Paradisi gloria

Sulla strada per Calais, 10 aprile 1764, notte

«Frusta ’ste bestie, frustale Venanzio che ci stanno appresso!»

Marius urla, mi sta di fianco seduto sulla panca di guida della vettura.

La carrozza ha due coppie di castroni bai che si buttano nel buio, e noi con loro fino al fondo della notte.

E io frusto.

Marius ha perso la parrucca, la luce delle lanterne a petrolio delle carrozze lo illumina, non l’avevo mai visto così da vicino.

È senza capelli, ha occhi verdissimi.

È vecchio.

Il conte di Saint-Germain.

Quando ha fatto entrare i due bambini e il loro padre in questa carrozza ha combattuto, ha ferito, ha ucciso, e ha perso la parrucca.

«Dovrai superare ancora due foreste e tre ponti, Venanzio, poi la strada uscirà dagli alberi e lì vedrai una pianura fino al mare».

E io frusto.

Siamo sporchi di sangue, ma lui di più.

Ne abbiamo uccisi tre, io con il pugnale ho sgozzato il primo e lui con la spada ha infilato gli altri.

Poi quello sparo.

Tintenfisch l’ha colpito, alle spalle.

Sempre alle spalle arrivano i demoni e ti fottono e ti spezzano le ali.

Mi si appannano gli occhi per l’aria fredda.

Io sono Venanzio Rauzzini e stringo le redini da non sentire più le mani, guido il galoppo dentro la notte, ancora e ancora.

Veloce.

È successo tutto così rapidamente.

Si rideva, si applaudiva, poi è arrivato il re con il vecchio bastardo senza denti.

Il Puledro dorato… ha detto il re.

Tutti i cuori hanno smesso di battere.

L’ha condannato a morte il bambino, sì, perché lo vogliono morto, me l’ha spiegato il principe di San Severo, hanno paura che porti lo sconquasso con la musica, hanno paura che il mondo faccia la rivoluzione.

Un bambino che pare una scimmia con la parrucca, che suona come mille virtuosi, fa la rivoluzione.

Che stronzata!

«Venanzio, se ci pigliano ci scannano tutti come maiali».

Marius indica i Mozart all’interno della vettura, ora ha poca voce e il posto di guida è allagato dal sangue, il suo sangue.

Gli alzo la cappa, ha il fianco squarciato dal piombo della pistola.

Mi viene il vomito, respiro.

Mi tolgo la sciarpa di seta e gliela premo sulla ferita più grande.

Urla.

Quanto sangue.

Un sobbalzo, un altro, forte.

I cavalli scartano a destra, quasi cadiamo di sotto.

«Tieni la strada Venanzio, guida!»

Stringo le redini e guardo dietro: le luci della carrozza che ci insegue sembrano occhi di un mannaro enorme.

Frusto, passo il primo ponte ed entro nella foresta, la strada è dritta, buia.

In lontananza lampi, e io dentro la notte, ancora.

E ancora.

Il re fissava Madame de Pompadour, Tintenfisch era in attesa, aspettava sospeso.

Lei immobile ha sorriso ai Mozart, che sono partiti con Salvatore Arrivabeni «… per lasciare Parigi…» ha detto, accarezzando il nastro azzurro della bambina, poi un cenno ad Albert che li ha seguiti scortandoli fuori dal salone dopo gli inchini di rito.

Io non riuscivo a respirare.

Ora il rumore delle ruote è sordo, si impastano con la terra umida, perdiamo velocità.

Devo andare avanti.

Frusto, fa freddo.

I lampi si avvicinano, vedo i bagliori da dentro la foresta, tra le fronde, i cavalli stanchi resistono.

Mi volto e gli occhi del mannaro sono sempre lì, fissi.

Sempre lì, come erano gli occhi del re, sempre lì, fissi su Madame.

Io cercavo Rocco, il principe di San Severo era immobile, e Tintenfisch teso e pronto come un serpente che sospende il respiro, pronto per l’attacco, e Leclair, dov’era Leclair?

Gli occhi del re erano sempre lì, fissi su Madame.

Poi un sussurro:

«… per lasciare Parigi…»

Il sussurro di Luigi XV per scatenare l’inferno.

Il re si è voltato in fretta e Madame lo ha seguito, mentre alcuni uomini ci bloccavano, altri armati di spada e schioppo seguivano Tintenfisch lanciato verso le sue prede.

Raimondo di Sangro è stato il primo a colpire, con uno stiletto estratto dal bastone.

Io sentivo il coltello premermi sul corpo, poi l’hanno sentito loro: nel collo e nel petto, una ferita, poi un taglio mortale.

Rocco con la pistola sparava sui sicari.

Corpi per terra.

Tanto sangue.

E poi di corsa fuori dal salone, all’inseguimento, e in fondo al lungo corridoio, l’orrore: Albert tenuto al collo da Tintenfisch.

Albert che interpretava il cameriere di Madame.

Tintenfisch l’aveva sfregiato in modo orribile, gli aveva aperto la bocca dal lato destro fino all’orecchio urlando: «Un Saint-Germain in meno, ora hai perso il dono dell’ubiquità, pagliaccio».

Albert privato del potere più grande dei Saint-Germain, quello di trasformarsi e giocare la parte di chiunque altro.

Albert senza metà faccia, la bocca aperta fino all’orecchio grondava sangue e mostrava il ghigno del teschio.

Il vecchio porco ha urlato ai suoi sicari:

«Prendete il Puledro, macellatelo!»

Si è lanciato di nuovo all’inseguimento.

E noi dietro.

Stiamo uscendo dalla penultima foresta.

Un fulmine vicino, il tuono lo segue, Marius geme a ogni sobbalzo della carrozza:

«Venanzio, se perdo i sensi, spingimi giù dal terzo ponte, così siete più leggeri».

Vuole che io lo butti dal ponte?

«Ma che cazzo dici? Statte zitto Marius» gli grido, «mo’ arriviamo».

Poi penso che arriviamo sì, ma arriviamo dove? E che faccio quando arrivo non so dove? E poi? Che cosa succederà?

Frusto ancora.

Rocco ha soccorso Albert, poi ha urlato di scendere nel cortile dove Marius stava alla carrozza per caricare i Mozart, condurli a Calais e imbarcarli per l’Inghilterra.

I sicari ci hanno inseguito con gli schioppi, io ho usato ancora il coltello, Marius la spada, Tintenfisch la pistola.

Rocco ha sparato, ucciso altri sicari.

Nel buio del cortile si vedevano altri lampi, si sentivano i boati degli spari, il principe di San Severo ha eliminato con un colpo di schioppo una guardia e ha aperto il portone.

Sono saltato sul posto di guida della carrozza, non mi sono accorto che Marius stava per essere giustiziato dal vecchio bastardo sdentato che lo teneva al collo.

L’ha salvato Rocco: ha colpito Tintenfisch con il calcio della pistola ormai scarica e il mostro è crollato al suolo.

Finalmente il portone era aperto.

Marius stava salendo al posto di guida della carrozza.

Lo sparo.

Vedo Tintenfisch dal selciato del cortile con la pistola fumante.

Marius che urla.

Lo tiro su a bordo, di fianco a me.

Via da quell’incubo.

Le nuvole sembrano enormi tra gli alberi e i rami della foresta, frusto e ancora frusto.

E Leclair… non ho più visto Leclair.

Io sono Venanzio Rauzzini un coglione di musico soprano inutile, ma domattina giuro che vedrò l’alba, quanto è vero che ho la voce più bella mai udita in Terra, porto a casa la pelle stanotte, e Tintenfisch, il re, il Papa e tutti i loro cortigiani possono andare a farsi fottere.

E pure Farinelli!

Andate a farvi fottere, figli di puttana, vi odio.

Un lampo, un tuono, vicini.

Sento il peso del corpo di Marius, con la mano sinistra mi serra il braccio per non cadere dalla carrozza.

Poi i primi spari.

E io frusto ancora.

Appena fuori dal palazzo Rocco mi urlava da lontano: «A nord!»

Che cazzo ne so io dov’è il Nord…

«Per questo sono qui con te…» mi aveva soffiato Marius, mentre uscivamo da Parigi.

Cadono gocce, le prime, quelle grosse, quelle del temporale.

In fondo vedo il penultimo ponte, poi ancora un bosco.

Tutti questi morti per un bambino, per la Profezia.

Quante cazzate!

Tintenfisch ha giocato con i potenti, i re e le corti, usando la loro paura.

La conosco la paura, tutti la conoscono, una nebbia nera che si trasforma nelle facce, negli odori, nelle cose che servono per farci morire.

La paura vince sempre mi diceva il mio maestro, il Porpora, anche nel canto è la paura che ti suggerisce l’errore, ti fa sentire inutile, ti fa vedere il limite.

La produciamo noi la paura, noi produciamo profezie per paura, perché non sappiamo usare il coraggio, la speranza…

La speranza.

Sono stato venduto da mio padre, ho visto mia madre piangere, i miei fratelli manco li ricordo, sono stato preso nella notte mentre dormivo, tagliato e castrato, con san Domenico che mi parlava, ho cantato e cantato e studiato, ripetuto e ripetuto per stare finalmente in teatro e appeso ma non come un angelo, come un maiale squartato col mio fratellino Ferruccino. L’ho visto cadere, l’ho visto morire. Ho sentito il barbiere ridere. Pasquale Canessa si chiamava il barbiere, l’ho sventrato mentre scopava a Pinuccia, Pinu’… poi ho chiamato la sua anima, ho cantato per il barbiere. Pasquale Canessa si chiamava e l’ho aiutato a partire.

E ho cantato, e cantato per mezzo mondo, ho imparato ad amare, e anche senza coglioni mi sono fottuto tutta la Baviera, con dolore con rabbia con vendetta.

È il dolore dell’abuso che mi tiene in vita, quel furore che mi fa resistere sempre e nascondere il mio segreto, la mia impotenza, la mia paura.

Ma ora ho capito, ho capito che sono semplicemente straordinario, perfettamente imperfetto, così unico.

Io, Venanzio Rauzzini da Camerino, musico soprano, castrato, che grazie a quel fottuto dolore, quel taglio, quella furia che mi spezza i denti ogni notte, ora, per il mio impeto e la mia arte, so di essere immortale.

E così rido mentre frusto, mentre il temporale impazza, rido forte, come un folle e Marius mi guarda, non capisce, così urlo: «Non ho paura, non ho più paura».

Guardo Marius, mi sorride, ha il viso bagnato ma non so se sono gocce di pioggia o lacrime.

«Non ho più paura» urlo e rido.

Uno sparo spezza rami alla mia sinistra e io rido.

Metto le redini nelle mani di Marius, del conte di Saint-Germain, mi alzo in piedi sulla panca di guida e mi giro indietro verso la carrozza di Tintenfisch. Lo vedo il bastardo, lo vedo e urlo, urlo, urlo.

«Non ho più paura».

Ancora uno sparo.

Ancora rami spezzati alla destra.

«Non ucciderete mai la bellezza, la mia, un angelo sono» urlo con tutta la forza, «io sono Venanzio Rauzzini, io sono l’angelo che canta per la Gloria di Dio».

Marius mi mette tra le mani una pistola, non ho mai sparato nella mia vita. Un urlo senza fine, il mio urlo.

«E questa notte Io sono Dio».

Alzo la destra.

Sparo.

Un grido.

Sparo ancora.

Un grido, un altro.

Gli occhi del mannaro si allontanano, si perdono nella foresta.

Grida, lamenti.

Mi rigiro, mi siedo.

«Li hai presi Vena’».

Marius ha un filo di voce.

Lascio cadere la pistola non so dove, riprendo le redini, sono confuso, mi gira la testa.

«Comincia l’ultima foresta, Venanzio, parlami, fammi domande e quando non ti risponderò più comincia a cantare per la mia anima, poi sul terzo ponte spingimi di sotto».

La pioggia ora è battente come liuti spagnuoli, e lava tutto.

Vorrei portasse via il sangue, ma è troppo, sui vestiti, sulle scarpe, tra le mani.

Ora Marius si appoggia completamente su di me.

«Che ne sarà dei Mozart, saranno sconvolti» gli chiedo.

Marius non risponde, allora lo guardo, sta ridendo senza suono.

«I Mozart non si ricorderanno mai di questa notte di inferno» ansima, «sono in viaggio per Le Havre con Pinuccia e Salvatore Arrivabeni».

Mi guarda:

«La carrozza è vuota».

Mi sporgo, abbasso il deflettore della vettura, guardo dentro.

La carrozza è vuota.

Marius mi prende la mano, i cavalli stremati rallentano in un trotto incerto.

«Parlami ancora» dice.

La voce quasi non la riconosco.

Sento l’odore dell’umido della notte, quello dei cavalli sudati, quello del sangue.

«Cos’è l’unicorno?» chiedo.

«Sei tu, siamo noi, sono io».

A me ’ste frasi fanno solo incazzare, e glielo dico.

Lui sorride.

«Manco il tuo furore potrà fermare la bellezza».

Gli zoccoli nel fango vanno a un ritmo sincopato come le follie spagnuole che ho ascoltato a Monaco.

«Per la Bellezza e la Grazia si vive, e si muore. E io muoio, Venanzio».

«Marius, sono confuso».

Ora mi guarda, il suo viso è rilassato.

«Ti sembra solo di esserlo, la verità è che sai tutto, da sempre».

I tuoni dietro di noi si allontanano.

«Mi aspetto angeli ora, unicorni argentati e tutte le crea-ture che vivono nel tuo canto, nella musica, in quella del bambino che proteggiamo, nella sua musica che verrà».

Il suo viso è nuovo, luminoso come una perla.

Gli alberi si diradano, la foresta è finita, in controluce lunare l’ultimo ponte.

«Marius, troppo sangue ci tiene a questa Terra, Marius,come si vola via di qua?»

Non sento più il suo respiro.

Piango.

Poi, «È primavera» mi dice, «una rondine allora verrà a mostrare alla mia anima come volare verso Orione, Venanzio, ora canta, accompagnami».

Respiro, chiudo gli occhi e canto.

 

Quando corpus morietur,

fac, ut animae donetur

La carrozza imbocca il ponte, i cavalli al passo, e io canto, canto perché a questo servo, perché la musica parla ai cuori dei vivi e illumina la via ai morti.

 

Paradisi gloria

Fermo la carrozza.

Nella pausa della cadenza abbraccio il corpo di Marius,e piango.

Una candela con la fiamma grigia alla mia sinistra, è Ferruccino.

«Un angelo sei Venanzio, per la Gloria di Dio e la luce dei morti» mi dice la sua voce, «e io sono con te».

Ferruccio.

Bacio la fronte di Marius, piango, chiudo gli occhi e canto.

 

Paradisi gloria

Lo spingo di sotto.

 

Amen