Concertato di fine atto

Parigi, Palazzo dell’Eliseo, appartamento privato di Madame de Pompadour, 9 aprile 1764

Madame stava seduta al fortepiano, regalo del suo re, un Cristofori del 1726, strumento di legno scuro arricchito con tessere avorio che, all’interno del coperchio, portava intarsiata l’introduzione dell’arioso dell’Armide di Lully: Enfin il est en ma puissance.

Dopo aver anticipato al conte di Saint-Germain le sue impressioni entusiastiche su quello che immaginava essere il Puledro dorato, Jeanne Antoinette aveva voluto riunire i suoi amici più cari perché facessero la conoscenza del piccolo Mozart, in un ambiente intimo e rilassato: un concerto privato. Lei sapeva che il bambino avrebbe destato grande scalpore.

Il cameriere annunciò l’ingresso di Raimondo di Sangro principe di San Severo accompagnato dal suo segretario personale, il signor Salvatore Arrivabeni, e dal giovane castrato Venanzio Rauzzini. Era la prima volta che il Rauzzini visitava Parigi, ma molto si diceva di lui nei teatri di tutta Europa, della sua voce e delle sue imprevedibili capacità amatorie, e questa era l’unica ragione di distrazione dalle aspettative che madame nutriva e coltivava nel suo cuore sulla sorpresa che il piccolo Mozart avrebbe sicuramente destato nel suo salotto.

Le ottimistiche attese della marchesa furono ampiamente soddisfatte dal fascino emanato dal giovane castrato: di statura media, capello riccio e nero, occhi color del mare in tempesta segnati da eleganti sopracciglia e ombre azzurrine, gli abiti nascondevano a stento il gioco dei muscoli di un adolescente cresciuto in campagna, abituato a zappare la terra e montare asini recalcitranti. Tutto in lui parlava di vigore, resistenza e rabbia. ‘Torbido’ lo definì la marchesa nel pensiero, torbido e attraente come doveva essere Rocco da ragazzo, sentì un calore benevolo nascerle in petto e salire verso la gola. Capì di arrossire e si irritò.

«Bene, principe, vedo che mi avete portato un bel regalo» esclamò la marchesa senza distogliere lo sguardo dal Rauzzini.

«Il regalo lo state facendo voi a noi, madame» replicò San Severo, «siamo tutti impazienti di conoscere la vostra scoperta, il piccolo Mozart, il nostro futuro protetto».

Qui non mi ci trovo bene, la sala è bellissima, ma parlano francese, anche il principe parla francese con… «madame», ma io a parte un bonjour bonsoir e un merci altro non capisco. Col tedesco mi son trovato meglio, sarà che le femmine di là se c’è una cosa che tengono è la pazienza, mentre qui le femmine… mi sembran secche, lontane, chissà che fico rinsecchito tengono tra le cosce, qui ce ne sarebbe di lavoro da fare, che forse manco uno come me, che Pinuccia gli ha imparato a leccarla, riuscirebbe a cavar del succo da ’sti acini d’uva passa.

Eppure mi guardava… è arrossita. Cazzo sì, sì, è arrossita, e ancora guarda, si tocca il nastro intorno al collo, parla al principe e poi… ecco mi guarda, mi guarda tutto. E io le ficcherei la lingua in culo alla grandama che ancora guarda e sorride, mi parla; parla parla… tanto non capisco un cazzo, eppure, sono sicuro che la dama, sotto sotto, se la potessi curare io, giusto un’ora, altro che fortepiano, che qui ho già capito che non si mangia ma si suona, vorranno farmi cantare, invece se avessi della ricotta fresca gliela sbatterei tra le cosce e gliela mangerei.

«Sì, oui?» ma che cazzo mi chiede? «Come? Contralto?»

«No, madama la marchesa, sono soprano» rispose garbatamente il Rauzzini.

«Come vi ho anticipato» si intromise il principe, «il signor Rauzzini ha studiato con il Porpora, uno dei più fulgidi esempi di tecnica vocale della scuola napoletana, che accoppiata al dono della sua voce ha sortito un risultato inimmaginabile fino a questo momento».

«E il Farinelli, dunque?»

Madonna sull’asino che scappa in Egitto… staranno parlando ancora di ’stu cazzo di Farinelli… un tormento. Farinelli di qua Farinelli di là, anche a Monaco, i nobili, i musici, a parlarmi di ’stu Farinelli, poi appena finivo la prima aria tutti a farmi le pompe…

In quel momento il cameriere di Madame annunciò:

«Il conte di Saint-Germain e il signor Jean-Marie Leclair».

Eccolo, Rocco.

Mi ha detto: Venanzio tu il pugnale lo sai usare e allora portalo sempre con te.

Anche stasera l’ho portato e lo sento freddo sulla coscia, per nasconderlo ho messo le braghe più larghe.

Il mio pugnale.

Non lo uso da tempo su un cristiano, ma sono diventato veloce e quello stronzo di sicario a Monaco ancora se lo ricorderà su quella faccia di merda che tiene sfregiata.

La Maronna, come si guardano lui e madama la marchesa.

Hanno fottuto, sicuro!

Sì, sì sorridetevi, fate finta di niente fate i signori, i gentili, ma io vi leggo la vita, e bravo il conte…

«Bravo conte che avete invitato il dilettissimo signor Leclair» approvò Madame.

Jean-Marie Leclair accennò un inchino e un sorriso garbato.

«Marchesa, il vostro salotto è per me rifugio e fonte di grande conforto, non vedo l’ora di conoscere il fanciullino virtuoso, ho già incontrato il signor Leopold Mozart in altri frangenti, e la mia stima va a lui e alla sua sorprendente famiglia».

Mozart.

Otto anni, ha otto anni.

Perché dovrebbe essere in pericolo? Chi lo vuole morto? Non mi ha detto molto il principe e neanche Rocco, neanche Marius e Albert.

Albert, vestito da cameriere, sembra un altro.

Sono entrato e quando mi ha aperto mi ha fatto l’occhiolino e ho capito, chissà dov’è Marius? Per quello che ne so sarebbe capace anche di trasformarsi in quella statua di Diana al centro del tavolo.

«Il signor Leopold Mozart e i suoi figli» annunciò il cameriere.

Sulla porta comparve un uomo dignitoso e conformato ai costumi dell’epoca: diritto al punto di essere imbustato in un’inquartata nera da cui spuntavano ai polsi e al collo modesti jabot appena accennati: più un tutore che un padre, Leopold Mozart.

Teneva per mano due fanciulli, una femmina e un maschio. La femmina somigliava al padre per postura e serietà del volto: sull’attenti, lo sguardo consapevole di dove si trovasse e che cosa fosse venuta a fare. Al contrario il fratellino sembrava agito dallo spirito di un lepricorno dispettoso: lo sguardo viaggiava veloce nella stanza su arredi, volti, vestiti, e mentre la mano sinistra, tenuta dal padre, era ferma, costretta nella presa, la mano destra disegnava nell’aria scale e arpeggi che solo lui poteva udire, quasi fosse scisso tra convenzione e genio, forma e invenzione, regola e ispirazione.

Ahahahahah, il piccinino ci ha il tormento nell’anima, non si siederà mai sulla panchetta a toccare il fortepiano, mi ricorda a me, quando ero piccolo, alle prime lezioni di solfeggio e spinetta, quante mazzate. Ma come si fa a stare fermi, io lo capisco, anche adesso che so’ grande, qui staccherei le tende darei fuoco ai quadri e mi fotterei anche ’sta ragazzina, secca secca, appena più piccola di Pinuccia, ma Pinu’…

Ecco, ancora in francese parlano, e io non capisco un cazzo…

«Pregiatissima madame» urlò il bambino staccandosi dalla presa del padre per gettarsi di corsa ai piedi della marchesa di Pompadour, «permettete ch’io vi baci gli scarpini e che i miei bacini risalgan come topolini, rapidi sulle vesti finché sul vostro nobil petto un bacio io metto, o sul palmo della mano che tanto, tanto…»

Leopold sopraggiunse alle spalle del piccolo assestandogli una sberla che gli spostò la parrucca sulla fronte:

«… amo, che tanto amo, vi amo, padre… e amo anche madame» continuò il bambino rialzandosi da terra, scappellandosi la parrucca in un inchino.

Il silenzio imbarazzato nella stanza fu rotto dalla squillante risata del Rauzzini che presto coinvolse tutti i presenti, tranne il signor padre: serio, rigido, gli occhi negli occhi del piccolo, mentre la bambina disapprovava, lo sguardo all’insù.

Madame de Pompadour, come ogni buona padrona di casa, si preoccupò di distendere l’atmosfera lanciando lieve un’osservazione salottiera sull’acconciatura della piccola.

«Nannerl, che delizioso nastro azzurro avete tra i capelli, è stata la vostra signora madre a sceglierlo?»

«Vi ringrazio marchesa, il nastro l’ho scelto io, la mamma è restata a Salisburgo, ci scriviamo sovente però».

«Mia figlia in questo viaggio si è dimostrata all’altezza di una donna adulta, tanto nello studio quanto nel badare a Wolfgang Amadeus» si inserì Leopold, accarezzando con lo sguardo la bambina.

«La sorella mi bada, ma io dico sempre… bada alla sorella, che se non fosse per me non scriverebbe una nota, perché il mio signor padre vuole che lei suoni, che suoni, che suoni… ma compone come un campione».

«Taci sciocco, che nostro padre ha ragione» asserì la piccola cercando con lo sguardo Leopold, «nostro padre ha ragione, io non devo comporre ma, come figlia obbediente, rinunciare alla creazione in favore dello studio e dell’esecuzione» prese fiato Nannerl, «anche voi marchesa toccate la tastiera e sapete quanto esiga devozione».

«Devozione!» urlò Amadeus andandosi a sedere in grembo al Rauzzini. «Devozione e dedizione, anche in questo mia sorella è un campione» urlò ancora, per poi avvicinarsi all’orecchio di Venanzio e sussurrargli in italiano: «Tu sei il castrato, vero? Io odio la voce dei castrati».

’Sto impunito di merda.

La prima frase che capisco oggi è un insulto fatto da ’sta scimmia imparruccata.

Mo’ gli do un pizzicotto e gli faccio il culo viola.

«Ahi» urlò il piccolo abbandonando di scatto le ginocchia del Rauzzini per raggiungere il padre, afferrargli la mano e, questa volta, aspettare compostamente consegne.

Ti brucia il culo eh! Altro che Puledro, una scimmia sei, e la profezia te la faccio io, che non riesci più a sederti per un’ora!

«Bene» richiamò all’ordine la marchesa abbandonando il fortepiano con un elegante guizzo, «vorrei che, a questo punto, la nostra piccola ospite prendesse il mio posto e ci deliziasse. Che il concerto cominci».

Nannerl raggiunse lo strumento, portò le vesti in avanti, raccogliendole in grembo per sedersi sulla panchetta, intrecciò le mani e chiuse gli occhi. Respirò a fondo, poi il suo corpo mutò linguaggio: ogni muscolo, nervo o tendine si attivò al fine di produrre suono, ritmo, fraseggio, musica. E mentre le sue dita volavano sicure sulla tastiera, tutti i presenti tacquero attenti, anche l’irrequietezza di Amadeus scomparve e tanto il bambino quanto Leopold cominciarono a respirare in accordo con la terza persona che in quella stanza rispondeva al nome di Mozart.

Appena conclusa l’esecuzione, la piccola Nannerl con una breve rotazione del torso andò a cercare l’approvazione negli occhi di suo padre.

«Meraviglia!» commentò la marchesa. «Quest’oggi la grazia vola nel mio salotto».

«Grazie, madame» replicò Amadeus, «questo minuetto l’ho composto io, in vostro onore, dopo il concerto di Natale non vi ho dimenticata, sapete? Non vedevo l’ora che voi…»

«Amadeus!» lo interruppe Leopold. «Chetati e prendi il posto di tua sorella, il tuo momento è venuto». Poi, rivolgendosi agli astanti: «Se lor signori gradiscono, visto che questa stanza accoglie maestri inarrivabili come il signor Leclair, ecco, vorrei passare dalla pratica alla grammatica. Il mio piccolo vi intratterrà descrivendo l’argomento che stiamo studiando in questi giorni, la fuga».

Amadeus raggiunse il centro della sala e s’inchinò:

«Vostre grazie, amato padre. Più che della fuga, vi parlerò del concertato».

«Wolfgang, ti ho chiesto un’altra cosa» lo interruppe il padre.

«Ma allora così giovane amate l’opera» si inserì il principe di Sangro. «Noi, a Napoli, anche a questo proposito siamo il centro del mondo».

«Ah, Piccinni» approvò entusiasta madame, «sarà passato solo un mese che abbiamo letto al cembalo con il conte di Saint-Germain la sua Cecchina ossia la buona figliuola

«Ma v’immaginate un’opera in cui la serva è protagonista e la signora marchesa antagonista» argomentò il conte, sventolando vago il fazzoletto.

La Cecchina ha arie bellissime, certo che non potrò mai cantare l’aria più bella in teatro, in teatro appunto ma qui…

Improvvisamente la voce del castrato si alzò potente:

 

Furie di donna irata

in mio soccorso invoco…

Amadeus raggiunse il fortepiano e cominciò sicuro ad accompagnare il Rauzzini:

«Con le variazioni, italiano!» invitò.

 

… ah, che mi accresce il foco

un disperato amor.

Quando Venanzio ebbe terminato la cadenza finale, s’inchinò e disse:

«Finalmente ho parlato anch’io».

Mozart staccò le mani dalla tastiera e cominciò ad applaudire.

Tutti lo seguirono divertiti.

Il Rauzzini si accostò al piccolo sussurrandogli nell’orecchio:

«Io sono Venanzio Rauzzini musico soprano».

Gli parlo in tedesco che magari pensa che sono meno scemo.

Si gira, mi guarda, mi prende la faccia e mi bacia, ride e si avvicina all’orecchio:

«Venanzio italiano castrato, avete la peggior pronuncia tedesca mai sentita… ma la voce, la vostra voce! Un giorno scriverò cose solo per voi…»

«Exultate Jubilate, gentes, oggi ho conosciuto chi mi aiuterà a proteggere il mondo dagli incubi, costui è grande, ma questa è una voce sola, questa è una grande aria, ma è una voce sola. Il concertato, dicevo, invece…»

«Amadeus!» rampognò Leopold.

«Fatemi giocare, padre; immaginate questa stanza: è il palcoscenico, e noi dobbiamo fare un concertato, ovvero una scena che chiuda un atto in cui tante voci cantano insieme, come tanti fili di diversi colori che si annodano e formano un tappeto prezioso, eh? Ora devono entrare i personaggi, secondo le buone maniere il primo sarà sicuramente il cameriere…»

Tutti rivolsero lo sguardo verso Albert travestito, ritto vicino alla porta.

«… Il cameriere affaccendato nel salone appena entrato, spolvera qui spolvera là, apre le tende e se ne va, ecco il primo tema…»

La mano sinistra del piccolo cominciò a suonare una frase ritmata semplice, ma efficace.

«… tempo di due quarti, signori, perché questo cameriere non è un cane e marcia su due gambe, proprio come il tempo di due quarti, che ha un uno e un due, una destra e una sinistra…» continuò il piccolo, sviluppando la melodia.

Tutti gli astanti, tranne Leopold e il cameriere, sorrisero deliziati.

«Entra ora Madama, la bella sottana, la blusa strana, lei non marcia bensì plana, come volatile…»

«Amadeus!» tuonò Leopold.

«Padre, scusate, mi stavo perdendo, ma dicevo Madama…» Il piccolo accennò un inchino alla volta della marchesa, continuando a suonare, arringando in rima.

«… Madama non marcia, ma vola nel salone come splendido…» guardò incerto il padre, «… airone? Ebbene sì, airone!»

«Amadeus!»

«Lasciatelo continuare, signore, vostro figlio è una delizia per le mie orecchie» intervenne benevola la marchesa.

«Dicevo, airone che si posa sul davanzale e… pensa a me, ma canta in tre!»

Wolfgang Amadeus cambiò ritmo e passò in tre quarti, poi intonò il canto:

«Attendo il piccino per dargli il bacino…» imitando la erre arrotata di Madame.

Tutti risero, anche il padre.

«Ma ora entran tutti, belli e brutti, ecco il principe napoletano, che di opera sa e di vulcano; a seguire il damerino con la faccia da tacchino».

Il piccolo modulò in minore con la tipica scala napoletana cantando:

«… Gira gira il mappamondo gira gira gira in tondo che Napoli è al centro del mondo…» La nuova linea del canto cominciava ad annodarsi con quella precedente della marchesa sul basso ostinato del cameriere.

Partì l’applauso.

«Apettate lor signori, manca il musico soprano manca il conte, mancan gli ori; il virtuoso del violino, manca il padre, il figliolino per non dir della sorella, manca lei, sì pure quella».

Vorticoso cominciò un fugato al fortepiano, interpretando con la sua sola voce tutti i personaggi:

Madame – Nastro azzurro delizioso…

Nannerl – Anche il vostro è assai grazioso.

Saint-Germain – Lo serbate per lo sposo?

Nannerl – Son piccina conte caro…

Marchesa – È piccina la bambina, ora bada al fratellino

Leclair – E lui suona anche il violino

Leopold – Amadeus, Amadeus!

Principe di San Severo – Venga a Napoli l’infante

Arrivabeni – Col fratello

Rauzzini – Quel brigante

Leopold – Amadeus, Amadeus!

Leclair – Suona viola e violoncello

Rauzzini – Quella scimmia del fratello

Leopold – Amadeus, Amadeus!

Principe di San Severo – … E in Italia, tutti in viaggio…

Saint-Germain – A goder del paesaggio…

Nannerl – … Con al collo il mio bel fiocco…

Rauzzini – E per mano quello sciocco

Leopold – Amadeus, Amadeus!

Arrivabeni – Quella scimmia, quel farlocco

Principe di San Severo – Il suo vispo fratellino…

Marchesa – Che si merita un bacino

Tutti – Amadeus, Amadeus!

Una risata riempì la stanza.

«Alt, non è finita qui» affermò il piccolo Mozart con voce sicura, «non è finita qui signori, adesso arriva il dramma!» continuò il bambino modulando in minore con accordi gravi.

Tutti tacquero.

«Anche se non lo sapete si nasconde tra le sete, il signor, l’antagonista or si aggiunge a questa lista, alto e bianco di capelli, un bastone tra le mani, vacui gli occhi e senza denti, si avvicina tra i presenti, non è solo il graaaaan cattiiiiivo, un signore ha per compagno, ma che dico, un signore è poca cosa…»

Amadeus drizzò la schiena, sorrise e con due accordi strappati concluse:

«Chi accanto gli sta… è la nostra maestà!»

Tutti gelarono e si voltarono verso la porta.

Luigi XV avanzò nella stanza, il silenzio rotto solo dalla risata del piccolo Amadeus, mentre il barone von Tintenfisch, senza abbandonare la postazione tra i tendaggi, minacciò:

«Inchinatevi al vostro re, signori».

Tutti si alzarono dalle loro sedute, la marchesa cercò con lo sguardo Rocco, a sua volta impegnato a individuare Albert sparito dal vano della porta, il principe di San Severo, pur inchinandosi, cercava obliquamente gli occhi di Arrivabeni, che teneva il polso del Rauzzini per costringerlo a sottomettersi, mentre Leopold come un cane pastore era occupato a radunare i figli e imporgli la dovuta riverenza.

Raggiunto il centro della stanza e controllato che tutti fossero opportunamente piegati davanti alla sua maestà, Luigi accennò un applauso:

«Alzatevi, signori» invitò, poi vagamente: «Mi compiaccio, madame, il vostro salotto è sempre ben frequentato…»

«Un piccolo concerto privato, maestà…» accennò Jeanne Antoinette Poisson marchesa di Pompadour.

Il re di Francia la zittì con un cenno della mano destra.

«Certo, un concerto privato, un raduno di anime elette».

Nel silenzio della stanza il re sentì dentro di sé crescere l’irritazione:

«… E dunque, perché non mettermi a parte di tanta bellezza, perché non coinvolgere la mia maestà?»

Il conte di Saint-Germain, preoccupato di dove Albert fosse finito, ascoltava il re senza perdere di vista il barone von Tintenfisch.

«Voi forse non mi ritenete all’altezza, madame, non ritenete all’altezza il vostro re?» continuava Luigi. «Voi e i vostri musici, i vostri teatranti, i filosofi e i trasformisti di cui vi circondate pensate sempre di essere superiori, pensate che l’arte possa ignorare il potere; e invece no, mia cara».

«Vi sapevo impegnato, maestà, il mio salotto è sempre aperto per voi e i vostri ospiti. A questo proposito, volete di grazia introdurci il vostro accompagnatore?»

«Certamente, cara amica, adesso il re annuncia come un cameriere… D’altra parte i tempi cambiano, vogliate allora, lor signori, salutare il barone von Tintenfisch!» esclamò Luigi.

Tintenfisch fece un passo in avanti e si piegò seccamente, poi si avvicinò ad Amadeus e accarezzando lieve il capo del piccolo dichiarò:

«Ho apprezzato molto l’esibizione di questo fanciullo. È pur vero che io sono uomo di guerra, ma davanti a tale potenza, nonostante il mio strumento privilegiato sia la spada, non ho potuto non afferrare che, di fronte a me, la bellezza stesse dispiegandosi in gran galoppo, il galoppo di un puledro…»

«Il Puledro dorato!» urlò Luigi XV, re di Francia.

«Un concerto pieno di grazia, la musica è sempre molto istruttiva, mi inchino a lor signori» completò il barone von Tintenfisch.