa Madre di Dio, – Prega per noi! – Santa Vergine fra le Vergini, – Prega per noi!

20 Germogliata delicatamente.

La veste lunga

1 Fu pubblicata per la prima volta nel febbraio del 1913 su «Noi e il Mondo», e ristampata due anni dopo nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915). Fu infine inclusa nel quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922), il quale recupera nove racconti della citata raccolta. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 More di gelso.

3 Vasetti panciuti.

4 Il ciuffetto di foglie sopra il picciolo del frutto.

5 Le lumie sono frutti simili al limone, ma meno agri.

6 V. Scialle nero, n. 19.

7 Agrumeti. V. Il vitalizio I 533 e nn. 31 e 34.

8 Pervasi di profumi intensi.

9 V. Il viaggio, n. 37, ma anche «Leonora, addio!», p. 559 e Felicità, p. 583. Il penetrante profumo mischiato di zagare e gelsomini ritorna e si alterna con gli aromi di salvie e mentastri (v. La signora Speranza, n. 53). Le due coppie di odori commisti costituiscono di volta in volta un incanto olfattivo che è sufficiente a configurare un luogo e un clima edenici, propizi a rapiti estraniamenti ed estasi prodigiose.

10 «Paese di sogno, lontano lontano, ma più nel tempo che nello spazio», in principio, e «paese di sogno della sua infanzia felice» nell’explicit, Zùnica è per la cittadina Didì l’eden campestre. Il nome stesso del luogo pare volerne rivelare la singolarità ed anzi volerne contrassegnare l’unicità con la Z della vita, del kalòs zèn. E anche l’introvabilità che ha poi contraddistinto le semplici leccornie che il padre di là le portava, e la rara, polposa fragranza dei significanti con cui la memoria le avvolge nominandole, contribuiscono a farne un cibo prezioso proveniente da un orto celeste. Quella verdicante, profumata campagna è a buon diritto, più che luogo, lucus, recinto sacro dell’infanzia felice. Per un remoto ma puntuale ascendente del raffronto (che qui assume forma di fantasticheria) fra la campagna verdeggiante e gli aridi terreni zolfiferi, v. Il «fumo» I 992-3.

11 Vasta proprietà terriera.

12 Bagheria si trova a una dozzina di chilometri a est della capitale.

13 Piccola località presso Bagheria, vicinissima al mare e rinomata per i suoi giardini di agrumi.

14 Soprannominata.

15 Colui che per incarico del giudice ha il compito di gestire un patrimonio perché ne sia garantita la conservazione.

16 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).

17 Con modestia ipocrita.

18 Ironico librettismo (v. Sole e ombra, n. 24).

19 V. L’illustre estinto, p. 430: «l’on. Costanzo Ramberti si vide morto, come gli altri lo avrebbero veduto; com’egli aveva veduto tanti altri: morto e duro, lì, su quel letto; coi piedi rattratti nelle scarpine di coppale […] Intanto, per far la prova, rattrasse i piedi e se li guatò».

20 Colore rossastro.

21 Studio.

22 Il titolo della novella è senza dubbio a chiave: la metonimia vestimentaria non potrebbe essere più chiara. Didì medita sulla sorte che attende entrambi i sessi al momento di divenire uomini e donne, di uscire di casa ed entrare nel mondo; e dunque è opportuno rammentare che già otto anni prima Cesarino Brei, all’atto di accettare una investitura da uomo, rivendicava il diritto a una adeguata vestizione (v. In silenzio, p. 180). L’adolescente, volente o nolente, è sempre in qualche modo un non vestibile bambino adulto. Non c’è di fatto un abito adatto per il tempo in cui si deve cambiare d’abito. Sollecitata e provocata dal fratello, Didì ha eseguito tutti i riti di prova, compreso quello, assolutamente interdetto a una donna, di rialzarsi infantilmente la veste lunga e di mostrare le gambe per vedersele allo specchio; e compreso quello di riguardarsele, nel letto, immaginandosi morta e vestita da sposa. Non le sono serviti. In precario equilibrio nella sua condizione puberale di soglia, sospesa tra non più e non ancora, Didì ragiona e capisce, ma non è pronta: l’ambivalenza della sua età, priva di aiuto, priva della mediazione materna, inclina alla ripugnanza anziché all’attrazione desiderante. I «calzoni lunghi» degli uomini e le «vesti lunghe» delle donne sono abiti adatti sì, ma fatti apposta per entrare nella tristezza «laida» e «divoratrice» del mondo.

23 Nel rapporto originario intatto con la madre, che è il nucleo del modello infantile di vita, «fuori» è una parola assente e inservibile o, per meglio dire, il fuori non esiste. Così come la madre protegge il bambino dalla paura dell’Altro ignoto dandosi come tutt’uno con lui, così, sul piano dello spazio vitale infantile, esiste solo la nativa internità del qui, che ripara completamente dallo spavento di un eventuale altrove. Didì è terrorizzata e disgustata dall’andirivieni del padre e del fratello tra fuori e dentro e dal contagio di «laida tristezza» che da fuori essi introducono nella casa orba della madre.

24 Fuori di casa, su quel treno in viaggio, non c’è più spazio per gli scherzi e i giochi di travestimento. Il codice metonimico degli abiti è legge, e impone d’autorità che contenente e contenuto si corrispondano, è garante della presunzione certa che ci sia una donna dentro la veste da donna e che la catafratta apparenza donnesca comporti un’essenza femminile adulta. Il rito di passaggio della maturità vuole che vestizione e investitura siano indivisibili e solidali e senza ritorno. Di qui le smanie e l’angoscia dela bambina Didì, che si sente soffocare sotto il peso d’un camuffamento fatto sul serio e che non potrà più essere svestito.

25 Gonfie e cascanti.

26 Leggermente sporgenti (v. Tra due ombre, n. 5).

27 La perfezione dell’archetipo infantile è dovuta alla presenza unificante della madre, al potere avvolgente e totalizzante dell’«amor materno» e alla prerogativa esclusivamente materna di esalare l’«alito familiare» che riempie la casa e tiene uniti tutti i suoi abitanti. Nell’ottica anamnestica e retrospettiva dei figli, la vita infantile è un sistema invalicabile e impenetrabile il cui sole è la madre. A essa e alla luce amorosa che ne riceve e in cui si specchia, il bambino guarda costantemente; è intorno ad essa che orbitano, prossimi ma con funzione satellite, gli altri familiari interni al sistema e trattenuti entro i suoi margini dall’attrazione materna. Didì ne osserva angosciata e sperduta le macerie e gli squallidi mutanti sopravvissuti alla morte della madre. D’altronde, è soltanto da una postazione conoscitiva determinata dal collasso del chiuso mondo infantile e della sua ottica felicemente riflessiva che lo sguardo può essere rivolto, per il tramite della memoria e del senso di privazione, a quel mondo. Sapere e conoscere, lungo tutto il corpus pirandelliano, vuol dire infatti confrontare e distinguere, guardare alternativamente dentro e fuori di sé: operazioni non necessarie al bambino felice e senza le quali peraltro quel sistema perfetto non è raccontabile, non è letteralmente dicibile.

28 La scomparsa della madre ha comportato un fenomeno di rarefazione-svuotamento che ha investito tutto intero l’universo dell’infanzia, dai suoi abitatori ai suoi modelli di vita ai più umili oggetti. Privato del suo centro di gravità, quel mondo s’è rapidamente svuotato e disunito, disaggregato; vita e corpi si sono diradati e ridotti ad ombre, a fantasmi ed apparenze. Intimità, pienezza, unione, realtà hanno lasciato luogo ai loro contrari, all’estraneità, al vuoto, alla separazione, alla parvenza. E con quegli antichi penati infantili ch’erano l’«alito della famiglia», sono venute meno la sicurezza e la fiducia; sono subentrati il «desiderio angoscioso», la «smania di un’attesa ignota» (v. La trappola, p. 695 e n. 2): Didì si aggira per la casa dove non le riesce più di toccare la vecchia realtà in nulla, neppure nel proprio corpo che, inconsapevolmente adolescente, tradisce e abbandona anch’esso la bambina che lei vorrebbe essere e sente ancora di essere, la bambina attratta irresistibilmente dall’amabile feticcio delle vesti materne conservate nella cassapanca-bara, entrambi significanti – le vesti vuote e la bara – il cui primo significato è, come quello d’ogni feticcio, l’assenza. Per un antecedente palese, ancorché diversamente modulato, v. Il guardaroba dell’eloquenza, pp. 375-6 e n. 24.

29 Le ragazzine in abiti monacali della pia associazione benefica detta Boccone del povero, la quale accoglieva fanciulle orfane o abbandonate. V. anche Da sé, p. 882: «l’accompagnamento delle orfanelle del Boccone del povero che vivevano di questo, cioè delle cinquanta lire che si davano loro per accompagnare tutti i morti della città»; ma, ancor prima, I vecchi e i giovani (ristampato in volume nel 1913, l’anno stesso di Da sé): «Non passava giorno che non si vedessero per via in processione funebre le orfanelle grige del Boccone del povero: squallide, curve, tutte occhi nei visini appassiti, col velo in capo, la medaglina sul petto, e un cero in mano. Tutti, per poca mancia, potevano averne l’accompagnamento; e nulla era più triste che la vista di quella fanciullezza oppressa dallo spettro della morte, seguito così ogni giorno, a passo a passo, con un cero in mano, dalla fiamma vana nella luce del sole» (v. RII, p. 164).

30 Filosofia mistico-scientistica e, più in particolare, la dottrina propugnata dalla Società teosofica (fondata nel 1875), secondo la quale le singole religioni contengono solo elementi dispersi e parziali di un’unica verità divina che è stata affidata, nelle diverse epoche, a pochi grandi iniziati e illuminati. Un lettore di libri teosofici era stato Mattia Pascal, e un adepto della scienza teosofica era, nel romanzo del 1904, il signor Anselmo Paleari (si vedano le note al proposito in RI, pp. 1010-2 e 1023-4; nonché il capitoletto Magia, teosofia, spiritismo, in G. MACCHIA, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1981, pp. 46-53).

31 Wenzel si chiamava anche la fräulein cui, in Maestro Amore, il prof. Taìti ricorre per acquisire la giusta intonazione tedesca, e che finisce con lo sposare. Quella vicenda ha luogo a Roma in una novella del 1912. Se la futile notazione è lecita, il gioco di echi e di richiami di cui il corpus è affollato crea un curioso effetto di realtà o, meglio, di verosimiglianza nell’incontrare un anno più tardi, a Bagheria, una Frau Wenzel che insegna tedesco e pianoforte. Frau e non più fräulein, ma ancora Wenzel, ossia di nuovo Wenzel o non più Taìti. Cosa è successo? Nulla, beninteso. Ma la ludica osservazione, che niente ha a che fare con la drammatica vicenda della veste lunga di Didì, valga a segnalare al lettore di storie uno degli effetti che emanano da un vasto e fitto corpo novellistico: quello di costituire un mondo plurimo e nel contempo virtualmente unico.

32 Dilemma tra due tonalità di rosso. Ma, come per altro verso il riso femminile (v. La trappola, n. 23), il rosso delle labbra suscita per metonimia il fantasma perturbante del sesso.

33 Pappagorgia; e v.. L’altro figlio, n. 4.

34 A questo punto il quadro è completo e, con il ritorno dello spettro di Rorò, il codice metonimico sprigiona tutte le proprie valenze: «Le avevano fatto indossare quella veste lunga per trascinarla lì, a quella laida impresa. […] E perché ne morisse»? Didì è indotta infine all’orrore e alla ripugnanza per il padre e il fratello e per ciò che sta per dover fare. Nella sua spaurita derelizione tutto si lega a farle sentire il peso insostenibile della sua veste lunga da pubertà-viaggio-matrimonio-funerale.

35 Senza più il modello speculare e riflessivo della madre, la bambina non può crescere e diventare donna e sceglie di ricongiungersi da bambina alla madre, di raggiungerla nel paese mitico della nascita. E in quest’ultimo ritratto di lei almeno l’immagine verbale restituisce, pateticamente, unità al mondo, poiché la spoglia di Didì vestita con l’abito lungo non può che essere la spoglia d’una bambina travestitasi, per il gioco supremo, con gli abiti della madre. È ciò cui l’adolescente suicida tende, purché le sia evitata una identificazione con Rorò Campi, l’amica morta dopo appena un anno di vita fuori e sepolta con l’abito da sposa, da adulta, da donna. Per un’immagine complementare per un verso e per un altro speculare, v. Piuma III 277 e n. 29. Per altro verso, si può fin d’ora dire che se il suicidio di Didì è la fuga a ritroso della bimba terrorizzata, quello della Dreetta di Pubertà sarà, tredici anni più tardi, la disperata fuga in avanti di una adolescente in abitino alla marinara.

La vendetta del cane

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 13 marzo 1913. Nel 1918 venne compresa nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Terreno in declivio esposto a mezzogiorno.

3 Agrigento. La prima redazione aggiungeva: «e più propriamente sotto il bellissimo viale detto della Passeggiata» (v. NUAII, p. 1251), per il quale ultimo v. Il vitalizio I 536 e n. 40.

4 È la medesima veduta che si spalancava invano davanti agli occhi del Bandi e del D’Andrea nell’incipit di Scialle nero I 1024: «A nessuno dei due veniva mai la tentazione di volgere un po’ il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista dell’aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, che s’accendeva tutto agli ultimi fuochi del tramonto: vista di tanta bellezza, che pareva perfino incredibile che quei due vi potessero passar davanti così, senza neppur voltarsi a guardare».

5 L’insalubre paraggio agrigentino, definito ne I vecchi e i giovani «triste contrada maledetta dai contadini, costretti a dimorarvi dalla necessità, macilenti, ingialliti, febbricitanti» era stato descritto nel romanzo come la «vallata di Sant’Anna, per la quale scorre, intoppando qua e là, un fiumicello di povere acque: l’Hypsas antico, ora Drago, secco d’estate e cagione di malaria in tutte le terre prossime, per le trosce stagnanti tra gl’ispidi ciuffi del greto» (v. RII, p. 12).

6 «Solfato basico di chinina, usato come profilattico e curativo della malaria» (Devoto-Oli).

7 Palazzine.

8 Segnato da Dio, in quanto zoppo.

9 Arboscelli giovani.

10 Emettere il mugolio del cane affamato.

11 Gemere, piagnucolare (variante di gagnolare con s- durativa).

12 Nell’impianto compositivo a struttura analettica dell’originaria redazione del 1913, questo capoverso si configurava come una replica e chiudeva il cerchio retrospettivo degli antefatti. Infatti, quello che in questa lezione definitiva, instaurata nel 1918, è l’attacco della novella, era preceduto dai due seguenti capoversi incipitali: «Tutta la notte, mentre cadeva una di quelle pioggerelle di gennaio lente e chete, che pare non debbano finir mai e dànno nella desolazione del gelo invernale uno sconforto cupo della vita, una tristezza disperata; tutta la notte s’intesero i guaiti acuti e sibilanti, gli sguàgnoli spessi e rotti, come singhiozzi, e il mugolare lungo e modulato, come un profondo lagno umano, del povero cane incatenato in fondo al valloncello, senza riparo da quella pioggia, assiderato e certo anche affamato. / Ogni notte così, da circa un mese, cioè da quando Jacu Naca, messo su da certi avvocati senza scrupoli, che per due anni lo avevano trascinato pei tribunali tra le beffe di tutti e col danno delle spese giudiziarie, alla fine, perduta ogni speranza d’averla vinta contro colui che a suo dire l’aveva assassinato, era ricorso alla vendetta di quel cane» (v. NUAII, p. 818). Come si vede, in quella prima lezione veniva fin da principio fornita anche un’univoca interpretazione del cartiglio titolare: la vendetta del cane, il quale resta viceversa, nella redazione ultima, aperto a una molto più ambigua polisemia. Se rimane pur vero che Jaco Naca si vendica della truffa di cui si sente vittima incatenando quel cane nel valloncello, vero è però anche che egli stesso era stato «paragonato a un cane balordo» (p. 822) e che dunque la vendetta del cane è, in forza di quella similitudine, la vendetta di Jaco Naca sotto specie canina o, se si preferisce, la vendetta di quel cane di Jaco Naca. Ma vero sarà anche, alla fine, che con la fucilata che fredda Rorò, Jaco Naca metterà in atto la vendetta del cane subdolamente avvelenato, in cieco ossequio alla legge non scritta per cui ammazzare il cane a un contadino significa farsi ammazzare. E il livore ottuso che spinge gli uomini ad agire farà sì che la morte della bestia incolpevole sia vendicata nel sangue innocente della bambina.

13 Lavori di bonifica, ossia di messa a cultura della terra. Poco sopra (p. 822) si è letto che Jaco Naca «s’era dato con rabbioso accanimento a coltivare il residuo della sua proprietà» e che «un po’ d’ortaglia stenta, una ventina di non meno stenti frutici di mandorlo […] erano sorti laggiù nel valloncello angusto come una fossa». V., per questa accezione regionale del termine, Il vitalizio I 538: «due salme e mezzo di terra, tutta beneficata», e Il «fumo» I 997: «In pochi anni, buttatosi tutto al lavoro, per distrarsi dalle sue sciagure, don Mattia aveva […] beneficato quei pochi ettari di terra».

14 Musoneria accigliata.

15 Inimicizia, ostilità.

16 Questa consolatoria rassicurazione materna fondata sul feroce deterrente dell’occhio per occhio e sulla indistinzione ferina di bestie e uomini è a dir poco agghiacciante. Tanto più che «la mammina» cita in tutta tranquillità, per tranquillare la bimba, l’arcaica legge rusticana («Ammazzare il cane a un contadino siciliano voleva dire farsi ammazzare senza remissione»), non sospettando affatto di profetizzare la morte della figliola, la quale cadrà precisamente nella tagliola cieca e sanguinaria di quella legge.

17 Spiccava salti (v. Notizie del mondo, n. 36).

18 Per finta, per gioco.

19 La novella rappresenta un nitido esemplare di quelli che si potrebbero definire i racconti della crudeltà pirandelliani. E sono quelli in cui l’umor nero di una istanza misantropica di fondo affiora senza trovare resistenza né contrappesi; in cui l’infelicità degli uomini non riscatta la loro crudeltà e la loro visceralità dolorante non è illuminata dalla ragione e non è scusa sufficiente per la loro bestialità. Nella vicenda, fosca e grottesca al tempo stesso, sono coinvolti un padrone claudicante che ha qualche tratto diabolico, Jaco Naca che ha la cattiveria rancorosa e bestiale del miserabile raggirato, un ispettore scolastico untuoso, voglioso, indispettito dalle ripulse e vigliacco, una donna giovane e bella e insofferente della vedovanza, ma sprezzante nei confronti dello spasimante che le ripugna. Dal più al meno, ciascuno di questi personaggi è marcato da tratti di palpabile ambiguità e di non innocenza se non di palese colpevolezza. Ma la malizia delle relazioni fra gli uomini vuole che a pagarla (e si allude al titolo della novella del 1912 Chi la paga) siano i due soli innocenti della storia: il cane da guardia incatenato e affamato, e tuttavia docile e pronto al gioco, e la bambina affettuosa e impavida. Un mondo assetato di vendetta e di rivalsa, imbevuto di malignità, di ipocrisia, di occulta ferocia uccide gli innocenti con efferata brutalità. En passant, la morale delle favole nere come questa era già stata chiaramente verbalizzata: «Bella giustizia! Una crudeltà sopra la crudeltà, e doppiamente ingiusta» (v. p. 825), quando ancora si discettava solo sull’eventualità di uccidere il cane, ma quella morale risulta inverata appieno, orrorosamente, come spaventosa legge del mondo, con l’uccisione di Rorò. E una fraterna umanità lega alla fine solo i cadaveri della bimba e del cane assassinati.

Quando s’è capito il giuoco

1 In vita di Pirandello, apparve per la prima e unica volta il 10 aprile 1913 sul «Corriere della Sera». Fu poi recuperata dall’editore (senza plausibili motivazioni) in sede di allestimento del quindicesimo volume, postumo, delle «novelle per un anno», Una giornata (Milano, Mondadori, 1937); nel quale, con gratuita incongruità, venne ristampata – così come Padron Dio, testo risalente addirittura al remoto 1898, e La signora Frola e il signor Ponza, suo genero (1917) – insieme alle ultime dodici novelle pirandelliane. Che Pirandello abbia deciso di non inserire Quando s’è capito il giuoco nel novero delle «novelle per un anno» si deve certamente al fatto che, nel 1918, dalla novella aveva ricavato la commedia in tre atti Il giuoco delle parti, che la compagnia di Ruggero Ruggeri mise in scena al Teatro Quirino di Roma il 6 dicembre dello stesso anno e che nel gennaio del 1919 venne pubblicata sulla «Nuova Antologia». È uno dei rarissimi casi in cui, nonostante l’eccellenza della soluzione novellistica, Pirandello ha molto probabilmente ritenuto che le variazioni e gli sviluppi drammaturgici del testo, che vanno ben al di là dell’amplificazione imposta dall’impianto teatrale in tre atti, fossero tali da obliterare l’originaria realizzazione narrativa. In effetti, a prescindere da varianti di minor peso (come la riambientazione della vicenda in un milieu borghese più elevato e raffinato), la versione drammaturgica motiva, drammatizza dialogicamente ed esplicita molto di più di quanto nella novella non fosse implicito e legittimamente inferibile, e a questo fine disegna anche, con il nervoso e tormentato personaggio di Silia, un’antagonista femminile forte al concavo e rinunciatario protagonismo di Leone Gala. La Cristina della novella era una funzione narrativa a una sola dimensione (quella donnescamente stizzosa e pericolosamente ritorsiva); Silia conserva quella dimensione ma ne acquisisce altre, decisive: la sofferenza del non trovarsi e del non consistere, la smania di affermarsi come identità soggettiva e liberarsi, l’orrore del vuoto sentimentale e la rabbiosa insoddisfazione esistenziale. Questo ispessimento di Silia comporta una profonda problematizzazione di quello che era stato il contrassegno precipuo del personaggio di Memmo Viola: l’imperturbabilità. Quest’ultima è, se possibile, ulteriormente enfatizzata nella forbita ed elegante lievità di Leone Gala, ma di essa vengono svelati gli altissimi costi esistenziali. Colmi di tensione sono il voler vivere di Silia e il suo disgusto del vedersi vivere, così come drammatici, dietro l’apparenza di leggerezza e affabilità, sono la scelta dimissionaria e la ferrea disciplina dello svuotamento vitale e del non vivere di Leone Gala. Sul piano della dinamica evenemenziale, la commedia ricalca la novella, ma l’energia tematica e le temperature passionali del testo teatrale (la vampa ustoria e devastante di Silia come la glacialità arsa di Leone) sono estreme rispetto a quelle temperate umoristicamente del testo narrativo. Scarti di registro e di densità di questa portata motivano largamente l’abbandono della novella, che Pirandello in qualche modo trattò come una redazione superata e non più riproponibile dopo il rifacimento drammaturgico.

2 In quest’attacco improvviso e interiettivo si avverte l’eco anonima, e implicitamente collettiva, d’una vox communis elusiva, e un po’ stolida, che interpreta sul serio quella di Memmo come la vicenda di un uomo superlativamente fortunato, il quale ha solo il piccolo torto di non saper gioire. E l’umorismo passa anche attraverso lo scarto fra ciò che crede di capire la voce narrante e ciò che ha capito il protagonista.

3 Fin dal 1909, l’identico sintagma aveva caratterizzato, ne I vecchi e i giovani (mandato a stampa integralmente proprio nel 1913), Cosmo Laurentano: «[…] don Cosmo […] era ricaduto nel suo solito letargo filosofico» (v. RII, p. 129).

4 Nel breve scritto che va sotto il titolo di Lettera autobiografica (v. SPSV, pp. 1245-8) e che va cronologicamente allogato fra la stampa dell’ultima raccolta poetica, Fuori di chiave (1912), e l’edizione in volume, completa e riveduta, del romanzo I vecchi e i giovani (1913); dunque nello stesso torno di tempo di questa novella, Pirandello scrive (riscrivendosi): «Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. / Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è». Nel coevo I vecchi e i giovani svolge un singolare ruolo di protagonista passivo don Cosmo Laurentano, uomo anziano, mansueto e perfettamente disilluso, abituato a sentire, «come da un’infinita lontananza, la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita». E anche Cosmo Laurentano, forse appena un po’ prima di Memmo Viola, parla delle evenienze della vita come di altrettante passeggere «minchionerie» e della medesima malinconica o apatica comprensione: «Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà» (v. RII, p. 509).

5 Questo stato di anestetica invulnerabilità è prerogativa di pochi e non comuni personaggi, ossia di coloro che, scrollatisi di dosso ogni passione, non si fanno più attrarre né dal vorticoso rigoglio della vita, né dalla nera vertigine della morte, e che hanno dunque imparato l’arte difficilissima del non-vivere e del non-morire. «Un vero peccato», commenta fatuamente la voce narrante, come se ignorasse lo sforzo sovrumano che una simile disciplina richiede e il prezzo che questi aneroici protagonisti pagano per una tale atarassia. L’erede e sosia teatrale di Memmo Viola nei tre atti de Il giuoco delle parti, l’eteronimo Leone Gala, ne parlerà diffusamente, e naturalmente invano, all’ottuso amante della moglie: «LEONE […] Ah, triste cosa, caro mio, quando uno ha capito il giuoco. GUIDO Che giuoco? LEONE Mah… anche questo qua. Tutto il giuoco! Quello della vita. GUIDO Tu l’hai capito? LEONE Da un pezzo. E anche il rimedio per salvarsi. GUIDO Se tu me l’insegnassi! LEONE Eh, caro. Non è rimedio per te. Per salvarsi, bisogna sapersi difendere. Ma è una certa difesa… dirò, d i s p e r a t a, che tu forse non puoi neanche intendere. GUIDO Come sarebbe, d i s p e r a t a ? Accanita? LEONE No, no, disperata, caro, nel senso d’una vera e propria disperazione, ma pur tuttavia senza neanche un’ombra d’amarezza per questo. GUIDO E che difesa, allora, scusa? LEONE La più ferma, la più immobile, appunto perché nessuna speranza più t’induce a piegarti verso una, sia pur minima, concessione né agli altri né a te stesso. GUIDO Non capisco. E la chiami difesa? Difesa di che cosa, se dev’esser così? LEONE (lo guarda un tratto severo e fosco; poi, dominandosi e quasi riassorbendosi in una impenetrabile serenità) Di niente, in te, se in te riesci, come sono riuscito io, a non aver più nulla. Che vuoi difendere? D i f e n d e r t i, io dico! Dagli altri, e soprattutto da te stesso; dal male che la vita fa a tutti, inevitabilmente» (v. MN, pp. 551-2).

6 L’ultimo sonno del mattino, il più saporito e il più prezioso.

7 Tessuto sottile e leggerissimo, di cotone o di lana, liscio come il raso.

8 Cristina è colei che gioca, Memmo colui che ha capito il gioco. Rispetto a tutta quanta la storia, la predicazione che caratterizza Cristina è quella d’un fare evenemenziale articolato sulla modalità del volere; ciò che caratterizza Memmo è un esclusivo fare cognitivo articolato sulla modalità del sapere. La distinzione veridittiva fra essere ed apparire che, come griglia interpretativa di base, appartiene al lettore, appartiene anche, come chiave conoscitiva e strumento di orientamento, al sapere di Memmo. Pare invece assente o annebbiata nella costituzione predicativa di Cristina e di Gigi, e a nulla valgono gli sforzi di Memmo, che a più riprese li invita a prevederne le conseguenze se anche non vogliono o non sanno imparare a usarla. A nulla valgono perché ha di fronte una antagonista ed una spalla monolitici e rigidi: Cristina teme in sostanza soltanto il non essere e vuole a tutti i costi essere, Gigi teme solamente l’onta o il ridicolo di un apparire non decoroso e squalificante.

9 La parte anteriore, inamidata, della camicia.

10 Con leggerezza apparentemente ingenua.

11 V. Canta l’Epistola, n. 36.

12 Centra.

13 A prescindere dal fatto che Memmo Viola, stretto fra il rancore rabbioso di Cristina e la riluttanza ipocrita di Gigi, abbia ormai irrevocabilmente deciso, le condizioni dello scontro che impone non sono anomale: anche il duello fra Capolino e Verònica ne I vecchi e i giovani (v. RII, p. 168) aveva previsto due fasi: «Prima, alla pistola. Scambio di tre palle, a venticinque passi. […] Poi, alla sciabola».

14 Un appunto dei cosiddetti Foglietti recita: «Non si è in astratto. Bisogna che l’essere accada, crei a sé stesso la sua apparenza: il mondo. Il mondo è l’attività dell’essere, un’apparenza, un’illusione, a cui l’essere stesso dà valore di realtà. Questa realtà non può dunque non scoprirsi quello che è, cioè un’apparenza o un’illusione necessaria; perché necessario è questo: che l’essere accada. E se l’essere è eterno, eterno sarà l’accadere, e dunque un accadere senza fine, e dunque senza un fine, e dunque un essere e un accadere che non concludono mai. La vita non conclude» (v. SPSV, p. 1235). Per altra via, anche Cosmo Laurentano giungeva alla medesima conclusione: «Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà…» (v. RII, p. 510). Ma, al di là del riscontro prossimo, su questa inconcludenza macbettianamente idiota della vita come affanno e illusione, e sulla saggia e divina inconcludenza della vita come inarrestabile flusso naturale, Pirandello insisteva dagli anni 1909-10 (v. anche Leviamoci questo pensiero, p. 530 e n. 14) e avrebbe insistito fino in fondo, attraverso i Quaderni di Serafino Gubbio operatore (romanzo del 1915) e soprattutto Uno, nessuno e centomila, romanzo-collettore, dalla gestazione lunghissima, che vide la luce per intero nel 1925-26. V. anche, per la ripresa del motivo nella prima stampa (1916) di All’uscita, I pensionati della memoria, n. 6.

15 Si confronti questo sonno imperturbato di Memmo Viola con quelli, a loro volta differenti, del Ciunna di Sole e ombra (v. I 312: «A poco a poco, col crescere dell’ombra, aveva chiuso gli occhi, quasi per lusingar se stesso che poteva dormire», e n. 32) e del protagonista de La levata del sole (I 526 e n. 34). Ciunna, incapace di prender sonno perché troppo pieno di vitalità, si consegna alla morte; Gosto Bombichi scampa alla morte attraverso un placido sonno; ma solo questo di Memmo (come a suo tempo, almeno in parte, quello dal quale Bernardo Cambiè si svegliava «satollo e pago» in Acqua amara), è lo stanco e placido letargo del filosofo, invulnerabile al dolore ma, appunto, impenetrabile alla gioia.

16 La scintillante superficie, umoristica e farsesca, della storia esibisce il gustoso episodio di una inusitata école des maris e la godibilissima riabilitazione del cocu magnifique che, stolidamente provocato, brillantemente sa prendersi la sua vendetta. Su questo piano Memmo Viola, «cuoco dilettante e dilettante filosofo» romano, tende la mano a Quaquèo, lampionaio filosofo di Girgenti. Ma la superficie di un racconto, che pure, in quanto letteralità d’un enunciato, contiene un primo livello di senso, va almeno attraversata se si vuole approssimarsi alle significazioni del racconto medesimo, le quali si condensano e si manifestano ai livelli più profondi d’una semantica non più letterale ma testuale. E a questi livelli l’istrionesco salvataggio dell’onorabilità in quanto apparenza resa spettacolarmente pubblica da parte di Quaquèo è molto lontano dalla clausura di Memmo nell’apparenza meticolosamente svuotata, e alleggerita, d’ogni sostanzialità. La bilancia dell’essere e dell’apparire, sulla quale Memmo Viola distribuisce e pesa con impassibile acribia i vincoli formali e gli obblighi sostanziali, è del tutto incomprensibile a Gigi come a Cristina. L’esito sorprendente della sua pesata, con tutti i risvolti di commedia umoristica, di ritorsione crudele ed arguta della beffa, di intelligente e cinica barzelletta, va a beneficio esclusivo dei lettori, ai quali è proficuamente svelato un gioco che deve strappar loro un applauso complice e ammirato ma anche una riflessione retrospettiva amara e ironica. I lettori che sono chiamati a capire fino in fondo il veleno degli argomenti di Memmo, non possono né sputargli in faccia le sanguinose ingiurie di Gigi né ridere, come fa lui; devono invece saper misurare, nel silenzio che cala sulla storia conclusa, l’esito dello scontro cui hanno assistito, fra l’inerzia fatale di chi sa e la smania cieca e disordinata di chi vuole e non può, fra la miseria dei filosofi e la miseria dei codici e dei pericolosi giochi di società.

Tutt’e tre

1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Le vedove, sul «Corriere della Sera» il 14 maggio 1913 (ma, in un elenco autografo di novelle riprodotto tra le illustrazioni di BRB, è forse conservata la traccia di un titolo ancora antecedente, Le vedove per bene). L’anno successivo venne compresa nella raccolta Le due maschere (Milano, Treves, 1914) e nel 1919, definitivamente reintitolata, fu ristampata ne Il carnevale dei morti (Firenze, Battistelli). Entrò infine a far parte, come novella eponima, del settimo volume delle «novelle per un anno», Tutt’e tre (Firenze, Bemporad, 1924).

2 Di gran carriera e scompostamente.

3 Svenimento, grave malessere.

4 Dapprima, sul momento.

5 Impietrita.

6 Goffa per l’enorme grassezza.

7 Convergono in questo punto due annotazioni di TS: p. 46: «Con le calze turchine, di cotone grosso», e p. 53: «Scarpe con gli elastici sfiancati».

8 Grossi ceri.

9 Fattore.

10 Rocce scistose (dal greco skhistós, “spaccato in due”, “che si può scindere”) sono quelle caratterizzate da una disposizione in piani grosso modo paralleli di componenti mineralogici lamellari.

11 Senza la benché minima preoccupazione.

12 Smisurata, enorme (da bardella, “basto”, con s- privativa).

13 Orecchini. V. Il «fumo» I 994, La Lega disciolta, p. 521 e La verità, p. 721.

14 Panno grosso, di lana.

15 Fattoria.

16 «Vittoria Vivona d’Alessandria della Rocca» è, ne I vecchi e i giovani, il nome da ragazza della moglie pazza di Flaminio Salvo. La suggestione onomastica fu probabilmente favorita dalla stampa in volume del romanzo, che è appunto del 1913.

17 Ammonticchiati, ammucchiati.

18 Ciocche arruffate di capelli.

19 Sciocca (v. Il corvo di Mìzzaro, n. 2).

20 Campanule.

21 Sfigurava.

22 Metafora popolare per dire alto, diritto ed eretto (qui, non senza risvolti erotico-sessuali).

23 In virtù della sua bellezza, don Francesco di Paola Vivona ha fatto il miracolo della pacificazione dividendo e distribuendo i ruoli femminili: si è scelto un’amante esperta e sagace, una moglie brutta e ricca e una donna giovane e graziosa come madre del suo unico figlio. E questa trinità femminile adorante, costituitasi intorno all’Uno virile, il bellissimo barone, e trasformatasi con il decesso di lui in una Trimurti vedovile, umoristicamene demolisce, per una volta, il carcere maledetto della gelosia che tortura tanti personaggi del corpus.

24 V. TS, p. 56: «Puzzo di mobili vecchi, lavati».

25 V. TS, p. 54: «I mattoni rosi del pavimento avvallato»; appunto che entra alla lettera anche in Uno, nessuno e centomila: «i mattoni rosi del pavimento avvallato che lustravano alla luce del finestrone» (v. RII, p. 872).

26 Il tarì era una moneta (v. La berretta di Padova, n. 6), e il cognome del marito designato, traslitterabile in tre tarì, esprime da solo la scarsa consistenza della sua fortuna familiare.

27 Perbenino, educato.

28 V. TS, p. 64: «Le gambe le aveva sottili di suo, con quei calzoncini stretti stretti parevano due stecchi».

28 Lembo posteriore.

29 Antiquato «indumento maschile […] bene attillato alla vita, che ricopriva il busto, lungo fino al ginocchio» (GDLI).

30 Colorato, ossia non nero.

31 Scialli.

32 V. TS, p. 65: «Piangeva con lo stomaco, sussultando».

L’abito nuovo

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 16 giugno 1913. L’anno successivo venne compresa nella raccolta Le due maschere (Milano, Treves, 1914) e ristampata nel 1918 in Un cavallo nella luna (Milano, Treves). Entrò infine a far parte del nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Sorta di fattorino, dipendente che sbriga servizi e commissioni di poco conto.

3 Di color azzurro chiaro.

4 Collana.

5 Avere l’ardire, osare.

6 Giallastra.

7 Patetica aspirazione.

8 Stomacare, rivoltare lo stomaco. Fra gli idiomatismi toscani del Taccuino di Coazze è riportata la seguente battuta: «Ma ti pare ch’io voglia finirmi lo stomaco per te?» (v. SPSV, p. 1203).

9 Condizione economica.

10 Pudore, decenza.

11 Ti valuto.

12 Crispucci, così servile e untuoso con l’avvocato Boccanera, è secco e tagliente con il nuovo venuto, «itterico» quanto egli è gialliccio, come se l’intesa tra disgraziati non avesse bisogno di giri di parole e di complimenti. E, come subito dopo si viene a sapere, altrettanto perentorio, ma più laconico, Crispucci è sempre stato in casa. Personaggi così non sono mai da sottovalutare.

13 Il cognome d’arte francese significa “tromba”.

14 Come di sego.

15 L’immagine ripugnante degli occhi ingranditi dagli occhiali risale al 1902 e a Quand’ero matto (v. I 763): «A un tratto, nella camera mortuaria entrò sbuffante una delle cugine di mia moglie, di cui non ricordo più il nome: pingue, nana, con un grosso pajo d’occhiali rotondi che le ingrandivano mostruosamente gli occhi, poverina». Successivamente, invece, il ritratto della madre di Crispucci sarà fedelmente riprodotto in quello della Nonna Rosa dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «Quella vecchia sorda, istolidita, senza più un dente in bocca, col mento aguzzo che le sbalzava orribilmente fin sotto il naso, biasciando a vuoto, e la lingua pallida che spuntava tra le labbra flaccide grinzose, e quegli occhiali grandi, che le ingrandivano mostruosamente gli occhi vani, operati di cateratta, tra le rade ciglia lunghe come antenne d’insetto!» (v. RII, p. 702). Infine, gli «occhiali» e le «antenne d’insetto» si agglutineranno un’altra volta per dar corpo al personaggio della «povera grossa cugina con gli occhiali» di Piuma (v. III 272).

16 Di avidità e bramosia.

17 La metamorfosi vestimentaria è di fatto una muta metonimica: l’abito indossato «da tempo immemorabile», ossia quello della miseria e dello squallore, è stato smesso: il «pelame stinto e strappato» del vecchio cane, che era per similitudine tutt’uno con la sua stabile identità, è adesso un abito nuovo, «peloso», stavolta davvero soprammesso al corpo e, s’intende, anche all’anima. Ma Crispucci non ha preso il lutto.

18 Faceva un rigonfio sul collo.

19 Crispucci non è mai stato loquace e non lo è diventato. Si rammenterà, d’altronde, che anche in casa «non aveva mai ammesso […] nessun discorso che non si riferisse ai bisogni momentanei della vita»; e solo questi ultimi riguarda, nonostante il valore clamoroso di annuncio che contiene, anche la sua risposta alla domanda della figlia. Ma la pura e semplice pronuncia di questo cliché francofono, goffamente pretenzioso, accosta penosamente la transazione morale di Crispucci alla prostituzione di Rosa Clairon. La novella si chiude con questa silenziosa catastrofe. Il miserando Crispucci, disperatamente povero e orgogliosamente onesto, sprofondato da sedici anni in un «abisso di silenzio» dalla disgrazia coniugale, si ritrova d’un tratto titolare della cospicua eredità della moglie fuggitiva, canzonettista e puttana. E, naturalmente, vorrebbe rifiutarla e serbarsene mondo. Nella cerchia della famiglia, dell’ufficio, del vicinato, nessuno vorrebbe per sé quella vergogna, ma tutti, senza eccezioni, vorrebbero per sé quella ragguardevole fortuna accumulata con la vergogna, e tutti esortano Crispucci ad accettarla, chi commiserandolo nel consigliarlo, chi schernendolo, chi invidiosamente rimproverandogli gli scrupoli e chi temendoli, chi avidamente ripromettendosi qualche beneficio. Crispucci è lasciato assolutamente solo a sporcarsi le mani, ma nessuno gli suggerisce di non sporcarsele né gli mostra di approvare la sua furiosa intenzione di mantenerle pulite. Tutti considerano sordide le sostanze mal guadagnate della defunta, ma tutti pensano (e alcuni lo dicono) che pecunia non olet. E Crispucci allora va oltre: torna da Napoli non solo interamente vestito a nuovo, ma portando senz’altro con sé e in casa gli «undici pesanti colli» che evidentemente contengono la suppellettile e lo sfarzoso guardaroba della morta. Ha cenato come un signore nella carrozza ristorante e lo dichiara con una smorfia di riso e una voce nuove: anche il vecchio Crispucci è silenziosamente morto a Napoli. Siamo in presenza d’una precisa tecnica pirandelliana dei finali (e se ne accenna qui, anche se se ne sarebbe potuto parlare in numerosi altri casi): con l’explicit termina perentoriamente la novella, ossia il racconto della storia, ma non la storia medesima. Chiudendosi, il racconto spalanca un vertiginoso e muto spazio inferenziale che è quello della risacca retrospettiva che segue alla lettura e dell’interpretazione. Su Crispucci, come appunto su parecchi altri protagonisti novellistici, le luci di scena della narrazione si spengono quando per lui s’è messa in moto una deriva dalle conseguenze mal calcolabili. Il racconto registra l’apertura di questo movimento di deriva e bruscamente finisce; la parola narrante abbandona il suo protagonista su quest’orlo franoso, su questa frattura aperta. Il resto è presumibilmente supplizio e tormento e forse delirio, ma è anche silenzio: consummatum est.

Nell’aura di squallido trionfo che contrassegna il finale della storia di Crispucci, echeggia forse un ricordo di Les Bijoux, la novella maupassantiana che è già stata richiamata, per altri aspetti, a proposito di Tutto per bene (v. n. 23). Anche il povero impiegato Lantin, che ha scoperto, insieme all’autenticità e al grande valore della presunta bigiotteria della moglie morta, l’insospettata e prolungata infedeltà della defunta; che è svenuto per via dopo una simile scoperta; che per venti volte è stato trattenuto dalla vergogna dall’entrare dal gioielliere e accettare i diciottomila franchi che gli sono stati offerti per un collier, si decide infine a far stimare e a vendere tutti i gioielli dell’adultera. Ne L’abito nuovo è l’avvocato Boccanera a indicare nelle gioie il lascito più cospicuo e a farne una stima approssimativa (v. p. 845), ne Les Bijoux è l’orefice di rue de la Paix, dalla cui bottega sono usciti, a valutare i gioielli: «Les gros brillants d’oreilles valent vingt mille francs, les bracelets trente-cinq mille, les broches, bagues et médaillons seize mille, une parure d’émeraudes et de saphirs quatorze mille; un solitaire suspendu à une chaîne d’or formant collier quarante mille; le tout atteignant le chiffre de cent quatre-vingt-seize mille francs» [I grossi orecchini di brillanti valgono ventimila franchi, i braccialetti trentacinquemila, le spille, gli anelli e i medaglioni sedicimila, una parure di smeraldi e zaffiri quattordicimila; un solitario appeso a una catena d’oro che forma collana quarantamila: il tutto ammonta a centonovantaseimila franchi] (v. G. DE MAUPASSANT, Contes et nouvelles, t. I, Préface d’Armand Lanoux, Introduction de Louis Forestier, Texte établi et annoté par Louis Forestier, Paris, Gallimard, 1974, p. 770). E, come Crispucci torna da Napoli rivestito a nuovo e sazio dopo la cena al Wagon-restaurant, Lantin pranza riccamente «chez Voisin», si dimette dall’impiego al ministero, cena al cafè Anglais e non resiste alla tentazione di vantare un’eredità che, nell’esaltazione, fa assommare fino a quattrocentomila franchi. Il rovescio dell’onta è in entrambi i casi una specie di compassionevole febbre dell’oro. La differenza fra Lantin e Crispucci consiste proprio nel fatto che l’uno ha un futuro narrativo laconicamente esplicito e beffardo: «Six mois plus tard il se remariait. Sa seconde femme était très honnête, mais d’un caractère difficile. Elle le fit beaucoup souffrir» [Sei mesi più tardi si risposò. La seconda moglie era onestissima, ma aveva un carattere difficile. Lo fece molto soffrire] (v. G. DE MAUPASSANT, Contes et nouvelles, cit., p. 771), mentre l’altro scompare nel chiuso della sua stanza, ossia nel mistero di ciò che non sarà mai raccontato.