Flavio Tondi considerò criticamente il proprio volto allo specchio, la barba di due giorni andava tagliata per il concerto. Mozart lui lo affrontava sbarbato, mentre per Vivaldi un po’ di pelo arruffato poteva non disturbare. Lentamente girò la testa a sinistra e valutò la piccola macchia viola che gli segnava l’incavo destro del collo, nel punto esatto dove appoggiava il violino, era lo stigma più evidente di un corpo che sul violino si era formato e compiuto caparbiamente nel tempo. Poi c’erano le stigmate segrete, quelle nessuno le poteva vedere.
La madre di Flavio era morta quando lui aveva dodici anni, dopo una lunga malattia che ne aveva ridotto il corpo a un ramo contorto. Suo padre, per quanto ci avesse provato, non era più riuscito a togliere al figlio la paura e il perenne senso di dolore in agguato.
«Dimenticare è un dono» gli diceva sempre la sua prima, nonché terza moglie Samuela, perché Samuela lui era riuscito a sposarla due volte.
L’aveva lasciata la prima volta per Agàta, una venticinquenne ungherese ex campionessa di ginnastica artistica, che gli aveva regalato la gioia della paternità e con le gioie si era fermata lì. Samuela era stata l’unica delle sue tre mogli ad andare d’accordo con suo padre; l’avvocato Tondi era pazzo di lei, loro due parlavano di financial futures e politica internazionale, perché Samuela era una donna d’affari, colta, padroneggiava sette lingue, e non aveva voluto un soldo per la separazione, in proposito ave-va detto:
«Non ho bisogno dei tuoi soldi, Flavio, non abbiamo figli e se quello che vuoi è la ginnasta ungherese prendi la ginnasta ungherese, io da questo punto di vista non posso competere, non sono una sportiva, al massimo scio un poco, solo se la giornata è soleggiata e il maestro di sci simpatico».
Così si erano separati, lui aveva sposato Agàta, poi si era separato da Agàta e aveva risposato Samuela, suo padre non aveva commentato, ma gli aveva regalato una cascina in Umbria, dove potessero rilassarsi in mezzo agli ulivi. Ma non c’era stata pace neanche tra gli ulivi, quella seconda volta Samuela era diventata gelosa, lui era sempre in viaggio con il suo Stradivari. Era finita quando, controllando gli estratti conto delle carte di credito, aveva scoperto che un paio di acquisti fatti da Tiffany a Philadelphia non avevano niente a che vedere con lei ma, semmai, con un soprano argentino dal culo sodo e la voce da usignolo che rispondeva al nome di Cesara Salazar.
E adesso Samuela era tornata, di nuovo, Flavio l’aveva incontrata per caso lungo la Senna, aveva visto da lontano la cascata di capelli rosso fuoco, l’incedere elegante, il leggerissimo montone bianco lungo fino ai piedi e si era chiesto: Dio santo, chi è quella donna? E mentre quella donna si avvicinava con le mani in tasca, dando ogni tanto un calcio distratto a una pietruzza, l’aveva riconosciuta, lei gli aveva sorriso e si era fermata a un passo da lui, Flavio aveva sentito il suo profumo di ambra grigia, aveva intercettato con lo sguardo l’attaccatura dei seni nella scollatura della camicetta e si era chiesto: perché mai ho lasciato andare via questa donna?
«Buongiorno, amore mio» aveva detto Samuela, «sono venuta per ascoltarti suonare e dirigere Mozart. Non mi sarei persa il tuo concerto per nulla al mondo».
«Grazie» aveva detto lui.
«Come sta Cesara?»
Ci era mancato poco che Flavio le chiedesse Cesara chi? Invece aveva balbettato:
«Bene, credo, bene, è dal parrucchiere».
«E le bambine?»
«Bene, sono con la babysitter neozelandese».
«Spero tu non l’abbia già sedotta».
«Chi?»
«La babysitter neozelandese».
«È alta un metro e novanta e pesa ottanta chili, il rugby mi piace solo alla televisione» aveva riso lui.
«E il tuo signor padre? Mi manca, sai».
«A me neanche un poco» aveva risposto Flavio prendendola sottobraccio per dirigersi verso l’Opéra Garnier.