Trude era una bambina dotata di sconcertanti capacità anticipatorie: presentiva il sesso dei nascituri e vaticinava decessi che puntualmente si verificavano. I genitori, contadini alle prese con quotidiane miserie e sopraffazioni, avrebbero preferito che la loro inquietante figliola morisse. Una bocca da sfamare in meno e, soprattutto, una bocca molesta definitivamente tappata dalla terra. Ma Trude, con loro grande sconcerto, superava gli inverni. Quando compì dieci anni un ricco barone di passaggio che rispondeva al nome di von Tintenfisch seppe individuare le potenzialità della piccola chiaroveggente.
Trude era magra, ma molto bella, grandi occhi, capelli lunghi raccolti in una treccia che arrivava alle caviglie, il barone la comprò per pochi soldi dopo averla vista fare il bagno sulle rive del fiume e, soprattutto, dopo averla sentita dichiarare: «Uomo bianco tu sei nero e dovrai usare il bastone». Il barone, che aveva i capelli bianchi a causa di una malattia e si vendeva ufficialmente come uomo pio, puro, ma in realtà era pervaso da un profondo appetito sessuale e da un’ambizione della specie più nera, capì che la piccola aveva un dono e poteva essergli utile su più fronti. C’erano già state, nella consuetudine dei maschi della sua famiglia, fanciulline conturbanti capaci di percepire ciò che nascondevano gli uomini. Poi, Trude era vergine, e a lui le vergini piacevano molto perché ingenue e non ancora malate, ben alimentata, nel giro di pochi mesi sarebbe diventata un bocconcino pronto per il privato suo diletto.
Decise di condurla nel monastero lungo le rive dell’Elba, lì era conosciuto e temuto, lì madre Inge, la badessa sua sodale, avrebbe tenuto la fanciulla veggente con i dovuti riguardi, facendo di lei uno strumento del volere del Signore.
Il signore, naturalmente, era lui.
Trude fu prelevata per essere condotta al monastero in un caldo giorno d’estate, uno di quei giorni di luce sfacciata, erba secca, profumo svanito di fiori; giorni rari e preziosi, giorni che lei aveva adorato sopra ogni cosa e che, una volta rinchiusa nella sua cella, avrebbe imparato a odiare.
Il barone von Tintenfisch aveva portato il denaro, la transazione era avvenuta in cucina, davanti a lei, senza ombra di pudore, suo padre aveva rovesciato sul tavolaccio la borsa con i talleri d’argento che gli aveva consegnato il nobile, quindi, poiché non sapeva contare, aveva posto davanti a ognuno dei trenta fagioli che si era fatto preventivamente calcolare dal pastore del villaggio ogni singolo tallero. Trenta fagioli, trenta monete, e suo padre aveva sorriso mostrando le gengive nude, i denti li aveva già persi da un pezzo; anche il barone aveva sorriso, un sorriso teso, senza sollevare le labbra. Poi suo padre aveva tirato fuori dalla tasca altri dieci fagioli e li aveva posati sul tavolo e il sorriso del barone era sparito per lasciare posto a una smorfia. Suo padre aveva indicato i dieci fagioli e poi aveva indicato i talleri con il dito, il barone aveva tirato fuori da una borsa altre otto monete e le aveva posate sul tavolo. Suo padre aveva preso due fagioli e li aveva spostati verso il barone, poi aveva preso per un braccio Trude e se l’era portata dietro la schiena. A quel punto il barone aveva messo mano alla spada e Trude aveva sentito il corpo di suo padre irrigidirsi in uno spasmo mentre sua madre lanciava un grido. Poi il compratore aveva cambiato idea, aveva cercato un tallero nella tasca e l’aveva posato davanti ai due fagioli ancora vacanti. A quel punto tutti avevano sorriso.
Solo Trude piangeva, piangeva piano, rassegnata, era una ragazzina abbastanza intelligente per capire che, se le avevano fatto le trecce e messo il vestito bello, la merce in discussione era lei e non una delle vacche della stalla.
Suo padre aveva intascato il denaro, una serva del barone, dopo averle afferrato rudemente la mano, l’aveva condotta fuori dalla porta. Aveva controllato, con attenzione, il capo, il collo, le ascelle e in mezzo alle gambe, sollevandole il vestito. Solo dopo aver verificato che non ci fossero pidocchi o zecche, l’aveva fatta salire sul carro che si era avviato lento lungo la strada stretta tra gli alti fusti ritti dei girasoli aperti.