Vive l’humanité! Vive la France!

Versailles, 1 agosto 1761

Aveva cacciato la cameriera dalla stanza con un gesto di stizza esagerato, la povera Marie era uscita indietreggiando in un profluvio di «vi prego madame, mi spiace madame, vogliate perdonare madame» nel paradossale, quanto umiliante, tentativo di scusarsi per qualcosa che non aveva commesso.

Madame arrossì.

Che cosa le stava capitando?

Eppure, non era nel suo stile.

Non era nelle corde della marchesa di Pompadour maltrattare la servitù, men che meno le cameriere personali, signore che la servivano con assoluta fedeltà, votate al benessere della sua persona.

Decise di ricordare generosamente Marie nel suo testamento, una bella rendita era quello che ci voleva. Sempre che a morire fosse prima lei e non la cameriera, perché, a ben vedere, quella poverina era piuttosto anziana, non diciamo con un piede nella fossa, ma sulla buona strada per infilarcelo entro un paio d’inverni. Forse, più che un’eredità, alla donna andava riconosciuto un regalo tempestivo. Sì, ma poi, come avrebbe giustificato il dono con le altre cameriere? Se escluse dalla sua magnanimità immediata si sarebbero certo risentite. Dire a Marie di tacere? No, non era una soluzione, se c’era qualcosa che a corte aveva vita breve, quella cosa erano i segreti.

Che pasticcio.

Madame la marquise restò lì, seduta sulla poltrona à coiffer, di pessimo umore, gli occhi chiusi, le mani appoggiate mollemente sul tavolo da toilette.

Rifletteva.

Uscì dallo stallo solo dopo aver preso la sua decisione, risoluzione definitiva e insindacabile. Ebbene sì, andava fatto: bisognava chiuderla con i dubbi. Agire una buona volta! Avvicinò il viso allo specchio, l’incarnato di norma luminoso era spento, gli occhi erano cerchiati e, come se non bastasse, metà testa perfettamente acconciata e metà ancora scarmigliata dalla notte.

«Pensa se ti vedesse il re…» si disse, afferrando rapida la cuffia dalla poltrona per calzarsela ben bene fino a metà fronte.

«Il re dorme ancora» si tranquillizzò, aggiustandosi un ricciolo, «ieri ha passato la giornata nel Parco dei Cervi, sarà stato stremato dalla schiera di fanciulle».

Erano mansuete come mucche le ragazze del gineceo che la marchesa di Pompadour aveva organizzato per sollevare l’umore di Luigi XV, perfette per i tableaux vivants dionisiaci che tanto piacevano a sua maestà, ottime da ingroppare, ma senza nessuna ambizione o barlume d’intelligenza.

«Per l’intelligenza basto io» stabilì ad alta voce. «Come dicono i francesi, il re regna sul Parco dei Cervi e la marchesa di Pompadour regna sulla Francia».

In quel momento, la vera fortuna della Francia era avere una favorita del suo calibro. Luigi era intelligente ma troppo introverso, non amava la gente, soprattutto gli sconosciuti, e non aveva nessuna capacità diplomatica; mentre Maria, la regina polacca, era troppo presa da sé e dall’amore per il padre lontano per pensare al Paese.

Si accostò alla finestra. Era davvero una giornata di luce gloriosa. Lasciò le tende per deviare verso il delizioso secrétaire a dorso d’asino. Ne accarezzò impercettibilmente il legno colore del miele fino ad arrivare al minuscolo rilievo di lacca color oro, allora fece scattare la serratura segreta e trasse dal mobile quanto le serviva.

Dispose fogli, penna d’oca, inchiostro, cera e sigillo sul tavolino da scrittura che aveva fatto strategicamente collocare accanto alla finestra. Su quel tavolino di legno chiarissimo, con le finiture di bronzo e le placchette in porcellana di Sèvres, aveva redatto le lettere di cui andava più fiera.

Sedette, la luce del mattino cadeva sui fogli da sinistra e la piccola mano non faceva ombra a quanto progressivamente andava componendo:

Chi scrive sono io, Jeanne Antoinette Poisson, marchesa di Pompadour.

Oggi, 1 agosto 1761, la mia vita cambia e la Francia, grazie a me, cambierà vita. Amo il mio Paese, per servirlo ho sacrificato qualsiasi urgenza personale. Al mio re Luigi XV manca, e continua a mancare, la valentia dei ministri del Re Sole e con quella mancano le vittorie militari e diplomatiche. Senza vittorie, la fiducia del popolo si stempera sino a scomparire.

Io sono una piccola donna, devota a Dio e al mio Paese, ho tentato e tento tutto il possibile per la gloria della Francia, ma è venuto il momento di prendere parte all’unica causa giusta, veritativa e superiore: la causa dell’Uomo. Con questo mio scritto io, Jeanne Antoinette Poisson, marchesa di Pompadour, impegno la mia persona a seguire gli insegnamenti del dottore e filosofo conte di Saint-Germain e, sopra ogni cosa, mi impegno a seguire il mio cuore, un cuore onesto e leale che ha per prima e sola impellenza la felicità di tutti i cuori.

Io sono io, ma sono anche mio fratello, che amo e stimo, le mie cameriere, che mi servono fedelmente e financo i miei stallieri… Io sono io e allo stesso tempo sono tutti gli esseri viventi, compreso il re: Vive l’humanité! Vive la France!

Nell’esatto istante in cui la penna vergava il secondo punto esclamativo, la marchesa percepì un trambusto nei corridoi che conducevano nell’ala nord del palazzo. Era evidente che quel vociare, quel battere di talloni e bastoni poteva solo accompagnare Luigi verso le stanze della sua favorita.

Indubbiamente le Réveil du Roi quella mattina era stato anticipato. La marchesa sentì una vampata salire dallo stomaco alle ascelle, arrossarle il collo, imperlarle il labbro superiore.

L’Umanità, la Francia, lei stessa erano in pericolo.

«Dio dammi la forza» disse, cercando di riporre velocemente i fogli.

‘E non sono neppure pettinata’ rammentò improvvisamente, nel più nero sconforto.

Il re entrò come una furia, chiudendo all’esterno della stanza il seguito vociante.

«Silenzio lì fuori!» urlò prima di sbattere la porta.

«Maestà, io…» mormorò la marchesa di Pompadour, inchinandosi graziosamente.

Luigi si avvicinò all’amica senza parlare, il suo sguardo diceva tutto, lo sguardo del re diceva: guai in arrivo.

Con un rapido gesto della mano le strappò la cuffia dal capo.

«Che cos’è questa storia? È questo forse il modo di ricevere il vostro re?»

Jeanne Antoinette Poisson marchesa di Pompadour ritenne saggio tacere e restare ferma, la testa china, immobile come un piccolo animale colto di sorpresa dal predatore.

«Alzatevi e non fate l’umile sottomessa con me, madame, io non me la bevo, attrice. Siete solo un’attrice».

La marchesa si sciolse prontamente dall’inchino per raggiungere, veloce come un fulmine, il tavolo da toilette alla ricerca di un nastro che le consentisse almeno una parziale sistemazione dell’acconciatura.

«Questa è bella, davvero bella, non posso neanche più fidarmi di voi, di voi… la mia unica amica… Amica! Cosa dico, nemica semmai… a questo punto, se è vero, e vero deve essere…» continuava a sbraitare Luigi percorrendo a grandi passi la stanza, rovesciando sedie e buttando in aria crinoline.

La marchesa cominciò a interrogarsi su che cosa o chi potesse averla tradita, eppure era certa di aver ricevuto Saint-Germain secondo il solito protocollo, regole inderogabili cui sottostavano i suoi ospiti particolari e che, fino a quel momento, l’avevano egregiamente difesa da qualsiasi incidente diplomatico. Il conte era arrivato nel suo appartamento parigino nella notte, era sceso dalla carrozza a distanza di sicurezza, aveva percorso a piedi i due chilometri di strada che lo separavano dalle braccia di Jeanne Antoinette avvolto in un mantello, mimetizzato dalla parrucca, basso lo sguardo, era poi entrato dalla piccola porticina sul retro usando una chiave che gli era stata consegnata a suo tempo in gran segreto, aveva bussato alla porta quattro volte e poi due e poi una secondo le indicazioni ricevute per lettera nel pomeriggio, e lei gli aveva aperto personalmente.

Che cosa era andato storto?

Luigi a quel punto, preda di una furia distruttrice, aveva afferrato dal portagioielli la collana di smeraldi e diamanti omaggiata alla marchesa in occasione del suo compleanno e la stava grattando contro il muro, staccando lunghe strisce di preziosa tappezzeria damascata.

«Maestà, vi prego» tentò la marchesa.

«Io vi tratto come una regina e voi mi mancate di rispetto, io vi dono il mio amore, la mia fiducia, il mio tempo, io, io, io… vi copro di pietre preziose…» Luigi si era voltato repentino verso la finestra aperta e aveva lanciato, con mira singolare, la collana in cortile.

«Oddio, i miei smeraldi» aveva mugolato la marchesa.

«I miei smeraldi» aveva gnaulato il re.

«Maestà, io…»

«Gli smeraldi sono i miei, miei… miei… miei… miei» si era messo a urlare ritmicamente Luigi pestando i piedi per terra mentre, in punta di dita, strappava minutamente una camiciola di finissimo cotone ricamato dalle suore del Gesù, un capo da camera che Jeanne Antoinette adorava.

«Calmatevi, o morirò!» La marchesa si buttò sul letto, lasciando che la vestaglia si aprisse strategicamente sopra il seno ansante.

«E morite! Morite una buona volta, che io son già morto» disse il re avvicinandosi al letto, «morite, questo meritate…» Luigi aveva abbassato lo sguardo che, intercettando le nudità di Madame, gli aveva fatto abbassare anche la voce.

«Forse conviene che vi togliate le vesti, per… meglio respirare» aveva detto, poi.

«Aiutatemi, ve ne prego» convenne la marchesa.

Il re si accostò al letto e cominciò a sfilare gonne e sottogonne. Arrivato alle mutande della marchesa le portò al naso per annusarle, ingordo.

«Il vostro odore, il vostro odore mi dà alla testa» balbettò.

«E non solo a quella, da quel che sento» puntualizzò Jeanne Antoinette, la mano destra allungata a coppa sui gioielli della Corona.

Luigi armeggiò veloce, aprì le braghe e si sdraiò sul corpo della favorita.

«Ditemi che sono il vostro re, ditemi che sono il vostro re…»

«Siete il mio re e io vi obbedisco».

«Ripetetelo».

«Siete il mio re e io vi obbedisco».

«No, ripetete solo che mi obbedite».

«Vi obbedisco, vi obbedisco» ripeté Madame infilando il dito medio della mano destra tra i possenti glutei di Luigi XV, re di Francia.

«Ahhh» gridò lui, le reni guizzanti come trote nelle regie vasche.

«Ahhh» fece eco lei, educatamente simmetrica.

Il re chiuse gli occhi e si lasciò andare a corpo morto sulla marchesa di Pompadour.

«Maestà?» pregò lei.

«Ottimo lavoro» biascicò lui scivolando su un fianco.

Dopo pochi minuti, cominciò a russare.