La solita auto blindata

Verso Parigi, aperta campagna

Avevano abbandonato l’elicottero accanto a un hangar isolato alle porte di Parigi, e dentro lo stesso hangar, Ivan si era personalmente preso cura di bloccare e imbavagliare Carlos Buyer e i due irlandesi.

«Ma li lasciamo qui? Moriranno di fame» si era angustiata Samuela.

«Non si preoccupi, Ivan verrà a recuperarli a suo tempo» aveva rassicurato Boris.

Poi erano saliti sulla solita auto blindata: Ivan seduto alla guida e Boris accanto, con un fucile mitragliatore posato sulle ginocchia. Avevano percorso in silenzio la Périphérique intasata di auto e monossido di carbonio.

Sul lungo Senna si erano infilati in un parcheggio sotterraneo. Boris era sceso dall’auto con il fucile appoggiato al fianco, mentre Ivan aveva sguainato la pistola automatica reggendola con entrambe le mani, le braccia ben tese avanti. Dopo una rapida valutazione della situazione, i due si erano scambiati un cenno, poi Samuela e Flavio, cui Boris aveva affidato i violini, erano stati fatti scendere a loro volta dall’auto e indirizzati verso l’uscita.

«Vite, vite» aveva intimato Ivan.

Era la prima volta che il pilota di elicottero si decideva ad aprire la bocca.

Una volta raggiunto l’ultimo piano, aveva abbassato la pistola e Boris infilato il mitragliatore sotto la giacca; poi, usando una chiave che teneva agganciata a una lunga catenella che portava al collo, aveva aperto quello che sembrava essere un armadio tecnico. Aveva quindi digitato un codice su una piccola tastiera fiocamente illuminata, e una porta mimetizzata si era aperta.

«Seguitemi, veloci e in silenzio».

Le strette scale di vecchio legno scricchiolante erano coperte da un tappeto di panno rosso, liso e impregnato dell’odore di cibo cucinato. Da lontano arrivava il suono di un clavicembalo.

«Mozart, ouverture del Don Giovanni» riconobbe immediatamente Flavio.

«Silenzio» ribadì Boris aprendo una porticina minima. «Entrate, siamo arrivati. Ivan, tu torna all’ingresso e resta di guardia» ordinò, poi accese la luce, svelando una stanza immensa.

Il pavimento ligneo era seminato di minimi intarsi policromi, le pareti ornate di grottesche erano intervallate da specchiere che, partendo dal pavimento, raggiungevano il soffitto dove un cielo magistralmente affrescato veniva attraversato da nuvole veloci. Piccoli putti volavano leggiadri al centro della volta, a filo della quale correva una lunga loggia delimitata da balaustre intarsiate d’oro.

«Guarda» disse Flavio a Samuela, indicando affascinato la balconata, «il loggiato destinato ai musici».

«Così la musica cadeva dall’alto, come una creazione divina» commentò lei.

«Tesi suggestiva, mia cara, ma la ragione della balconata è che, in passato, i miei poveri colleghi non potevano stare a contatto stretto con la nobiltà».

«Giusta osservazione» confermò Boris, «mai fermarsi a una prima superficiale valutazione, dottoressa Bravermann, per esempio: queste magnifiche specchiere potrebbero essere lette come esibizione di sfarzo. Invece la loro funzione è soprattutto quella di illudere, ampliare l’ambiente in un gioco illimitato di riflessi e rimandi».

«Molto interessante, Boris, e che cosa mi dice del tavolo al centro della stanza? Una mensa per nobili banchetti sottolineati dalle note di musici sospesi a distanza di sicurezza?» rilanciò Samuela.

«Questo tavolo appartiene a un’epoca in cui i nobili non si sedevano intorno a un tavolo per mangiare. Fino al Settecento non era previsto il tavolo da pranzo: i tavoli servivano per giocare alle carte, per scrivere o per dipingere, e questo fu costruito da un artigiano tedesco per una nobildonna che amava imbrattare di colore grandi tele che regalava poi ai suoi amanti… ma, quest’oggi, ospiterà i nostri violini» concluse Boris appoggiando le due custodie sul piano orizzontale rivestito da un drappo di finissimo lino bianco.

Fu a quel punto che Fedora fece il suo ingresso nella stanza. «Maestro Tondi, finalmente! Sono così contenta di rivederla nella mia casa, o meglio, nella nostra casa» esordì la sarta lanciando un’occhiata di complicità a Boris. «Lei mi ha sempre fatto simpatia, un dono per l’Umanità… ma voglio presentarle un altro dono per l’Umanità, il mio discepolo più caro, colui che mi ha insegnato tanto poiché, come diceva il maestro Da Ponte, ‘si impara di più dai buoni discepoli che dai buoni maestri’» disse Fedora indicando Paolo che, vestito da motociclista e reggendo tra le braccia un violino, entrò deciso nella stanza.

«Paolo!» Samuela non riuscì a trattenere un’esclamazione di sorpresa.

«Ciao, Samuela». Il ragazzo fece un timido cenno di saluto e posò il violino accanto agli altri due strumenti.

Il maestro Tondi percepì immediatamente il sottile filo di imbarazzo, teso tra il ragazzo in tuta attillata e l’amore della sua vita: «Scusate… voi due vi conoscete?»

«Sì, vagamente» intervenne prontamente Samuela, cercando di sembrare disinvolta. Fedora le venne in aiuto,attirando l’attenzione di Flavio: «Questo è il momento che noi conti di Saint-Germain abbiamo atteso per secoli, il momento di ricostruire la musica che abbiamo protetto al prezzo di tante vite, la musica che ha fatto tremare i cuori dei potenti e armato il loro braccio contro il genio e l’innocenza. Finalmente il violino che abbiamo custodito potrà riunirsi agli altri due per compiere la nostra opera, dare vita all’estremo gesto che giustificherà ogni sacrificio. Avvicinatevi e contemplate con me, condividete questo privilegio».

«Prima di accettare il privilegio gradirei ricevere qualche altro chiarimento» intervenne Flavio. «Fedora, o mi spiega che cosa sta succedendo, oppure mi consegnerò alla prima gendarmerie che incontro e racconterò tutto quello che ho visto in questi ultimi giorni».

«Da dove vuole che cominci?» acconsentì Fedora.

«Cominci da Mozart, cominci dall’ouverture del Don Giovanni» rispose Flavio.

«Allora sarà bene che ci accomodiamo» suggerì Fedora. «I signori potranno utilizzare le bergères che sono così comode per la conversazione, mentre io e lei, dottoressa Bravermann, prenderemo posto su questo divanetto che tante volte ha accolto la marchesa di Pompadour e il mio avo Saint-Germain».