Si erano accomodati secondo le indicazioni di Fedora: i signori sulle poltrone bergère – così comode per la conversazione – mentre Fedora e Samuela avevano preso posto sul divanetto, lo stesso che tante volte aveva accolto la marchesa di Pompadour e Saint-Germain durante le loro schermaglie amorose.
«Da dove volete che cominci?» aveva chiesto la sarta.
«Cominci da Mozart, cominci dall’ouverture del Don Giovanni» aveva risposto Flavio.
«Nell’ottobre del 1787 Praga era invasa da questuanti, saltimbanchi, acrobati: la città attendeva il passaggio di Maria Teresa, l’arciduchessa che il 18 ottobre avrebbe sposato il principe di Sassonia» cominciò Fedora con voce ispirata. «Purtroppo, la sera in cui la novella sposa arrivò in città il Don Giovanni non era ancora pronto. Amadeus impiegò ancora dieci giorni, dieci giorni di lavoro concitato e sofferto, dieci giorni in cui quasi non si fecero prove. A sua insaputa, il Puledro era sempre protetto nell’ombra dal nostro manipolo di fedeli, come tutti i talentuosi nati nel 1756, anno individuato da Tintenfisch nella Profezia: anno di guerre e terremoti.
L’ouverture fu scritta nella notte del 28 ottobre, e il 29 l’opera andò in scena senza Lorenzo Da Ponte, richiamato a Vienna dal Salieri, mentre il nostro fratello Giacomo Casanova, anche se vecchio e malconcio, ci onorò con la sua presenza. Il pubblico fu completamente soggiogato, profondamente turbato, sconvolto, e noi conti di Saint-Germain ancor più, riconoscendo nell’ouverture parte del lavoro composto dal puledro bambino in preda alle febbri e sapendo che l’umanità non era ancora pronta. Quella nuova musica, così oscura e potente, scuoteva il teatro, tanto il popolo quanto la nobiltà, e così assistemmo in prima persona alla prova di quanto saggia fosse stata la decisione di Leopold di non palesare a suo tempo la composizione, di quanto opportuno fosse stato consegnarla, con l’aiuto del maestro Leclair, all’oblio temporaneo. Ma la Rimembranza visitò la mente del Puledro la notte del 28 ottobre a Praga, ed egli, al fine di riportare l’abisso del dramma di un uomo con tutta la sua pulsione rivoluzionaria, ritrovò nei cassetti della sua memoria inconsapevole parte di quanto aveva composto da bambino, agito dall’istinto febbrile di vincere la morte. Nulla può il fato quando l’uomo decide».
«Perché ha detto che l’ouverture rappresenta solo una parte della composizione?» domandò Samuela.
«Perché quella che noi conosciamo oggi come ouverture del Don Giovanni nella parte di andante manca di 33 battute» confermò Fedora, «che furono conservate da noi Saint-Germain delegando il violinista danzatore e compositore Jean-Marie Leclair a occuparsi del loro occultamento e della loro custodia. Poi Leclair, ipnotizzato da Tintenfisch, tradì: promise a Mammona di consegnargli la musica segreta, la musica del Puledro. Ma Jean-Marie Leclair era stato investito della Luce della consapevolezza dell’Io Sono, tutto nella sua musica parlava di questo. Così Lucifero emerse dentro di lui e vinse Mammona. Leclair inscenò la propria morte, scappò, frammentò la composizione e la trasformò in un codice numerico, incaricando il liutaio Nicolò Gagliano di nasconderla in tre diversi strumenti da lui assemblati. Poi ci inviò un messaggio: «Nicolaus Gallianus Neapolitanus Faciebat. Il pentimento supera i confini della morte e porta un messaggio nella profondità del suo cuore. Tocca il cuore dei tre strumenti nel profondo e ascolta. Johannes Maria Clarus». Ma i tre Gagliano si dispersero: uno finì nelle mani nemiche – per la precisione è quello che il nostro fratello Boris a Exning ha sottratto a Carlos Buyer dalla sua villa; un altro Gagliano è nel nostro palazzo da più di duecento anni, da quando il fratello Fernando Falconetti, mio avo, riuscì a impossessarsene; il terzo è il suo violino, maestro Tondi, fino a oggi non era ancora stato individuato con certezza perché era convinzione comune fosse uno Stradivari e non un Nicolò Gagliano, ma sospettavo da tempo la sua vera natura, e con me anche Carlos Buyer che, nel tentativo di impadronirsene, uccise il danzatore russo, ultimo proprietario prima di lei».
«E così arriviamo all’imboscata… ipnotica che lei, Fedora, mi ha teso all’Opéra Garnier, dico bene?»
«Esatto» confermò la donna.
«Allora è stata lei a far sì che la porta elettronica si chiudesse sul mio strumento!»
«Bisogna morire per poter risorgere, no?» sorrise Fedora. «Adesso è venuto il momento di decifrare e unire le 33 battute mancanti».
Tutti si volsero nuovamente verso i violini, che Paolo aveva estratto dalle custodie durante il discorso di Fedora: due di loro spavaldamente intonsi e sfavillanti sotto le luci, mentre il terzo appena intuibile nell’accozzaglia di frammenti. «Il mio violino» gemette Flavio, «che strazio vederlo così, comparato all’insolenza di quelli interi».
«Non s’intristisca, maestro, il tesoro, quello vero,è all’interno degli strumenti. Dopo tutto questo tempo e tanto penare finalmente il mistero sarà svelato, il momento è memorabile, mi aiuti lei a decifrare» l’invitò Fedora.
«Datemi della carta pentagrammata» disse il maestro Tondi.
Paolo, allora, prese da un grande cassetto del tavolo un computer: «Maestro, scriva qui le 33 battute, così potrà creare l’orchestrazione e stampare le parti per ogni strumento».
Samuela sorrise, accarezzando i capelli di Flavio: «La tua orchestra dovrà eseguire la musica del Puledro dorato» disse. «Sarà la prima volta in assoluto che queste note verranno ascoltate».
Fedora aveva occhi cerulei luminosissimi, il suo sorriso attirò l’attenzione di Flavio, di Paolo, poi di Boris e Samuela.
«Ogni notte sogno di volare, è il mio sogno ricorrente da anni; ma ogni notte il mio volo mi porta più in alto; ho cominciato per le stanze, poi sopra il mio palazzo, la città e ancora più su, vedevo gli aerei come piccolissimi puntini in movimento lungo i paralleli e i meridiani terrestri, e io, seduta proprio su questo divano, ero in orbita tra i satelliti, ascoltando la musica prodotta dalla Terra. Ma non si poteva sentire che un cluster confuso, la musica che saliva dalla Terra era indistinta, e quello che mi angosciava lassù non era il caos, le dissonanze armoniche, gli scontri ritmici, le sovrapposizioni assurde di timbri e rumori, ma l’impossibilità da parte dell’Uomo di far sentire la propria voce più vera. Ho capito così che per far risuonare la musica del Puledro ci voleva il silenzio, e l’unica cosa che genera silenzio nell’Uomo è il terrore. E il terrore può accompagnarsi alla bellezza, cari signori» provocò Fedora.
«Mi faccia un solo esempio» stette al gioco Flavio.
«Philippe Petit, il funambolo, nostro fratello, il 7 agosto 1974 passò da una torre all’altra del World Trade Center di New York su una corda tirata a 400 metri di altezza. State certi che in quel momento non volava una mosca».
«E questa volta come faremo a generare il terrore insieme alla bellezza?» domandò Flavio.
«Sono cinque anni che ci stiamo lavorando» tuonò Boris.
«Baal, legioni di diavoli» aggiunse Paolo.
«Terrorismo informatico» perfezionò Fedora. «Maestro Tondi, si metta al lavoro, traduca questo codice numerico in musica. Fra tre giorni potrà eseguirla con la sua orchestra, e tutto il mondo l’ascolterà…»
Non riuscì a terminare la frase perché un’esplosione fece vibrare i muri e mandò in frantumi i vetri delle finestre, straziando le orecchie degli astanti.
Tutti balzarono in piedi, Fedora soffiò: «Tintenfisch è tornato».
Pistola in pugno, Carlos Buyer fece irruzione nella stanza. Al suo fianco, Ivan.
«Io torno sempre, signora. E tu, Boris caro» disse Carlos puntando la pistola in direzione dell’ex amante, «avresti dovuto occuparti personalmente delle corde e dei bavagli. Errore fatale lasciare che la mia preziosa persona finisse nelle mani di un gregario. Ivan è un ragazzo di buon senso, e io so come ricompensare il buon senso. È giunto il tuo momento, sono molto triste, credimi» concluse premendo il grilletto.
Il colpo centrò Boris in pieno petto. Carlos avanzò e dietro di lui entrarono tre uomini in tenuta da combattimento. Uno di loro raccolse da terra il mitragliatore di Boris, intimando ai presenti di portare le mani dietro la testa.
Poi Carlos si rivolse alla vecchia sarta: «Fedora, sono qui per i violini. Non faccia resistenza se non vuole vedere subito completato il lavoro di pulizia che ho cominciato».
«Mammona non pulisce, Mammona insozza».
«Non abbiamo tempo per le disquisizioni. Stia ferma e tenga la bocca chiusa».
Mentre i suoi uomini tenevano gli altri sotto tiro, Carlos si chinò sul Gagliano di Flavio. «Fracassare uno strumento unico per guardarci dentro, mentre si sarebbe potuto farlo con le moderne tecnologie! Siete dei cani».
«No, siamo demoni, ma alla Materia preferiamo la Luce» precisò Fedora.
Carlos si accese una sigaretta: «Mi duole informarla che da illuminare ormai non resta che la vostra sconfitta, signora». Il tono era amichevole, il viso disteso. «Come saprà, c’è una lunga storia dietro questi strumenti, una storia che lei conosce, ma che io, adesso, voglio rievocare e poi chiudere, definitivamente, con la parola ‘fine’ e con un massacro: il vostro. Ebbene sì, voi morirete, tutti, Mammona non lascia testimoni. La musica del Puledro dorato echeggerà d’ora in poi solo nelle mie stanze. L’Umanità non la merita, Fedora, non la merita perché non possiede gli strumenti dell’eccellenza. Quelli sono nostri, sono di Mammona, sì, sono miei» Carlos indicò prima le proprie orecchie e poi il cuore, quindi con il mozzicone della sigaretta se ne accese un’altra. «Sapete, signori, io sono un collezionista, io amo conservare, tenere, adorare…»
Gli uomini armati si rilassarono impercettibilmente, pronti ad ascoltare l’ennesimo profluvio teorico del loro capo. Fu a quel punto che Paolo intercettò con lo sguardo un frammento di vetro acuminato sulla spalliera della bergère vicina, e riuscì a nasconderlo nell’incavo della mano. Intanto il collezionista Buyer continuava a esaltare i tratti straordinari della propria personalità: «Riconoscere la bellezza nelle cose è per pochi, non bisogna distrarsi…»
«E tu sei troppo distratto da te stesso, Carlos, io non sono ancora morto: uccidere è un lavoro che bisogna saper fare bene» rantolò Boris sollevando la pistola.
Mentre una raffica di colpi crivellava il corpo di Boris, Paolo si gettò su Carlos, lo afferrò e gli puntò la lama di vetro al collo.
«Tutti a terra se non volete che sgozzi il vostro padrone! Lentamente e mani dietro la nuca» gridò.
«Sparate, subito» urlò Carlos. «Sparate, uccideteli!»
Gli uomini si guardarono interrogativi. Paolo cominciò a premere sul collo di Buyer e uno schizzo di sangue partì verso il soffitto.
«Se lui muore, e anche noi moriamo, chi vi pagherà?» domandò Fedora.
Uno degli uomini cominciò a piegare adagio le ginocchia, gettò lontano il fucile mitragliatore e poi si distese a terra; gli altri lo seguirono. Fu a quel punto che Carlos estrasse dalla tasca un piccolo revolver con il calcio in madreperla e, puntandolo verso Fedora, cominciò a sparare.
La vecchia sarta spalancò gli occhi sorpresa, non tanto dal fatto che Mammona stesse cercando di ucciderla, quanto dal fatto che Samuela Bravermann si stesse gettando su di lei per proteggerla.