Raimondo di Sangro, sua madre

Napoli, Palazzo di San Severo, primavera 1759

Com’era potuto succedere che un uomo come lui si ritrovasse in quella condizione?

Senza denaro.

Vessato dalle maldicenze.

Com’era potuto succedere che un principe, alchimista, genio, ebbene sì: genio! si ritrovasse in quella condizione?

Genio… poi.

Mah?

Dubitò per un attimo.

Solo un attimo.

Subito richiamò alla memoria Carlo Magno, perché Raimondo, nel ramo paterno, annoverava tra i propri avi niente meno che il grande Carlo. Tutte le volte che suo padre, a tavola, tra un fagiano arrosto e una pernice con patate, attaccava con una delle sue solite giaculatorie dettate dalla malinconia della vedovanza e dall’arroganza del sangue, era sempre lì che si finiva, a Carlo Magno.

‘Sto diventando come mio padre?’ s’interrogò il settimo principe di San Severo. Perché se c’era un modello che non intendeva seguire, giammai, era proprio quello di Antonio di Sangro, duca di Torremaggiore, borioso e rapace libertino.

Suo padre.

La sua vergogna.

No, si rassicurò Raimondo, quel sangue non gli era passato nelle vene, e se sua madre non fosse stata la santa donna che era stata, c’era addirittura da dubitare della paternità del duca di Torremaggiore. Rinunciava anche ai presunti millesimi di Carlo Magno, pur di non aver nulla a che fare con i fluidi vitali del duca Antonio.

Ma cosa, esattamente, era andato storto?

‘La vita ci sorprende, nel bene e nel male’ si disse, ‘bisogna farsene una ragione, prima è, meglio è’. D’altra parte, proprio perché alchimista, sapeva bene come la materia fosse imprevedibile e l’impermanenza sovrana di corpi e destini. Allora perché continuare ad agitarsi? Perché non rinunciare? La rinuncia non voleva dire disdegnare, rinuncia voleva dire facilitare, semplificare, e attendere, saggiamente, la morte, la grande livellatrice.

Era tutta la vita che lottava contro la morte, la morte gli aveva strappato sua madre quando era bambino, l’ingiusta morte falcidiava con leggerezza sublime tanto il singolo cespo di insalata che finiva bollito nel suo piatto quanto il più meraviglioso purosangue della sua stalla. La morte colpiva, indifferente alla bellezza e al merito, tanto la stupida gallinella nel pollaio quanto Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, sua madre.

Ah! Sua madre, l’orribile lacerazione.

Raimondo di Sangro si piegò come se una lancia gli avesse trafitto il ventre, come se il dolore di sua madre nel partorirlo diventasse il suo stesso dolore.

Non c’era nulla che lui facesse senza dedicarlo a lei.

A lei, per lei, in lei.

L’aveva resa immortale nella statua della Pudicizia velata, commissionata al sommo Antonio Corradini: flessuosa nel suo appoggiarsi alla lapide spezzata, ricoperta da un drappo che ne occultava il corpo disvelando ancor più lo strazio della dipartita prematura.

‘Sono troppo sensibile’ si blandì il principe.

«Ignoranti, rozzi, ingrati» soffiò.

Quante leggende giravano sul suo conto in città, quanto odio. Tutte quelle storie inammissibili, si diceva che avesse ucciso sette cardinali e avesse convertito le loro ossa e la loro pelle in altrettante sedie, si diceva che metallizzasse i corpi, che ottenesse il sangue e che resuscitasse i morti.

Magari!

A onor del vero un esperimento con alcuni gamberetti di fiume aveva dato risultati confortanti.

«Ma i gamberetti non fanno testo» dichiarò.

Come le alghe essiccate che, se addizionate all’acqua, sembrano vive.

Sembrano, appunto.

Non sono.

‘La stessa differenza che passa tra l’essere e l’esserci’ filosofeggiò il principe.

A Napoli si diceva rapisse i poveri per sperimentare sui loro corpi, falsità invereconde, certo talvolta aveva comprato dei cadaveri, addirittura si preoccupava di intercettare i condannati a morte per lavorare su salme ancora calde, corpi da cui l’energia sottile della luce non fosse ancora svanita. Inutilmente. D’altra parte, un condannato a morte non poteva certo avere le prerogative di un saggio capace di morire in calma, capace di entrare nell’ultramateria con grazia, senza resistenza, abbandonandosi, quelle erano prerogative fondamentali per conservare la sottigliezza della luce, questo lui lo sapeva da alcuni maestri orientali che aveva conosciuto e che gli avevano spiegato cosa fosse la luminosità del corpo sottile. Per ora non l’aveva ancora sperimentato direttamente.

Non disperare, si prescrisse.

Ottimismo, si raccomandò.

Guardare avanti. Delle buone ragioni c’erano, per esempio seguire i progressi dei suoi giovani castrati.