Luigi XV era terribilmente spossato, ma per quanto spossato fosse non si stancava mai di rimirare il ritratto della sua favorita. Non quello che, da sempre, era stato il suo preferito e ritraeva una giovanissima Jeanne Antoinette vestita, o meglio, svestita da Diana cacciatrice, bensì quello postumo: l’olio del ritrattista di corte Drouais, iniziato nel 1763 e terminato subito dopo la morte della marchesa.
«Amica cara» disse Luigi allungando il dito indice per accarezzare amorevolmente il volto dipinto, «amica cara, l’unica vera amica che io abbia mai avuto».
Quell’immagine lo straziava e lo consolava al tempo stesso, Madame appariva serenamente seduta al suo telaio, i capelli ormai grigi, ma la pelle ancora fresca e liscia come velluto, l’incarnato di sempre, l’incarnato che non l’aveva mai abbandonata, neanche nei giorni estremi della malattia; tanto che lui, fino all’ultimo, non si era mai davvero persuaso che la marchesa fosse in procinto di lasciare il suo re per raggiungere un’altra Maestà, l’unica Maestà di fronte alla quale anche Luigi XV Borbone fosse tenuto a inchinarsi.
Fece scorrere il dito prima sul volto, le gote rosate, il leggero doppio mento, le labbra un poco severe, e lì si fermò: che cosa avrebbe dato per vedere ancora quella bocca schiudersi e sentire la voce di Jeanne Antoinette, le sue frasi leggere, i suoi motti di spirito, la sua saggezza pratica e profonda al tempo stesso.
«Mi avete abbandonato, cattiva» sussurrò staccando il dito dalle labbra per accarezzare i capelli lievi, la cuffia di trine leggere, la morbida scollatura, l’abito ricamato, i bianchi merletti, i nastri che infiocchettavano le maniche, la candida mano già pronta a estrarre il filo del ricamo. Poi scese ancora, sino alla punta dello scarpino, quello scarpino che lui aveva tanto baciato e ingordamente leccato durante certi loro giochi segreti.
«Ahhh!» latrò Luigi, contorcendosi.
Non si perdonava di non aver compreso la serietà della situazione, quanto la malattia di Jeanne Antoinette fosse potenzialmente mortale. Forse avrebbe potuto fare di più, interpellare altri medici, spostare l’appartamento di Madame in un’ala più calda del palazzo, forse…
O forse non avrebbe dovuto accondiscendere al volere della marchesa di essere curata da Saint-Germain, per non parlare dei due ridicoli gregari, perennemente imparruccati e intabarrati, che il conte si era portato dietro. Eppure, per un momento, era sembrato che lei traesse giovamento dagli intrugli dell’alchimista e lui si era lasciato ingannare, perché? Perché la speranza è sempre l’ultima a morire, ecco perché, perché mai avrebbe pensato che la sua insostituibile amica e consigliera fosse davvero in pericolo di vita. Altrimenti avrebbe dovuto allontanarla da Versailles, poiché a nessuno era consentito morire dove dimorava il re con la sua corte. Quelle erano le regole, le convenienze, convenienze che gli avevano anche impedito di rendere il giusto omaggio ufficiale alla salma. Aveva solo potuto guardare, attraverso i vetri della finestra rigati di pioggia, il feretro lasciare Versailles alla volta di Parigi.
Nel suo ultimo viaggio aveva avuto maltempo, la sua cara Reinette, lei che amava tanto le calde giornate di sole… E ora quel corpo tanto amato era sepolto nella fredda cappella del convento dei Cappuccini.
«Cattiva!» esclamò Luigi. «Cattiva, cattiva, cattiva, come farò senza di voi?»
Era devastato, dopo di lei restava solo la solitudine, non la solitudine del corpo, quella ancora no, che da quel punto di vista le sostitute si trovavano sempre, ma l’anima, l’anima sua era sola.
«Di chi mi posso fidare, adesso?» chiese al volto ritratto.
«Di nessuno» si sentì rispondere.
‘Sono solo’ ragionò, ricordandosi di quella sera ormai lontana in cui, grazie a un improvviso presentimento sulla propria sorte e sul destino della Francia, aveva detto alla marchesa: «Dopo di noi il diluvio».
«Questa me la devo segnare, sire, per i posteri» aveva risposto lei, scoppiando a ridere.
Dopo di noi il diluvio… ‘E io mi sento già affogare’ pensò accarezzando il cagnolino nero che saltava gioioso sul telaio della marchesa, poi il liuto posato a terra, poi i libri, poi i contenitori di fili colorati, poi i gomitoli e la matita.
Poi non gli restò più niente da accarezzare e cominciò a singhiozzare.