Nel gorgo

1 Fu pubblicata per la prima volta, sotto il titolo Il gorgo, su «Aprutium» del luglio-agosto 1913 (e in quella prima stampa la novella porta la data «Giugno 1913»). L’anno dopo fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini, 1914) e, nel 1920, ripubblicata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che ripropone sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Reintitolata Nel gorgo, entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

BRB riproduce, tra le illustrazioni, un elenco autografo di novelle. Sono 103 titoli su tre colonne: numerati da 1 a 112, poiché, nel risalire dal fondo della seconda colonna all’inizio della terza, Pirandello passa per errore da 70 a 80 (saltando i numeri 71-79). Purtroppo, datare quest’elenco è pressoché impossibile. I primi 38 titoli corrispondono, nell’ordine, agli indici delle prime cinque raccolte (Amori senza amore, Beffe della morte e della vita (prima e seconda serie), Quand’ero matto e Bianche e nere). Nei 65 titoli successivi sono compresi, ma disordinatamente, tutti quelli delle novelle riunite nelle due raccolte successive: Erma bifronte (Milano, Treves, 1906) e La vita nuda (Milano, Treves, 1910). Però Il dovere del medico, reintitolata così proprio a partire da quest’ultima raccolta, è ancora citata nell’elenco con il titolo primitivo Il gancio. Il rilievo non è peraltro dirimente, poiché la lista giunge a comprendere Quintadecima, novella che uscirà a stampa solo il 22 settembre 1913, ma delle circa quaranta novelle pubblicate nel triennio 1910-12 registra la sola Musica vecchia. Tuttavia, proprio in forza della presenza di Quintadecima e anche de Le vedove per bene, titolo non altrimenti noto e che però non può non richiamare Le vedove, altra novella pubblicata nel 1913 (v. Tutt’e tre, n. 1), un altro titolo senza riscontri suscita non poca curiosità: Senza colpa. Poiché Il gorgo vide la luce nell’estate del 1913, datata al giugno di quello stesso anno, una sommessa congettura può essere avanzata: Senza colpa, titolo che, pur privilegiando un altro accento tematico, calzerebbe alla novella come un guanto (v. p. 857: «Senz’inganno, senza pensarlo né volerlo… in un attimo… Una cosa orribile, di cui nessuno può farsi colpa»), potrebbe ben essere stato il primissimo titolo pensato da Pirandello per una vicenda che i puri dati peritestuali diacronici permetterebbero allora, a posteriori, di riassumere così: senza colpa nel gorgo, non si sa come.

Nell’estate del 1934, dallo spunto di questa novella Pirandello sviluppò i tre atti del suo ultimo lavoro teatrale, Non si sa come (che nel dicembre, tradotti in cèco, andarono in scena a Praga e che un anno più tardi, il 13 dicembre 1935, la compagnia di Ruggero Ruggeri rappresentò al Teatro Argentina di Roma). La breve novella, articolata su due soli accadimenti (l’evento-causa dichiarato nel titolo Nel gorgo e l’evento-effetto costituito dalla pazzia, vera o presunta, di Romeo Daddi) narrati in ordine inverso, è già una storia di fatti interiori e di parole più che di azioni. Nonostante ciò e nonostante il ruolo drammaturgico specifico che la parola assume a teatro, lo sviluppo dell’esilissimo scheletro evenemenziale in un «dramma in tre atti» risulta, come e più di altre volte, forzato e stentato, e si traduce in una smisurata scherma tutta verbale che sfocia infine in una sorta di tragedia metafisica, assai poco convincente, chiusa da una rivoltellata. Lo sguardo indagatore e perturbante del protagonista impazzito, che nel racconto acquista particolare efficacia dall’assenza del personaggio e dal suo conseguente mutismo, risulta trasformato in un fiume di parole destabilizzante e vorticante che coinvolge e trascina in un gioco quadrangolare al massacro le due donne e l’ignaro marito, positivisticamente concreto e ottuso, di Gabriella (diventata Ginevra) Vanzi, dal quale Romeo Daddi, teorico angosciato del non si sa come contro la conciliante filosofia vitalistica delle donne e lo scientismo dell’amico, trova in conclusione modo di farsi uccidere.

2 Giallastro.

3 Le figure dell’assenza da sé o della lontananza da sé sono cifre predicative pirandelliane molto pregnanti e diffuse nel corpus. E sono figure ancipiti. La notificazione dello stato di assenza da sé (o di lontananza-estraneità da se stessi) è anche una delle verbalizzazioni-chiave della condizione pirandelliana di alienazione dell’io e dell’individuo. La quale condizione, posta come qui in contiguità con il ricorso alla reclusione dell’alienato, slitta e rischia d’appiattirsi su una sorta di luogo comune della follia conclamata: l’essere fuori di sé. Ma questa, nel corpus, non è affatto la norma (v. Chi la paga, p. 742: «se ne stava così, quasi assente da sé, nel chiaror tenue e umido delle stelle»; La veste lunga, p. 818: «E così, di tutto il corpo. Non se lo sentiva. Forse perché era sempre assente da se stessa, lontana?… Tutto era sospeso, fluido e irrequieto dentro di lei»; La rosa III 89-90: «Da anni e anni Fausto Silvagni con quei suoi occhi intenti e tristi guardava come da lontano ogni cosa; come remote ombre evanescenti, gli aspetti vicini; e dentro di sé, i suoi stessi pensieri e i suoi sentimenti. […] rifuggiva dalla realtà, nella quale era costretto a vivere. Ci camminava; se la vedeva attorno; la toccava; ma nessun pensiero, nessun sentimento ne veniva più a lui; e anche se stesso vedeva come lontano da sé, perduto in un esilio angoscioso»; e Nell’albergo è morto un tale III 95: «In quasi tutti gli altri è un’impazienza smaniosa o un’aria smarrita o una costernazione accigliata. Non sono assenti soltanto dal loro paese, dalla loro casa; sono anche assenti da sé. Fuori dalle proprie abitudini, lontani dagli aspetti e dagli oggetti consueti, in cui giornalmente vedono e toccano la realtà solita e meschina della propria esistenza, ora non si ritrovano più»): l’assenza da sé configura per un verso un distacco dello spirito dal corpo e della mente dai sensi, per un altro una condizione di astrazione-concentrazione straordinariamente intensa, e può essere ora uno stato di grazia e di estatica veggenza (v. Il viaggio, p. 550: «Smarrita come in un incanto sovrumano, a cui una certa angoscia le impediva di abbandonarsi interamente, l’angoscia destata dal dubbio che non fosse vero quanto vedeva, si sentiva lontana, lontana anche da se stessa, senza memoria né coscienza né pensiero, in una infinita lontananza di sogno. / L’impressione di questa lontananza infinita la riebbe più intensa la mattina seguente, percorrendo in vettura gli sterminati viali deserti del parco della Favorita, perché, a un certo punto, con un lunghissimo sospiro poté quasi rivenire a sé da quella lontananza e misurarla, pur senza rompere l’incanto né turbare l’ebbrezza di quel sogno nel sole, tra quelle piante che parevano assorte anch’esse in un sogno senza fine»), ora uno stato di tensione conoscitiva così assorbente ed estraniante da somigliare, come qui, all’atonia.

4 Fissamente, intensamente (dal participio passato di affiggere).

5 Non rotti in punta.

6 Brillio.

7 Non può certo destare sorpresa che il più corpulento e maialesco dei presenti, quello afflitto dalla corporalità più ripugnante, sia al fondo il meno porco di tutti e sia deputato a svolgere le riflessioni più meditate e pensose.

8 Deposito melmoso (propriamente, il termine designa il fondo che si deposita nei recipienti che contengono vino).

9 Sedimento.

10 Gli amici sanno che Romeo Daddi è impazzito e conoscono le manifestazioni della sua follia, ma ne ignorano le cause. E Traldi ha avuto l’impressione che il suo sguardo fisso e indagatore, da matto, ossia da individuo in cui la macchinetta della civiltà e delle convenienze sociali s’è guastata, scrutasse nel fondo degli altri pretendendo di leggere nella feccia delle coscienze altrui, forse alla ricerca dell’animalità oscena (il maiale) che vi si cela. Ha avuto l’impressione spaventevole che Daddi col suo sguardo volesse sul serio rimestare il represso e il rimosso che giacciono sul fondo della coscienza di ognuno, coperti da una ineluttabile e necessaria ipocrisia. Per un verso Traldi ha ragione: dopo quel che gli è accaduto, Daddi cerca ossessivamente negli altri, nel contempo orripilato dal timore di ravvisarlo, un indizio del fatto che anch’essi hanno vissuto la sua medesima esperienza; per un altro verso sarà vero il contrario: Daddi, travolto dalla logica circolare d’un paradosso senza uscita, cerca invano, da pazzo, le stigmate d’un gorgo che sa non lasciare tracce. Nel quinto capitolo (Sopraffazione) del libro IV di Uno, nessuno e centomila Pirandello procederà ad una integrale riscrittura umoristica dell’intero episodio: Vitangelo Moscarda ha brutalmente rimproverato Stefano Firbo di tener chiusa la moglie in manicomio per convenienza, e poco dopo Firbo pretende che Moscarda gli dia conto dell’insinuazione: «Com’egli, venendomi a petto, torbido e minaccioso, mi disse: / – Voglio che tu mi renda conto di ciò che hai detto per mia moglie! / M’inginocchiai. / – Ma sì! Guarda! – gli gridai, – così! / E toccai con la fronte il pavimento. / Ebbi subito orrore del mio atto, o meglio, ch’egli potesse credere con Quantorzo che mi fossi inginocchiato per lui. Li guardai ridendo, e tónfete, tónfete, ancora due volte a terra, la fronte. / – Tu, non io, capisci? davanti a tua moglie, capisci? dovresti star così! E io, e lui, e tutti quanti, davanti ai così detti pazzi, così! / Balzai in piedi, friggendo. I due si guardarono negli occhi, spaventati. L’uno domandò all’altro: / – Ma che dice? / – Parole nuove! – gridai. – Volete ascoltarle? Andate, andate là, dove li tenete chiusi: andate, andate a sentirli parlare! Li tenete chiusi perché così vi conviene! / Afferrai Firbo per il bavero della giacca e lo scrollai, ridendo: / – Capisci, Stefano? Non ce l’ho mica soltanto con te! Tu ti sei offeso. No, caro mio! Che diceva di te tua moglie? Che sei un libertino, un ladro, un falsario, un impostore, e che non fai altro che dire bugie! Non è vero. Nessuno può crederlo. Ma prima che tu la chiudessi, eh? stavamo tutti ad ascoltarla, spaventati. Vorrei sapere perché! / Firbo mi guardò appena, si voltò a Quantorzo come a chiedergli consiglio con scimunita angustia e disse: / – Oh bella! Ma appunto perché nessuno poteva crederlo! / – Ah no, caro! – gli gridai. – Guardami bene negli occhi! / – Che intendi dire? / – Guardami negli occhi! – gli ripetei. – Non dico che sia vero! Stai tranquillo. / Si sforzò a guardarmi, smorendo. / – Lo vedi? – gli gridai allora, – lo vedi? tu stesso! lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi! / – Ma perché mi stai sembrando pazzo! – mi urlò in faccia, esasperato. / Scoppiai a ridere, e risi a lungo, a lungo, senza potermi frenare, notando la paura, lo scompiglio che quella mia risata cagionava a tutt’e due» (v. RII, pp. 825-7).

11 La fissità terebrante degli sguardi che ha svelato agli altri la follia di Romeo Daddi e che Carlo Traldi, avendola sofferta, ha sperimentata su Nicolino Respi, si ripresenta ancora una volta negli occhi di Gabriella Vanzi, reduce, col Daddi, dalla medesima esperienza e portatrice sana, se così si può dire, del germe che ha precipitato l’uomo nella pazzia. Ne I vecchi e i giovani, romanzo che esce in volume nello stesso anno della prima stampa di questa novella, un altro personaggio si concede di sperimentare il potere meduseo e disorientante dello sguardo. Si tratta di Flaminio Salvo, padrone assuefatto a comandare e a vedersi intorno «automi» e «fantocci» pronti ad assumere gli atteggiamenti che il suo potere impone. È la sua stessa amara e frigida consapevolezza a tenerlo al riparo dalla pazzia; ma una sera, stanco, e in preda ad «una tristezza inveterata, nascosta, compressa, inconsolabile», si abbandona col proprio giovane protetto, e subalterno, alla seguente confessione: «Ho comandato! Sì, ecco: ho assegnato la parte a questo e a quello, a tanti che non hanno mai saputo veder altro in me che la parte che rappresento per loro. E di tant’altra vita, vita d’affetti e di idee che mi s’agita dentro, nessuno che abbia mai avuto il più lontano sospetto… Con chi vuoi parlarne? Sono fuori della parte che devo rappresentare… Certe volte, a qualcuno che viene qua a visitarmi, a incensarmi, mi diverto a rivolgere certi sguardi, certi sguardi che sfondano la parete, e me lo vedo allora per un attimo, restar davanti sospeso, impacciato, goffo; Dio sa che forza devo far su me stesso per non scoppiargli a ridere in faccia. Mi crederebbe ammattito, per lo meno. E anche tu, caro mio, se vedessi con che occhi mi stai guardando in questo momento… / – Io no! – disse subito Aurelio, riscotendosi. / Flaminio Salvo rise, scotendo il capo: / – Anche tu, anche tu… È così; per forza è così… Ti posso io dire quel che vorrei veramente da te? il piacere che mi faresti, se tu agissi com’io forse al tuo posto agirei? / – E perché no? – domandò Aurelio, levandosi. – Mi dica… / – Ma perché no, – negò subito il Salvo, stringendosi nelle spalle, – perché non posso… Puoi dirmi tu quel che pensi, quel che senti, la vita che hai dentro in questo momento?… Non puoi… Sei davanti a me nelle relazioni che possono correre fra me e te: tu sei il mio ingegnere, il mio buon figliuolo che amo, a cui questa sera, davanti a una ventina di marionette, ho dato l’incarico di recarsi a Colimbètra, messaggero di trionfo: e basta! Che altro potrei dirti? Questo soltanto, forse, per il tuo bene… / E Flaminio Salvo posò una mano sulla spalla di Aurelio: / – Non ti tracciar vie da seguire, figliuolo mio; né abitudini, né doveri; va’, va’, muoviti sempre; scròllati di tratto in tratto d’addosso ogni incrostatura di concetti; cerca il tuo piacere e non temere il giudizio degli altri e neanche il tuo, che puoi stimar giusto oggi e falso domani» (v. RII, pp. 260-1).

12 Si velarono, divennero vitrei. V. anche Il ventaglino I 821 e La fedeltà del cane I 969.

13 Imposte.

14 Il sintagma in situazione rinvia, sia pur antifrasticamente, all’episodio dantesco di Paolo e Francesca: «Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto» (Inf. V, 127-9).

15 Per l’attimo inesteso ed eterno, v. La toccatina, n. 21 e Il viaggio, n. 42.

16 Il vortice di disincarnata sessualità che abruptivamente ha travolto l’uomo e la donna per restituirli subito dopo a loro stessi come se niente fosse accaduto, privo com’è di qualunque premessa emotiva o passionale, non costituisce una sequenza persuasiva né verosimile ed è piuttosto un paradosso evenemenziale. Quell’evento inverosimile non è altro, infatti, che l’assolutizzazione allegorica delle intermittenze cui la tenuta e la consistenza dell’io individuale sono esposte. E, piuttosto che di intermittenze della coscienza, si tratta qui di intermittenze della personalità, durante le quali indole, attributi e sentimenti e dunque l’identità stessa dell’individuo patiscono tutti insieme una momentanea eclisse. Non l’io pieno e intero, ma un altro sé vuoto e ignoto ha vissuto l’evento incredibile del quale l’io non reca traccia. E la confessione di Gabriella Vanzi va in direzione esattamente opposta alle impressioni di Traldi: non la peggiore feccia fa paura e fa impazzire, ma la nessuna traccia dello sprofondamento: paurosa è l’innocenza del maiale o la suinità dell’innocenza. L’incredibile avventura fa impazzire al pensiero che potendo non esistere la colpa non può esistere l’innocenza e che, potendo darsi una menzogna perfettamente sincera e dimentica, nulla più garantisce che la più limpida sincerità non occulti una menzogna per omissione.

17 La scoperta sconvolgente dell’incontrollabile alterità del sé profondo e il conseguente orrore del pensiero che, non potendosene ritrarre, è condotto alla follia, sono sempre e fino in fondo minacciati dal rischio della banalizzazione: escluso Carlo Traldi, filosofo sotto proteiche spoglie animali, gli amici del circolo del tennis, il galante Nicolino Respi, la stessa Bicetta Daddi non sanno ipotizzare per la repentina pazzia di Romeo altra causa che non sia il sospetto del tradimento amoroso; e persino Gabriella Vanzi, reduce come Romeo dal gorgo, ritiene che l’impazzimento del suo compagno d’avventura sia dovuto ad una sorta di delirante gelosia germinata dall’esperienza soggettiva. Non il peso del proprio tradimento involontario e irresistibile avrebbe fatto impazzire l’uomo, ma l’insopportabile idea che la moglie possa aver fatto o fare la sua medesima esperienza.

La Madonnina

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 7 agosto 1913. Non più ristampata, nel 1923 entrò a far parte del quinto volume delle «novelle per un anno», La mosca (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Per l’autobiografismo della novella, v. FVN, pp. 26-7 e Va bene, n. 6.

2 Prete titolare di un beneficio ecclesiastico. V. anche I nostri ricordi, p. 648.

3 V. Distrazione, n. 11 e, per la medesima emblematica presenza oggettuale, Pena di vivere così III 364 e La tartaruga III 609.

4 Previste per la celebrazione di un giubileo, che ha normalmente cadenza venticinquennale e permette ai devoti che si rechino in pellegrinaggio a Roma di lucrare un’indulgenza plenaria.

5 Anche ne I vecchi e i giovani (uscito in volume l’anno stesso della prima stampa de La Madonnina) l’amministratore ladro dei De Vincentis lusinga e raggira la vecchia casiera devotissima con l’identico regalo: «l’anno che don Jaco era andato a Roma, le aveva portato di là una corona benedetta e una tabacchiera col ritratto del Santo Padre» (v. RII, p. 476). E il medesimo oggetto-ricordo ricomparirà nelle mani d’un vecchio pensionato del governo pontificio nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «Come sorrideva benigno, a queste parole, il vecchietto tutto raso, fino fino, pulito pulito, con la papalina in capo e in mano la tabacchiera d’osso col ritratto del Santo Padre sul coperchio!» (v. RII, pp. 608-9).

6 Durante l’uffizio liturgico serale.

7 Sotto gli occhi di tutti.

8 Nel corpus narrativo, identica sorte (e ben più precoce) aveva avuto, prima del Greli, Ciro Coppa, il sanguigno e intrattabile cognato di Pepè Alletto nella prima stampa de Il turno: «Lì, in una parete della stanza, erano appesi e disposti, come una nuova panoplia, uno schioppo, una sciabola, un berretto e una camicia rossa. A tredici anni, Ciro era scappato dalla casa paterna; era giunto a Palermo il giorno dopo l’entrata di Garibaldi; a Milazzo era stato ferito in un braccio…» (v. RI, p. 987). La figura del focoso patriota signor Greli è un travestimento abbastanza trasparente del padre di Luigi, Stefano Pirandello. Nella prima stampa, veniva richiamata puntualmente (v. Colloquii coi personaggi III 188-9 e FVN, pp. 10-1) anche la vicenda del nonno materno di Pirandello, Giovanni Ricci Gramitto: «Il nonno di Guiduccio era stato tra i quarantatrè esclusi dall’amnistia borbonica dopo la rivoluzione del 1848, ed era morto in esilio, a Malta» (v. NUAI, p. 1491).

9 Un’analoga similitudine (campanello-cagnolino) era già apparsa in Difesa del Mèola (v. p. 411).

10 Garante.

11 V. Il vecchio Dio I 590 e n. 6.

12 V. La Messa di quest’anno, pp. 49-50: «Sì, ma spogliar la Madonna degli ori antichi, preziosi, toglier le candele a gli altari, le frange ai paramenti sacri, il merletto ai mensali, le brusche d’oro alle pianete e ai manipoli… Una stalla, una stalla: ha ridotto la chiesa una stalla!».

13 V. La Messa di quest’anno, n. 14.

14 Pagliuzze.

15 V. La Messa di quest’anno, n. 15.

16 Spalle.

17 L’originaria lezione del 1913 era la seguente: «Quell’ombra, quel corrugamento erano provocati dalla bonaria indulgenza, con cui egli velava e assolveva certi fatti della storia sacra, e dimostravano come l’anima del fanciullo, forse mossa in diffidenza a casa e fors’anche irrisa dal padre e dalle sorelle, si turbasse di quell’indulgenza, disposta com’era dalla nativa fierezza a non transigere minimamente e a seguire alla lettera i sacri comandamenti» (v. NUAI, p. 1494). Nel corpus, è quasi sempre in forza di questa intransigenza e letteralità che i devoti più candidi e zelanti perdono la fede.

18 Scevro dei risvolti umoristicamente serissimi che qui lo caratterizzano, l’episodio del sorteggio e della consegna della Madonnina era stato già distesamente raccontato, fin dal 1901, ne L’esclusa: «La terza domenica di maggio, dopo la funzione sacra, Anna accorse in gran fretta, esultante, dalla chiesa. / – A te, a te, Marta! È uscita in sorte a te!! – Che cosa? – domandò Marta, guardando quasi sgomenta, dal seggiolone. / – La Madonna: a te! Senti? Te la portano cantando le Figlie di Maria… Senti il tamburo? La Madonna ti viene in casa! / Nelle domeniche di maggio, in chiesa, dopo la predica e la benedizione, si faceva tra i devoti il sorteggio d’una Madonnina di cera custodita in una campana di cristallo. / – E come? come mai? – diceva Marta tutta confusa, sentendo appressare vieppiù alla casa il coro delle divote e il rullo del tamburo. / – Io, tutte le domeniche, ho preso un numero per te. Oggi il cuore me lo diceva: Uscirà in sorte a Marta. E così è stato. Avete tanto patito, che la Madonna, ecco, viene a visitarvi. Eccola, eccola, Vergine santa! / Entrò nella camera una commissione di fanciulle che avevan tutte sul seno una medaglina sacra pendente da un nastrino azzurro, e il sagrestano della chiesa con la Madonna di cera entro la campana di cristallo, che tra le grosse mani scabre e nere pareva anche più fragile. Per la scala rullava fragorosamente il tamburo. Le fanciulle erano abituate a sorridere, tutte a un modo, guardando e udendo le espressioni di giubilo con cui i devoti accoglievano la Madonnina; ma vedendo Marta rimaner seduta, pallida, convalescente, la circondarono, le parlarono a coro, ripetendo ognuno le parole dell’altra: “Adesso sarebbe guarita certo… La Madonna!… la visita della Madonna!… Via medici, medicamenti…” / Il rullo del tamburo era intanto cessato: la signora Ajala aveva regalato qualche soldo al tamburino, altri ne regalò al sagrestano, e poco dopo la casa fu sgombra. Marta non si saziava di ammirar la Madonnina su le sue ginocchia, reggendola con le mani ceree su la campana. / – Com’è bella! com’è bella! Oh Maria!» (v. RI, p. 914; e ivi, alle pp. 55-6, la redazione definitiva del 1908).

19 Cinque centesimi.

20 L’indulgenza troppo bonaria che ha fatto perdere al padre Fiorìca l’anima di Guiduccio s’è trasformata nel bonario e indulgente umorismo con cui il narratore vela e assolve, raccontandole come le peripezie di una agiografia fiabesca, le veniali debolezze del buon prete. È stato per un eccesso di candore che egli non ha saputo guardarsi dalla malizia del demonio. Ma, a sua volta, il severo candore del bambino devoto non poteva riconoscere lo zampino del diavolo nella piccola truffa ordita a suo beneficio e, tradita nella sua candida intransigenza, la sua fede è svanita per sempre. Non è stato grave né turpe il peccato del prete, ma la catastrofe che ha provocato è irreparabile.

Male di luna

1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Quintadecima, sul «Corriere della Sera» il 22 settembre 1913. L’anno dopo fu compresa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini, 1914) e, nel 1920, ripubblicata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che ripropone sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Con il titolo definitivo, entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

L’espressione titolare è il nome, sopravvissuto nell’uso popolare, con cui la medicina arcaica designava la licantropia, ossia il delirio di natura isterica che, inducendo nel malato una agitazione violenta, si riteneva (e all’opinione non era estranea la credenza nei lupi mannari) lo spingesse ad imitare i comportamenti e gli ululati dei lupi, soprattutto in concomitanza con le fasi di luna piena.

2 Raccolto, raggomitolato. In Pirandello, il termine è di preferenza attributo di personaggi femminili (v. La realtà del sogno III 75: «aggruppata come una belva»; Candelora III 241: «rugge Candelora, tutta aggruppata sul sedile»; e Piuma III 270, novella, quest’ultima, la cui protagonista è una malata cui i dolori strappano «dalla gola cupi gridi d’animale» facendola «urlare come una belva») e denota stati di estrema tensione, di crisi nervosa o di accesso morboso che sfigurano la donna facendole assumere atteggiamenti, compiere gesti o emettere versi ferini.

3 Il paesaggio richiama quello di Un cavallo nella luna, pp. 324-5.

4 V. Il vitalizio, n. 3.

5 Si sciolse dalla sua posizione «aggruppata». V. Il professor Terremoto, n. 6.

6 Quasi soffocando. Il verbo arrangolare e soprattutto l’aggettivo verbale arrangolato sono termini la cui espressività è molto cara a Pirandello, che vi ricorre spesso. Il loro senso è via via piegato a sfumature diverse da testo a testo.

7 La luna piena. Nelle prime tre stampe il titolo della novella era stato Quintadecima, termine che indica il quindicesimo giorno del novilunio, vale a dire appunto il plenilunio.

8 Anche in Un cavallo nella luna la luna appariva come un «enorme disco di rame vaporoso» (v. p. 327). Il riaffioramento non è casuale, poiché le due storie cui presiede la luna piena sono legate da una certa complementarità: là c’è l’appetito sessuale come malattia; qui ci sono, distribuite, la malattia lunare di Batà e la voglia sessuale sfrenata di Sidora.

9 A queste colline si accennava nei medesimi termini, come a rilievi della campagna agrigentina, già nel romanzo Il turno: «Il cielo, dalla parte di levante, si faceva sempre più cupo: laggiù, in fondo in fondo, su le livide alture della Crocca, la foschia s’addensava minacciosa» (v. RI, p. 256).

10 Nella circostanza, non è la nota superstizione a parlare nell’ignara Sidora: è il terrore incontenibile della ragazza che, chiusa nella roba, non vede ma sente, ad allucinare la metamorfosi dell’uomo in lupo. E il discorso narrativo aderisce all’impressione terrificata e primaria del personaggio descrivendo straniatamente (cioè come se non fosse mai stato verbalizzato) l’orrore dell’ipotetica metamorfosi («come se le unghie gli fossero diventate artigli», «latrava, come se avesse un cane in corpo»).

11 Bracci di ferro o di legno conficcati per terra o nel muro.

12 Al primo momento.

13 La sbarra metallica che si fa scorrere dentro anelli fissati a entrambi i battenti della porta.

14 La robusta sbarra di legno posta orizzontalmente contro i due battenti della porta e le cui estremità vengono bloccate in apposite sedi fissate agli stipiti o al muro (o ricavate in quest’ultimo).

15 Seduto, con la parte anteriore del corpo appoggiata alle zampe davanti.

16 Nella notte di luna piena l’umanità pare completamente scomparsa da quel casale remoto: vi si trovano solo un uomo-lupo privo di sensi, un cane da guardia e una lupa fuggitiva.

17 Normale, sano.

18 Gemeva.

19 Riverberi abbaglianti (da barbaglio con s- intensiva).

20 In anticipo, prima delle nozze.

21 A mietere; vale a dire assoldata come spigolatrice per la mietitura.

22 Gli si confondevano nel vuoto. V. anche «In corpore vili» I 759.

23 Presentiva, avvertiva in anticipo.

24 Più comunemente si dice “a ogni fare di luna”; ossia regolarmente, a scadenze fisse e qui, in concreto, a ogni vigilia di luna piena.

25 Signornò, nossignore.

26 La sospensione e l’«ambiguo sorriso» che il povero Batà fa seguire alla sua profezia, spingono quasi ad interpretarla come uno squallido calembour col quale alluda non al nuovo attacco del suo male ma al guaio che faranno Sidora e Saro e alle corna che avrà lui quando non le avrà più la luna.

27 Basti.

28 La madre scaltra e pratica, che ha sempre deciso per la figlia, prima vietandole di sposare il cugino e poi combinando per avidità il matrimonio con Batà, si fa ora apertamente mezzana dell’adulterio di Sidora.

29 Viceversa.

30 Rapprendersi, morire in una smorfia.

31 In ossequio alla dominante inibitoria e alla regola sessuofobica e misogina che presiedono al corpus, la profferta e l’adescamento dell’innamorata, che manifestano un desiderio più forte della paura e di ogni norma, suscitano un orrore e un terrore più forti che non il «male oscuro» di Batà. Il malato di luna è dopotutto innocuo a confronto della licantropia amorosa di Sidora, che infatti diventerà rapidamente, nella mente e nelle parole di Saro, «quella donna là», una «pazza», una «matta».

32 Nel contesto, e alle spalle del terrorizzato Saro, il comparante è equivoco, poiché “salto” si chiama anche l’atto della monta animale.

33 Fuori, la scena terribile, e invisibile, è la perfetta replica di quella della p. 870. Ma proprio la ripetizione della scena esterna enfatizza le differenze di quella interna. Preda, un mese prima, di un tremore incontenibile e «forsennata dal terrore», Sidora aveva gridato «Ajuto! ajuto!» prima di cadere riversa, priva di sensi: «Saro! Saro!», chiama ora, del tutto sorda agli ululi, alle testate, alle pedate, agli sbruffi e sgraffi del marito e protesa solamente ad aizzare il bel cugino, ridendo, dimenando le gambe, tendendogli dal letto su cui è seduta le braccia. Se quello di Batà è male di luna, quello di Sidora è male di lupa.

34 Ancora una volta, in questa storia rusticana, l’ambigua divinità della luna governa malefici notturni e si diverte a mandare a vuoto, «beata e dispettosa», notturne malefatte.

La rallegrata

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 26 ottobre 1913. Due anni più tardi fu compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915) e nel 1922 entrò infine a far parte del terzo omonimo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

Alberto Albertini (per il quale si veda L’uccello impagliato, n. 1) dovette avanzare qualche riserva sulla perspicuità del titolo. Da Agrigento, Pirandello gli rispose il 18 ottobre 1913 nei termini seguenti: «Se Ella crede, cambierò il titolo della novella, ma mi sembra che sia spiegato abbastanza e risulti chiaro dalla lettura di essa. La rallegrata è uno degli atti del cavallo, e quell’atto appunto che esprime il rallegrarsi. Nero, il cavallo della principessa, si rallegra e fa la rallegrata, credendo che lo riconducano alla sua antica scuderia padronale. Il termine è proprio e d’uso comune presso quanti s’intendono d’equitazione e han pratica di cavalli. Non creda con ciò, per carità, ch’io sia un cavallerizzo e voglia darLe una lezione di cavalli! Ma so che il termine è vivo. Sostituirlo, sarebbe un peccare contro la proprietà. Del resto, ripeto, la parola è chiarita dal discorso di Fofo, l’altro cavallo, il quale segue e comenta tutti gli atti del suo compagno. E intesa nel modo più ovvio la parola rallegrata, risulta chiarissima anche la fine della novella. Non saprei come cambiare. La novella consiste in questo rallegrarsi delle bestie, tirando un carro mortuario; e in quel titolo c’è tutta la novella. Son sicuro che, dopo questo chiarimento, riconoscerà anche Lei, che sostituire con un’altra parola non propria il titolo cagionerebbe alla novella un gravissimo danno. / Vogliamo cagionarglielo? Son pronto. Intitoliamo la novella Allegria oppure Fofo capisce tutto. L’uno e l’altro possono stare, ma non hanno – lasciamo la proprietà – ma neanche l’efficacia di La rallegrata» (v. CAR, p. 193).

2 La gualdrappa è un drappo ornato di fregi e frange che viene steso sulla groppa del cavallo, sotto la sella, e scende lungo i fianchi del’animale. Qui è anche provvista di cappuccio (v. p. 880: «le orecchie tra due fori»).

3 Sbruffare, ossia soffiare rumorosamente dalle froge, è un atto frequente del cavallo. Ma, stante l’antropomorfizzazione cui sono piegati i protagonisti equini della novella, l’astenersi dallo sbruffare di Nero corrisponde all’astenersi dallo sbuffare di un uomo seccato.

4 Spazio riservato a ciascun animale nella stalla.

5 È detta battifianco la «parete di limitata altezza» o la «semplice stanga, che separa nelle scuderie una posta da quelle contigue» (Devoto-Oli).

6 Il colonnino è il «ritto […] di appoggio agli scompartimenti nelle stalle» (Devoto-Oli).

7 Questa definizione delle automobili inaugura la lunga serie delle figure di straniamento che costellano la novella e realizzano l’intenzione di aderire all’ottica equina che presiede al racconto. Anche se non è infrequente nel corpus l’attribuzione ad animali di pensieri e parole inespresse, questo è l’unico racconto pirandelliano interamente fondato, al modo classico della favolistica, sugli animali parlanti. E, trattandosi di cavalli che si sforzano di interpretare le oscure consuetudini funerarie degli uomini, non appare fuori luogo il rinvio al lungo racconto tolstoiano Cholstomer. Storia di un cavallo, nel quale è un vecchio castrone pezzato, per sua stessa ammissione «piuttosto incline alla serietà e alla riflessione», a raccontare le tante peripezie della propria vita al servizio degli uomini. Ammalatosi, il cavallo viene infine scannato, scorticato e lasciato spolpare dagli animali selvatici. E la considerazione conclusiva, molto pirandelliana, del narratore tolstoiano riguarda la morte del principe, ufficiale degli ussari, che era stato il padrone presso il quale Cholstomer aveva vissuto il suo tempo migliore: «Il corpo di quel Serpuchovskòj, che era andato in giro per il mondo, mangiando e bevendo, fu messo sotto terra molto più tardi. Né la sua carne né la sua pelle né le sue ossa servirono a nulla. E, come già da vent’anni, quel suo corpo morto che andava girando per il mondo era stato un gran peso per tutti, così il mettere quel corpo sotto terra non fu per gli altri che una fatica superflua. Già da tempo non era più utile a nessuno, già da tempo era di peso a tutti, ma tuttavia quei morti che seppelliscono i morti trovarono necessario vestire il suo corpo gonfio, andato subito in dissoluzione, con una bella uniforme, buoni stivali, stenderlo in una ricca bara nuova, coi fiocchi nuovi ai quattro angoli, e poi deporre quella bara nuova in un’altra di zinco, portarla a Mosca e qui disseppellire vecchie ossa umane e, proprio in quel punto, nascondere quel corpo putrido, formicolante di vermi nella sua uniforme nuova e nei suoi lucidi stivali, e ricoprire, poi, tutto di terra» (v. L. N. TOLSTOJ, Racconti e novelle, a cura di E. Bazzarelli, trad. di Giacinta De Domincis Jorio, Milano, Mursia, 1960, p. 642).

8 Lunghe e sciolte.

9 Non a caso un titolo alternativo accettabile sarebbe stato per Pirandello (v. la n. 1) Fofo capisce tutto. Il sussiegoso Nero è infastidito dalla presunzione di Fofo, ma è chiaro invece che il povero brocco sgroppato è uno che ha capito il giuoco.

10 Cavallo di scarso pregio e malandato.

11 Sfiancato, sfinito.

12 Cavalluccio (da bambini).

13 «La parte bassa della mandibola dei cavalli» (Devoto-Oli).

14 Arzillo, vivace; ma, detto di cavalli, può valere anche “bizzarro”, “estroso”.

15 Sudate schiumose tipiche dei cavalli.

16 Non ancora abituata al morso (qui detto, s’intende, con ironia).

17 Giungere all’età in cui i quattro denti incisivi esterni (i cantoni) hanno tutti la stessa lunghezza. Usando con sarcasmo cavallino il gergo della mascalcia, Fofo intende ironicamente dire: “Deve ancora crescere, la puledrina”.

18 Ritti che sostengono il tetto a baldacchino.

19 A cassetta (serpe è variante toscana di serpa).

20 Ne è prova lo spiacevole incidente raccontato nella novella Distrazione.

21 Facile, agevole.

22 Su e giù con la testa (propriamente, il beccheggio è il movimento oscillatorio dei natanti sull’asse prua-poppa).

23 All’insaputa del cavallo parlante (ma non del lettore), la sua descrizione straniata del viale di cipressi è anche una ludica contaminazione del celebre incipit della carducciana Davanti San Guido, con i suoi cipressi alti e stretti in duplice filare.

24 Il timone è la stanga anteriore di carri e carrozze; la bilancia è la traversa alla quale, nel tiro a quattro, vengono attaccati gli animali della coppia di testa.

25 Razione di biada.

26 I sunnominati e previsti «gualdrappe, fiocchi e pennacchi».

27 Danno le necessarie spiegazioni (spiega è voce popolare).

28 Sei sensibile al puzzo? (Sitoso appunto da sito, “odore sgradevole”.)

29 Ringhia (rignare è variante toscana di ringhiare: si dice propriamente dei cani, ma anche di un certo modo di nitrire dei cavalli).

30 Nitrisce (annitrire è forma letteraria).

31 «Figura dell’equitazione d’alta scuola, che consiste nel trotto misurato e cadenzato sul posto» (GDLI).

32 Rallegrata è detto un salto brioso che il cavallo spicca all’improvviso, quasi esprimesse allegrezza. Cita s.v. il GDLI dalla Piccola Enciclopedia Hoepli: «‘Rallegrata’: si dice del cavallo quando entra in brio». Ma mettere in brio un cavallo significa “farlo imbizzarrire”. È evidente che Pirandello intitola la novella a quest’atto equino giocando sull’antifrastica equivocità del figurato.

33 Impalati, impettiti (da camato, “bacchetta per battere la lana”, “verga”).

34 Finanziera (v. Lontano, n. 4).

35 A cilindro.

36 Mansueto, docile.

37 Come si conviene alle favole, la novella si conclude con la sua brava morale.

Da sé

1 Apparve per la prima volta a stampa nella «Rassegna contemporanea» il 10 novembre 1913. Fu compresa successivamente nella raccolta E domani, lunedì… (Milano, Treves, 1917), ed entrò infine a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese.

2 V. Il «fumo», n. 18.

3 Già Mattia Pascal, nel 1904, aveva pensato di impiccarsi «economicamente» ad un albero con la cintola dei pantaloni, nel caso avesse perduto tutto alla roulette (v. RI, p. 374).

4 Tomba di famiglia (v. Tutto per bene, n. 29).

5 Ispezione giudiziaria. È un atto dovuto nei casi di suicidio.

6 L’incipit riflessivo della storia, nel quale il tono leggero della narrazione aderisce come un guanto alla lievità con cui il personaggio viene tra sé considerando i costi d’un funerale decente e il risparmio realizzabile andando a suicidarsi «economicamente, al cimitero», non lascia alcun dubbio sul registro umoristico che presiede al racconto. Su quest’umorismo temperato si innesta con grande naturalezza la notazione realistica e quasi neutra dei morti di famiglia cui il suicida si ricongiungerebbe nella dimora cimiteriale. La redazione del 1913 esibiva, a cominciare proprio dalle «due mogli precedenti» e dai «tre figliuoli, due del primo, uno del secondo letto» che Matteo Sinagra aveva sepolti, una impennata umoristica assai più stravagante e ardita: «Aveva quarantanove anni, e doveva fare uno sforzo per ricordarsi scapolo. Per miracolo non s’era sposato con la bàlia, appena svezzato. La prima moglie gliel’avevano data, quando non aveva ancora compito i diciott’anni; la seconda, a trenta; la terza, a quarantuno. Date, mica prese. Gliele avevano date, e lui se l’era prese. E aveva avuto figliuoli da tutt’e tre: sei dalla prima, cinque dalla seconda, due gemelle dalla terza. Ma tanto i quattro che gli erano rimasti dalle prime nozze, quanto i quattro delle seconde, non eran per nulla a suo carico, perché, così a quattro per volta, se li erano raccolti i parenti delle due mogli defunte. / Sempre fortunato, lui, fino a tre anni fa. / Fortunato specialmente con le donne. Bastava che le guardasse, e tutte s’innamoravano di lui, chi sa perché! L’ultima, perdio, ragazza, proprio ragazza rispetto a lui: per averle parlato due o tre volte, non più, ma così, senz’intenzione, di cose aliene: subito, come fulminata… Tanto che il padre stesso era venuto a pregarlo, a scongiurarlo di sposare la sua povera figliuola, ché altrimenti ne sarebbe morta. / Morta? E perché? Due e una, tre. Pronto!» (v. NUAIII, p. 1374). Nel 1917, Pirandello ha scelto di mettere la sordina a questo registro iperbolico; ma il passo espunto è una riprova del fatto che le fortune, come le sciagure, radicalmente umoristiche si manifestano attraverso una iperbolizzazione del realistico (v. al proposito Dono della Vergine Maria, n. 2, Tirocinio, n. 19 e Tu ridi, n. 12).

7 Il momento più difficile, la cosa più dura.

8 Il capoverso viene instaurato solo nella redazione del 1917, e rimanda, per il tramite esplicito del sintagma «orribile ingombro», all’incipit della prima stampa (1914) de I pensionati della memoria, dove si legge che «anche per i parenti più intimi, il morto, con la greve, gelida, immobile durezza impassibile, opposta a tutte le cure che ve ne diate, al pianto che gli fate attorno, è un orribile ingombro, di cui lo stesso cordoglio, per quanto accenni e tenti di volersene ancora disperatamente gravare, anela in fondo in fondo di liberarsi» (v. NUAII, p. 1299).

9 Anche di donna Caterina Laurentano si legge nella stampa in volume (1913) de I vecchi e i giovani: «[…] era caduta, di schianto, in un attonimento quasi di apatia, come se la vita e tutte le cose intorno le si fossero a un tratto votate d’ogni senso» (v. RII, pp. 428 e 1017).

10 Il prototipo di questi temperamenti dalla vitalità prorompente, irriflessiva e insofferente di freni è Tommaso Corsi (v. Il dovere del medico I 699-700). Da lui quest’indole perviene, per eredità diretta, al Corrado Selmi de I vecchi e i giovani: «E sempre s’era dato da fare, comunque; senza mai sforzarsi; e tutto gli era riuscito facile e agevole, non schivando mai, anzi sfidando e bravando i più gravi pericoli, le più difficili imprese, le avventure più intricate. Non ammetteva che ci potessero essere difficoltà per uno come lui, sempre pronto a tutto. Non andava incontro alla vita; si faceva innanzi, e passava. Passava, disarmando tutti con la sicurezza convinta e la gaja tranquillità» (v. RII, p. 194). Il romanzo va a stampa in volume, e per intero, proprio nel 1913: dunque il Matteo Sinagra gaio, vivo e vittorioso è a sua volta un discendente diretto di quei due personaggi, mentre il protagonista di Da sé è, né più né meno, il fu Matteo Sinagra.

11 Per intendere fino in fondo questo caratteristico e drammatico snodo, conviene rammentare, per differenza, la requisitoria contro tutte le forme pronunciata dall’irato ragionatore de La trappola (v. in particolare le pp. 696-7). La forma è morte, darsi una forma è morire. Ma avviene spesso che la vita intera di un individuo sia consistita nell’intima e inavvertibile adesione ad una forma e che da questa tenuta e coesione della propria forma l’io abbia ricavato, com’è stato il caso di Matteo Sinagra, «quella specie d’estro che per tanti anni lo aveva assistito e spinto innanzi, alacre e sicuro». In questa eventualità, il collasso di quella forma, lo scollamento di quella aderenza, l’arresto di quella ben lubrificata macchina vitale, costituisce una catastrofe irreparabile. L’io, dimidiato dal trovarsi d’un tratto «a tu per tu con un altro se stesso», risulta di fatto paralizzaro e annullato. Il rasoio perfido della contraddizione non cessa di minacciare i personaggi pirandelliani: le forme sono una catastrofe, ma la catastrofe delle forme riduce l’individuo ad un morto-vivo.

12 Subitaneamente.

13 Fattorino, tuttofare.

14 Questo movimento narrativo della vicenda è complementare a quello di Sole e ombra. Ciunna, sceso alla borgata marina deciso al suicidio, vi aveva incontrato l’amico Tino Imbrò, che non solo l’aveva immediatamente ravvisato, ma gli aveva tributato, per quanto scherzoso, un ben più importante riconoscimento: «Ecco il mio vecchio maestro! Alfin ti riconosco!». Era di fatto il riconoscimento della fervida e vitale scuola d’ironia di Ciunna; e proprio questa riserva di vitalità avrebbe poi reso drammatica la riluttanza del suicida e la sua agonia. Matteo Sinagra, incontrando l’amico, passa viceversa prima attraverso l’esperienza agghiacciante della propria irriconoscibilità, e poi, tramite questa, attraverso quella del riconoscimento del proprio essere morto (v., per un’altrettanto drammatica attualizzazione del motivo, Tra due ombre, pp. 293-4 e n. 18). Da questo assoluto vuoto vitale proviene la leggerezza del suo stato di morituro e poi la lievità umoristica del suo suicidio. Che, nonostante resti assodato che i veri filosofi pirandelliani non si suicidano mai, è quasi un suicidio filosofico, sorridente e assolutamente indrammatico. Ammesso, beninteso, che avvenga, dal momento che il sospensivo finale focalizzato si guarda bene dal farne oggetto di racconto.

15 V. Sole e ombra I 313: «Alzò gli occhi al cielo, senza levare il mento dalla mano, poi guardò i colli neri e la valle di nuovo, come per vedere quanto ormai rimaneva per gli altri, poiché nulla più era per lui»; e La levata del sole I 521: «[…] la levata del sole, ma sì, chi sa che piacere! veder cominciare un altro giorno per gli altri e non più per sé! un altro giorno, le solite noje, i soliti affari, le solite facce, le solite parole, e le mosche, Dio mio, e poter dire: non siete più per me».

16 Soffocati.

17 Una volta che ha attraversato e compiuto tutta intera la sua iniziazione, passando dalla turbolenza dell’attività mondana alla crisi e alla reclusione e infine al riconoscimento del proprio stato di morte, Matteo Sinagra riemerge da questa lucida contemplazione della vita e della morte in letizia, seppure nei panni del suicida. Come si vedrà, Candelora (segnata dal suo essere donna e contrassegnata da una vitalità prorompente) rivolgerà contro se stessa la propria rabbia e il proprio ribrezzo, e la morte sarà per lei l’alternativa disperata all’impossibile recupero della purezza e d’un prima incorrotto; Matteo vede invece con «godimento inaudito», con una «gioja di liberazione», in «un’ebbrezza divina», corrispondere la morte al varco verso la libertà indistinta del tutto e del principio, verso il recupero della infantile e deliziosa capacità di sorprendersi di tutto e di conoscere di nuovo tutto per la prima volta. La morte è in realtà l’estremo dopo, non il prima (il testo lo dice e lo sottolinea), ma nella rivelazione d’una paradossale coincidentia oppositorum, il personaggio intuisce che anche quella può essere una buona rotta per le Indie del prima e verso la culla dell’uomo, verso il luogo deputato ed eterno dell’essere dal quale, come da poco era stato detto ne La trappola, è colpevole e stolto allontanarsi.

18 Al di là delle radicali differenze di trama, di contesto e di ambientazione, che possono frapporre qualche ostacolo al riconoscimento, tutto quanto l’attacco di quest’ultimo paragrafo della novella è debitore delle pagine che, ne I vecchi e i giovani, preludono al suicidio di Corrado Selmi: «Voleva uscir di nuovo, per un’ultima passeggiata, per salutar la vita, scevro ormai d’ogni cura, esente d’ogni peso, libero d’ogni passione, con occhi limpidi e animo sereno; salutar la vita, col suo lieve antico sorriso; bearsi per l’ultima volta delle cose che restavano, liete in quel giorno di sole, ignare in mezzo al torbido fluttuare di tante vicende che presto il tempo avrebbe travolte con sé. Ridiscese in istrada, fe’ cenno a un vetturino d’accostarsi e si fece condurre al Gianicolo. […] Giunto in cima al colle, gli parve davvero una liberazione quell’altezza, da cui poté contemplare Roma luminosa nel sole, sotto l’azzurro intenso del cielo; liberazione da tutte le piccole miserie acerbe che laggiù lo avevano offeso e soffocato; dall’urto di tutte le meschine volgarità quotidiane; dalle fastidiose risse dei piccoli uomini che volevano contendergli il passo e il respiro. Si sentì lassù libero e solo, libero e sereno, sopra tutti gli odii, sopra tutte le passioni, sopra e oltre il tempo, inalzato, assunto a quella altezza dal suo grande amore per la vita ch’egli difendeva, uccidendosi. E in esso e con esso si sentì puro, in un attimo, per sempre. Nell’eternità di quell’attimo si cancellarono, sparvero assolte le sue debolezze, i suoi trascorsi, le sue colpe, già che egli era pure stato un uomo e soggetto a contrarie necessità. Ora, con la morte, le avrebbe vinte tutte. Restava solo, in quel punto, luminoso indefettibile immortale il suo amore per la vita, l’amore per la sua terra, per la sua patria, per cui aveva combattuto e vinto. Sì, come i tanti che avevano avuto lassù, in difesa di Roma, una bella morte, troncati nel frenetico ardore della gioventù e resi immuni di tutte le miserie, liberi di tutti gli ostacoli che forse nel tempo li avrebbero deformati e avviliti. Ora in quel momento anch’egli, spogliandosi di tutte le miserie, liberandosi di tutti gli ostacoli, acceso e vibrante dell’ardore antico, con negli occhi l’oro dell’ultimo sole su le case della grande città quadrata, si foggiava com’essi una bella morte, una morte che lo inalzava a se stesso, senza invidia per quelli effigiati e composti lassù per la gloria in un mezzo busto di marmo. Pensò che aveva con sé la boccetta del veleno; ma no! a casa! a casa! tranquillamente, sul suo letto: senza dare spettacolo! E ridiscese alla città. / Ridisceso, gli parve di aver lasciato la propria anima lassù, nel sole. Qua, nell’ombra, era il corpo ancor vivo, per poco. Si guardò le mani, le gambe, e provò subito un brivido d’orrore. Ma, come se di lassù una voce severamente lo richiamasse, egli si riprese e a quella voce rispose che sì, quel suo corpo, egli lo avrebbe tra poco ucciso, senza esitare» (v. RII, pp. 393-5). Precise spie linguistiche e tematiche (a cominciare da quell’indubitabile «scevro ormai d’ogni cura, esente d’ogni peso») confermano l’agnizione. E persino il titolo della novella, Da sé, è in qualche modo prefigurato, nel romanzo, nella battuta conclusiva del Selmi che, ingoiato già il veleno, arresta Antonio Del Re avventatoglisi addosso armato di pugnale, per ucciderlo: «– Non t’incomodare! – gli disse. – Vedi? Ho fatto da me…» (ivi, pp. 397-8).

19 L’affioramento in serie di questi tre aggettivi può costituire il punto di riferimento semantico per capire cosa significhino nell’idioletto pirandelliano alieno e alienato. V. Tutto per bene, p. 261 e n. 28.

20 È il cimitero per eccellenza domestico. Si pensi al «piccolo, bianco cimitero che sorge lassù, sopra il paese, col mare davanti e la campagna dietro» della novella Prima notte, cui fanno eco i vv. 3-4 di A gloria in Zampogna (1901): «quest’alto e bianco cimitero / che ha, sotto, il mare e, dietro, la campagna»; al camposanto «situato in alto, in cima al colle che sovrasta la cittaduzza» ne La paura del sonno e a quello «aereo su l’altipiano, con la campagna dietro e il mare davanti» de La morta e la viva. Ma si rammentino innanzitutto i vv. 2-3 di Stormo (1909), in Fuori di chiave: «Qua presso, in cima al poggio, è il cimitero. / Olivi in giro».

21 Destinazione.

Rondone e Rondinella

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 30 novembre 1913. Nel 1918 fu compresa nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves) e nel 1925 entrò infine a far parte del nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Il narratore tiene a dichiarare incipitalmente di condividere la non conoscenza collettiva per quanto riguarda i due protagonisti della storia. Il che significa che, lungi dall’essere dotato di un sapere più vasto e privilegiato e a fortiori dal detenere l’onniscienza che spesso caratterizza i narratori esterni, potrà raccontare soltanto una parte, quella visibile o comunque nota, della vicenda dei personaggi.

3 Antiquato «indumento maschile […] bene attillato alla vita, che ricopriva il busto, lungo fino al ginocchio» (GDLI).

4 Dal francese antico saie, a sua volta derivato dal latino sagum, “panno di lana”, la saia è un tessuto confezionato con una armatura «con i punti di legatura disposti secondo una linea diagonale; […] può essere leggera o pesante a seconda che sia prevalente nel tessuto l’effetto di trama o di ordito» (GDLI).

5 Fianco montano scosceso.

6 Il ritratto dello sconosciuto inclina verso il pezzo di bravura. L’analogia uomo-rondone è così sapientemente e deliberatamente costruita che, lungi dall’essere una semplice giustificazione del nomignolo, sulla base dello spunto analogico costituisce letteralmente il personaggio, precostituisce il nomignolo complementare e la figura della sua compagna e prefigura la vicenda. Dal nero e bianco del farsetto e dei calzoni, tertium comparationis della similitudine fondante e motivazione realistica della soprannominazione, si trapassa ad aspetti fisici («la testa alta sul torace erculeo») e a comportamenti irrequieti e vivaci riconoscibili come rondoneschi. Alla fine, non solo di un soprannome di comodo si tratta, ma di un vero e proprio uomo-rondone. In sede ornitologica, va da sé che il bianco-nero dell’abito-piumaggio permette di riconoscere in questo rondone il maschio della rondine e non l’uccello d’altra famiglia che si chiama così.

7 L’apparenza assertiva di questo capoverso non deve ingannare: non si instaura alcuna variazione nel registro congetturale della narrazione. Le espressioni che lo introducono («pareva che» e «a immaginarla tra le braccia») non lasciano adito a dubbi: il fiducioso e sicuro abbandono amoroso di Rondinella è soltanto il frutto d’una ricostruzione ipotetica dall’esterno. Tutti sono pienamente convinti che debba essere così, ma nessuno lo sa.

8 La scena è quella medesima di Canta l’Epistola (v. p. 638 e n. 26). La città di Orte, nella valle del Tevere, è la stazione ferroviaria più prossima ai paesi dei Monti Cimini, ed è più che probabile che il «borgo montano» non nominato sia Soriano nel Cimino.

9 Carrozza.

10 Quasi certamente il Castello Orsini, risalente al XIII sec., cinto di mura merlate e dotato di un maschio imponente.

11 Lecci.

12 Come quello incipitale riguardante il chi veramente fossero, un altro segnale di ignoranza. Per i paesani e per il narratore Rondone e Rondinella consistono veramente soltanto in ciò che gli altri li vedono fare e nell’aura («quella gioja viva d’amore») che li avvolge. Per il resto, la loro identità, il loro stato, le loro consuetudini di vita, facili o azzardate che siano le ipotesi, sono solo congetturali. E, come appare chiaro alla fine di questo capoverso, in forza del mistero che circonda le loro mobili epifanie, su di loro fioriscono anche dicerie prossime a diventare leggenda.

13 In realtà, tutti erano certi che.V. la n. 7.

14 L’immaginata precarietà è ancora quella degli uccelli migratori.

15 Il preannuncio funesto è chiarissimo e tutt’altro che sorprendente. Assolutamente sorprendente sarebbe stato il contrario, e cioè che nel corpus pirandelliano una storia d’amore, per quanto rondinescamente favolosa, avesse in sorte un finale lieto. In vicende non realistiche come questa risulta particolarmente palpabile la componente crudele (o, se si preferisce, desolata e pessimistica) della demiurgia narrativa di Pirandello. Per quanto possano aver amato, e sinceramente, generosamente amato, ai suoi personaggi nulla viene mai perdonato.

16 Appena fuori dal cerchio magico della favola, la grettezza è in agguato.

17 Un po’ sporgenti. V. Tra due ombre, n. 5.

18 È il solo passo del racconto in cui l’istanza narrante si fa avanti ed esce decisamente dalla collettività delle voci paesane alle quali si è fin qui assimilata. E il suo passo avanti introduce fatalmente anche uno scarto nel registro della narrazione. Suo è lo scatto con cui bandisce ogni perplessità nell’identificazione dello sconosciuto come marito di Rondinella, e suo il risentimento con cui vede in quell’uomo la prosopopea urtante della legalità. Risentimento indubbiamente molto pirandelliano, che ancora una volta oppone all’anelito di libertà e di vitalità dei protagonisti e alla aerea lievità con cui essi erano stati capaci di sottrarsi alle remore e ai divieti della norma sociale, la quadrata ottusità e la placidità dura della legge. L’orientamento del racconto, fin qui simpateticamente favorevole agli innamorati in nome della festosa gradevolezza che emanava dalla loro volatile presenza, diventa in qualche misura presa di posizione a favore della loro felice illegalità e contro la legalità repressiva ed esiziale che quel marito rappresenta (gli occhi della donna diranno tra breve «ch’ella moriva per quell’uomo composto e rispettabile»). Ciò non toglie che lo scarto di registro appaia stridente rispetto alla chiave tonale della novella, né la deprecazione di quella invivibile legalità impedisce, naturalmente, che la storia degli illegali leggendari amanti vada ineluttabilmente incontro a un destino di separazione e di morte.

19 Una variazione di questo motivo si ritroverà nella malata inguaribile della novella Piuma III 269: «Ma spesso gli occhi, che avevano ancora il limpido brillio dello zaffiro, vivi essi soli nella sparuta magrezza del visino diafano, le ridevano maliziosi». E gli occhi della Rondinella moribonda vedono e parlano con straordinaria chiarezza, come appunto più tardi quelli della moritura di Piuma.

Il capretto nero

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 31 dicembre 1913. Nel 1918 fu compresa nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves) e nel 1925 entrò infine a far parte del nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad). Per il testo qui riprodotto, v. La rallegrata, n. 1 (secondo capoverso).

2 Questa novella segue immediatamente a Rondone e Rondinella, e si direbbe che anche il signor Trockley sia una copia appena variata del marito di Rondinella: quello era la legalità in persona (v. p. 892) e questo la ragione personificata. Sguardo e parola sono in Trockley «rigidi e precisi», «ponderati e sicuri», così come in quel marito ogni sguardo, ogni atto, ogni gesto e ogni parola erano composti e rispettabili, esatti e compiti.

3 L’io narrante gioca esplicitamente a nascondino con l’io autorale. Come è noto, Pirandello è effettivamente nato il ventotto giugno del 1867. Ma, gioco per gioco, mentre il giorno è preciso, l’anno è liberamente approssimato: lo scrittore ha infatti compiuto quarantotto anni nel 1915, anno che non è in corrispondenza precisa con quello della stampa che instaura questa lezione, ossia quella del 1918. A prendere sul serio il gioco di Pirandello con la propria data di nascita, la redazione del 1918 finge gratuitamente o una retrodatazione del racconto al 15 giugno 1915 o una postdatazione dell’anno di nascita al 1870. Il medesimo gioco era assai più esplicito nella stampa del 1913, nella quale si leggeva: «Io e voi, per un esempio, siamo nati nel 1867, il 28 giugno. Quant’anni avremo io e voi il 28 giugno del 1917? Il signor Trockley non tentenna un momento; fa il conto e sostiene, che il 28 giugno del 1917 noi avremo cinquant’anni, tutt’e due. / È possibile dar torto al signor Charles Trockley?» (v. NUAII, p. 1241).

4 Famosa guida turistica. V. Maestro Amore, n. 7.

5 Sciascia scrive: «Girgenti ebbe due grandi alberghi: il Gellia (quello di Anatole France, di Silvestre Bonnard), al centro della città; l’Hotel des Temples nella campagna della valle, su una balza che permetteva la veduta dei templi e del mare. Il Gellia sopravvisse di qualche anno alla guerra del ’40, ma l’Hotel des Temples ne ebbe il colpo di grazia. Pochissimo frequentato dagli italiani (si apriva infatti al primo giorno di ottobre, chiudeva all’ultimo di maggio), Pirandello lo predilesse nei suoi ritorni a Girgenti, peraltro piuttosto rari dopo la prima guerra mondiale» (v. L. SCIASCIA, Alfabeto pirandelliano, Milano, Adelphi, 1989, p. 32).

6 Per le descrizioni agrigentine di questo capoverso e del precedente, v. Il turno, in RI, pp. 256-7 e I vecchi e i giovani, in RII, pp. 12, 94 e 100-1.

7 Ancora.

8 Ruminare.

9 Spiccava salti (v. Notizie del mondo, n. 36).

10 Il medesimo come se riaffiorerà un anno più tardi a connotare tutt’altro contesto di animale emotività in La liberazione del re III 117: «Ma sopravvenne, furibondo di gelosia, il piccolo vecchio gallo nero, spennacchiato, si cacciò in mezzo a loro e, cieco d’odio e di rabbia, saltando con le penne ingrossate, quasi andassero per l’aria certi moscerini di luce ch’egli volesse ghermire a volo, s’avventò».

11 La morale, pacificamente contraddittoria, di questo apologo inglese, spiega nel contempo come la ragione abbia sempre ragione nei confronti della capricciosità, della irragionevolezza, della cieca stupidità dei desideri e delle passioni, ma anche come la disciplina rigida e ottusa della ragione fondata sul puro principio di realtà reprima ogni slancio e distrugga qualunque oggetto di desiderio. A questa soggiace però anche l’altra più severa morale che presiede al corpus: quella per cui, dal momento che il tempo ineluttabilmente trasforma tutti gli allegorici capretti in caproni mostruosi, saggio sarebbe non innamorarsi di alcun grazioso capretto nero e compiere il proprio viaggio senza cedere mai al desiderio di possederne uno.