Quella puta

Parigi, 11 gennaio 2019, sera

«Vedi Cesara, così va la vita, le cose finiscono» dichiarò il maestro Flavio Tondi mescolando flemmatico il caffè.

«Stai parlando di me?»

«Di te, di me, di tutto, hai visto no? Anche il mio violino: finito, eppure avrebbe dovuto essere immortale, uno strumento di Dio».

«Anch’io sono uno strumento de Dios, più di quel violino de mierda, io sono un essere umano e piantala di girare el café!» Cesara Salazar Tondi-ancora-per-poco diede un colpo alla mano destra dell’uomo che amava, il cucchiaino partì verso il soffitto, la tazzina rovinò sulla moquette, gocce marrone scuro s’impressero sulla faccia di Flavio.

«Sei un animale» mormorò lui.

«Sì, yo soy un animale ma ti piacevo così, hai sempre detto che ti piacevo perché sono una donna vera, senza filtri!» urlò Cesara.

«A proposito di filtri, magari vado a mettere su un altro caffè» stabilì Flavio asciugandosi la faccia con il tovagliolo.

Cesara, accecata dalla rabbia, si guardò intorno. Proprio sotto la specchiera Luigi XVI – che lei odiava, perché era stata voluta e acquistata dalla puta Samuela – individuò la custodia dello Stradivari, giaceva lì sulla consolle in marmo, con il suo prezioso contenuto ridotto in frammenti, in attesa di un liutaio in grado di assumersi l’onere della ricostruzione. Cesara agguantò la custodia con entrambe le mani, come un battitore avrebbe afferrato la mazza da baseball, la fece roteare, alta, sopra la testa e la mandò a schiantarsi contro lo specchio.

Flavio Tondi si ritrovò a osservare i pezzi del suo Stradivari esplodere, accompagnati questa volta da un fuoco d’artificio di schegge di specchio al mercurio e legno dorato. Così, per la seconda volta quel giorno, s’inginocchiò a raccogliere pazientemente i frammenti del suo strumento separandoli da quelli dello specchio e della cornice in foglia d’oro zecchino. E mentre cercava di dividere il grano dal loglio neutralizzando la zizzania che Cesara aveva seminato, il suo pensiero, cresciuto a suon di letture bibliche materne, andò ai numeri dei versetti di Matteo; e di colpo gli fu chiaro che, nel momento esatto in cui la mano di Fedora, nel corridoio dell’Opéra Garnier, l’aveva distolto dai frammenti del violino, il suo sguardo aveva registrato qualcosa.

Numeri.

Fedora

Non sono sempre stata sola in questo palazzo.

Quando ho conosciuto Paolo aveva diciotto anni e la fame di un lupo, l’avevo raccolto all’angolo di una strada parigina mentre cercava di adescare clienti. Ho subito capito che dietro quel sorriso affamato e cinico c’era qualcosa che poteva interessare. Il ragazzo emanava energia pura, sfrontatezza assoluta, prerogative che, se ben canalizzate, potevano rappresentare una ricchezza inestimabile per noi Figli di Lucifero. Era già successo con il giovane ballerino russo, con Dimitri, la stessa energia, la stessa disinvoltura nel fare del proprio corpo mercimonio, nel disdegno della bellezza e nello sprezzo della mano di carte che la vita gli aveva servito. Anime così, forti nella loro debolezza. Dimitri era stato ucciso a causa del violino, Paolo lo avrebbe vendicato.