1281: IL COLOSSO DI YLOURGNE

                    (The Colossus of Ylourgne, giugno 1934)

 

1. La fuga del Negromante

Il tre volte infame Nathaire, alchimista, astrologo e Negromante, con i suoi dieci diabolici discepoli, da un momento all'altro, e in tutta segretezza, era sparito da Vyones. Tanto in città, quando nei dintorni, si sparse la diceria che la sua partenza fosse stata provocata da una salutare paura degli strumenti di tortura e dei roghi ecclesiastici.

Altri Stregoni, meno famosi di lui, erano già andati al supplizio, durante quell'anno di insolito zelo inquisitorio, ed era di dominio pubblico che Nathaire era incorso nel biasimo della Chiesa. Perciò erano in pochi a considerare un mistero il motivo della sua partenza, mentre i mezzi di trasporto impiegati e la destinazione del Negromante e dei suoi discepoli rimasero un punto interrogativo per tutti.

Cominciarono a correre migliaia di chiacchiere sinistre e piene di superstizione e, tutti coloro che si trovavano a passare davanti all'alto e tetro edificio che Nathaire aveva fatto costruire in blasfema prossimità della grande Cattedrale e che aveva riempito di lusso e di stranezze sataniche, si facevano il Segno di Croce. Due ladri temerari, che avevano avuto il coraggio di penetrare in quella casa quando non si ebbero più dubbi sulla sparizione del Mago, riferirono che quasi tutti i mobili, i libri e gli strumenti di Nathaire, a quanto pareva, dovevano aver seguito il loro proprietario, per la stessa destinazione.

Tutto ciò contribuì ad aumentare l'empio mistero, perché era praticamente impossibile che Nathaire e i suoi dieci apprendisti Stregoni, con parecchi carri di masserizie, fossero riusciti a varcare le custoditissime porte della città, in un modo normale, senza essere visti dalle guardie.

I cittadini più pii e devoti sparsero la voce che l'Arcidiavolo in persona, insieme a una legione di dèmoni con le ali da pipistrello, avesse provveduto al trasporto, a mezzanotte di una notte senza luna.

C'erano dei sacerdoti e anche dei rispettabili cittadini che assicuravano di aver visto le stelle oscurate da nere sagome umane volanti, in compagnia di altre figure non umane, e di aver udito il lamentoso ululato proprio delle anime dannate, mentre transitavano come una nuvola demoniaca sui tetti e sulle mura della città.

Altri credevano che gli Stregoni avessero lasciato Vyones per mezzo dei loro stessi diabolici incantesimi e che si fossero ritirati in qualche rocca solitaria dove Nathaire, che era stato molto, molto malato, potesse morire in pace, una pace del genere di chi periva fra le fiamme degli «auto de fé», e di Abaddon. Si pensò anche che, per la prima volta nella sua strana vita che non risentiva dell'usura del tempo, si fosse redatto l'oroscopo e che vi avesse letto una imminente congiunzione di pianeti nefasti, il che significava morte a breve scadenza.

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Altri ancora, i quali, senza dubbio, dovevano essere astrologhi o Maghi rivali, dissero che Nathaire si era sottratto alla vista di tutti, unicamente per potersi mettere in ininterrotta comunicazione con svariati demòni infernali suoi collaboratori, e per poter tessere indisturbato le trame di un supremo e licantropico incantesimo. E insinuarono che quelle stregonerie, a tempo debito, si sarebbero riversate su Vyones e forse sull'intera regione dell'Averoigne e che, senza dubbio, avrebbero assunto la forma di una spaventosa pestilenza, o di una carestia, o di una incursione di succubi e di posseduti, in tutto il reame.

E nel bailamme di tutte quelle dicerie, vennero riesumate altre chiacchiere semidimenticate e, dalla sera alla mattina, sorsero nuove leggende. Molte riguardavano l'oscura nascita di Nathaire e il suo misterioso vagabondare precedente al suo insediamento a Vyones, sei mesi prima.

La gente diceva che fosse stato generato dal Demonio, come il favoloso Merlino, che suo padre fosse un personaggio non da meno di Alastar, Demone della vendetta, e sua madre una Strega nera e deforme. Dal primo aveva ereditato il rancore e la cattiveria, dalla seconda il fisico debole e deforme.

Aveva percorso le terre d'oriente e, dai maestri egizi e saraceni, aveva appreso l'abominevole arte della Negromanzia, nel praticare la quale non aveva rivali. Si era anche sussurrato che si fosse servito di cadaveri di persone defunte da tanto tempo, e di ossa già scarnite di gente finita sul rogo e che soltanto l'Angelo del Giudizio Universale avrebbe avuto il diritto di prendere.

Non era mai stato popolare, benché in molti avessero fruito del suo consiglio e del suo aiuto nello svolgimento dei loro affari più o meno onesti. Una volta, il terzo anno dal suo arrivo a Vyones, era stato condannato alla pubblica lapidazione, proprio a causa della sua fama di Negromante, ed era stato azzoppato e storpiato per sempre da un ciottolo ben diretto. Era opinione generale che quel torto non fosse mai stato dimenticato e che Nathaire avesse assicurato che avrebbe ripagato l'ostilità del clero con l'odio implacabile e infernale di un Anticristo.

Oltre alla demoniaca stregoneria della quale veniva comunemente sospettato, era anche considerato un corruttore della gioventù. Nonostante la piccola statura, la deformità e la bruttezza, possedeva un formidabile potere, una perversione mesmerica; e i suoi discepoli, sul conto dei quali si vociferava che fossero caduti nella più sfrenata e morbosa iniquità, erano tutti giovani tra i più promettenti. Perciò, tutto considerato, la sua sparizione venne considerata come una vera e propria liberazione provvidenziale.

In città, però, c'era anche qualcuno che non condivideva tutta quella lurida speculazione e si dissociava dal pettegolezzo generale.

Si chiamava Gaspard du Nord, anch'egli studioso di scienze occulte e proibite, che un tempo aveva fatto parte dei discepoli di Nathaire, e che aveva preferito ritirarsi prudentemente dalla scuola del Maestro, dopo aver fiutato le enormità che facevano parte della sua ulteriore iniziazione.

 

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Tuttavia aveva già acquisito per conto proprio una rarissima e peculiare conoscenza e una certa intuizione, per quanto riguardava i poteri diabolici e gli aspetti più oscuri del Negromante.

Proprio a causa di quella conoscenza e di quell'intuito, quando venne a sapere della partenza di Nathaire, preferì tacere. E ritenne che fosse meglio non ridestare il ricordo di quando era stato alla scuola dello Stregone. Si rinchiuse in una squallida e disadorna soffitta, a fissare, rabbrividendo, un piccolo specchio oblungo incorniciato con un arabesco di vipere d'oro, che era appartenuto a Nathaire.

Ma non era l'immagine riflessa del suo viso giovane e aggraziato, per quanto dall'aria astuta, a farlo rabbrividire. Infatti lo specchio apparteneva a una specie diversa da quelli che riflettono chi vi si guarda. Nelle sue profondità, per alcuni istanti, si era concretizzata una scena spaventosa, nella quale aveva riconosciuto i personaggi, ma non il luogo che non riusciva a individuare. Prima che potesse osservarla a fondo, lo specchio si era annebbiato, come per lo sprigionarsi di fumi alchimistici, e non aveva visto più nulla.

Quell'annebbiamento, secondo lui, poteva rappresentare una cosa sola: Nathaire si era accorto che Gaspard lo stava osservando e aveva dato vita a un controincantesimo per neutralizzare lo specchio magico. Era stato appunto il rendersi conto di quel fatto e la breve, sinistra visione delle attuali attività di Nathaire a causare l'agghiacciante orrore che andava crescendo di intensità nella mente di Gaspard: un orrore che non poteva ancora avere un nome e una forma concreta.

 

2. Il raduno dei cadaveri

La partenza di Nathaire e dei suoi discepoli da Vyones, era avvenuta nella tarda primavera del 1281, durante il novilunio. Poi sorse la nuova luna, brillò sui prati fioriti, sui bordi delle fronde opulente di foglie ancora lucide, ricomparse da poco, e seguì la fase calante, tingendosi di argento spettrale. Da quando cominciò a ridursi a una sottilissima falce, la gente riprese a parlare di altri incantesimi e di più recenti misteri.

Poi, nelle notti di novilunio dell'estate incipiente, si verificò tutta una serie di sparizioni molto più innaturali e inspiegabili di quella dello Stregone deforme e malvagio.

Un giorno, i becchini, recandosi al lavoro in un cimitero fuori le mura di Vyones, scoprirono che non meno di sei pietre tombali di avelli occupati da poco, erano state rimosse e i cadaveri, tutti di cittadini rispettabili, asportati. Da un più attento esame risultò anche evidente che non si trattava di opera di ladri. Le bare che giacevano di fianco o rovesciate sul terriccio, sembravano frantumate dall'interno da una forza sovrumana, e lo stesso terreno smosso, era sollevato come se i morti, spaventosamente resuscitati prima del tempo, lo avessero spinto e ammucchiato in superficie.

Nessuna traccia di corpi, come se l'inferno li avesse inghiottiti e, per quanto si

 

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cercasse, non si trovò nulla che potesse testimoniare della loro sorte. Per quei tempi di stregonerie c'era un'unica spiegazione possibile a quanto stava accadendo, e cioè che i demòni fossero penetrati nelle tombe, prendendo possesso dei cadaveri, costringendoli quindi a risorgere e a camminare.

Fra lo sgomento e l'orrore di tutta l'Averoigne, quella inspiegabile scomparsa fu seguita con una rapidità sconcertante da altre e altre ancora. Sembrava che i morti fossero stati soggetti a una chiamata che non ammetteva dilazioni o deroghe. Nottetempo, per un periodo di due settimane, i cimiteri di Vyones e anche quelli di altre città e villaggi, persero un numero spaventoso di morti. Dalle tombe con le borchie di ottone, dalle fosse comuni, dai tumuli, dalle buche sconsacrate, dalle cripte di marmo delle chiese e delle cattedrali, lo stesso esodo continuò senza sosta.

Peggio ancora, se possibile, i corpi ancora avvolti nel sudario, balzavano fuori dalle bare e dai catafalchi e, senza curarsi dei terrificati astanti, correvano a grandi falcate nella notte, come in preda al delirio, senza farsi più vedere da coloro che li piangevano.

In ogni caso però, i cadaveri scomparsi appartenevano di preferenza a giovani aitanti e robusti, morti di recente o di morte violenta o di incidente, e non a gente consunta dalle malattie. Alcuni erano criminali che avevano pagato il fio per i loro misfatti, altri uomini d'arme o conestabili, cioè soldati e gabellieri, morti nel compimento del loro dovere. Si annoveravano anche cavalieri periti in duelli o in tornei, e parecchie vittime delle bande di ladri e rapinatori che

infestavano l'Averoigne a quell'epoca. E altresì monaci, mercanti, nobili, piccoli proprietari terrieri, paggi, preti, ma nessuno, in ogni caso, che avesse passato la giovinezza. A quanto pareva, i vecchi e gli infermi erano immuni da quella processione demoniaca «post mortem».

I più superstiziosi consideravano la situazione come un innegabile presagio della fine del mondo. Satana doveva aver scatenato la guerra con le sue legioni, e stava trascinando i corpi dei morti benedetti nella cattività infernale.

L'angoscia e la costernazione sì centuplicarono quando divenne manifesto che anche la più abbondante aspersione d'Acqua Santa e la pratica degli esorcismi più potenti e terrificanti, non riuscivano ad avere ragione in alcun modo di quegli incantesimi diabolici. La Chiesa stessa si sentiva impotente a lottare contro quell'insolito attacco demoniaco, e le forze della legge secolare non potevano far nulla per citare in giudizio e punire quell'entità intangibile.

A causa della paura che serpeggiava dovunque e che sovrastava tutto, non venne fatto alcun tentativo di seguire i cadaveri in fuga.

Comunque, coloro che per avventura si attardavano per la strada, riferivano racconti raccapriccianti di incontri con quelle larve che camminavano a grandi passi per tutta l'Averoigne.

All'apparenza, sembravano sordi, muti, insensibili e intenti a dirigersi con una fretta  orribile e in  tutta tranquillità e sicurezza  verso  una meta remota e

 

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predestinata. Pareva che seguissero tutti la stessa direzione, verso oriente, ma soltanto con la cessazione dell'esodo che aveva interessato svariate centinaia di cadaveri, qualcuno cominciò ad avere qualche sospetto sulla loro destinazione.

Qua e là si sparse la voce che si trattasse dei ruderi del castello di Ylourgne, al di là della foresta rifugio di lupi mannari, sulle colline semimontagnose che segnavano il confine dell'Averoigne.

Ylourgne, una fortezza imprendibile e grifagna, costruita da una stirpe di baroni malvagi e predatori, ora estinta, era un luogo che perfino i caprai preferivano evitare. Gli spettri furibondi dei feudatari maledetti si aggiravano senza posa per i corridoi in rovina, e il demonio stesso fungeva da castellano, Nessuno osava avventurarsi all'ombra delle sue mura che sembravano tutt'uno con il declivio del colle, e la dimora umana più vicina era un monastero Cistercense, a meno di due chilometri, sull'opposto pendio della valle.

I monaci di quell'ordine austero avevano pochi contatti con il mondo al di là della collina, ed era altrettanto limitato il numero dei visitatori che ottenevano il permesso di varcare i loro invalicabili portali. Ma, durante quella terribile estate che vide la sparizione dei morti, dal monastero partì e si diffuse per tutta l'Averoigne, una storia strana e inquietante.

A cominciare dalla tarda primavera, i monaci Cistercensi furono costretti ad assistere a parecchi fenomeni insoliti che si andavano verificando fra i ruderi di Ylourgne, abbandonati da tanto tempo, e che erano visibili dalle loro finestre.

Avevano osservato delle luci lampeggianti dove non avrebbero dovuto esserci, fiamme di un azzurro e di un violetto innaturale, che tremolavano al di là delle rovine, e le feritoie traboccare di cespugli, di erbacce e arbusti di rose canine spuntate al di sopra dei merli sbrecciati. Durante la notte, dai ruderi, insieme alle fiamme si alzavano rumori paurosi, e i monaci avevano udito un frastuono come di metalli e incudini infernali, un risuonare di armature e di mazze gigantesche, ed avevano concluso che Ylourgne fosse diventato un luogo di riunione per i Demoni. Mefitici odori come di zolfo e di carne bruciata si erano diffusi aleggiando su tutta la valle, e anche quando si udivano solo i rumori, senza le luci, sul castello in rovina ristagnava una sottile nebbiolina di vapori azzurrognoli.

I monaci si rafforzarono nell'idea che il luogo fosse stato infestato da esseri infernali; infatti, non era stato visto nessuno avvicinarsi né attraverso i brulli pendii né per gli scoscesi dirupi rocciosi.

Osservando quei segni dell'attività del Nemico nelle loro vicinanze, presero a farsi il Segno della Croce con più fervore e più frequenza, e a recitare i loro «Pater» e le loro «Ave Marie» in sequenze più interminabili di prima. E inoltre raddoppiarono i lavori manuali e le penitenze. D'altra parte, siccome l'antico  maniero  era  un  luogo  abbandonato dagli uomini, non si  preoccuparono troppo della presente infestazione, e  continuarono a badare ai

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propri affari, a meno che non si fosse manifestata un'aperta ostilità da parte di Satana.

Montavano la guardia di continuo ma, nel corso di parecchie settimane, non videro mai nessuno entrare a Ylourgne o venirne fuori. Eccetto le luci e i rumori notturni, e i vapori stagnanti di giorno, non c'erano prove di presenze umane o diaboliche.

Poi, un mattino, nella valle al di sotto dei giardini a terrazza del monastero, due frati che stavano estirpando le erbacce da una strada carraia, assistettero al passaggio di una strana processione di gente che proveniva dalla foresta di Averoigne e risaliva a grandi passi i dirupi in direzione di Ylourgne.

I monaci asserirono che quelle apparizioni procedevano con molta fretta, a passi goffi, ma sostenuti; e tutti erano molto pallidi e con il sudario o gli abiti che avevano indosso nella tomba. Alcuni sudari erano strappati e a brandelli, o impolverati per il lungo cammino o inzaccherati di fango secco. In tutto erano una dozzina o forse più e, appresso, a intervalli, passò anche qualche isolato, sempre con lo stesso abbigliamento. Con un'agilità e una speditezza incredibile, risalivano la collina e sparivano fra le mura in rovina di Ylourgne.

Fino a quel momento, i Cistercensi non avevano ancora udito nulla di tombe e di bare violate. La notizia li raggiunse più tardi, quando già avevano assistito, per parecchie nottate successive, al passaggio di sparuti o nutriti gruppi di morti, tutti diretti verso il castello infestato dal demonio. Giuravano che almeno un centinaio di quei cadaveri era transitato in prossimità del monastero, e senza dubbio, molti altri nel buio della notte, e quindi non visti. Comunque non ne fu visto alcuno uscire da Ylourgne, che li aveva inghiottiti come l'Abisso senza fine.

Per quanto terribilmente spaventati e dolorosamente scandalizzati, continuarono a pensare che fosse meglio astenersi dall'intervenire.

Qualcuno dei più coraggiosi, urtato da tutti quei flagranti segni di presenza demoniaca, avrebbe desiderato visitare le rovine munito di Acqua Benedetta e brandendo Crocefissi. Ma l'Abate, seguendo le proprie convinzioni di fede, li persuase ad attendere. Nel frattempo, i fuochi notturni si andavano facendo più brillanti e i rumori più forti.

E, durante quell'attesa, mentre nel monastero si facevano incessanti preghiere, accadde un fatto spaventoso. Uno dei frati, un tipo piuttosto robusto chiamato Teofilo, contravvenendo alla rigida disciplina, aveva effettuato delle visite al castello piuttosto che reprimere il suo pio orrore per quei malaugurati avvenimenti. Ad ogni buon conto, dopo la cena, ebbe la peregrina idea di uscire a gironzolare fra i precipizi e di rompersi l'osso del collo.

Addolorati per la sua morte e per la sua disubbidienza, i confratelli portarono Teofilo in cappella e gli cantarono le messe per la pace dell'anima. Però le messe, nelle ore buie della notte che precedono il mattino, vennero interrotte dalla prematura e intempestiva resurrezione del monaco morto, il quale, con la testa che ondeggiava  paurosamente  sul  collo rotto,  si precipitò fuori della

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cappella, come se stesse cavalcando il Diavolo in persona, e scese la collina di corsa, in direzione delle fiamme demoniache e dei rumori di Ylourgne.

 

3. La testimonianza dei monaci

In conseguenza di quel fatto, due dei frati che in precedenza avevano espresso il desiderio di visitare il castello infestato, richiesero nuovamente il permesso all'Abate, dicendo che Iddio li avrebbe sicuramente aiutati nel vendicare sia il ratto del cadavere di Teofilo, quanto quello di molti altri trafugati dalla terra consacrata.

Meravigliato per l'ardire di quei monaci coraggiosi che si proponevano di attaccare il Nemico nel suo stesso covo, l'Abate concedette il permesso, fornendoli di aspersori e di fiasche di Acqua Santa e di grandi croci di carpine, come se dovessero servire da mazze per far saltare le cervella a un cavaliere con tanto di corazza.

I monaci, che si chiamavano Bernardo e Stefano, partirono coraggiosamente a metà mattinata, per andare ad assaltare la fortezza del Demonio. Si trattava di una scalata ardua, fra rocce sporgenti e lungo scarpate scivolose, ma tutti e due erano agili e robusti, e, oltretutto molto abituati e addestrati ad escursioni del genere.

Siccome la giornata era afosa e senza vento, le loro bianche tuniche ben presto furono zuppe di sudore ma, riposandosi soltanto per brevi preghiere, continuarono ad affrettarsi e, in poco tempo, raggiunsero le vicinanze del castello, e su quelle grigie rovine corrose, non scorsero alcun segno di presenze o di attività.

Il fosso profondo, che un tempo circondava la costruzione, ora era secco e in parte era stato colmato da frane terrose e da detriti caduti dalle pareti. Il ponte levatoio era rovinato, ma i blocchi del barbacane, finiti nel fossato, avevano formato una specie di rialzo, sul quale era possibile transitare.

Non senza trepidazione e protendendo i crocefissi, come i guerrieri alzano le loro armi nello scalare una fortezza difesa, passando sulle rovine del barbacane, i frati irruppero nel cortile.

Anche quello, come il resto dell'edificio, sembrava deserto. Ortiche gigantesche, erbacce lussureggianti e perfino alberelli, erano spuntati tra gli interstizi delle pietre del selciato. L'alto e massiccio torrione, la cappella, e la parte di fabbricato che comprendeva l'immenso salone di ingresso, attraverso secoli di rovine e di saccheggi, in massima parte, avevano conservato la loro struttura originaria. Sulla sinistra della cinta muraria, nella compatta massa di pietroni dell'edificio, simile alla bocca di una buia caverna, si apriva un portale, e da quell'apertura fuorusciva un leggero vapore bluastro che descriveva fantastiche spire, innalzandosi nel cielo sereno.

Avvicinandosi al portale, i monaci vi scorsero un baluginare rossastro di fuoco, come occhi di un dragone che lampeggiassero nelle tenebre infernali. E non  ebbero  più  dubbi  sul  fatto che  il luogo  fosse  l'avamposto  dell'Erebo e

 

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l'anticamera dell'Abisso; tuttavia si fecero coraggio ed entrarono ugualmente, salmodiando esorcismi e potenti giaculatorie e brandendo le loro croci di carpine.

Oltrepassato quell'arco cavernoso, lì per lì riuscirono a distinguere ben poco, essendo ancora in certo modo abbagliati dallo splendore del sole estivo che avevano appena lasciato. Poi, man mano che la loro vista si andava focalizzando, si delineò una scena spaventosa, sempre più orrenda e incredibile con l'emergere dei particolari.

Alcuni di quei particolari erano misteriosi e perciò ancora più terrificanti; altri, invece, si stigmatizzavano come ferite di fuoco infernali nelle menti dei monaci.

Si trovavano sulla soglia di uno stanzone enorme che dava l'impressione di essere stato ricavato dall'abbattimento di pavimenti dei piani superiori e di muri divisori adiacenti al salone d'entrata del castello, già, di per sé, oltremodo immenso. Quella specie di antro pareva si perdesse in una oscurità senza fine, intersecata qua e là da raggi di sole che si infiltravano fra le crepe dei muri e delle volte in rovina, e che tuttavia non riuscivano a dissipare le tenebre infernali e il mistero.

Più tardi, i monaci asserirono di aver visto parecchie persone in movimento, in quel luogo, in compagnia di svariati demòni, alcuni dei quali giganteschi e di colore scuro e altri che si distinguevano a fatica dalle creature umane. Tutti quanti stavano badando, con molta perizia, a fornelli riverberanti e a immense storte fatte a pera e a zucca, simili a quelle create dagli alchimisti. Altri, invece, erano chini sopra un grande calderone fumante, come Stregoni occupati a rimescolare terribili intrugli. Contro la parete opposta, c'erano due enormi conche di pietra, munite di mortaio, con i bordi circolari che superavano in altezza la statura di un uomo, cosicché, Bernardo e Stefano non poterono determinare la natura del loro contenuto.

Una delle conche emanava una bagliore biancastro, e l'altra una luminosità rossastra.

Accanto alle conche predette, anzi, in certo qual modo fra di esse, c'era una specie di lettuccio basso, adornato di insoliti drappi e coperte ricamate come quelle che tessono i saraceni. E su di essa i monaci videro un essere deforme, pallido e raggrinzito, con gli occhi che fiammeggiavano sinistramente nelle tenebre, come il berillo demoniaco. Quella creatura deforme, che aveva tutto l'aspetto di un moribondo, stava supervisionando il lavoro degli uomini e dei demòni.

Per quanto inebetiti, i monaci cominciarono a rendersi conto di altri particolari. Parecchi cadaveri, fra i quali riconobbero quello di Teofilo, giacevano sul pavimento, insieme a un mucchio di ossa umane staccate le une dalle altre alle giunture, e ammassi di carne ammonticchiati come nelle macellerie.  Un  «uomo»,  era  intento  a  scegliere  le  ossa  e a  gettarle  in  un

calderone sotto il quale ardeva un fuoco rosseggiante, mentre un altro infilava

 

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i pezzi di carne in un tubo pieno di liquido colorato che produceva un sibilo infernale, come quello di migliaia di serpenti.

Altri ancora, dopo aver spogliato i cadaveri, li assalivano con lunghi coltellacci. E, infine, alcuni salivano delle rudimentali scalette di pietra situate lungo le pareti, recando bacili di materiale semiliquido che vuotavano nelle conche.

Sgomenti da quello spettacolo di umana e satanica turpitudine, e in preda a una più che giusta indignazione, i monaci ripresero a salmodiare i loro potenti esorcismi e si precipitarono in avanti. Ma la loro apparizione non fu nemmeno notata da quell'abominevole congrega di Stregoni e demòni.

Bernardo e Stefano, invasati da divino furore, si precipitarono sui macellai che avevano cominciato ad attaccare un cadavere. Il corpo lo riconobbero per quello di un noto fuorilegge che si chiamava Jaques Le Loupgarou, ucciso alcuni giorni prima in uno scontro con i gendarmi. Le Loupgarou, famoso per la forza muscolare, l'astuzia e la ferocia, aveva terrorizzato a lungo i boschi e le strade dell'Averoigne. Era stato mezzo sbudellato dalle spade dei gendarmi, ed aveva ancora la barba ispida e intrisa di sangue coagulato, per una orrenda ferita che gli aveva squarciato il viso dalla tempia alla bocca.

Era morto senza Sacramenti ma, nonostante tutto, i monaci non potevano tollerare che quel cadavere venisse usato per qualcosa di empio che andava contro la fede cristiana.

Adesso, quel pallido essere deforme dall'aspetto perverso, si era accorto della presenza dei frati, e si era messo a strillare in un tono di secco comando che sovrastava l'orrendo sibilo del calderone e il rauco mormorio di uomini e demòni.

Non riuscirono a comprendere le parole, perché appartenevano a qualche linguaggio straniero e suonavano come formule magiche.

All'istante, come obbedendo a un ordine, due uomini lasciarono le loro abominevoli occupazioni chimiche e, alzando un recipiente a coppa, pieno di un ignoto fetido liquame, ne rovesciarono il contenuto in faccia a Bernardo e a Stefano. I monaci furono accecati dal liquido irritante che morse loro le carni come se si trattasse dei denti di molti serpenti, e vennero storditi e sopraffatti dai vapori pestiferi, cosicché si lasciarono sfuggire le grandi croci dalle mani e caddero a terra, privi di sensi.

Si riebbero quasi subito, ma con i polsi legati da resistentissime corde fatte di budella intrecciate, ormai ridotti all'impotenza, senza poter protendere i Crocefissi o aspergere l'Acqua Santa che avevano recato con sé.

In quello stato di frustrazione, udirono la voce del diabolico infermo che comandava loro di alzarsi. Sia pure a fatica, con movimenti goffi dato che non potevano servirsi delle mani, i due obbedirono.

Bernardo, che si sentiva ancora male a causa del gas tossico che aveva inalato, dovette fare due tentativi, prima di riuscire a reggersi in piedi; e i suoi tentennamenti vennero salutati da isterici cachinni e oscene risate da parte degli Stregoni.

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Poi furono rimproverati, derisi e insultati dall'essere deforme, con inaudite bestemmie, come soltanto un ligio servitore del Demonio era in grado di profferire. Alla fine, facendoli giurare che avrebbero testimoniato, disse loro: «Tornate alla vostra tana, cuccioli di Joldabaoth, e recate questo messaggio: "Tutti coloro che sono venuti qui, diventeranno uno solo"».

Quindi, obbedendo ad una spaventosa formula del deforme, due suoi accoliti che avevano l'aspetto di immense e orribili belve, si avvicinarono ai cadaveri di Le Loupgarou e di Frate Teofilo. Uno dei demòni, come nebbia risucchiata dalla palude, sparì nelle nari insanguinate di Le Loupgarou infilandosi in esse centimetro per centimetro, finché anche la sua testa cornuta e belluina scomparve alla vista. L'altro, allo stesso modo, penetrò nelle narici di Frate Teofilo che giaceva con la testa contorta per la rottura del collo.

Poi, quando i demòni ebbero completato la loro possessione, i due cadaveri, in un modo difficile da descrivere, si alzarono da terra, uno con la interiora penzoloni che fuoruscivano dalla vasta ferita, e l'altro con la testa che ciondolava in una maniera innaturale. Quindi, animati dai demòni, gli stessi cadaveri raccolsero le croci di carpine che Stefano e Bernardo avevano lasciato cadere e, usandole come randelli, inseguirono i monaci in una fuga ignominiosa per tutto il castello, tra le incessanti e fragorose infernali risate di scherno del deforme e della sua schiera di Negromanti. E il cadavere nudo di Le Loupgarou e quello con la tunica di Teofilo, spinsero i frati giù per i dirupi e i precipizi a valle di Ylourgne, continuando a menare colpi all'impazzata, con le croci, finché le schiene dei due Cistercensi furono tutta una piaga sanguinolenta.

Dopo una sconfitta così clamorosa e bruciante, più nessun monaco venne autorizzato ad affrontare Ylourgne. Tutta la comunità monastica però, triplicò l'austerità della regola e quadruplicò le preghiere e, nell'attesa di conoscere la volontà di Dio e le oscure macchinazioni del Demonio, si mantenne in uno stato di pia fiducia, in qualche modo però temperato dalla trepidazione.

Frattanto, tramite i caprai che visitavano i monaci, il racconto di Stefano e di Bernardo si diffuse per tutto l'Averoigne, aggravando lo stato di allarme causato dalla sparizione dei cadaveri.

Nessuno sapeva ciò che stesse veramente accadendo nel castello infestato dai demòni, o quale disegno fosse stato progettato per le centinaia di cadaveri che vi erano stati raccolti, perché la luce gettata sulla faccenda dal racconto dei due monaci, per quanto abominevole e spaventosa, alla fin fine era del tutto inconcludente, e il messaggio loro affidato dallo Stregone deforme, appariva cabalistico.

 

4. L'impresa di Gaspard du Nord

Nella solitudine della sua soffitta, Gaspard del Nord, studioso di alchimia e di stregoneria, e un tempo discepolo di Nathaire, cercava di continuo, ma invano, di consultare lo specchio incorniciato di vipere. Il cristallo della superficie continuava a mantenersi  oscuro e nebbioso, come  velato da vapori

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di alambicchi satanici e da fumi di bracieri negromantici. Stanco e prostrato dalle lunghe veglie notturne, Gaspard si rendeva conto che Nathaire era sempre più potente e più accorto di lui.

Studiando ansiosamente la configurazione generale delle stelle, scoprì il presagio della comparsa di un potente demonio in Averoigne. Ma la natura del demonio non era chiara.

Nel frattempo, l'orrenda resurrezione e migrazione dei morti erano ricominciate. Tutta l'Averoigne rabbrividiva di fronte a quella insolita enormità. Come le tenebre delle piaghe d'Egitto, il terrore si insinuava dovunque; e la gente parlava di ogni nuova atrocità sussurrando a bassa voce, senza avere il coraggio di farvi degli aperti riferimenti. Anche a Gaspard, come a tutti gli altri, pervennero quelle voci e, del pari, dopo che tutto quell'orrore sembrava cessato, verso la metà dell'estate, venne a conoscenza dell'agghiacciante racconto dei monaci Cistercensi.

E finalmente quel ricercatore, così a lungo deluso, trovò un indizio di ciò che cercava. Perlomeno aveva scoperto il nascondiglio del Negromante e dei suoi apprendisti, e chiaramente, i cadaveri che scomparivano si dirigevano verso quella meta. Tuttavia, anche per il perspicace Gaspard, esisteva ancora un enigma insolubile; l'esatta natura dell'abominevole complotto, l'incantesimo infernale che Nathaire stava tramando nel suo antro remoto. Di una cosa sola

Gaspard aveva la certezza assoluta: quel moribondo e stizzoso essere deforme, sapendo di avere i giorni contati e nutrendo un profondissimo rancore verso la gente dell'Averoigne, intendeva creare un maleficio senza precedenti e senza pari.

Pur conoscendo le inclinazioni di Nathaire, la sua perizia inesauribile nel campo delle scienze occulte, e le riserve di potenza in fatto di Magia Nera possedute dallo Stregone, poteva soltanto formulare delle vaghe, terrificanti congetture circa il demonio in incubazione.

Però, man mano che il tempo passava, provava un senso di sempre crescente apprensione, e sentiva l'adombrarsi di una mostruosa minaccia che stava strisciando fuori dalle tenebre del mondo.

Non riusciva più a scacciare quell'inquietudine e, alla fine, nonostante gli innegabili pericoli insiti in un'escursione del genere, decise di fare una visita nelle vicinanze di Ylourgne.

Pur provenendo da un'ottima famiglia, a quell'epoca, Gaspard si trovava in ristrettezze finanziarie. A causa del suo attaccamento a una scienza alquanto sospetta, era incorso nella disapprovazione del padre. Il suo solo reddito era un modesto assegno che, in segreto, gli inviavano la madre e le sorelle. Bastava solo per il suo magro sostentamento, la pigione della camera e alcuni libri, strumenti e prodotti chimici, ma non poteva permettergli l'acquisto di un cavallo o anche soltanto di un più umile mulo per il viaggio programmato

che superava i sessanta chilometri.

Senza scoraggiarsi, partì a piedi, limitandosi a prendere con sé un pugnale e una borsa di cibo.  Aveva  programmato la  camminata  in modo da giungere a

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Ylourgne al cadere della sera e al sorgere della luna piena. Buona parte dell'itinerario passava attraverso l'immensa, deprimente foresta che iniziava appena fuori le mura di Vyones, dal lato orientale, e si estendeva come un cupo porticato fino all'imbocco della valle dirupata e rocciosa, ai piedi di Ylourgne.

Dopo alcuni chilometri, emerse dalla parte più folta del bosco di pini, querce e larici e, da quel momento, per il primo giorno, seguì il corso del fiume Isoile, attraverso una pianura scoperta e ben popolata.

Trascorse la calda notte estiva sotto un faggio, nelle vicinanze di un piccolo villaggio, evitando di dormire nei boschi solitari, dove si pensava albergassero predoni, lupi e creature di una fauna anche più sinistra.

La sera del secondo giorno, dopo aver attraversato la parte più antica e più selvaggia della foresta millenaria, raggiunse la valle dirupata e rocciosa che portava alla sua destinazione. In quella vallata nasceva l'Isoile, ora ridotto a un semplice ruscello.

Nell'incerta luce del crepuscolo, fra il tramonto del sole e il sorgere della luna, scorse i lumi del monastero Cistercense e, sul lato opposto, la sommità delle sconnesse e scoraggianti scarpate, e la massa tozza e grifagna delle rovine della roccaforte di Ylourgne, con i sinistri bagliori dei fuochi diabolici che baluginavano oltre le feritoie. A parte quei riflessi, non c'era altro segno di vita, e non gli riuscì di udire i rumori descritti dai monaci. Gaspard attese fino a che la luna tonda e gialla come l'occhio di qualche gigantesco uccello notturno avesse cominciato a riversare i suoi raggi sulla valle tenebrosa. Poi, con molta cautela, perché quei luoghi gli erano estranei, si incamminò verso il teatro e bieco castello.

Anche per qualcuno praticissimo di quei burroni, la scalata sarebbe stata irta di difficoltà e di pericoli, a causa della luna piena. Spesse volte, scivolando in anfratti dissimulati dalla luce lunare, fu costretto a tornare sui suoi passi, perdendo tempo prezioso, e altrettanto spesso venne salvato da una caduta soltanto da striminziti arbusti e cespugli di rovi che avevano messo la radici in quell'arido terreno. Ansante, con i vestiti a brandelli e le mani escoriate e sanguinanti, alla fine raggiunse la sommità di quell'altura scoscesa e si trovò ai piedi delle mura.

Allora si fermò per riprendere fiato e recuperare le forze. Da quel punto poteva scorgere i riflessi dei fuochi invisibili che dovevano ardere all'interno dell'alto torrione. Gli giungeva anche un brontolio di rumori confusi, del quale era difficile individuare la distanza e la direzione. A volte pareva scendere dalle buie rovine, a volte salire da profonde cavità sotterranee della stessa collina.

Eccetto quel remoto e ambiguo brontolo, la notte era piena di un silenzio di morte. Pareva che anche gli animali più selvatici evitassero di avvicinarsi a quel terrificante castello.

Una specie di  nube  invisibile, umidiccia  e  trasudante  un  male paralizzante,

 

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ristagnava immobile su tutte le cose: e la pallida, turgida luna, patrona delle Streghe e degli Stregoni, sembrava distillare il suo verde veleno sulle torri cadenti, in un silenzio più antico del tempo stesso.

Gaspard, quando riprese ad avanzare verso il ponte levatoio, avvertì il peso di qualcosa di molto più gravoso della stanchezza. Sembrava che reti invisibili, intessute della stessa essenza maligna, cercassero di trattenerlo. Avvertiva sul viso il greve contatto, per quanto non fisico, di ali repellenti. Gli pareva di respirare un vento fetido, proveniente da insondabili recessi e caverne piene di corruzione.

Inaudibili ululati di derisione o di minaccia gli si affollavano alle orecchie, e mani immonde lo colpivano alle spalle.

Ma, a testa bassa, come se dovesse affrontare una tempesta scatenata, continuò ad avanzare, passando sui resti del ponte levatoio crollato nel fosso, e penetrando nel cortile infestato dalle erbacce.

Il luogo dava l'impressione di essere assolutamente deserto, e per buona parte era ancora immerso nell'ombra delle mura e delle torri.

Poco discosto, nella massa scura sormontata dai merli inargentati dalla luna, Gaspard vide la cavernosa porta d'entrata spalancata. Sì distingueva per un laido chiarore che compariva e spariva come i fuochi fatui delle paludi. Il brontolo che adesso aveva assunto il tono di molte voci a mormoranti, si irradiava da quell'apertura, e Gaspard ebbe l'impressione di vedere oscure, fuligginose figure, muoversi e passare rapidamente nel baluginare dell'interno.

Mantenendosi nell'ombra, avanzò cautamente nel cortile, compiendo una specie di percorso circolare fra i ruderi. Non si fidava ad avvicinarsi direttamente alla porta, per paura di essere visto, per quanto il luogo sembrasse incustodito.

Raggiunse il torrione che aveva la parte più alta illuminata da una pallida luminosità che lo investiva obliquamente, proveniente da una specie di crepa del grande edificio adiacente. Quell'apertura era a una certa altezza dal suolo, e Gaspard, guardando meglio, notò che in precedenza doveva essere stata una porta con un balcone di pietra.

Una rampa di gradini in rovina saliva lungo la parete fino a ciò che rimaneva della balconata, e al giovane venne in mente di salire quei gradini e penetrare inosservato nell'interno di Ylourgne.

Alcuni scalini mancavano del tutto, e la scala era completamente immersa nel buio più profondo. Gaspard raggiunse a stento il balcone, fermandosi soltanto una volta, in preda ad un comprensibile e discreto spavento, quando il frammento di un gradino logoro, smosso dal suo piede, precipitò con un fracasso indiavolato sui lastroni di pietra del cortile sottostante. A quanto pareva, il rumore non era stato avvertito dagli occupanti del castello e, dopo un po', riprese a salire.

Con la massima cautela si avvicinò alla sbrecciata apertura, dalla quale proveniva la luce. Accovacciato su  un ristretto davanzale che era tutto ciò che

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restava del balcone, sbirciò all'interno, e vide uno spettacolo così sbalorditivo e terrificante che soltanto dopo parecchi minuti riuscì a vagliare nei suoi incredibili particolari.

Chiaramente la storia narrata dai monaci, pur tenendo conto dei loro preconcetti religiosi, era stata ben lontana dal racconto fantastico.

Quasi tutti i muri interni e divisori di quell'edificio semidistrutto, erano stati abbattuti e smantellati per far luogo ad un unico enorme stanzone adatto alle attività di Nathaire. In se stessa, quella demolizione rappresentava già un compito sovrumano e, per la sua esecuzione, lo Stregone doveva aver impiegato una legione di seguaci e non soltanto i suoi dieci discepoli.

L'antro immenso era rischiato dal bagliore di fornacette e bracieri, e soprattutto dallo strano riverbero che proveniva dai giganteschi tini di pietra. Anche da quel punto così alto, l'osservatore non riuscì a discernerne il contenuto, però dall'uno si alzava una luminosità biancastra e dall'altro una fosforescenza tinta carne.

Gaspard aveva assistito ad un certo numero di esperimenti di evocazioni da parte di Nathaire e, fino a un discreto livello, aveva familiarità con il contenuto della Magia Nera. Entro certi limiti non era uno schizzinoso, anzi era improbabile che si spaventasse eccessivamente alla vista delle sagome scure e nude dei demòni che si stavano affaccendando in quell'antro al di sotto di lui, fianco a fianco agli apprendisti Stregoni in tonaca nera. Ma si sentì attanagliare da un orrore agghiacciante, quando vide l'incredibile, enorme cosa che occupava il centro del pavimento: un colossale scheletro umano, lungo una trentina di metri, quindi di molto superiore alla lunghezza dell'antico stanzone del castello, e gli uomini e i demoni intenti a rivestire le ossa del piede destro con carne umana!

La prodigiosa e macabra struttura ossea, era completa in ogni sua parte, con delle costole che sembravano le intelaiature infrastrutturali della carena di una nave satanica. Pareva che brillasse e riverberasse di una luce innaturale e che, nella luminosità baluginante, fremesse di diabolica irrequietezza. Le mani dalle dita ancora scheletriche avevano l'aspetto di artigli, come se stessero pregando senza speranza. I denti orribili erano disposti in un eterno ghigno malvagio e sardonicamente crudele. Le cavità oculari, profonde come i pozzi del Tartaro, davano l'impressione del ribollire di una miriade di luci ammiccanti e beffarde, come pesci fosforescenti che tentassero di risalire alla superficie, in una abominevole oscurità.

Gaspard era come frastornato dalla stupenda e stupefacente fantasmagoria che si spalancava dinanzi a lui, come un inferno in subbuglio. In seguito, non si sentì più del tutto sicuro su certe cose, e ricordava molto poco della maniera in cui veniva svolto il lavoro degli uomini e dei loro collaboratori.

Alcune creature dalle fattezze incerte e confuse, simili a pipistrelli, sembravano guizzare avanti e indietro fra uno dei tini di pietra e il gruppo che lavorava di scultura a rivestire il piede del mostro con un plasma rossiccio che veniva applicato e modellato come la creta. Gaspard pensò, ma in seguito non

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ne ebbe più la certezza, che quel plasma che brillava come una mistura di sangue e di fuoco venisse attinto dal tino alla luminosità rossastra e recato in bacinelle sorrette dagli artigli delle oscure creature volanti. Nessuna di esse, comunque, si avvicinava all'altro recipiente, la cui luce biancastra appariva più debole, come se si stesse spegnendo.

Cercò con lo sguardo la minuta figura di Nathaire ma, in tutto quel bailamme, non riuscì a individuarla. Il malaticcio Negromante, a meno che non fosse già stato sopraffatto dal male poco conosciuto che lo aveva tormentato a lungo come un fuoco interiore, senza dubbio doveva essere nascosto alla vista dallo scheletro colossale, e forse, dal suo giaciglio, stava dirigendo l'opera degli uomini e dei demoni. Incantato su quel precario ballatoio, l'osservatore non si

accorse dei passi furtivi e quasi felini che stavano strisciando alle sue spalle, su per la scala in rovina. Quando udì lo scricchiolio di un gradino rotto, dietro di lui, era già troppo tardi, e quando si voltò allarmato, venne spedito nel mondo dei sogni da una randellata sulla testa, e non riuscì nemmeno a rendersi conto che la sua caduta nel cortile era stata arrestata dalle braccia del suo assalitore.

 

5. L'orrore di Ylourgne

Tornando alla coscienza dal nulla dell'oblio, Gaspard si trovò a fissare gli occhi di Nathaire: quegli occhi di ebano e di notte, nei quali nuotavano i freddi e perversi fuochi di stelle cadute in un irrimediabile perdizione. Per qualche tempo, nella confusione dei sensi, non riuscì a distinguere altro che quegli occhi, che davano l'impressione di averlo ridestato come magneti, dallo svenimento.

All'apparenza senza corpo, eppure piantati in un viso troppo grande secondo le possibilità di conoscenze umane, risplendevano dinanzi a lui in una caotica oscurità. Poi, a poco a poco, riuscì a focalizzare le altre fattezze dello Stregone, e i particolari di una scena ributtante, e si rese conto della sua situazione.

Cercando di portarsi le mani alla testa indolenzita, scoprì di avere i polsi strettamente legati. Era semisdraiato e appoggiato a qualcosa con piani e bordi che gli faceva male alla schiena. Capì che si trattava di una specie di fornello da alchimista o «athanor», parte di una fornacetta in disuso, rovesciata sul pavimento. Coppelle, alambicchi, cucurbite simili a globi e a gole enormi, erano ammucchiati in una confusione impossibile, insieme a pi-le di libri con i fermagli di ferro, a calderoni ricoperti di fuliggine e a bracieri tipici delle scienze occulte.

Nathaire, sostenuto da guanciali e cuscini saraceni ricamati in oro cupo e folgorante scarlatto, si stava sporgendo su di lui da una specie di giaciglio improvvisato, costituito da tappeti e arazzi orientali di una sontuosità al cui confronto le nude pareti del castello, chiazzate di umidità, di muschi e funghi morti, facevano un contrasto grottesco. Sullo sfondo si alternavano deboli bagliori e ombre fluttuanti, e Gaspard udiva un mormorio di voci gutturali, alle spalle, la cui luminosità rossastra veniva schermata e confusa dalle ali dei

vampiri che andavano e venivano di continuo.

«Benvenuto», disse Nathaire, dopo un certo intervallo di tempo, durante il quale lo studioso aveva avuto modo di rendersi conto del fatale progredire della malattia, osservando le fattezze segnate dalla sofferenza, del Negromante che gli stava davanti. «E così, Gaspard du Nord è venuto a far visita al suo antico Maestro!»

La voce che proveniva da quel corpo avvizzito era incredibilmente imperiosa, demoniaca e agghiacciante.

«Sì, sono venuto», rispose Gaspard, in tono incolore, «Sono venuto per sapere... per chiederti... che specie di opera diabolica è quella nella quale sei impegnato. E che cosa ne ha fatto dei cadaveri che sono stati trafugati dai tuoi maledetti accoliti...»

L'esile figura del moribondo Nathaire, come posseduta da una forza malefica potentissima, cominciò a rotolarsi e a scuotersi sul sontuoso giaciglio, scossa da un violento accesso di riso. E quella fu l'unica risposta.

«Se il tuo aspetto non mente», proseguì Gaspard, quando quell'odioso cachinno cessò, «sei malato a morte e il tempo che ti rimane per pentirti delle tue azioni malvagie e riconciliarti con Dio, ammesso che per te esista ancora la possibilità di una tale riconciliazione, indubbiamente è molto breve. Quale folle e mostruosa misura stai preparando, per assicurarti la dannazione eterna?»

Lo sciancato fu assalito nuovamente da uno spasmodico accesso di ilarità.

«Ti sbagli, mio caro Gaspard», disse alla fine. «Ho cercato qualcosa di più grande di ciò che fanno i piagnucolosi codardi che invocano la benignità e la misericordia del Tiranno celeste. L'inferno potrà ghermirmi, alla fine, ma ha già pagato e pagherà ancora un altissimo prezzo. Debbo morire presto, è vero, perché il mio destino è scritto nelle stelle, ma anche nella morte, per grazia di Satana, sarò ancora vivo e, grazie all'incalcolabile forza fisica dell'Anakim, potrò dedicarmi alla vendetta contro il popolo dell'Averoigne che mi ha odiato a lungo per le mie credenze negromanti-che e che mi ha deriso per la mia deformità.»

«Di quale follia vai farneticando?», domandò il giovane, atterrito dal delirio di malvagità che andava al di là delle possibilità umane e che sembrava dilatare e ingigantire le forme raggrinzite di Nathaire, e che gli accendeva lo sguardo di una fiamma infernale.

«Non è una follia, ma qualcosa di reale e, forse, come la vita stessa, una miracolo... Con i cadaveri dei morti recenti, che altrimenti sarebbero andati a marcire in una tomba, i miei discepoli e i miei accoliti, stanno creando per me, sotto la mia guida, il corpo gigantesco del quale hai visto lo scheletro. La mia anima, alla morte del corpo che sto occupando, passerà in quel colossale involucro, per opera di alcune formule relative alla trasmigrazione che ormai i miei fedeli assistenti conoscono alla perfezione.

Se tu fossi restato con me, Gaspard, e non fossi tornato alla tua gretta meschinità, lasciando le meraviglie che ti sto svelando, adesso avresti il privilegio di  assistere  alla creazione di questo  prodigio...  e  se  invece, spinto

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dalla tua malsana curiosità, fossi venuto a Ylourgne un po' più presto, avrei potuto fare un certo uso delle tue solide ossa e dei tuoi muscoli... lo stesso che ho adottato nei confronti degli altri giovani morti per incidente o di morte violenta. Ma ormai è troppo tardi anche per questo, perché la struttura ossea del gigante è già stata ultimata e non rimane che rivestirla di carne umane. Mio buon Gaspard, non c'è più nulla di buono da ricavare da te... Fortunatamente però, esiste una segreta sotto il castello e ben nascosta, nel profondo, fatta costruire a bella posta dai crudeli Signori di Ylourgne.»

Gaspard non fu in grado di formulare una risposta a quel sinistro e inaspettato annuncio. Mentre stava ancora cercando le parole, nel cervello paralizzato dall'orrore, si sentì sollevare da tergo da gente che non riusciva a vedere e che, senza dubbio, aveva agito in risposta a un comando di Nathaire e che a lui era sfuggito.

Venne bendato con qualcosa di molto spesso, sistemato su una barella di foggia strana, come un cadavere pronto per il funerale, e portato giù per una tortuosa rampa di scalette in rovina, lungo le quali la puzza nauseabonda di acqua stagnante si mischiava all'oleoso fetore di muffa dei serpenti che si protendevano verso di lui.

La distanza percorsa gli pareva tale da escludere ogni possibile ritorno. A poco a poco il fetore crebbe, diventando insopportabile e le scale ebbero termine. Una porta cigolò pigramente sui cardini arrugginiti e Gaspard venne scaraventato su un pavimento umido che dava l'idea di essere stato consumato da migliaia di piedi.

Andò a sbattere contro un massiccio blocco di pietra; gli slegarono i polsi, gli tolsero la benda dagli occhi e, alla luce delle torce, ebbe la visione di un buco tondeggiante a voragine che si apriva ai suoi piedi. Rovesciato di fianco, vi era il lastrone che era servito a coprirlo.

Prima che riuscisse a voltarsi per vedere le facce dei suoi catturatori per sapere se si trattava di uomini o di demoni, venne afferrato bruscamente e scaraventato nell'apertura. Ebbe l'impressione di precipitare nell'Erebo, tanto gli parvero immensi la distanza e il tempo prima che urtasse contro il fondo. Semistordito, in quel pozzo in verità poco profondo, gli giunse il tonfo sordo del pesante masso di pietra che veniva reinserito al suo posto per suggellare la sua tomba.

 

6. I sotterranei di Ylourgne

Gaspard venne richiamato alla coscienza dal freddo dell'acqua nella quale giaceva. Si sentiva gli abiti tutti inzuppati, e quel mefitico pozzo doveva avere la stessa circonferenza dell'imbocco. Inoltre, da qualche parte del suo carcere sotterraneo, percepì, un continuo, monotono sgocciolio. Si alzò in piedi, constatando che aveva ancora tutte le ossa intatte ed iniziò una cauta esplorazione.

Man mano che avanzava, doveva togliersi immonde tele di ragno dal viso, mentre i piedi sguazzavano in un liquame fetido e scivoloso e gelidi contatti di

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sviluppi serpentini gli strisciavano agghiaccianti lungo le anche, emettendo paurosi sibili di collera.

Gli bastarono pochi passi per raggiungere una ruvida parete di pietra e, a tastoni, cercò di determinare l'estensione della segreta. Più o meno, era circolare, senza angoli, e non riuscì a farsi un'idea esatta della circonferenza. Comunque scoprì una specie di sperone di sassi che, sorgendo dall'acqua, finiva contro la parete, e si rifugiò là sopra, perché era relativamente più asciutto e confortevole, non prima di averne scacciato un buon numero di rettili, piuttosto restii ad andarsene. Tali rettili, a quanto pareva, erano inoffensivi e, probabilmente, appartenevano a qualche specie di biscie acquatiche, tuttavia non poteva fare a meno di rabbrividire al solo tocco delle loro viscide scaglie.

Seduto su quel rialzo sassoso, Gaspard passò mentalmente in rassegna tutti gli orrori della situazione che si prospettava quanto mai disperata. Era venuto a conoscenza dello sconvolgente segreto di Ylourgne, e del mostruoso e blasfemo progetto di Nathaire, però, al momento, murato in quel pozzo nauseabondo come in un sepolcro, sotto il castello infestato dai demoni, non poteva avvertire il mondo della minaccia incombente.

Appesa alla schiena, quantunque ormai quasi vuota, aveva ancora la borsa del cibo di quando era partito da Vyones, e si assicurò che i suoi catturatori non gli avessero tolto il pugnale.

Rosicchiando una crosta di pane secco nelle tenebre, e accarezzando l'impugnatura dell'arma, si mise e riflettere sulle possibilità di uno spiraglio in quella situazione senza speranza.

Non aveva modo di tenere il conto delle ore buie che trascorrevano con la lentezza di un fiume paludoso che strisciasse in un cieco silenzio verso una mare sotterraneo. L'unica cosa che interrompeva quel silenzio era il continuo sgocciolio, forse proveniente da qualche sorgente della collina che, aveva rifornito il castello nel passato; ma, a poco a poco, si trasformò in qualcosa di ossessivamente monotono che suscitò nella sua mente, già scossa, l'impressione di demoni ghignanti nel buio. E, alla fine, per lo sfinimento fisico, cadde nel torpore di un incubo che, tutto sommato, rappresentò una liberazione.

Quando si risvegliò, non avrebbe saputo dire se fosse giorno o notte, in quanto, nella segreta, ristagnavano le solite tenebre, senza il minimo barlume di luce. Però, rabbrividendo, si accorse di uno spiffero d'aria umido e mefitico che lo investiva dall'alto, come il respiro di altri sotterranei che si fossero risvegliati alla vita e all'attività, durante il sonno.

Non l'aveva affatto avvertito in precedenza, e quel torpido soffio gli accese in cuore una improvvisa speranza. Indubbiamente doveva esserci qualche crepa o qualche condotto sotterraneo, attraverso il quale filtrava quell'aria, e ciò voleva dire che esisteva una via d'uscita, da quella cella.

Si alzò e annaspò alla cieca, in direzione dello spiffero. Incespicò in qualcosa che  scricchiolò  e  si  frantumò  sotto i  suoi  piedi, e che  per poco  non  lo fece

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cadere in avanti in quell'immonda pozzanghera limacciosa e infestata dai serpenti. Prima che riuscisse a scoprire la natura dell'ostacolo o a riprendere la marcia a tastoni, dall'alto gli giunse un rumore raschiante, e un fascio ondeggiante di luce gialla si proiettò nella segreta, dall'apertura. Abbagliato da quella luminosità, guardò in alto, e vide dieci o dodici piedi e una mano nera che si sporgeva in giù, reggendo una torcia accesa. Inoltre, stava arrivando una corda con un cestino contenente del pane e del vino.

Gaspard prese il pane e il vino, e il cestino venne ritirato su. Prima che sparisse anche la luce della fiaccola e che venisse richiuso il pietrone, riuscì a lanciare una rapida occhiata al suo carcere.

Era pressapoco cilindrico, come aveva supposto, di circa quattro metri e mezzo di diametro. L'oggetto nel quale aveva inciampato, era uno scheletro umano, a metà riverso sullo sperone di sassi e per metà immerso nel sudicio liquame.

Ormai annerito e corrotto dal tempo, aveva i resti dei vestiti ridotti a chiazze ammuffite.

Le pareti apparivano rigate e segnate da centinaia di fessure, e le stesse pietre sembravano avviate a una lenta rovina. Proprio dirimpetto, come aveva sospettato, alla base del muro, scorse l'imbocco di un condotto, non più grande della tana di una volpe, nel quale confluivano le acque limacciose.

A quella vista ebbe un sussulto, perché, anche se il livello dell'acqua fosse stato più profondo di quanto sembrava, tuttavia l'apertura era troppo stretta per permettere il passaggio di un corpo umano. Come soffocato dal crollo repentino di tutte le speranze, mentre la luce spariva, riguadagnò il suo rifugio sullo sperone di pietra.

Fra le mani aveva ancora la pagnotta e la bottiglia di vino.

Avidamente, seguendo gli istinti di una fame animalesca e incontrollata, mangiucchiò e bevve. Subito dopo si sentì più forte e il vino, per quanto asprigno e dozzinale, servì a riscaldarlo e ad ispirargli una nuova idea.

Scolata la bottiglia, sempre a tentoni, raggiunse l'imbocco del condotto visto in precedenza. L'afflusso dell'aria si era fatto più gagliardo, e questo fatto lo interpretò come un buon auspicio. Trasse il pugnale e cominciò a scalfire il muro già intaccato dal tempo e mezzo in rovina, cercando di allargare l'apertura. Fu costretto e inginocchiarsi in quella melma nauseabonda, e veri e propri viluppi di serpenti acquatici presero a strisciargli sulle gambe, sibilando paurosamente. Evidentemente quell'apertura doveva costituire la loro via di accesso e di uscita dalla segreta.

Le pietre cedevano facilmente al suo pugnale, e Gaspard dimenticò l'orrore della sua situazione, nella speranza della fuga. Non aveva modo di conoscere lo spessore della pareti, e la natura e l'estensione dei sotterranei che si trovavano al di là di esse, ma nutriva la certezza nell'esistenza di qualche canale di connessione con l'esterno.

Per ore che gli sembrarono giorni, si diede affannosamente da fare con il pugnale, penetrando  in profondità  nelle friabili pareti e asportando i sassi e i

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calcinacci che cadevano con un tonfo nell'acqua a lato. Dopo un po', strisciando carponi, si introdusse nell'apertura che aveva allargato e, con l'alacrità di una talpa, si aprì la via per avanzare, centimetro dopo centimetro.

Alla fine, con incredibile sollievo, la punta del pugnale incontrò il vuoto. Fece cadere l'ultimo sottile strato di pietra che restava, poi, sempre strisciando nel buio, passò al di là, scoprendo che gli era possibile alzarsi in piedi su una specie di pavimento in discesa.

Stirandosi le membra rattrappite, fece qualche passo in avanti, con tutta la precauzione possibile. Si trovava in un locale piuttosto stretto, forse una galleria, della quale riusciva a toccare simultaneamente le pareti con la punta delle dita. Il pavimento era inclinato in avanti e le acque vi defluivano giungendo prima a livello delle ginocchia e poi, via via, fino alla cintola. Con tutta probabilità, un tempo, quel budello doveva essere stato un'uscita segreta e sotterranea del castello, ma il franamento della volta doveva aver fermato il deflusso delle acque.

In preda ad un comprensibile sgomento, Gaspard cominciava a chiedersi se non avesse scambiato quella fetida segreta infestata dagli scheletri, per qualcosa di peggio. Le tenebre attorno e dinanzi a lui non lasciavano ancora trapelare il benché minimo spiraglio di luce e la corrente d'aria, quantunque sempre sostenuta, era pregna di umidità e di odore di muffa, come se provenisse da sotterranei interminabili.

Continuando a tastare le pareti di tanto in tanto, man mano che avanzava nell'acqua che defluiva, sulla sua destra scoprì una diramazione ad angolo retto, che si rivelò per un'apertura che dava su un locale più grande. Dal costante livello del liquame limaccioso, comprese che il pavimento di quel nuovo sotterraneo non sprofondava più. Esplorandolo attentamente si imbatté nell'inizio di una scala. Cominciando a salire nell'acqua sempre meno alta, presto si trovò all'asciutto.

Quella scala, stretta, rovinata e irregolare, e senza pianerottoli, dava l'idea di una spirale senza fine che proseguisse all'infinito attraverso i sotterranei di Ylourgne. Sembrava non avere sbocco ed era soffocante come una tomba e, chiaramente, non costituiva la fonte della corrente d'aria che Gaspard aveva cominciato a seguire. Non sapeva dove portasse e non poteva nemmeno dire se si trattasse della stessa scala che gli avevano fatto percorrere per condurlo alla segreta. Tuttavia continuò a salire, imperterrito, sostando soltanto per riprendere fiato, per quanto gli era consentito in quell'atmosfera mortifera e mefitica.

Finalmente, sempre nelle tenebre più fitte, molto lontano, cominciò a udire un misterioso rumore smorzato, un cupo, ma ricorrente fracasso, come di enormi massi o blocchi di pietra che cadessero rovinosamente. Il rumore era indicibilmente pauroso e impressionante e pareva scuotere le insondabili pareti che lo circondavano e far vibrare sinistramente i gradini che stava salendo.

 

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Adesso Gaspard procedeva in uno stato di preoccupazione e di allarme raddoppiati, fermandosi di quando in quando ad ascoltare. Il tonfo ricorrente si andava facendo sempre più distinto, più minaccioso, come se avvenisse proprio sulla sua testa. E Gaspard si addossò alla parete per parecchi minuti, senza avere il coraggio di proseguire. Alla fine, con una sconcertante subitaneità, il rumore cessò di colpo, lasciando il posto ad uno strano e pauroso silenzio.

Con la mente piena di funeste congetture, non sapendo a quale altra spaventosa novità andasse incontro, Gaspard si decise a riprendere la salita. E, in quelle tenebre compatte e insondabili, al suo udito pervenne ancora un suono del tutto nuovo; sembrava il sommesso ed echeggiante salmodiare di molte voci, come in una messa o in una cerimonia liturgica satanica, con intonazioni e cadenze funebri che si trasformarono in un inno insopportabilmente fragoroso, di satanico trionfo. Ancora molto prima di riuscire a distinguere le parole, si sorprese a rabbrividire alla marcata, malefica cadenza di quel ritmo modulato, l'elevarsi e l'affievolirsi del quale sembrava in qualche modo corrispondere al respiro di un demone colossale.

La scala svoltò per la centesima volta nella sua tortuosa spirale e, provenendo dal buio più profondo, Gaspard fu come abbacinato dall'incerto chiarore che gli pioveva addosso dall'alto. Il coro delle voci lo investì con una più travolgente ondata di clamore infernale, e riuscì a riconoscere le parole per quelle di un raro e potente incantesimo usato dagli Stregoni per i propositi più folli e più perversi. Mentre saliva gli ultimi gradini, con un brivido di orrore, si rese conto di ciò che stava avvenendo fra i ruderi di Ylourgne.

Affacciatosi cautamente dal pavimento del castello, constatò che la scala terminava in un angolo dell'enorme antro nel quale aveva visto l'inimmaginabile creazione di Nathaire. L'interno del vastissimo locale era inondato da una nuova luminosità, nella quale i raggi di una luna leggermente gibbosa, si fondevano con il rosseggiare di fornacette morenti e con le multi-colorate lingue di fuoco che si innalzavano dai bracieri negromantici.

Per un attimo Gaspard si chiese come mai la luce della luna piena potesse penetrare in quell'antro. Poi si accorse che quasi tutto il muro perimetrale dal lato del cortile era stato abbattuto. Senza dubbio doveva essere stato lo smantellamento di quei ciclopici blocchi di pietra, opera di qualche incantesimo sovrumano dovuto alla stregoneria, a produrre i tonfi che aveva udito mentre stava risalendo dai sotterranei. E si sentì raggelare il sangue, nel rendersi conto del perché il muro era stato abbattuto.

Evidentemente erano trascorsi tutto un giorno e parte della notte da quando era stato murato vivo, perché la luna era di nuovo alta nel cielo. Investiti dalla pallida luce lunare, i due recipienti di pietra non emettevano più la loro strana ed elettrica fosforescenza. Il giaciglio di fattura saracena, sul quale Gaspard aveva visto lo sciancato morente, adesso era seminascosto dai vapori che salivano dai tripodi e dei turiboli, fra i quali i dieci discepoli dello Stregone, paludati in tuniche color sabbia e scarlatto, stavano celebrando il loro abominevole e ripugnante rito, scandendo quelle maledette litanie.

Letteralmente terrorizzato come si può esserlo davanti a un'apparizione che stia sorgendo dal più profondo dell'Inferno, Gaspard fissò il colosso che giaceva inerte, simile a un ciclope addormentato, sul pavimento del castello. Non si trattava più di un semplice scheletro: i muscoli erano stati ben modellati nei vari sistemi muscolari umani, come quelli di un gigante biblico; i fianchi sembravano forti come mura invalicabili, il torace aveva l'aspetto di una piattaforma bordata dalle costole, e le mani avrebbero potuto stritolare il corpo di un uomo come macine da mulino... ma il viso del mostro, osservato di profilo al riflesso della luna, era lo stesso dello sciancato satanico, di Nathaire... abbellito centinaia di volte, ma sempre con la medesima espressione di implacabile cattiveria e malevolenza.

Il petto sembrava alzarsi e abbassarsi, e durante una pausa del rituale negromantico, Gaspard percepì l'inconfondibile suono di una possente respirazione. Visti di profilo, gli occhi sembravano chiusi, ma le palpebre pare-vano scosse da un tremito, come enormi cortine e come se il mostro fosse sul punto di svegliarsi: le mani abbandonate lungo i fianchi, con le dita pallide e bluastre simili a una sfilata di cadaveri, si contraevano spasmodicamente e senza posa.

Gaspard si sentì invadere da un insopportabile terrore, ma neanche quello riuscì a indurlo a tornare nei mefitici sotterranei che aveva appena lasciato. Con infinita esitazione e trepidazione, sgusciò fuori dall'angolo, mantenendosi in una zona d'ombra fittissima, lungo la parete.

Nell'avanzare, poté lanciare un'occhiata attraverso le dense nubi di vapori, all'ammasso di coperte e cuscini sul quale giaceva il corpo deforme di Nathaire, pallido e immobile. A quanto pareva, lo Stregone doveva essere morto o quantomeno in quello stato di incoscienza che precede la morte.

In quel mentre, il coro, sempre litaniando le sue formule spaventose, proruppe in un acutissimo cachinno di satanico trionfo. I vapori presero a vorticare come una nube scaturita dall'Erebo, attorcigliandosi a spire della consistenza di quelle di un pitone, nascondendo alla vista il letto orientale e il suo occupante.

Qualcosa di demoniaco, simile a una potenza senza nome, ammorbò l'aria. Gaspard sentì che l'orrenda trasmigrazione, evocata e implorata con quel liturgico e blasfemo salmodiare sempre in crescendo, stava avvenendo... o forse era già avvenuta. E gli parve che il gigante si stesse stirando e sospirasse come chi è prossimo al risveglio totale.

E, quasi subito, l'imponente e troneggiante mole si venne a interporre fra Gaspard e gli Stregoni osannanti. Nessuno lo aveva visto e lui non ebbe il coraggio di mettersi a correre: raggiunto il cortile senza essere stato notato né seguito, senza neanche voltarsi indietro, come se avesse il diavolo alle calcagna, si slanciò per gli scoscesi dirupi che scendevano a Ylourgne.

 

 

 

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7. L'avvento del colosso

Con la cessazione dell'esodo delle salme, in tutta l'Averoigne si diffuse un nuovo terrore, un'onnipresente ombra di apprensione, di paura, di inferno e di morte. Strani e calamitosi fenomeni si stavano verificando nei cieli; meteore circondate di fiamme erano state viste cadere oltre le colline orientali; molto lontano, a sud, per parecchie notti, una cometa con il suo nucleo aveva oscurato le stelle, e poi era sparita, lasciando in tutti il presagio di disgrazie e pestilenze.

Di giorno, l'atmosfera era opprimente e afosa, e l'azzurro del cielo sembrava reso più ardente da fuochi biancastri. Nuvole temporalesche apparivano e sparivano all'orizzonte, come minacciosi eserciti di Titani.

Fra il bestiame era scoppiata una moria che aveva tutta l'aria di essere frutto di incantesimi. E tutti quei prodigi avevano influito sugli animi già tanto oppressi, rendendoli trepidi per ciò che si preparava e si macchinava ai loro danni nell'Inferno.

Ma, fino a che la minaccia non si manifestò chiaramente, non c'era nessuno, all'infuori di Gaspard del Nord, che ne conoscesse la vera natura. E Gaspard, correndo a testa bassa nella luce della luna, verso Vyones, con il terrore di udire il passo del colosso alle spalle, aveva ritenuto inutile spargere l'allarme nelle città e nei villaggi che incontrava durante la fuga. Infatti, anche se li avesse avvertiti, dove potevano sperare di nascondersi gli abitanti, da una cosa tanto spaventosa, generata nell'Inferno con i cadaveri trafugati, e che poteva scatenarsi come Satana in persona, e calpestare il mondo con la sua furia?

E così, per tutta la notte e il giorno seguente, Gaspard du Nord, ancora con il fango disseccato della segreta sui suoi vestiti a brandelli lacerati dai cespugli spinosi, corse come un invasato attraverso gli immensi boschi infestati dai predoni e dai lupi mannari.

Mentre la sua corsa continuava, la luna, tramontando a occidente, appariva e spariva fra i tronchi cupi e contorti degli alberi, e l'alba lo raggiungeva con i suoi pallidi raggi. Il meriggio si rovesciava su di lui con il biancore incandescente del metallo fuso in una fornace ardente, e il sudiciume coagulato che continuava a colare sui cenci sbrindellati che indossava, dal sudore veniva trasformato in un liquame sgocciolante e melmoso. E seguitava a essere oppresso dall'incubo incombente, mentre nella sua mente stava prendendo forma un vago disegno, apparentemente senza speranza.

Nel frattempo, parecchi monaci della comunità Cistercense, i quali, fin dallo spuntar dell'alba, con la loro abituale vigilanza, osservavano le grigie mura di Ylourgne, furono i primi, dopo Gaspard, ad accorgersi del mostruoso orrore creato dai Negromanti. La relazione che ne fecero, poteva in qualche modo avere una sfumatura di esagerazione, ma giuravano che il gigante era comparso di colpo, sovrastando dalla cintola in su, le rovine del barbacane, fra un subitaneo divampare di lunghe lingue di fuoco, e le spire di vapori di pece e di zolfo eruttati dalle Malebolge.

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La testa del gigante raggiungeva la  sommità del torrione e il suo braccio destro, senza esagerazione, oscurava il sole nascente come una nuvola temporalesca.

I monaci erano caduti tutti in ginocchio in atteggiamento umile e contrito, convinti che lo stesso Nemico fosse emerso dall'Abisso, scegliendo Ylourgne come sbocco. Poi, per tutta l'ampiezza della valle, si diffuse uno scroscio tuonante di cachinni demoniaci, e il gigante, scavalcando fosso, mura di cinta e ponte levatoio con un solo passo, cominciò a discendere le scarpate e i dirupi delle colline.

Quando fu più vicino, mentre passava da un declivio all'altro, le sue fattezze si delinearono chiaramente per quelle di un enorme demonio sconvolto dall'ira e dall'odio contro i Figli di Adamo. I capelli, annodati a ciocche, gli ricadevano sulle spalle fluttuando e contorcendosi come grovigli di neri serpenti; la sua epidermide era livida, pallida e cadaverica come quella di un morto, ma al di sotto di essa si indovinava la stupenda muscolatura di un Titano. Gli occhi, immensi e cattivi, fiammeggiavano come calderoni scoperchiati e ribollenti per il fuoco dell'Abisso scatenato.

La notizia del suo avvento si abbatté come un turbine di tempesta su tutto il monastero. Molti monaci, ritenendo la prudenza come la parte migliore del fervore religioso, andarono a rintanarsi nelle cantine scavate nel tufo e nei sotterranei. Altri si inginocchiarono nelle celle, mormorando e gridando incoerenti invocazioni a tutti i santi. E altri ancora, indubbiamente i più coraggiosi, accorsero in massa in chiesa, a inginocchiarsi e a intonare solenni preghiere al cospetto del grande crocefisso di legno.

Bernardo e Stefano, i quali, più o meno, si erano già rimessi dalle percosse ricevute, furono i soli ad avere il coraggio di assistere all'avanzata del gigante. E il loro orrore crebbe in modo indicibile, quando cominciarono a riconoscere nelle fattezze del colosso una stupefacente rassomiglianza con quelle del dannato sciancato che aveva diretto le tenebrose e blasfeme attività di Ylourgne; e la risata del gigante, mentre scendeva la valle, faceva coro all'eco del maledetto cachinno, simile all'imperversare della bufera di coloro che lo seguivano sbucando dal castello infestato. Comunque, per Bernardo e Stefano, era chiaro che lo sciancato, il quale senza dubbio era un demonio in tutto e per tutto, aveva scelto di assumere il suo aspetto naturale.

Giunto al fondo della valle, il gigante si fermò fissando il monastero con gli occhi fiammeggianti che si trovavano alla stessa altezza della finestra alla quale stavano affacciati Bernardo e Stefano.

Rise di nuovo - un riso pauroso, simile a un boato sotterraneo - e poi si chinò, raccattò una manciata di pietroni come se fossero ciottoli, e cominciò a colpire il monastero. I pietroni urtavano con grande fragore contro le mura, come se venissero lanciati da grandi catapulte e argani da guerra, ma la robusta costruzione resistette nonostante i colpi e le scosse crudeli.

Poi, con ambo le mani, il colosso liberò un immenso macigno profondamente conficcato nel fianco della collina, quindi lo sollevò e lo scagliò contro le mura

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che gli resistevano. Il masso smisurato rovinò su tutto un lato della chiesa, e coloro che vi si erano radunati, vennero ritrovati più tardi in unico ammasso sanguinolento, insieme alle schegge del crocefisso di legno.

Dopodiché, quasi disdegnando perdere altro tempo con una preda tanto insignificante, il colosso voltò le spalle al piccolo monastero e, simile a un Golia redivivo sotto le spoglie di un demonio, si avviò, con un enorme fracasso, giù per la valle verso l'Averoigne.

Mentre se ne andava, Bernardo e Stefano, ancora affacciati alla finestra, videro una cosa che prima non avevano notato; un enorme canestro appeso con delle cinghie alle spalle del gigante. E in esso, vi erano dieci uomini, i discepoli e gli assistenti di Nathaire, come bambolotti o burattini nella gerla di un venditore ambulante.

Circa le susseguenti scorrerie e devastazioni del colosso, esistono pressapoco un centinaio di leggende, molto note in tutta l'Averoigne: racconti di un orrore unico e di un'efferatezza senza confronti fra le altre storie di quella terra infestata dai demoni.

I caprai delle colline sottostanti Ylourgne lo videro arrivare e fuggirono a tutta velocità con le loro greggi sui crestali più alti. Però il gigante prestò loro poca attenzione, limitandosi a calpestarli come scarafaggi quando non riuscivano ad allontanarsi dal suo cammino.

Seguendo il ruscello che costituiva la sorgente del fiume Isoile, raggiunse il bordo della grande foresta, e si racconta che sradicasse un pino altissimo e che, dopo averlo ripulito dei rami con le mani, se ne facesse un randello che, da allora in poi, portò sempre con sé.

Con quella clava, più pesante di un ariete, ridusse a un mucchio di macerie una cappella votiva situata sul ciglio della strada che costeggiava i boschi. Incontrò un villaggio e lo attraversò menando randellate sui tetti, rovesciando i muri e schiacciando gli abitanti sotto i piedi.

Per tutto quel giorno non fece altro che andare avanti e indietro, in preda ad una pazzesca mania di distruzione, come un Ciclope ubriaco di morte. Anche gli animali più selvaggi della foresta cercarono di sfuggirlo, pieni di paura.

I lupi che stavano cacciando, lasciarono perdere la preda e corsero, ululando cupamente di terrore, e rifugiarsi nelle tane rocciose. Ed anche i neri e feroci cani da caccia, padroni delle foreste, non se la sentirono di attaccarlo, e si nascosero, guaendo, nei canili.

Anche gli uomini udirono la sua risata possente, il suo mugghiare da tempesta: lo videro avvicinarsi da una distanza di parecchi chilometri e fuggirono o corsero a nascondersi meglio che potevano. I Signori che possedevano dei castelli recintati dai fossi, raccolsero gli armati, alzarono i ponti levatoi e si prepararono come per l'assedio di un esercito. Gli abitanti dei borghi e dei paesi si rintanarono nelle caverne, nelle cantine, in antichi sotterranei e persino sotto mucchi di fieno, sperando che passasse senza vederli. Le chiese erano affollate di gente in cerca di rifugio, che invocavano la protezione della Croce, ritenendo che Satana in  persona, o  qualcuno  dei suoi

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principali luogotenenti, fosse insorto per saccheggiare e ridurre in rovina il

paese.

Il gigante, durante le sue scorrerie, continuava a urlare incredibili maledizioni, inimmaginabili oscenità e bestemmie, in un tono di voce che ricordava il tuono estivo. Fu udito indirizzarsi alla feccia di figure ammantate di nero che recava nel cappuccio, in un tono di ammonimento o di dimostrazione, come fa il maestro con gli alunni.

Chi aveva conosciuto Nathaire, ravvisò subito l'incredibile rassomiglianza con il gigante e con la sua strana voce tronfia. Si sparse sempre più insistente la voce che lo Stregone sciancato, per la lealtà dimostrata verso il Nemico, avesse ottenuto di poter trasferire la propria anima, traboccante di odio, in quel titanico colosso e che, in compagnia dei suoi discepoli, fosse tornato a vendicarsi, con ira incommensurabile e smisurato rancore, del mondo che si era fatto beffe di lui per il suo fisico mingherlino e lo aveva insultato per la sua stregoneria. Si vociferava anche sull'origine negromantica della mostruosa creatura; infatti si diceva che il colosso avesse apertamente proclamato la propria identità.

Sarebbe tedioso riferire nei minimi particolari tutte le enormità e le atrocità attribuite a quel gigante predatore... Si raccontò che avesse ghermito delle persone in fuga - soprattutto preti e donne - squartandoli poi pezzo a pezzo, come può fare un bambino con un insetto... e cose anche peggiori che non è il caso di nominare.

Molti testimoni oculari raccontavano lo scempio che fece di Pierre, il Signore di La Frênaie, che stava cacciando un cervo superbo nella vicina foresta, con i cani e i servi. Afferrò cavallo e cavaliere di sorpresa, con una mano e, sollevatili al di sopra degli alberi, li scaraventò contro le granitiche mura del castello di La Frênaie. Poi, preso il cervo rosso che Pierre aveva cacciato, lo scagliò addosso all'uomo e al cavallo; e le enormi chiazze di sangue prodotte dall'impatto dei corpi, rimasero a lungo visibili sulle pareti del castello, e non furono mai cancellate del tutto, né dalle piogge autunnali, né dalle nevi invernali.

E si raccontavano anche storie senza fine sulle imprese di osceno sacrilegio e di profanazione commesse dal colosso sulla statua di legno della Vergine Maria che gettò nel fiume Isoile, a monte di Ximes, insozzata con intestini umani in putrefazione tratti dal cadavere di un infame fuorilegge, o dei cadaveri già pieni di vermi che strappò con le proprie mani dalle tombe sconsacrate e lanciò nel chiostro dell'Abbazia Benedettina di Périgon; e della chiesa di Santa Zenobia che seppellì con i preti e i fedeli sotto una montagna di immondizie, composta di tutto il letame sottratto alle fattorie del circondario.

 

8. L'abbattimento del colosso

Il gigante si spostò senza soste avanti e indietro, con un irregolare, folle procedere  a zig-zag, da un  punto all'altro del  tormentato  territorio, come un

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energumeno posseduto da qualche implacabile demonio assetato di male e di delitti, lasciandosi alle spalle, come fa il mietitore con la falce, una enorme distesa di rovine, di rapine e di carneficine. E quando il sole, oscurato dal fumo dei villaggi in fiamme, si trasformò in un mare di foschia, oltre la foresta, continuò ad agitarsi nel crepuscolo e a fare udire lo scroscio fragoroso del suo folle e apocalittico cachinno.

In quello stesso tramonto, nei pressi delle porte di Vyones, Gaspard du Nord, voltandosi indietro, vide attraverso le brecce dell'antica foresta, la testa e le spalle del terribile colosso che si spostavano lungo il corso dell'Isoile, scomparendo ogni tanto alla vista, quando era occupato a compiere qualche orrida impresa.

Per quanto intorpidito dalla debolezza e dallo sfinimento, Gaspard affrettò la sua fuga. In fondo non credeva che il mostro avrebbe attaccato Vyones, oggetto precipuo dell'odio e della malvagità di Nathaire, prima dell'indomani. L'anima dannata del Negromante, esultando per le sue quasi infinite possibilità di nuocere e di distruggere, doveva avere la chiara intenzione di dilazionare l'atto finale della sua vendetta e, durante la notte, avrebbe continuato a terrorizzare i villaggi dei dintorni e dei distretti rurali.

Nonostante i vestiti a brandelli e il sudiciume che lo rendevano praticamente irriconoscibile, Gaspard, venne lasciato passare dalle guardie che custodivano le porte della città, senza domande. Vyones rigurgitava già di fuggiaschi che avevano cercato rifugio fra le sue robuste mura, dopo essere scappati dalle campagne adiacenti, e a nessuno veniva negato l'accesso, nemmeno alle persone dalla reputazione più dubbia. Le mura erano presidiate da arcieri e alabardieri, raccolti con l'intenzione di contrastare il passo al gigante.

I balestrieri si erano disposti al di sopra della porta, e le catapulte e gli argani, a corti intervalli, occupavano l'intera cinta dei bastioni. La città pullulava e ronzava come un alveare in agitazione.

Per le strade era un susseguirsi di crisi isteriche in un caotico pandemonio. Visi pallidi e stravolti dal panico si pigiavano un po' dovunque, in una inutile processione. Qua e là cominciavano a divampare le torce, come anime in pena, nel crepuscolo che stava degradando nella notte, come se l'ombra di ali minacciose fosse sorta dall'Abisso. L'oscurità portava con sé una intangibile paura e un velo di soffocante oppressione.

Attraverso tutta quella folla disordinata, in preda al delirio, Gaspard, come uno stanco, ma indomito nuotatore che affronti un'ondata di eterno, viscido incubo, sia pure a stento, raggiunse la sua soffitta.

Riuscì a malapena a mangiare e a bere qualcosa. Stanco e prostrato oltre i limiti della resistenza fisica e spirituale, si lasciò cadere sul pagliericcio, senza togliersi di dosso i cenci e il sudiciume raggrumato, e si addormentò di colpo, riposando per circa un'ora e mezza, fra mezzanotte e l'alba.

Si svegliò con i pallidi raggi di una livida luna che lo colpivano in pieno entrando dalla finestra; si alzò e passò il resto della notte a studiare e preparare  qualcosa  di occulto  che, secondo  lui, offriva  l'unica  possibilità di

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sostenere una lotta con il mostro demoniaco creato e animato da Nathaire.

Lavorando febbrilmente al lume della luna che stava tramontando e di una fioca candela, Gaspard raccolse parecchi ingredienti alchemici che conosceva a fondo e che sapeva come usare, e ne fece un miscuglio mediante un lungo processo nel quale, in qualche modo, c'entrava la cabala: una specie di polvere grigio-scuro che aveva visto usare da Nathaire in numerose occasioni.

Aveva pensato che il colosso, essendo composto di ossa e di carni di morti, illecitamente manipolati e vivificati unicamente dall'anima dello Stregone defunto, avrebbe reagito all'azione di quella polvere che Nathaire aveva usato per far tornare nella tomba le larve resuscitate. Se quella polvere entrava nella narici di un cadavere vivente, lo costringeva a tornare alla tomba e lì a giacere in un rinnovato torpore di morte.

Gaspard produsse una notevole quantità di quella mistura, ritenendo che pochi pizzichi non sarebbero bastati per far cadere quella gigantesca mostruosità. Il fioco lume della candela sgocciolante era già quasi sopraffatto dalla bianca luce dell'alba, mentre terminava la formula latina della spaventosa invocazione che conferiva al composto molta della sua efficacia. Quelle parole che invocavano la collaborazione di Alastor e di altri spiriti demoniaci, le pronunciò molto malvolentieri. Ma sapeva che non esistevano alternative: la stregoneria poteva essere combattuta unicamente con la stregoneria.

Il mattino arrecò nuovi terrori a Vyones. Gaspard aveva preconizzato, per una specie di intuito, che il colosso, assetato di vendetta e che si diceva avesse vagato tutta la notte per l'Averoigne, spinto da un'energia diabolica e senza risentire della minima stanchezza, si sarebbe avvicinato all'odiata città di primo mattino.

E le sue previsioni si rivelarono giuste. Aveva appena terminato il suo lavoro, quando udì un crescente tumulto nella strada e, al di sopra delle urla e del lugubre lamento delle voci piene di terrore, il rombo lontano che annunciava il gigante.

Gaspard si rese conto che non aveva tempo da perdere, e voleva appostarsi in un luogo dal quale poter gettare la polvere nelle narici del colosso alto trenta metri. Tanto le mura della città quanto la maggior parte dei campanili delle chiese non erano abbastanza elevati per il suo proposito e, dopo una breve riflessione, capì che la maestosa cattedrale che sorgeva al centro di Vyones, era l'unico posto dove, dal campanile, potesse fronteggiare l'invasore con successo.

Aveva la certezza che gli armati sulle mura avrebbero potuto fare ben poco per impedire al mostro di entrare e di sfogare le sue malvagie intenzioni. Nessuna arma terrena sarebbe stata in grado di colpire un cadavere di taglia normale, figuriamoci uno resuscitato in quella maniera, che poteva benissimo essere riempito di frecce e trapassato da dozzine di lance, senza che la sua marcia potesse essere ritardata.

 

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Riempì in fretta una borsa di cuoio con la polvere, se la appese alla cintola e si infilò nella ressa della gente per la strada. Erano in molti a fuggire verso la cattedrale, a cercare la protezione della sua eccelsa sacralità, e quindi gli bastò lasciarsi trasportare dalla fiumana terrorizzata.

Le navate della cattedrale erano gremite di fedeli, e i sacerdoti stavano celebrando delle Messe solenni, con voci rese esitanti dal panico.

Passando inosservato fra la folla pallida e impaurita, Gaspard raggiunse una scala a chiocciola che, con infinite giravolte, portava al campanile munito di grondaie e di rosoni artistici. Qui, si appostò, acquattandosi dietro la statua di un grifone con la testa di gatto. Da quel punto godeva il vantaggio di riuscire a tener d'occhio, al di là delle guglie e dei timpani, l'approssimarsi del gigante che con il torace e la testa, sorpassava di molto le mura della città.

Un nugolo di frecce, visibile anche a quella distanza, venne scagliato contro il mostro il quale, all'apparenza, non si degnò neppure di fermarsi per estrarle. I grossi macigni lanciati dalle catapulte, per lui non erano più di una manciata di ghiaia e i pesanti proiettili delle balestre che penetravano nelle sue carni, erano soltanto delle schegge insignificanti.

Nulla riusciva a contrastargli l'avanzata. Le minuscole figure di una compagnia di lancieri, che gli si opponevano con le armi puntate, furono spazzate via dalle mura sovrastanti la porta orientale, da un solo colpo di striscio del pino di ventun metri che usava come randello. Quindi, ripulite le mura, il colosso le scavalcò, piombando su Vyones.

Ruggendo, sghignazzando, ridendo come un Ciclope impazzito, avanzò per le viuzze fra le case che gli arrivavano alla cintola, calpestando senza pietà tutti quelli che non riuscivano a sfuggirgli in tempo, e menando fendenti sui tetti con il randello. Con una manata fece rovinare le guglie sporgenti e i campanili delle chiese, mentre le campane continuavano a suonare, in doloroso allarme, durante la caduta. Un coro spaventoso di strilli e di lamenti di voci isteriche accompagnava il suo passaggio.

Si stava dirigendo verso la cattedrale, come Gaspard aveva previsto, ritenendo quell'alto edificio la meta più agognata per dar sfogo alla sua malvagità.

Adesso le strade erano deserte ma, per stanare la gente, o per colpirla negli stessi rifugi, il gigante continuava ad avanzare, usando il tronco di pino come un ariete contro le pareti, le finestre e i tetti.

Impossibile descrivere le rovine e la strage che si lasciava alle spalle.

E ben presto fu davanti al campanile della cattedrale, sul quale Gaspard lo stava aspettando, al riparo della cariatide. La testa del gigante era a livello della cella campanaria, e i suoi occhi brillavano come stagni di zolfo in fiamme. Aveva le labbra socchiuse e mise in mostra delle zanne simili a stalattiti, in un ghigno spaventoso quando gridò in un tono di voce simile al rombo di un tuono:

«Oh! Eccomi a voi, preti piagnucolanti e pusillanimi fedeli di Dio senza potere! Venite fuori e inginocchiatevi davanti a Nathaire, il Maestro, prima che vi spedisca al Limbo!»

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Fu allora che Gaspard, con un coraggio senza confronti, sorse dal suo nascondiglio, ponendosi in piena vista del colosso ringhiante.

«Avvicinati, Nathaire, se sei davvero tu, empio e dissennato profanatore di tombe e predatore di sepolcri!», gli gridò, con aria di sfida. «Avvicinati che voglio parlare con te!».

Una mostruosa espressione di stupore, mitigò la furia diabolica di quelle fattezze ciclopiche. Sbirciando Gaspard, dubbioso e incredulo, il gigante abbassò il tronco di pino e si avvicinò al campanile, al punto che il suo viso venne a trovarsi a pochissimi metri dall'intrepido studioso. Poi, quando parve convinto dell'identità di Gaspard, riprese l'atteggiamento di collera ossessiva, con gli occhi che sembravano sprizzare un fuoco infernale, e contraendo i lineamenti del viso in una specie di maschera di irato Apollo.

Descrivendo un arco di incredibile ampiezza con il braccio sinistro, puntò minacciosamente le dita contro la testa del giovane, stendendo su di lui un'ombra nera come quella di un avvoltoio che passi a volo spiegato davanti al sole. Gaspard scorse le facce bianche e meravigliate degli alunni del Negromante spuntare dal cappuccio, sulle spalle del colosso.

«Dunque, tu sei Gaspard, il mio discepolo apostata!», ruggì il gigante, come una bufera. «Credevo ti stessi putrefacendo nella segreta di Ylourgne... e invece ti ritrovo qui, sul campanile di questa maledetta cattedrale che sto per distruggere... Avresti fatto meglio a restare dove ti avevo lasciato, mio caro Gaspard.»

Mentre parlava, il respiro si abbatteva sullo studioso come le zaffate ventose provenienti da una catacomba. Le dita enormi con le unghie annerite, simili a pale, sembravano le grinfie di un orco.

Gaspard, intanto, aveva afferrato furtivamente la borsa di cuoio che portava appesa alla cintura, sciogliendone la chiusura. E, mentre la mano contratta scendeva su di lui, vuotò tutto il contenuto della borsa sulla faccia del gigante, e la polvere finissima, salendo in una nuvola grigio-scuro, nascose alla vista quelle labbra ghignanti e quelle narici palpitanti.

Al massimo della tensione, Gaspard rimase in attesa dell'effetto con la paura che la polvere, in ultima analisi, potesse rivelarsi inefficace contro le arti superiori e le risorse sataniche di Nathaire. Ma, forse per puro miracolo, a quanto sembrava, la vitalità maligna in quegli occhi simili a stagni senza fondo, stava morendo, man mano che il mostro inalava quella nube oscura. La mano alzata che stava per afferrare il giovane, ricadde senza vita. La rabbia era sparita dalla spaventosa maschera contratta del viso del gigante, come da quello di un morto; il grande tronco di pino piombò con uno schianto nella via deserta, e poi, con passi incerti, barcollanti e incontrollati e le braccia penzoloni, il gigante voltò le spalle alla cattedrale e tornò indietro, attraverso la città devastata.

Camminando brontolava tra sé, e chi lo udì, giurava che la voce non era più quella così terribile, simile al tuono, di Nathaire, ma un mormorio confuso di toni e  di accenti  di una  moltitudine  di uomini, fra i quali era riconoscibile la

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voce di qualcuno dei morti trafugati. E, a intervalli, in mezzo a tutto quell'agghiacciante bailamme, si udiva anche la stessa voce di Nathaire, identica a quella di quando era in vita, come se protestasse furiosamente.

Scavalcate le mura orientali, come aveva fatto nel venire, il colosso continuò a vagare avanti e indietro per parecchie ore, non più in preda al furore e dando in escandescenze ma, come era prevedibile, alla ricerca delle varie tombe e sepolcreti dai quali le centinaia di cadaveri che lo componevano, erano stati strappati.

Da catacomba a catacomba, da cimitero a cimitero, percorse tutta la regione, ma non c'era tomba che potesse accogliere le spoglie di quel colosso.

Poi, verso sera, lo si vide lontano, sullo sfondo del rosso tramonto, intento a scavare con le mani, nel soffice terreno argilloso della sponda dell'Isoile. E, in quel punto, il colosso si distese nel suo stesso scavo e non si rialzò più. Per quanto riguarda i dieci discepoli, si pensò che, non essendo riusciti a scendere dal cappuccio, fossero stati schiacciati da quel corpo mostruoso. Infatti, da quel momento, si persero le loro tracce.

Per parecchi giorni, nessuno ebbe il coraggio di avvicinarsi al cadavere insepolto. E il corpo, decomponendosi rapidamente sotto il sole estivo, emanava un fetore tale che provocò un'epidemia di pestilenza in quella parte dell'Averoigne. E coloro che, in autunno, quando il fetore si era già attutito di parecchio, si avventurarono nelle vicinanze, giurano di aver udito levarsi ancora da quello scheletro enorme, spogliato dai corvi, la voce di Nathaire che continuava a protestare furiosamente.

Per quanto riguarda Gaspard del Nord, che aveva salvato la provincia, si tramanda che sia vissuto in grande onore fino a tarda età e che sia stato l'unico Stregone della regione a non incorrere mai nella disapprovazione della Chiesa.

 

FINE

(Trad. Teobaldo del Tanaro)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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