Il conte di Saint-Germain nella sua versione più carnale e terragna, quella che rispondeva al nome di Rocco, piegò il foglio che profumava vagamente di neroli e immaginò Jeanne Antoinette seduta allo scrittoio. Quanto era distante la marchesa dal virginale fiore d’arancio, eppure quello era il suo profumo preferito, o meglio il suo profumo preferito l’aveva elaborato lui stesso; d’altra parte, da un alchimista il minimo che ci si potesse aspettare era che fosse un ‘naso’. Attraverso l’olfatto, infatti, Rocco era in grado di percepire non solo se un cibo fosse o meno velenoso, una femmina pronta o meno all’accoppiamento, ma anche la paura, il coraggio e le malattie, soprattutto quelle veneree che accecavano e invalidavano la metà dei suoi contemporanei.
Al profumo destinato alla sua amica, la marchesa di Pompadour, aveva lavorato a lungo e con pazienza: essenza di neroli nella nota capitale, rosa nella nota del cuore e ambra grigia nella nota di fondo, perché lei, Jeanne Antoinette, era così, appena l’annusavi un frizzo di energia, quando sostavi e ti lasciavi emozionare una primavera di possibilità e quando ti abbandonavi perdendoti tra le sue braccia era l’assoluto inebriante caldo piacere.
La immaginò seduta al suo scrittoio, le trine leggere della camiciola e sopra la vestaglia di broccato di lana a proteggerla dal freddo, l’ultima volta che la marchesa l’aveva ricevuto nel suo boudoiravevano giocato a «nascondi l’intruso», uno dei loro intrattenimenti preferiti: lei usciva per qualche minuto dalla stanza mentre il conte si eclissava vuoi sotto il letto, vuoi nell’armadio, oppure dietro i tendaggi, poi Jeanne Antoinette rientrava comportandosi come se fosse stata perfettamente sola e circonfusa dall’innocua intimità dei suoi oggetti quotidiani. Il più delle volte riempiva il catino di acqua odorosa di fiori d’arancio, si spogliava di tutte le vesti restando solo con le calze fermate a metà coscia da un vezzoso nastro rosa, quindi si faceva il bidet avendo cura di indugiare sui punti decisivi della sua graziosa persona, le piaceva molto, ad esempio, quando intuiva la presenza del conte alle sue spalle, inginocchiarsi, appoggiarsi sulla mano sinistra e con la destra soffermarsi a lungo sulle natiche per poi entrare e uscire con le dita dalla piega di pesca matura che queste formavano.
L’ultima volta, avendo intuito che lui era andato a piazzarsi proprio sotto il suo scrittoio, la marchesa si era seduta, era scivolata ben bene in avanti sul bordo della sedia e poi aveva aperto le gambe. Naturalmente non portava biancheria intima. Il conte, però, volendo protrarre il gioco, non si era subito deciso a metter bocca su quanto gli veniva offerto e così la marchesa aveva con l’indice e l’anulare della mano destra disserrato le labbra e, rovesciando la penna d’oca che normalmente utilizzava per redigere i suoi svelti e amabili bigliettini, aveva cominciato a titillarsi.
Che donna! E quella donna voleva una risposta.
«E diamogliela, la risposta» urlò Rocco accennando un passo di danza, «diamogliela, diamole tutto ciò che desidera, primo perché la signora marchesa lo merita e secondo perché…» e qui il conte abbozzò un inchino, «io, anzi noi, conte di Saint-Germain, dobbiamo entrare nelle grazie di Luigi XV e vanificare il potere del barone von Tintenfisch».