1281: IL COLOSSO DI
YLOURGNE
(The Colossus of Ylourgne,
giugno 1934)
1.
La fuga del Negromante
Il
tre volte infame Nathaire, alchimista, astrologo e Negromante, con i suoi dieci
diabolici discepoli, da un momento all'altro, e in tutta segretezza, era
sparito da Vyones. Tanto in città, quando nei dintorni, si sparse la diceria
che la sua partenza fosse stata provocata da una salutare paura degli strumenti
di tortura e dei roghi ecclesiastici.
Altri
Stregoni, meno famosi di lui, erano già andati al supplizio, durante quell'anno
di insolito zelo inquisitorio, ed era di dominio pubblico che Nathaire era
incorso nel biasimo della Chiesa. Perciò erano in pochi a considerare un
mistero il motivo della sua partenza, mentre i mezzi di trasporto impiegati e
la destinazione del Negromante e dei suoi discepoli rimasero un punto
interrogativo per tutti.
Cominciarono
a correre migliaia di chiacchiere sinistre e piene di superstizione e, tutti
coloro che si trovavano a passare davanti all'alto e tetro edificio che
Nathaire aveva fatto costruire in blasfema prossimità della grande Cattedrale e
che aveva riempito di lusso e di stranezze sataniche, si facevano il Segno di
Croce. Due ladri temerari, che avevano avuto il coraggio di penetrare in quella
casa quando non si ebbero più dubbi sulla sparizione del Mago, riferirono che
quasi tutti i mobili, i libri e gli strumenti di Nathaire, a quanto pareva,
dovevano aver seguito il loro proprietario, per la stessa destinazione.
Tutto
ciò contribuì ad aumentare l'empio mistero, perché era praticamente impossibile
che Nathaire e i suoi dieci apprendisti Stregoni, con parecchi carri di
masserizie, fossero riusciti a varcare le custoditissime porte della città, in
un modo normale, senza essere visti dalle guardie.
I
cittadini più pii e devoti sparsero la voce che l'Arcidiavolo in persona,
insieme a una legione di dèmoni con le ali da pipistrello, avesse provveduto al
trasporto, a mezzanotte di una notte senza luna.
C'erano
dei sacerdoti e anche dei rispettabili cittadini che assicuravano di aver visto
le stelle oscurate da nere sagome umane volanti, in compagnia di altre figure
non umane, e di aver udito il lamentoso ululato proprio delle anime dannate,
mentre transitavano come una nuvola demoniaca sui tetti e sulle mura della
città.
Altri
credevano che gli Stregoni avessero lasciato Vyones per mezzo dei loro stessi
diabolici incantesimi e che si fossero ritirati in qualche rocca solitaria dove
Nathaire, che era stato molto, molto malato, potesse morire in pace, una pace
del genere di chi periva fra le fiamme degli «auto de fé», e di Abaddon. Si
pensò anche che, per la prima volta nella sua strana vita che non risentiva
dell'usura del tempo, si fosse redatto l'oroscopo e che vi avesse letto una imminente
congiunzione di pianeti nefasti, il che significava morte a breve scadenza.
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Altri
ancora, i quali, senza dubbio, dovevano essere astrologhi o Maghi rivali,
dissero che Nathaire si era sottratto alla vista di tutti, unicamente per
potersi mettere in ininterrotta comunicazione con svariati demòni infernali
suoi collaboratori, e per poter tessere indisturbato le trame di un supremo e
licantropico incantesimo. E insinuarono che quelle stregonerie, a tempo debito,
si sarebbero riversate su Vyones e forse sull'intera regione dell'Averoigne e
che, senza dubbio, avrebbero assunto la forma di una spaventosa pestilenza, o
di una carestia, o di una incursione di succubi e di posseduti, in tutto il
reame.
E
nel bailamme di tutte quelle dicerie, vennero riesumate altre chiacchiere
semidimenticate e, dalla sera alla mattina, sorsero nuove leggende. Molte
riguardavano l'oscura nascita di Nathaire e il suo misterioso vagabondare
precedente al suo insediamento a Vyones, sei mesi prima.
La
gente diceva che fosse stato generato dal Demonio, come il favoloso Merlino,
che suo padre fosse un personaggio non da meno di Alastar, Demone della
vendetta, e sua madre una Strega nera e deforme. Dal primo aveva ereditato il
rancore e la cattiveria, dalla seconda il fisico debole e deforme.
Aveva
percorso le terre d'oriente e, dai maestri egizi e saraceni, aveva appreso
l'abominevole arte della Negromanzia, nel praticare la quale non aveva rivali.
Si era anche sussurrato che si fosse servito di cadaveri di persone defunte da
tanto tempo, e di ossa già scarnite di gente finita sul rogo e che soltanto
l'Angelo del Giudizio Universale avrebbe avuto il diritto di prendere.
Non
era mai stato popolare, benché in molti avessero fruito del suo consiglio e del
suo aiuto nello svolgimento dei loro affari più o meno onesti. Una volta, il
terzo anno dal suo arrivo a Vyones, era stato condannato alla pubblica
lapidazione, proprio a causa della sua fama di Negromante, ed era stato azzoppato
e storpiato per sempre da un ciottolo ben diretto. Era opinione generale che
quel torto non fosse mai stato dimenticato e che Nathaire avesse assicurato che
avrebbe ripagato l'ostilità del clero con l'odio implacabile e infernale di un
Anticristo.
Oltre
alla demoniaca stregoneria della quale veniva comunemente sospettato, era anche
considerato un corruttore della gioventù. Nonostante la piccola statura, la
deformità e la bruttezza, possedeva un formidabile potere, una perversione
mesmerica; e i suoi discepoli, sul conto dei quali si vociferava che fossero
caduti nella più sfrenata e morbosa iniquità, erano tutti giovani tra i più
promettenti. Perciò, tutto considerato, la sua sparizione venne considerata
come una vera e propria liberazione provvidenziale.
In
città, però, c'era anche qualcuno che non condivideva tutta quella lurida
speculazione e si dissociava dal pettegolezzo generale.
Si
chiamava Gaspard du Nord, anch'egli
studioso di scienze occulte e proibite, che un tempo aveva fatto parte dei discepoli
di Nathaire, e che aveva preferito ritirarsi prudentemente dalla scuola del
Maestro, dopo aver fiutato le enormità che facevano parte della sua ulteriore
iniziazione.
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Tuttavia
aveva già acquisito per conto proprio una rarissima e peculiare conoscenza e
una certa intuizione, per quanto riguardava i poteri diabolici e gli aspetti
più oscuri del Negromante.
Proprio
a causa di quella conoscenza e di quell'intuito, quando venne a sapere della
partenza di Nathaire, preferì tacere. E ritenne che fosse meglio non ridestare
il ricordo di quando era stato alla scuola dello Stregone. Si rinchiuse in una
squallida e disadorna soffitta, a fissare, rabbrividendo, un piccolo specchio
oblungo incorniciato con un arabesco di vipere d'oro, che era appartenuto a
Nathaire.
Ma
non era l'immagine riflessa del suo viso giovane e aggraziato, per quanto
dall'aria astuta, a farlo rabbrividire. Infatti lo specchio apparteneva a una
specie diversa da quelli che riflettono chi vi si guarda. Nelle sue profondità,
per alcuni istanti, si era concretizzata una scena spaventosa, nella quale
aveva riconosciuto i personaggi, ma non il luogo che non riusciva a
individuare. Prima che potesse osservarla a fondo, lo specchio si era
annebbiato, come per lo sprigionarsi di fumi alchimistici, e non aveva visto
più nulla.
Quell'annebbiamento,
secondo lui, poteva rappresentare una cosa sola: Nathaire si era accorto che
Gaspard lo stava osservando e aveva dato vita a un controincantesimo per
neutralizzare lo specchio magico. Era stato appunto il rendersi conto di quel
fatto e la breve, sinistra visione delle attuali attività di Nathaire a causare
l'agghiacciante orrore che andava crescendo di intensità nella mente di
Gaspard: un orrore che non poteva ancora avere un nome e una forma concreta.
2.
Il raduno dei cadaveri
La
partenza di Nathaire e dei suoi discepoli da Vyones, era avvenuta nella tarda
primavera del 1281, durante il novilunio. Poi sorse la nuova luna, brillò sui
prati fioriti, sui bordi delle fronde opulente di foglie ancora lucide,
ricomparse da poco, e seguì la fase calante, tingendosi di argento spettrale.
Da quando cominciò a ridursi a una sottilissima falce, la gente riprese a
parlare di altri incantesimi e di più recenti misteri.
Poi,
nelle notti di novilunio dell'estate incipiente, si verificò tutta una serie di
sparizioni molto più innaturali e inspiegabili di quella dello Stregone deforme
e malvagio.
Un
giorno, i becchini, recandosi al lavoro in un cimitero fuori le mura di Vyones,
scoprirono che non meno di sei pietre tombali di avelli occupati da poco, erano
state rimosse e i cadaveri, tutti di cittadini rispettabili, asportati. Da un
più attento esame risultò anche evidente che non si trattava di opera di ladri.
Le bare che giacevano di fianco o rovesciate sul terriccio, sembravano
frantumate dall'interno da una forza sovrumana, e lo stesso terreno smosso, era
sollevato come se i morti, spaventosamente resuscitati prima del tempo, lo
avessero spinto e ammucchiato in superficie.
Nessuna
traccia di corpi, come se l'inferno li avesse inghiottiti e, per quanto si
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cercasse,
non si trovò nulla che potesse testimoniare della loro sorte. Per quei tempi di
stregonerie c'era un'unica spiegazione possibile a quanto stava accadendo, e
cioè che i demòni fossero penetrati nelle tombe, prendendo possesso dei
cadaveri, costringendoli quindi a risorgere e a camminare.
Fra
lo sgomento e l'orrore di tutta l'Averoigne, quella inspiegabile scomparsa fu
seguita con una rapidità sconcertante da altre e altre ancora. Sembrava che i
morti fossero stati soggetti a una chiamata che non ammetteva dilazioni o
deroghe. Nottetempo, per un periodo di due settimane, i cimiteri di Vyones e
anche quelli di altre città e villaggi, persero un numero spaventoso di morti.
Dalle tombe con le borchie di ottone, dalle fosse comuni, dai tumuli, dalle
buche sconsacrate, dalle cripte di marmo delle chiese e delle cattedrali, lo
stesso esodo continuò senza sosta.
Peggio
ancora, se possibile, i corpi ancora avvolti nel sudario, balzavano fuori dalle
bare e dai catafalchi e, senza curarsi dei terrificati astanti, correvano a
grandi falcate nella notte, come in preda al delirio, senza farsi più vedere da
coloro che li piangevano.
In
ogni caso però, i cadaveri scomparsi appartenevano di preferenza a giovani
aitanti e robusti, morti di recente o di morte violenta o di incidente, e non a
gente consunta dalle malattie. Alcuni erano criminali che avevano pagato il fio
per i loro misfatti, altri uomini d'arme o conestabili, cioè soldati e
gabellieri, morti nel compimento del loro dovere. Si annoveravano anche
cavalieri periti in duelli o in tornei, e parecchie vittime delle bande di
ladri e rapinatori che
infestavano
l'Averoigne a quell'epoca. E altresì monaci, mercanti, nobili, piccoli
proprietari terrieri, paggi, preti, ma nessuno, in ogni caso, che avesse
passato la giovinezza. A quanto pareva, i vecchi e gli infermi erano immuni da
quella processione demoniaca «post mortem».
I
più superstiziosi consideravano la situazione come un innegabile presagio della
fine del mondo. Satana doveva aver scatenato la guerra con le sue legioni, e
stava trascinando i corpi dei morti benedetti nella cattività infernale.
L'angoscia
e la costernazione sì centuplicarono quando divenne manifesto che anche la più
abbondante aspersione d'Acqua Santa e la pratica degli esorcismi più potenti e
terrificanti, non riuscivano ad avere ragione in alcun modo di quegli
incantesimi diabolici. La Chiesa stessa si sentiva impotente a lottare contro
quell'insolito attacco demoniaco, e le forze della legge secolare non potevano
far nulla per citare in giudizio e punire quell'entità intangibile.
A
causa della paura che serpeggiava dovunque e che sovrastava tutto, non venne
fatto alcun tentativo di seguire i cadaveri in fuga.
Comunque,
coloro che per avventura si attardavano per la strada, riferivano racconti
raccapriccianti di incontri con quelle larve che camminavano a grandi passi per
tutta l'Averoigne.
All'apparenza,
sembravano sordi, muti, insensibili e intenti a dirigersi con una fretta orribile e in
tutta tranquillità e sicurezza
verso una meta remota e
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predestinata.
Pareva che seguissero tutti la stessa direzione, verso oriente, ma soltanto con
la cessazione dell'esodo che aveva interessato svariate centinaia di cadaveri,
qualcuno cominciò ad avere qualche sospetto sulla loro destinazione.
Qua
e là si sparse la voce che si trattasse dei ruderi del castello di Ylourgne, al
di là della foresta rifugio di lupi mannari, sulle colline semimontagnose che
segnavano il confine dell'Averoigne.
Ylourgne,
una fortezza imprendibile e grifagna, costruita da una stirpe di baroni malvagi
e predatori, ora estinta, era un luogo che perfino i caprai preferivano
evitare. Gli spettri furibondi dei feudatari maledetti si aggiravano senza posa
per i corridoi in rovina, e il demonio stesso fungeva da castellano, Nessuno
osava avventurarsi all'ombra delle sue mura che sembravano tutt'uno con il
declivio del colle, e la dimora umana più vicina era un monastero Cistercense,
a meno di due chilometri, sull'opposto pendio della valle.
I
monaci di quell'ordine austero avevano pochi contatti con il mondo al di là
della collina, ed era altrettanto limitato il numero dei visitatori che
ottenevano il permesso di varcare i loro invalicabili portali. Ma, durante
quella terribile estate che vide la sparizione dei morti, dal monastero partì e
si diffuse per tutta l'Averoigne, una storia strana e inquietante.
A
cominciare dalla tarda primavera, i monaci Cistercensi furono costretti ad
assistere a parecchi fenomeni insoliti che si andavano verificando fra i ruderi
di Ylourgne, abbandonati da tanto tempo, e che erano visibili dalle loro
finestre.
Avevano
osservato delle luci lampeggianti dove non avrebbero dovuto esserci, fiamme di
un azzurro e di un violetto innaturale, che tremolavano al di là delle rovine,
e le feritoie traboccare di cespugli, di erbacce e arbusti di rose canine
spuntate al di sopra dei merli sbrecciati. Durante la notte, dai ruderi,
insieme alle fiamme si alzavano rumori paurosi, e i monaci avevano udito un
frastuono come di metalli e incudini infernali, un risuonare di armature e di mazze
gigantesche, ed avevano concluso che Ylourgne fosse diventato un luogo di
riunione per i Demoni. Mefitici odori come di zolfo e di carne bruciata si
erano diffusi aleggiando su tutta la valle, e anche quando si udivano solo i
rumori, senza le luci, sul castello in rovina ristagnava una sottile nebbiolina
di vapori azzurrognoli.
I
monaci si rafforzarono nell'idea che il luogo fosse stato infestato da esseri
infernali; infatti, non era stato visto nessuno avvicinarsi né attraverso i
brulli pendii né per gli scoscesi dirupi rocciosi.
Osservando
quei segni dell'attività del Nemico nelle loro vicinanze, presero a farsi il
Segno della Croce con più fervore e più frequenza, e a recitare i loro «Pater»
e le loro «Ave Marie» in sequenze più interminabili di prima. E inoltre
raddoppiarono i lavori manuali e le penitenze. D'altra parte, siccome
l'antico maniero era un luogo
abbandonato dagli uomini, non si
preoccuparono troppo della presente infestazione, e continuarono a badare ai
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propri
affari, a meno che non si fosse manifestata un'aperta ostilità da parte di
Satana.
Montavano
la guardia di continuo ma, nel corso di parecchie settimane, non videro mai
nessuno entrare a Ylourgne o venirne fuori. Eccetto le luci e i rumori
notturni, e i vapori stagnanti di giorno, non c'erano prove di presenze umane o
diaboliche.
Poi,
un mattino, nella valle al di sotto dei giardini a terrazza del monastero, due
frati che stavano estirpando le erbacce da una strada carraia, assistettero al
passaggio di una strana processione di gente che proveniva dalla foresta di
Averoigne e risaliva a grandi passi i dirupi in direzione di Ylourgne.
I
monaci asserirono che quelle apparizioni procedevano con molta fretta, a passi
goffi, ma sostenuti; e tutti erano molto pallidi e con il sudario o gli abiti
che avevano indosso nella tomba. Alcuni sudari erano strappati e a brandelli, o
impolverati per il lungo cammino o inzaccherati di fango secco. In tutto erano
una dozzina o forse più e, appresso, a intervalli, passò anche qualche isolato,
sempre con lo stesso abbigliamento. Con un'agilità e una speditezza
incredibile, risalivano la collina e sparivano fra le mura in rovina di
Ylourgne.
Fino
a quel momento, i Cistercensi non avevano ancora udito nulla di tombe e di bare
violate. La notizia li raggiunse più tardi, quando già avevano assistito, per
parecchie nottate successive, al passaggio di sparuti o nutriti gruppi di
morti, tutti diretti verso il castello infestato dal demonio. Giuravano che
almeno un centinaio di quei cadaveri era transitato in prossimità del
monastero, e senza dubbio, molti altri nel buio della notte, e quindi non
visti. Comunque non ne fu visto alcuno uscire da Ylourgne, che li aveva
inghiottiti come l'Abisso senza fine.
Per
quanto terribilmente spaventati e dolorosamente scandalizzati, continuarono a
pensare che fosse meglio astenersi dall'intervenire.
Qualcuno
dei più coraggiosi, urtato da tutti quei flagranti segni di presenza demoniaca,
avrebbe desiderato visitare le rovine munito di Acqua Benedetta e brandendo
Crocefissi. Ma l'Abate, seguendo le proprie convinzioni di fede, li persuase ad
attendere. Nel frattempo, i fuochi notturni si andavano facendo più brillanti e
i rumori più forti.
E,
durante quell'attesa, mentre nel monastero si facevano incessanti preghiere,
accadde un fatto spaventoso. Uno dei frati, un tipo piuttosto robusto chiamato
Teofilo, contravvenendo alla rigida disciplina, aveva effettuato delle visite
al castello piuttosto che reprimere il suo pio orrore per quei malaugurati
avvenimenti. Ad ogni buon conto, dopo la cena, ebbe la peregrina idea di uscire
a gironzolare fra i precipizi e di rompersi l'osso del collo.
Addolorati
per la sua morte e per la sua disubbidienza, i confratelli portarono Teofilo in
cappella e gli cantarono le messe per la pace dell'anima. Però le messe, nelle
ore buie della notte che precedono il mattino, vennero interrotte dalla
prematura e intempestiva resurrezione del monaco morto, il quale, con la testa
che ondeggiava paurosamente sul
collo rotto, si precipitò fuori
della
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cappella,
come se stesse cavalcando il Diavolo in persona, e scese la collina di corsa,
in direzione delle fiamme demoniache e dei rumori di Ylourgne.
3.
La testimonianza dei monaci
In
conseguenza di quel fatto, due dei frati che in precedenza avevano espresso il
desiderio di visitare il castello infestato, richiesero nuovamente il permesso
all'Abate, dicendo che Iddio li avrebbe sicuramente aiutati nel vendicare sia
il ratto del cadavere di Teofilo, quanto quello di molti altri trafugati dalla
terra consacrata.
Meravigliato
per l'ardire di quei monaci coraggiosi che si proponevano di attaccare il
Nemico nel suo stesso covo, l'Abate concedette il permesso, fornendoli di
aspersori e di fiasche di Acqua Santa e di grandi croci di carpine, come se
dovessero servire da mazze per far saltare le cervella a un cavaliere con tanto
di corazza.
I
monaci, che si chiamavano Bernardo e Stefano, partirono coraggiosamente a metà
mattinata, per andare ad assaltare la fortezza del Demonio. Si trattava di una
scalata ardua, fra rocce sporgenti e lungo scarpate scivolose, ma tutti e due
erano agili e robusti, e, oltretutto molto abituati e addestrati ad escursioni
del genere.
Siccome
la giornata era afosa e senza vento, le loro bianche tuniche ben presto furono
zuppe di sudore ma, riposandosi soltanto per brevi preghiere, continuarono ad
affrettarsi e, in poco tempo, raggiunsero le vicinanze del castello, e su
quelle grigie rovine corrose, non scorsero alcun segno di presenze o di
attività.
Il
fosso profondo, che un tempo circondava la costruzione, ora era secco e in
parte era stato colmato da frane terrose e da detriti caduti dalle pareti. Il ponte
levatoio era rovinato, ma i blocchi del barbacane, finiti nel fossato, avevano
formato una specie di rialzo, sul quale era possibile transitare.
Non
senza trepidazione e protendendo i crocefissi, come i guerrieri alzano le loro
armi nello scalare una fortezza difesa, passando sulle rovine del barbacane, i
frati irruppero nel cortile.
Anche
quello, come il resto dell'edificio, sembrava deserto. Ortiche gigantesche,
erbacce lussureggianti e perfino alberelli, erano spuntati tra gli interstizi
delle pietre del selciato. L'alto e massiccio torrione, la cappella, e la parte
di fabbricato che comprendeva l'immenso salone di ingresso, attraverso secoli
di rovine e di saccheggi, in massima parte, avevano conservato la loro
struttura originaria. Sulla sinistra della cinta muraria, nella compatta massa
di pietroni dell'edificio, simile alla bocca di una buia caverna, si apriva un
portale, e da quell'apertura fuorusciva un leggero vapore bluastro che
descriveva fantastiche spire, innalzandosi nel cielo sereno.
Avvicinandosi
al portale, i monaci vi scorsero un baluginare rossastro di fuoco, come occhi
di un dragone che lampeggiassero nelle tenebre infernali. E non ebbero
più dubbi sul
fatto che il luogo fosse
l'avamposto dell'Erebo e
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l'anticamera
dell'Abisso; tuttavia si fecero coraggio ed entrarono ugualmente, salmodiando
esorcismi e potenti giaculatorie e brandendo le loro croci di carpine.
Oltrepassato
quell'arco cavernoso, lì per lì riuscirono a distinguere ben poco, essendo
ancora in certo modo abbagliati dallo splendore del sole estivo che avevano
appena lasciato. Poi, man mano che la loro vista si andava focalizzando, si
delineò una scena spaventosa, sempre più orrenda e incredibile con l'emergere
dei particolari.
Alcuni
di quei particolari erano misteriosi e perciò ancora più terrificanti; altri,
invece, si stigmatizzavano come ferite di fuoco infernali nelle menti dei
monaci.
Si
trovavano sulla soglia di uno stanzone enorme che dava l'impressione di essere
stato ricavato dall'abbattimento di pavimenti dei piani superiori e di muri
divisori adiacenti al salone d'entrata del castello, già, di per sé, oltremodo
immenso. Quella specie di antro pareva si perdesse in una oscurità senza fine,
intersecata qua e là da raggi di sole che si infiltravano fra le crepe dei muri
e delle volte in rovina, e che tuttavia non riuscivano a dissipare le tenebre
infernali e il mistero.
Più
tardi, i monaci asserirono di aver visto parecchie persone in movimento, in
quel luogo, in compagnia di svariati demòni, alcuni dei quali giganteschi e di
colore scuro e altri che si distinguevano a fatica dalle creature umane. Tutti
quanti stavano badando, con molta perizia, a fornelli riverberanti e a immense
storte fatte a pera e a zucca, simili a quelle create dagli alchimisti. Altri,
invece, erano chini sopra un grande calderone fumante, come Stregoni occupati a
rimescolare terribili intrugli. Contro la parete opposta, c'erano due enormi
conche di pietra, munite di mortaio, con i bordi circolari che superavano in
altezza la statura di un uomo, cosicché, Bernardo e Stefano non poterono
determinare la natura del loro contenuto.
Una
delle conche emanava una bagliore biancastro, e l'altra una luminosità
rossastra.
Accanto
alle conche predette, anzi, in certo qual modo fra di esse, c'era una specie di
lettuccio basso, adornato di insoliti drappi e coperte ricamate come quelle che
tessono i saraceni. E su di essa i monaci videro un essere deforme, pallido e
raggrinzito, con gli occhi che fiammeggiavano sinistramente nelle tenebre, come
il berillo demoniaco. Quella creatura deforme, che aveva tutto l'aspetto di un
moribondo, stava supervisionando il lavoro degli uomini e dei demòni.
Per
quanto inebetiti, i monaci cominciarono a rendersi conto di altri particolari.
Parecchi cadaveri, fra i quali riconobbero quello di Teofilo, giacevano sul
pavimento, insieme a un mucchio di ossa umane staccate le une dalle altre alle
giunture, e ammassi di carne ammonticchiati come nelle macellerie. Un
«uomo», era intento
a scegliere le
ossa e a gettarle
in un
calderone
sotto il quale ardeva un fuoco rosseggiante, mentre un altro infilava
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i
pezzi di carne in un tubo pieno di liquido colorato che produceva un sibilo
infernale, come quello di migliaia di serpenti.
Altri
ancora, dopo aver spogliato i cadaveri, li assalivano con lunghi coltellacci.
E, infine, alcuni salivano delle rudimentali scalette di pietra situate lungo
le pareti, recando bacili di materiale semiliquido che vuotavano nelle conche.
Sgomenti
da quello spettacolo di umana e satanica turpitudine, e in preda a una più che
giusta indignazione, i monaci ripresero a salmodiare i loro potenti esorcismi e
si precipitarono in avanti. Ma la loro apparizione non fu nemmeno notata da
quell'abominevole congrega di Stregoni e demòni.
Bernardo
e Stefano, invasati da divino furore, si precipitarono sui macellai che avevano
cominciato ad attaccare un cadavere. Il corpo lo riconobbero per quello di un
noto fuorilegge che si chiamava Jaques Le Loupgarou, ucciso alcuni giorni prima
in uno scontro con i gendarmi. Le Loupgarou, famoso per la forza muscolare,
l'astuzia e la ferocia, aveva terrorizzato a lungo i boschi e le strade
dell'Averoigne. Era stato mezzo sbudellato dalle spade dei gendarmi, ed aveva
ancora la barba ispida e intrisa di sangue coagulato, per una orrenda ferita
che gli aveva squarciato il viso dalla tempia alla bocca.
Era
morto senza Sacramenti ma, nonostante tutto, i monaci non potevano tollerare
che quel cadavere venisse usato per qualcosa di empio che andava contro la fede
cristiana.
Adesso,
quel pallido essere deforme dall'aspetto perverso, si era accorto della
presenza dei frati, e si era messo a strillare in un tono di secco comando che
sovrastava l'orrendo sibilo del calderone e il rauco mormorio di uomini e
demòni.
Non
riuscirono a comprendere le parole, perché appartenevano a qualche linguaggio
straniero e suonavano come formule magiche.
All'istante,
come obbedendo a un ordine, due uomini lasciarono le loro abominevoli
occupazioni chimiche e, alzando un recipiente a coppa, pieno di un ignoto
fetido liquame, ne rovesciarono il contenuto in faccia a Bernardo e a Stefano.
I monaci furono accecati dal liquido irritante che morse loro le carni come se
si trattasse dei denti di molti serpenti, e vennero storditi e sopraffatti dai
vapori pestiferi, cosicché si lasciarono sfuggire le grandi croci dalle mani e
caddero a terra, privi di sensi.
Si
riebbero quasi subito, ma con i polsi legati da resistentissime corde fatte di
budella intrecciate, ormai ridotti all'impotenza, senza poter protendere i
Crocefissi o aspergere l'Acqua Santa che avevano recato con sé.
In
quello stato di frustrazione, udirono la voce del diabolico infermo che
comandava loro di alzarsi. Sia pure a fatica, con movimenti goffi dato che non
potevano servirsi delle mani, i due obbedirono.
Bernardo,
che si sentiva ancora male a causa del gas tossico che aveva inalato, dovette
fare due tentativi, prima di riuscire a reggersi in piedi; e i suoi
tentennamenti vennero salutati da isterici cachinni e oscene risate da parte
degli Stregoni.
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Poi
furono rimproverati, derisi e insultati dall'essere deforme, con inaudite
bestemmie, come soltanto un ligio servitore del Demonio era in grado di
profferire. Alla fine, facendoli giurare che avrebbero testimoniato, disse
loro: «Tornate alla vostra tana, cuccioli di Joldabaoth, e recate questo
messaggio: "Tutti coloro che sono venuti qui, diventeranno uno
solo"».
Quindi,
obbedendo ad una spaventosa formula del deforme, due suoi accoliti che avevano
l'aspetto di immense e orribili belve, si avvicinarono ai cadaveri di Le
Loupgarou e di Frate Teofilo. Uno dei demòni, come nebbia risucchiata dalla
palude, sparì nelle nari insanguinate di Le Loupgarou infilandosi in esse
centimetro per centimetro, finché anche la sua testa cornuta e belluina
scomparve alla vista. L'altro, allo stesso modo, penetrò nelle narici di Frate
Teofilo che giaceva con la testa contorta per la rottura del collo.
Poi,
quando i demòni ebbero completato la loro possessione, i due cadaveri, in un
modo difficile da descrivere, si alzarono da terra, uno con la interiora
penzoloni che fuoruscivano dalla vasta ferita, e l'altro con la testa che
ciondolava in una maniera innaturale. Quindi, animati dai demòni, gli stessi
cadaveri raccolsero le croci di carpine che Stefano e Bernardo avevano lasciato
cadere e, usandole come randelli, inseguirono i monaci in una fuga ignominiosa
per tutto il castello, tra le incessanti e fragorose infernali risate di
scherno del deforme e della sua schiera di Negromanti. E il cadavere nudo di Le
Loupgarou e quello con la tunica di Teofilo, spinsero i frati giù per i dirupi
e i precipizi a valle di Ylourgne, continuando a menare colpi all'impazzata,
con le croci, finché le schiene dei due Cistercensi furono tutta una piaga
sanguinolenta.
Dopo
una sconfitta così clamorosa e bruciante, più nessun monaco venne autorizzato
ad affrontare Ylourgne. Tutta la comunità monastica però, triplicò l'austerità
della regola e quadruplicò le preghiere e, nell'attesa di conoscere la volontà
di Dio e le oscure macchinazioni del Demonio, si mantenne in uno stato di pia
fiducia, in qualche modo però temperato dalla trepidazione.
Frattanto,
tramite i caprai che visitavano i monaci, il racconto di Stefano e di Bernardo
si diffuse per tutto l'Averoigne, aggravando lo stato di allarme causato dalla
sparizione dei cadaveri.
Nessuno
sapeva ciò che stesse veramente accadendo nel castello infestato dai demòni, o
quale disegno fosse stato progettato per le centinaia di cadaveri che vi erano
stati raccolti, perché la luce gettata sulla faccenda dal racconto dei due
monaci, per quanto abominevole e spaventosa, alla fin fine era del tutto
inconcludente, e il messaggio loro affidato dallo Stregone deforme, appariva
cabalistico.
4.
L'impresa di Gaspard du Nord
Nella
solitudine della sua soffitta, Gaspard del Nord, studioso di alchimia e di stregoneria,
e un tempo discepolo di Nathaire, cercava di continuo, ma invano, di consultare
lo specchio incorniciato di vipere. Il cristallo della superficie continuava a
mantenersi oscuro e nebbioso, come velato da vapori
47
di
alambicchi satanici e da fumi di bracieri negromantici. Stanco e prostrato
dalle lunghe veglie notturne, Gaspard si rendeva conto che Nathaire era sempre
più potente e più accorto di lui.
Studiando
ansiosamente la configurazione generale delle stelle, scoprì il presagio della
comparsa di un potente demonio in Averoigne. Ma la natura del demonio non era
chiara.
Nel
frattempo, l'orrenda resurrezione e migrazione dei morti erano ricominciate.
Tutta l'Averoigne rabbrividiva di fronte a quella insolita enormità. Come le
tenebre delle piaghe d'Egitto, il terrore si insinuava dovunque; e la gente
parlava di ogni nuova atrocità sussurrando a bassa voce, senza avere il
coraggio di farvi degli aperti riferimenti. Anche a Gaspard, come a tutti gli
altri, pervennero quelle voci e, del pari, dopo che tutto quell'orrore sembrava
cessato, verso la metà dell'estate, venne a conoscenza dell'agghiacciante
racconto dei monaci Cistercensi.
E
finalmente quel ricercatore, così a lungo deluso, trovò un indizio di ciò che
cercava. Perlomeno aveva scoperto il nascondiglio del Negromante e dei suoi
apprendisti, e chiaramente, i cadaveri che scomparivano si dirigevano verso
quella meta. Tuttavia, anche per il perspicace Gaspard, esisteva ancora un
enigma insolubile; l'esatta natura dell'abominevole complotto, l'incantesimo
infernale che Nathaire stava tramando nel suo antro remoto. Di una cosa sola
Gaspard
aveva la certezza assoluta: quel moribondo e stizzoso essere deforme, sapendo
di avere i giorni contati e nutrendo un profondissimo rancore verso la gente
dell'Averoigne, intendeva creare un maleficio senza precedenti e senza pari.
Pur
conoscendo le inclinazioni di Nathaire, la sua perizia inesauribile nel campo
delle scienze occulte, e le riserve di potenza in fatto di Magia Nera possedute
dallo Stregone, poteva soltanto formulare delle vaghe, terrificanti congetture
circa il demonio in incubazione.
Però,
man mano che il tempo passava, provava un senso di sempre crescente
apprensione, e sentiva l'adombrarsi di una mostruosa minaccia che stava
strisciando fuori dalle tenebre del mondo.
Non
riusciva più a scacciare quell'inquietudine e, alla fine, nonostante gli
innegabili pericoli insiti in un'escursione del genere, decise di fare una
visita nelle vicinanze di Ylourgne.
Pur
provenendo da un'ottima famiglia, a quell'epoca, Gaspard si trovava in
ristrettezze finanziarie. A causa del suo attaccamento a una scienza alquanto
sospetta, era incorso nella disapprovazione del padre. Il suo solo reddito era
un modesto assegno che, in segreto, gli inviavano la madre e le sorelle.
Bastava solo per il suo magro sostentamento, la pigione della camera e alcuni
libri, strumenti e prodotti chimici, ma non poteva permettergli l'acquisto di
un cavallo o anche soltanto di un più umile mulo per il viaggio programmato
che
superava i sessanta chilometri.
Senza
scoraggiarsi, partì a piedi, limitandosi a prendere con sé un pugnale e una
borsa di cibo. Aveva programmato la camminata
in modo da giungere a
48
Ylourgne
al cadere della sera e al sorgere della luna piena. Buona parte dell'itinerario
passava attraverso l'immensa, deprimente foresta che iniziava appena fuori le
mura di Vyones, dal lato orientale, e si estendeva come un cupo porticato fino
all'imbocco della valle dirupata e rocciosa, ai piedi di Ylourgne.
Dopo
alcuni chilometri, emerse dalla parte più folta del bosco di pini, querce e
larici e, da quel momento, per il primo giorno, seguì il corso del fiume
Isoile, attraverso una pianura scoperta e ben popolata.
Trascorse
la calda notte estiva sotto un faggio, nelle vicinanze di un piccolo villaggio,
evitando di dormire nei boschi solitari, dove si pensava albergassero predoni,
lupi e creature di una fauna anche più sinistra.
La
sera del secondo giorno, dopo aver attraversato la parte più antica e più
selvaggia della foresta millenaria, raggiunse la valle dirupata e rocciosa che
portava alla sua destinazione. In quella vallata nasceva l'Isoile, ora ridotto
a un semplice ruscello.
Nell'incerta
luce del crepuscolo, fra il tramonto del sole e il sorgere della luna, scorse i
lumi del monastero Cistercense e, sul lato opposto, la sommità delle sconnesse
e scoraggianti scarpate, e la massa tozza e grifagna delle rovine della
roccaforte di Ylourgne, con i sinistri bagliori dei fuochi diabolici che
baluginavano oltre le feritoie. A parte quei riflessi, non c'era altro segno di
vita, e non gli riuscì di udire i rumori descritti dai monaci. Gaspard attese
fino a che la luna tonda e gialla come l'occhio di qualche gigantesco uccello
notturno avesse cominciato a riversare i suoi raggi sulla valle tenebrosa. Poi,
con molta cautela, perché quei luoghi gli erano estranei, si incamminò verso il
teatro e bieco castello.
Anche
per qualcuno praticissimo di quei burroni, la scalata sarebbe stata irta di
difficoltà e di pericoli, a causa della luna piena. Spesse volte, scivolando in
anfratti dissimulati dalla luce lunare, fu costretto a tornare sui suoi passi,
perdendo tempo prezioso, e altrettanto spesso venne salvato da una caduta
soltanto da striminziti arbusti e cespugli di rovi che avevano messo la radici
in quell'arido terreno. Ansante, con i vestiti a brandelli e le mani escoriate
e sanguinanti, alla fine raggiunse la sommità di quell'altura scoscesa e si
trovò ai piedi delle mura.
Allora
si fermò per riprendere fiato e recuperare le forze. Da quel punto poteva
scorgere i riflessi dei fuochi invisibili che dovevano ardere all'interno
dell'alto torrione. Gli giungeva anche un brontolio di rumori confusi, del
quale era difficile individuare la distanza e la direzione. A volte pareva
scendere dalle buie rovine, a volte salire da profonde cavità sotterranee della
stessa collina.
Eccetto
quel remoto e ambiguo brontolo, la notte era piena di un silenzio di morte.
Pareva che anche gli animali più selvatici evitassero di avvicinarsi a quel
terrificante castello.
Una
specie di nube invisibile, umidiccia e
trasudante un male paralizzante,
49
ristagnava
immobile su tutte le cose: e la pallida, turgida luna, patrona delle Streghe e
degli Stregoni, sembrava distillare il suo verde veleno sulle torri cadenti, in
un silenzio più antico del tempo stesso.
Gaspard,
quando riprese ad avanzare verso il ponte levatoio, avvertì il peso di qualcosa
di molto più gravoso della stanchezza. Sembrava che reti invisibili, intessute
della stessa essenza maligna, cercassero di trattenerlo. Avvertiva sul viso il
greve contatto, per quanto non fisico, di ali repellenti. Gli pareva di
respirare un vento fetido, proveniente da insondabili recessi e caverne piene
di corruzione.
Inaudibili
ululati di derisione o di minaccia gli si affollavano alle orecchie, e mani
immonde lo colpivano alle spalle.
Ma,
a testa bassa, come se dovesse affrontare una tempesta scatenata, continuò ad
avanzare, passando sui resti del ponte levatoio crollato nel fosso, e
penetrando nel cortile infestato dalle erbacce.
Il
luogo dava l'impressione di essere assolutamente deserto, e per buona parte era
ancora immerso nell'ombra delle mura e delle torri.
Poco
discosto, nella massa scura sormontata dai merli inargentati dalla luna,
Gaspard vide la cavernosa porta d'entrata spalancata. Sì distingueva per un
laido chiarore che compariva e spariva come i fuochi fatui delle paludi. Il
brontolo che adesso aveva assunto il tono di molte voci a mormoranti, si
irradiava da quell'apertura, e Gaspard ebbe l'impressione di vedere oscure,
fuligginose figure, muoversi e passare rapidamente nel baluginare dell'interno.
Mantenendosi
nell'ombra, avanzò cautamente nel cortile, compiendo una specie di percorso
circolare fra i ruderi. Non si fidava ad avvicinarsi direttamente alla porta,
per paura di essere visto, per quanto il luogo sembrasse incustodito.
Raggiunse
il torrione che aveva la parte più alta illuminata da una pallida luminosità
che lo investiva obliquamente, proveniente da una specie di crepa del grande
edificio adiacente. Quell'apertura era a una certa altezza dal suolo, e Gaspard,
guardando meglio, notò che in precedenza doveva essere stata una porta con un
balcone di pietra.
Una
rampa di gradini in rovina saliva lungo la parete fino a ciò che rimaneva della
balconata, e al giovane venne in mente di salire quei gradini e penetrare
inosservato nell'interno di Ylourgne.
Alcuni
scalini mancavano del tutto, e la scala era completamente immersa nel buio più
profondo. Gaspard raggiunse a stento il balcone, fermandosi soltanto una volta,
in preda ad un comprensibile e discreto spavento, quando il frammento di un
gradino logoro, smosso dal suo piede, precipitò con un fracasso indiavolato sui
lastroni di pietra del cortile sottostante. A quanto pareva, il rumore non era
stato avvertito dagli occupanti del castello e, dopo un po', riprese a salire.
Con
la massima cautela si avvicinò alla sbrecciata apertura, dalla quale proveniva
la luce. Accovacciato su un ristretto
davanzale che era tutto ciò che
50
restava
del balcone, sbirciò all'interno, e vide uno spettacolo così sbalorditivo e
terrificante che soltanto dopo parecchi minuti riuscì a vagliare nei suoi
incredibili particolari.
Chiaramente
la storia narrata dai monaci, pur tenendo conto dei loro preconcetti religiosi,
era stata ben lontana dal racconto fantastico.
Quasi
tutti i muri interni e divisori di quell'edificio semidistrutto, erano stati
abbattuti e smantellati per far luogo ad un unico enorme stanzone adatto alle
attività di Nathaire. In se stessa, quella demolizione rappresentava già un
compito sovrumano e, per la sua esecuzione, lo Stregone doveva aver impiegato
una legione di seguaci e non soltanto i suoi dieci discepoli.
L'antro
immenso era rischiato dal bagliore di fornacette e bracieri, e soprattutto
dallo strano riverbero che proveniva dai giganteschi tini di pietra. Anche da
quel punto così alto, l'osservatore non riuscì a discernerne il contenuto, però
dall'uno si alzava una luminosità biancastra e dall'altro una fosforescenza
tinta carne.
Gaspard
aveva assistito ad un certo numero di esperimenti di evocazioni da parte di
Nathaire e, fino a un discreto livello, aveva familiarità con il contenuto
della Magia Nera. Entro certi limiti non era uno schizzinoso, anzi era
improbabile che si spaventasse eccessivamente alla vista delle sagome scure e
nude dei demòni che si stavano affaccendando in quell'antro al di sotto di lui,
fianco a fianco agli apprendisti Stregoni in tonaca nera. Ma si sentì
attanagliare da un orrore agghiacciante, quando vide l'incredibile, enorme cosa
che occupava il centro del pavimento: un colossale scheletro umano, lungo una
trentina di metri, quindi di molto superiore alla lunghezza dell'antico
stanzone del castello, e gli uomini e i demoni intenti a rivestire le ossa del
piede destro con carne umana!
La
prodigiosa e macabra struttura ossea, era completa in ogni sua parte, con delle
costole che sembravano le intelaiature infrastrutturali della carena di una
nave satanica. Pareva che brillasse e riverberasse di una luce innaturale e
che, nella luminosità baluginante, fremesse di diabolica irrequietezza. Le mani
dalle dita ancora scheletriche avevano l'aspetto di artigli, come se stessero
pregando senza speranza. I denti orribili erano disposti in un eterno ghigno
malvagio e sardonicamente crudele. Le cavità oculari, profonde come i pozzi del
Tartaro, davano l'impressione del ribollire di una miriade di luci ammiccanti e
beffarde, come pesci fosforescenti che tentassero di risalire alla superficie,
in una abominevole oscurità.
Gaspard
era come frastornato dalla stupenda e stupefacente fantasmagoria che si
spalancava dinanzi a lui, come un inferno in subbuglio. In seguito, non si
sentì più del tutto sicuro su certe cose, e ricordava molto poco della maniera
in cui veniva svolto il lavoro degli uomini e dei loro collaboratori.
Alcune
creature dalle fattezze incerte e confuse, simili a pipistrelli, sembravano
guizzare avanti e indietro fra uno dei tini di pietra e il gruppo che lavorava
di scultura a rivestire il piede del mostro con un plasma rossiccio che veniva
applicato e modellato come la creta. Gaspard pensò, ma in seguito non
51
ne
ebbe più la certezza, che quel plasma che brillava come una mistura di sangue e
di fuoco venisse attinto dal tino alla luminosità rossastra e recato in
bacinelle sorrette dagli artigli delle oscure creature volanti. Nessuna di
esse, comunque, si avvicinava all'altro recipiente, la cui luce biancastra
appariva più debole, come se si stesse spegnendo.
Cercò
con lo sguardo la minuta figura di Nathaire ma, in tutto quel bailamme, non
riuscì a individuarla. Il malaticcio Negromante, a meno che non fosse già stato
sopraffatto dal male poco conosciuto che lo aveva tormentato a lungo come un
fuoco interiore, senza dubbio doveva essere nascosto alla vista dallo scheletro
colossale, e forse, dal suo giaciglio, stava dirigendo l'opera degli uomini e
dei demoni. Incantato su quel precario ballatoio, l'osservatore non si
accorse
dei passi furtivi e quasi felini che stavano strisciando alle sue spalle, su
per la scala in rovina. Quando udì lo scricchiolio di un gradino rotto, dietro
di lui, era già troppo tardi, e quando si voltò allarmato, venne spedito nel
mondo dei sogni da una randellata sulla testa, e non riuscì nemmeno a rendersi
conto che la sua caduta nel cortile era stata arrestata dalle braccia del suo
assalitore.
5.
L'orrore di Ylourgne
Tornando
alla coscienza dal nulla dell'oblio, Gaspard si trovò a fissare gli occhi di
Nathaire: quegli occhi di ebano e di notte, nei quali nuotavano i freddi e
perversi fuochi di stelle cadute in un irrimediabile perdizione. Per qualche
tempo, nella confusione dei sensi, non riuscì a distinguere altro che quegli
occhi, che davano l'impressione di averlo ridestato come magneti, dallo
svenimento.
All'apparenza
senza corpo, eppure piantati in un viso troppo grande secondo le possibilità di
conoscenze umane, risplendevano dinanzi a lui in una caotica oscurità. Poi, a
poco a poco, riuscì a focalizzare le altre fattezze dello Stregone, e i
particolari di una scena ributtante, e si rese conto della sua situazione.
Cercando
di portarsi le mani alla testa indolenzita, scoprì di avere i polsi
strettamente legati. Era semisdraiato e appoggiato a qualcosa con piani e bordi
che gli faceva male alla schiena. Capì che si trattava di una specie di
fornello da alchimista o «athanor», parte di una fornacetta in disuso,
rovesciata sul pavimento. Coppelle, alambicchi, cucurbite simili a globi e a
gole enormi, erano ammucchiati in una confusione impossibile, insieme a pi-le
di libri con i fermagli di ferro, a calderoni ricoperti di fuliggine e a
bracieri tipici delle scienze occulte.
Nathaire,
sostenuto da guanciali e cuscini saraceni ricamati in oro cupo e folgorante
scarlatto, si stava sporgendo su di lui da una specie di giaciglio
improvvisato, costituito da tappeti e arazzi orientali di una sontuosità al cui
confronto le nude pareti del castello, chiazzate di umidità, di muschi e funghi
morti, facevano un contrasto grottesco. Sullo sfondo si alternavano deboli
bagliori e ombre fluttuanti, e Gaspard udiva un mormorio di voci gutturali,
alle spalle, la cui luminosità rossastra veniva schermata e confusa dalle ali
dei
vampiri
che andavano e venivano di continuo.
«Benvenuto»,
disse Nathaire, dopo un certo intervallo di tempo, durante il quale lo studioso
aveva avuto modo di rendersi conto del fatale progredire della malattia,
osservando le fattezze segnate dalla sofferenza, del Negromante che gli stava
davanti. «E così, Gaspard du Nord è venuto a far visita al suo antico Maestro!»
La
voce che proveniva da quel corpo avvizzito era incredibilmente imperiosa,
demoniaca e agghiacciante.
«Sì,
sono venuto», rispose Gaspard, in tono incolore, «Sono venuto per sapere... per
chiederti... che specie di opera diabolica è quella nella quale sei impegnato.
E che cosa ne ha fatto dei cadaveri che sono stati trafugati dai tuoi maledetti
accoliti...»
L'esile
figura del moribondo Nathaire, come posseduta da una forza malefica
potentissima, cominciò a rotolarsi e a scuotersi sul sontuoso giaciglio, scossa
da un violento accesso di riso. E quella fu l'unica risposta.
«Se
il tuo aspetto non mente», proseguì Gaspard, quando quell'odioso cachinno
cessò, «sei malato a morte e il tempo che ti rimane per pentirti delle tue
azioni malvagie e riconciliarti con Dio, ammesso che per te esista ancora la
possibilità di una tale riconciliazione, indubbiamente è molto breve. Quale
folle e mostruosa misura stai preparando, per assicurarti la dannazione
eterna?»
Lo
sciancato fu assalito nuovamente da uno spasmodico accesso di ilarità.
«Ti
sbagli, mio caro Gaspard», disse alla fine. «Ho cercato qualcosa di più grande
di ciò che fanno i piagnucolosi codardi che invocano la benignità e la
misericordia del Tiranno celeste. L'inferno potrà ghermirmi, alla fine, ma ha
già pagato e pagherà ancora un altissimo prezzo. Debbo morire presto, è vero,
perché il mio destino è scritto nelle stelle, ma anche nella morte, per grazia
di Satana, sarò ancora vivo e, grazie all'incalcolabile forza fisica dell'Anakim,
potrò dedicarmi alla vendetta contro il popolo dell'Averoigne che mi ha odiato
a lungo per le mie credenze negromanti-che e che mi ha deriso per la mia
deformità.»
«Di
quale follia vai farneticando?», domandò il giovane, atterrito dal delirio di
malvagità che andava al di là delle possibilità umane e che sembrava dilatare e
ingigantire le forme raggrinzite di Nathaire, e che gli accendeva lo sguardo di
una fiamma infernale.
«Non
è una follia, ma qualcosa di reale e, forse, come la vita stessa, una miracolo...
Con i cadaveri dei morti recenti, che altrimenti sarebbero andati a marcire in
una tomba, i miei discepoli e i miei accoliti, stanno creando per me, sotto la
mia guida, il corpo gigantesco del quale hai visto lo scheletro. La mia anima,
alla morte del corpo che sto occupando, passerà in quel colossale involucro,
per opera di alcune formule relative alla trasmigrazione che ormai i miei
fedeli assistenti conoscono alla perfezione.
Se
tu fossi restato con me, Gaspard, e non fossi tornato alla tua gretta
meschinità, lasciando le meraviglie che ti sto svelando, adesso avresti il
privilegio di assistere alla creazione di questo prodigio...
e se invece, spinto
53
dalla
tua malsana curiosità, fossi venuto a Ylourgne un po' più presto, avrei potuto
fare un certo uso delle tue solide ossa e dei tuoi muscoli... lo stesso che ho
adottato nei confronti degli altri giovani morti per incidente o di morte
violenta. Ma ormai è troppo tardi anche per questo, perché la struttura ossea
del gigante è già stata ultimata e non rimane che rivestirla di carne umane.
Mio buon Gaspard, non c'è più nulla di buono da ricavare da te...
Fortunatamente però, esiste una segreta sotto il castello e ben nascosta, nel
profondo, fatta costruire a bella posta dai crudeli Signori di Ylourgne.»
Gaspard
non fu in grado di formulare una risposta a quel sinistro e inaspettato
annuncio. Mentre stava ancora cercando le parole, nel cervello paralizzato
dall'orrore, si sentì sollevare da tergo da gente che non riusciva a vedere e
che, senza dubbio, aveva agito in risposta a un comando di Nathaire e che a lui
era sfuggito.
Venne
bendato con qualcosa di molto spesso, sistemato su una barella di foggia
strana, come un cadavere pronto per il funerale, e portato giù per una tortuosa
rampa di scalette in rovina, lungo le quali la puzza nauseabonda di acqua
stagnante si mischiava all'oleoso fetore di muffa dei serpenti che si
protendevano verso di lui.
La
distanza percorsa gli pareva tale da escludere ogni possibile ritorno. A poco a
poco il fetore crebbe, diventando insopportabile e le scale ebbero termine. Una
porta cigolò pigramente sui cardini arrugginiti e Gaspard venne scaraventato su
un pavimento umido che dava l'idea di essere stato consumato da migliaia di
piedi.
Andò
a sbattere contro un massiccio blocco di pietra; gli slegarono i polsi, gli
tolsero la benda dagli occhi e, alla luce delle torce, ebbe la visione di un
buco tondeggiante a voragine che si apriva ai suoi piedi. Rovesciato di fianco,
vi era il lastrone che era servito a coprirlo.
Prima
che riuscisse a voltarsi per vedere le facce dei suoi catturatori per sapere se
si trattava di uomini o di demoni, venne afferrato bruscamente e scaraventato
nell'apertura. Ebbe l'impressione di precipitare nell'Erebo, tanto gli parvero
immensi la distanza e il tempo prima che urtasse contro il fondo. Semistordito,
in quel pozzo in verità poco profondo, gli giunse il tonfo sordo del pesante
masso di pietra che veniva reinserito al suo posto per suggellare la sua tomba.
6.
I sotterranei di Ylourgne
Gaspard
venne richiamato alla coscienza dal freddo dell'acqua nella quale giaceva. Si
sentiva gli abiti tutti inzuppati, e quel mefitico pozzo doveva avere la stessa
circonferenza dell'imbocco. Inoltre, da qualche parte del suo carcere
sotterraneo, percepì, un continuo, monotono sgocciolio. Si alzò in piedi,
constatando che aveva ancora tutte le ossa intatte ed iniziò una cauta
esplorazione.
Man
mano che avanzava, doveva togliersi immonde tele di ragno dal viso, mentre i
piedi sguazzavano in un liquame fetido e scivoloso e gelidi contatti di
54
sviluppi
serpentini gli strisciavano agghiaccianti lungo le anche, emettendo paurosi
sibili di collera.
Gli
bastarono pochi passi per raggiungere una ruvida parete di pietra e, a tastoni,
cercò di determinare l'estensione della segreta. Più o meno, era circolare,
senza angoli, e non riuscì a farsi un'idea esatta della circonferenza. Comunque
scoprì una specie di sperone di sassi che, sorgendo dall'acqua, finiva contro
la parete, e si rifugiò là sopra, perché era relativamente più asciutto e
confortevole, non prima di averne scacciato un buon numero di rettili,
piuttosto restii ad andarsene. Tali rettili, a quanto pareva, erano inoffensivi
e, probabilmente, appartenevano a qualche specie di biscie acquatiche, tuttavia
non poteva fare a meno di rabbrividire al solo tocco delle loro viscide
scaglie.
Seduto
su quel rialzo sassoso, Gaspard passò mentalmente in rassegna tutti gli orrori
della situazione che si prospettava quanto mai disperata. Era venuto a
conoscenza dello sconvolgente segreto di Ylourgne, e del mostruoso e blasfemo
progetto di Nathaire, però, al momento, murato in quel pozzo nauseabondo come
in un sepolcro, sotto il castello infestato dai demoni, non poteva avvertire il
mondo della minaccia incombente.
Appesa
alla schiena, quantunque ormai quasi vuota, aveva ancora la borsa del cibo di
quando era partito da Vyones, e si assicurò che i suoi catturatori non gli
avessero tolto il pugnale.
Rosicchiando
una crosta di pane secco nelle tenebre, e accarezzando l'impugnatura dell'arma,
si mise e riflettere sulle possibilità di uno spiraglio in quella situazione
senza speranza.
Non
aveva modo di tenere il conto delle ore buie che trascorrevano con la lentezza
di un fiume paludoso che strisciasse in un cieco silenzio verso una mare
sotterraneo. L'unica cosa che interrompeva quel silenzio era il continuo
sgocciolio, forse proveniente da qualche sorgente della collina che, aveva
rifornito il castello nel passato; ma, a poco a poco, si trasformò in qualcosa
di ossessivamente monotono che suscitò nella sua mente, già scossa,
l'impressione di demoni ghignanti nel buio. E, alla fine, per lo sfinimento
fisico, cadde nel torpore di un incubo che, tutto sommato, rappresentò una
liberazione.
Quando
si risvegliò, non avrebbe saputo dire se fosse giorno o notte, in quanto, nella
segreta, ristagnavano le solite tenebre, senza il minimo barlume di luce. Però,
rabbrividendo, si accorse di uno spiffero d'aria umido e mefitico che lo
investiva dall'alto, come il respiro di altri sotterranei che si fossero
risvegliati alla vita e all'attività, durante il sonno.
Non
l'aveva affatto avvertito in precedenza, e quel torpido soffio gli accese in
cuore una improvvisa speranza. Indubbiamente doveva esserci qualche crepa o
qualche condotto sotterraneo, attraverso il quale filtrava quell'aria, e ciò
voleva dire che esisteva una via d'uscita, da quella cella.
Si
alzò e annaspò alla cieca, in direzione dello spiffero. Incespicò in qualcosa
che scricchiolò e
si frantumò sotto i
suoi piedi, e che per poco
non lo fece
55
cadere
in avanti in quell'immonda pozzanghera limacciosa e infestata dai serpenti.
Prima che riuscisse a scoprire la natura dell'ostacolo o a riprendere la marcia
a tastoni, dall'alto gli giunse un rumore raschiante, e un fascio ondeggiante
di luce gialla si proiettò nella segreta, dall'apertura. Abbagliato da quella
luminosità, guardò in alto, e vide dieci o dodici piedi e una mano nera che si
sporgeva in giù, reggendo una torcia accesa. Inoltre, stava arrivando una corda
con un cestino contenente del pane e del vino.
Gaspard
prese il pane e il vino, e il cestino venne ritirato su. Prima che sparisse
anche la luce della fiaccola e che venisse richiuso il pietrone, riuscì a
lanciare una rapida occhiata al suo carcere.
Era
pressapoco cilindrico, come aveva supposto, di circa quattro metri e mezzo di
diametro. L'oggetto nel quale aveva inciampato, era uno scheletro umano, a metà
riverso sullo sperone di sassi e per metà immerso nel sudicio liquame.
Ormai
annerito e corrotto dal tempo, aveva i resti dei vestiti ridotti a chiazze
ammuffite.
Le
pareti apparivano rigate e segnate da centinaia di fessure, e le stesse pietre
sembravano avviate a una lenta rovina. Proprio dirimpetto, come aveva
sospettato, alla base del muro, scorse l'imbocco di un condotto, non più grande
della tana di una volpe, nel quale confluivano le acque limacciose.
A
quella vista ebbe un sussulto, perché, anche se il livello dell'acqua fosse
stato più profondo di quanto sembrava, tuttavia l'apertura era troppo stretta
per permettere il passaggio di un corpo umano. Come soffocato dal crollo
repentino di tutte le speranze, mentre la luce spariva, riguadagnò il suo
rifugio sullo sperone di pietra.
Fra
le mani aveva ancora la pagnotta e la bottiglia di vino.
Avidamente,
seguendo gli istinti di una fame animalesca e incontrollata, mangiucchiò e
bevve. Subito dopo si sentì più forte e il vino, per quanto asprigno e
dozzinale, servì a riscaldarlo e ad ispirargli una nuova idea.
Scolata
la bottiglia, sempre a tentoni, raggiunse l'imbocco del condotto visto in
precedenza. L'afflusso dell'aria si era fatto più gagliardo, e questo fatto lo
interpretò come un buon auspicio. Trasse il pugnale e cominciò a scalfire il
muro già intaccato dal tempo e mezzo in rovina, cercando di allargare
l'apertura. Fu costretto e inginocchiarsi in quella melma nauseabonda, e veri e
propri viluppi di serpenti acquatici presero a strisciargli sulle gambe,
sibilando paurosamente. Evidentemente quell'apertura doveva costituire la loro
via di accesso e di uscita dalla segreta.
Le
pietre cedevano facilmente al suo pugnale, e Gaspard dimenticò l'orrore della
sua situazione, nella speranza della fuga. Non aveva modo di conoscere lo
spessore della pareti, e la natura e l'estensione dei sotterranei che si
trovavano al di là di esse, ma nutriva la certezza nell'esistenza di qualche
canale di connessione con l'esterno.
Per
ore che gli sembrarono giorni, si diede affannosamente da fare con il pugnale,
penetrando in profondità nelle friabili pareti e asportando i sassi e
i
56
calcinacci
che cadevano con un tonfo nell'acqua a lato. Dopo un po', strisciando carponi,
si introdusse nell'apertura che aveva allargato e, con l'alacrità di una talpa,
si aprì la via per avanzare, centimetro dopo centimetro.
Alla
fine, con incredibile sollievo, la punta del pugnale incontrò il vuoto. Fece
cadere l'ultimo sottile strato di pietra che restava, poi, sempre strisciando
nel buio, passò al di là, scoprendo che gli era possibile alzarsi in piedi su
una specie di pavimento in discesa.
Stirandosi
le membra rattrappite, fece qualche passo in avanti, con tutta la precauzione
possibile. Si trovava in un locale piuttosto stretto, forse una galleria, della
quale riusciva a toccare simultaneamente le pareti con la punta delle dita. Il
pavimento era inclinato in avanti e le acque vi defluivano giungendo prima a
livello delle ginocchia e poi, via via, fino alla cintola. Con tutta
probabilità, un tempo, quel budello doveva essere stato un'uscita segreta e
sotterranea del castello, ma il franamento della volta doveva aver fermato il
deflusso delle acque.
In
preda ad un comprensibile sgomento, Gaspard cominciava a chiedersi se non
avesse scambiato quella fetida segreta infestata dagli scheletri, per qualcosa
di peggio. Le tenebre attorno e dinanzi a lui non lasciavano ancora trapelare
il benché minimo spiraglio di luce e la corrente d'aria, quantunque sempre
sostenuta, era pregna di umidità e di odore di muffa, come se provenisse da
sotterranei interminabili.
Continuando
a tastare le pareti di tanto in tanto, man mano che avanzava nell'acqua che
defluiva, sulla sua destra scoprì una diramazione ad angolo retto, che si
rivelò per un'apertura che dava su un locale più grande. Dal costante livello
del liquame limaccioso, comprese che il pavimento di quel nuovo sotterraneo non
sprofondava più. Esplorandolo attentamente si imbatté nell'inizio di una scala.
Cominciando a salire nell'acqua sempre meno alta, presto si trovò all'asciutto.
Quella
scala, stretta, rovinata e irregolare, e senza pianerottoli, dava l'idea di una
spirale senza fine che proseguisse all'infinito attraverso i sotterranei di
Ylourgne. Sembrava non avere sbocco ed era soffocante come una tomba e,
chiaramente, non costituiva la fonte della corrente d'aria che Gaspard aveva
cominciato a seguire. Non sapeva dove portasse e non poteva nemmeno dire se si
trattasse della stessa scala che gli avevano fatto percorrere per condurlo alla
segreta. Tuttavia continuò a salire, imperterrito, sostando soltanto per
riprendere fiato, per quanto gli era consentito in quell'atmosfera mortifera e
mefitica.
Finalmente,
sempre nelle tenebre più fitte, molto lontano, cominciò a udire un misterioso
rumore smorzato, un cupo, ma ricorrente fracasso, come di enormi massi o
blocchi di pietra che cadessero rovinosamente. Il rumore era indicibilmente
pauroso e impressionante e pareva scuotere le insondabili pareti che lo
circondavano e far vibrare sinistramente i gradini che stava salendo.
57
Adesso
Gaspard procedeva in uno stato di preoccupazione e di allarme raddoppiati,
fermandosi di quando in quando ad ascoltare. Il tonfo ricorrente si andava
facendo sempre più distinto, più minaccioso, come se avvenisse proprio sulla
sua testa. E Gaspard si addossò alla parete per parecchi minuti, senza avere il
coraggio di proseguire. Alla fine, con una sconcertante subitaneità, il rumore
cessò di colpo, lasciando il posto ad uno strano e pauroso silenzio.
Con
la mente piena di funeste congetture, non sapendo a quale altra spaventosa
novità andasse incontro, Gaspard si decise a riprendere la salita. E, in quelle
tenebre compatte e insondabili, al suo udito pervenne ancora un suono del tutto
nuovo; sembrava il sommesso ed echeggiante salmodiare di molte voci, come in
una messa o in una cerimonia liturgica satanica, con intonazioni e cadenze
funebri che si trasformarono in un inno insopportabilmente fragoroso, di
satanico trionfo. Ancora molto prima di riuscire a distinguere le parole, si
sorprese a rabbrividire alla marcata, malefica cadenza di quel ritmo modulato,
l'elevarsi e l'affievolirsi del quale sembrava in qualche modo corrispondere al
respiro di un demone colossale.
La
scala svoltò per la centesima volta nella sua tortuosa spirale e, provenendo dal
buio più profondo, Gaspard fu come abbacinato dall'incerto chiarore che gli
pioveva addosso dall'alto. Il coro delle voci lo investì con una più
travolgente ondata di clamore infernale, e riuscì a riconoscere le parole per
quelle di un raro e potente incantesimo usato dagli Stregoni per i propositi
più folli e più perversi. Mentre saliva gli ultimi gradini, con un brivido di
orrore, si rese conto di ciò che stava avvenendo fra i ruderi di Ylourgne.
Affacciatosi
cautamente dal pavimento del castello, constatò che la scala terminava in un
angolo dell'enorme antro nel quale aveva visto l'inimmaginabile creazione di
Nathaire. L'interno del vastissimo locale era inondato da una nuova luminosità,
nella quale i raggi di una luna leggermente gibbosa, si fondevano con il
rosseggiare di fornacette morenti e con le multi-colorate lingue di fuoco che
si innalzavano dai bracieri negromantici.
Per
un attimo Gaspard si chiese come mai la luce della luna piena potesse penetrare
in quell'antro. Poi si accorse che quasi tutto il muro perimetrale dal lato del
cortile era stato abbattuto. Senza dubbio doveva essere stato lo smantellamento
di quei ciclopici blocchi di pietra, opera di qualche incantesimo sovrumano
dovuto alla stregoneria, a produrre i tonfi che aveva udito mentre stava
risalendo dai sotterranei. E si sentì raggelare il sangue, nel rendersi conto
del perché il muro era stato abbattuto.
Evidentemente
erano trascorsi tutto un giorno e parte della notte da quando era stato murato
vivo, perché la luna era di nuovo alta nel cielo. Investiti dalla pallida luce
lunare, i due recipienti di pietra non emettevano più la loro strana ed
elettrica fosforescenza. Il giaciglio di fattura saracena, sul quale Gaspard
aveva visto lo sciancato morente, adesso era seminascosto dai vapori che
salivano dai tripodi e dei turiboli, fra i quali i dieci discepoli dello
Stregone, paludati in tuniche color sabbia e scarlatto, stavano celebrando il
loro abominevole e ripugnante rito, scandendo quelle maledette litanie.
Letteralmente
terrorizzato come si può esserlo davanti a un'apparizione che stia sorgendo dal
più profondo dell'Inferno, Gaspard fissò il colosso che giaceva inerte, simile
a un ciclope addormentato, sul pavimento del castello. Non si trattava più di
un semplice scheletro: i muscoli erano stati ben modellati nei vari sistemi
muscolari umani, come quelli di un gigante biblico; i fianchi sembravano forti
come mura invalicabili, il torace aveva l'aspetto di una piattaforma bordata
dalle costole, e le mani avrebbero potuto stritolare il corpo di un uomo come
macine da mulino... ma il viso del mostro, osservato di profilo al riflesso
della luna, era lo stesso dello sciancato satanico, di Nathaire... abbellito
centinaia di volte, ma sempre con la medesima espressione di implacabile cattiveria
e malevolenza.
Il
petto sembrava alzarsi e abbassarsi, e durante una pausa del rituale
negromantico, Gaspard percepì l'inconfondibile suono di una possente
respirazione. Visti di profilo, gli occhi sembravano chiusi, ma le palpebre
pare-vano scosse da un tremito, come enormi cortine e come se il mostro fosse
sul punto di svegliarsi: le mani abbandonate lungo i fianchi, con le dita
pallide e bluastre simili a una sfilata di cadaveri, si contraevano
spasmodicamente e senza posa.
Gaspard
si sentì invadere da un insopportabile terrore, ma neanche quello riuscì a
indurlo a tornare nei mefitici sotterranei che aveva appena lasciato. Con
infinita esitazione e trepidazione, sgusciò fuori dall'angolo, mantenendosi in
una zona d'ombra fittissima, lungo la parete.
Nell'avanzare,
poté lanciare un'occhiata attraverso le dense nubi di vapori, all'ammasso di
coperte e cuscini sul quale giaceva il corpo deforme di Nathaire, pallido e
immobile. A quanto pareva, lo Stregone doveva essere morto o quantomeno in
quello stato di incoscienza che precede la morte.
In
quel mentre, il coro, sempre litaniando le sue formule spaventose, proruppe in
un acutissimo cachinno di satanico trionfo. I vapori presero a vorticare come
una nube scaturita dall'Erebo, attorcigliandosi a spire della consistenza di
quelle di un pitone, nascondendo alla vista il letto orientale e il suo
occupante.
Qualcosa
di demoniaco, simile a una potenza senza nome, ammorbò l'aria. Gaspard sentì
che l'orrenda trasmigrazione, evocata e implorata con quel liturgico e blasfemo
salmodiare sempre in crescendo, stava avvenendo... o forse era già avvenuta. E
gli parve che il gigante si stesse stirando e sospirasse come chi è prossimo al
risveglio totale.
E,
quasi subito, l'imponente e troneggiante mole si venne a interporre fra Gaspard
e gli Stregoni osannanti. Nessuno lo aveva visto e lui non ebbe il coraggio di
mettersi a correre: raggiunto il cortile senza essere stato notato né seguito,
senza neanche voltarsi indietro, come se avesse il diavolo alle calcagna, si slanciò
per gli scoscesi dirupi che scendevano a Ylourgne.
59
7.
L'avvento del colosso
Con
la cessazione dell'esodo delle salme, in tutta l'Averoigne si diffuse un nuovo
terrore, un'onnipresente ombra di apprensione, di paura, di inferno e di morte.
Strani e calamitosi fenomeni si stavano verificando nei cieli; meteore
circondate di fiamme erano state viste cadere oltre le colline orientali; molto
lontano, a sud, per parecchie notti, una cometa con il suo nucleo aveva
oscurato le stelle, e poi era sparita, lasciando in tutti il presagio di
disgrazie e pestilenze.
Di
giorno, l'atmosfera era opprimente e afosa, e l'azzurro del cielo sembrava reso
più ardente da fuochi biancastri. Nuvole temporalesche apparivano e sparivano
all'orizzonte, come minacciosi eserciti di Titani.
Fra
il bestiame era scoppiata una moria che aveva tutta l'aria di essere frutto di
incantesimi. E tutti quei prodigi avevano influito sugli animi già tanto
oppressi, rendendoli trepidi per ciò che si preparava e si macchinava ai loro
danni nell'Inferno.
Ma,
fino a che la minaccia non si manifestò chiaramente, non c'era nessuno,
all'infuori di Gaspard del Nord, che ne conoscesse la vera natura. E Gaspard,
correndo a testa bassa nella luce della luna, verso Vyones, con il terrore di
udire il passo del colosso alle spalle, aveva ritenuto inutile spargere
l'allarme nelle città e nei villaggi che incontrava durante la fuga. Infatti,
anche se li avesse avvertiti, dove potevano sperare di nascondersi gli
abitanti, da una cosa tanto spaventosa, generata nell'Inferno con i cadaveri
trafugati, e che poteva scatenarsi come Satana in persona, e calpestare il
mondo con la sua furia?
E
così, per tutta la notte e il giorno seguente, Gaspard du Nord, ancora con il
fango disseccato della segreta sui suoi vestiti a brandelli lacerati dai
cespugli spinosi, corse come un invasato attraverso gli immensi boschi
infestati dai predoni e dai lupi mannari.
Mentre
la sua corsa continuava, la luna, tramontando a occidente, appariva e spariva
fra i tronchi cupi e contorti degli alberi, e l'alba lo raggiungeva con i suoi
pallidi raggi. Il meriggio si rovesciava su di lui con il biancore
incandescente del metallo fuso in una fornace ardente, e il sudiciume coagulato
che continuava a colare sui cenci sbrindellati che indossava, dal sudore veniva
trasformato in un liquame sgocciolante e melmoso. E seguitava a essere oppresso
dall'incubo incombente, mentre nella sua mente stava prendendo forma un vago
disegno, apparentemente senza speranza.
Nel
frattempo, parecchi monaci della comunità Cistercense, i quali, fin dallo
spuntar dell'alba, con la loro abituale vigilanza, osservavano le grigie mura
di Ylourgne, furono i primi, dopo Gaspard, ad accorgersi del mostruoso orrore
creato dai Negromanti. La relazione che ne fecero, poteva in qualche modo avere
una sfumatura di esagerazione, ma giuravano che il gigante era comparso di
colpo, sovrastando dalla cintola in su, le rovine del barbacane, fra un
subitaneo divampare di lunghe lingue di fuoco, e le spire di vapori di pece e
di zolfo eruttati dalle Malebolge.
60
La
testa del gigante raggiungeva la sommità
del torrione e il suo braccio destro, senza esagerazione, oscurava il sole
nascente come una nuvola temporalesca.
I
monaci erano caduti tutti in ginocchio in atteggiamento umile e contrito,
convinti che lo stesso Nemico fosse emerso dall'Abisso, scegliendo Ylourgne
come sbocco. Poi, per tutta l'ampiezza della valle, si diffuse uno scroscio
tuonante di cachinni demoniaci, e il gigante, scavalcando fosso, mura di cinta
e ponte levatoio con un solo passo, cominciò a discendere le scarpate e i
dirupi delle colline.
Quando
fu più vicino, mentre passava da un declivio all'altro, le sue fattezze si
delinearono chiaramente per quelle di un enorme demonio sconvolto dall'ira e
dall'odio contro i Figli di Adamo. I capelli, annodati a ciocche, gli
ricadevano sulle spalle fluttuando e contorcendosi come grovigli di neri serpenti;
la sua epidermide era livida, pallida e cadaverica come quella di un morto, ma
al di sotto di essa si indovinava la stupenda muscolatura di un Titano. Gli
occhi, immensi e cattivi, fiammeggiavano come calderoni scoperchiati e
ribollenti per il fuoco dell'Abisso scatenato.
La
notizia del suo avvento si abbatté come un turbine di tempesta su tutto il
monastero. Molti monaci, ritenendo la prudenza come la parte migliore del
fervore religioso, andarono a rintanarsi nelle cantine scavate nel tufo e nei sotterranei.
Altri si inginocchiarono nelle celle, mormorando e gridando incoerenti
invocazioni a tutti i santi. E altri ancora, indubbiamente i più coraggiosi,
accorsero in massa in chiesa, a inginocchiarsi e a intonare solenni preghiere
al cospetto del grande crocefisso di legno.
Bernardo
e Stefano, i quali, più o meno, si erano già rimessi dalle percosse ricevute,
furono i soli ad avere il coraggio di assistere all'avanzata del gigante. E il
loro orrore crebbe in modo indicibile, quando cominciarono a riconoscere nelle
fattezze del colosso una stupefacente rassomiglianza con quelle del dannato
sciancato che aveva diretto le tenebrose e blasfeme attività di Ylourgne; e la
risata del gigante, mentre scendeva la valle, faceva coro all'eco del maledetto
cachinno, simile all'imperversare della bufera di coloro che lo seguivano
sbucando dal castello infestato. Comunque, per Bernardo e Stefano, era chiaro
che lo sciancato, il quale senza dubbio era un demonio in tutto e per tutto,
aveva scelto di assumere il suo aspetto naturale.
Giunto
al fondo della valle, il gigante si fermò fissando il monastero con gli occhi
fiammeggianti che si trovavano alla stessa altezza della finestra alla quale
stavano affacciati Bernardo e Stefano.
Rise
di nuovo - un riso pauroso, simile a un boato sotterraneo - e poi si chinò,
raccattò una manciata di pietroni come se fossero ciottoli, e cominciò a
colpire il monastero. I pietroni urtavano con grande fragore contro le mura,
come se venissero lanciati da grandi catapulte e argani da guerra, ma la
robusta costruzione resistette nonostante i colpi e le scosse crudeli.
Poi,
con ambo le mani, il colosso liberò un immenso macigno profondamente conficcato
nel fianco della collina, quindi lo sollevò e lo scagliò contro le mura
61
che
gli resistevano. Il masso smisurato rovinò su tutto un lato della chiesa, e
coloro che vi si erano radunati, vennero ritrovati più tardi in unico ammasso
sanguinolento, insieme alle schegge del crocefisso di legno.
Dopodiché,
quasi disdegnando perdere altro tempo con una preda tanto insignificante, il
colosso voltò le spalle al piccolo monastero e, simile a un Golia redivivo
sotto le spoglie di un demonio, si avviò, con un enorme fracasso, giù per la valle
verso l'Averoigne.
Mentre
se ne andava, Bernardo e Stefano, ancora affacciati alla finestra, videro una
cosa che prima non avevano notato; un enorme canestro appeso con delle cinghie
alle spalle del gigante. E in esso, vi erano dieci uomini, i discepoli e gli
assistenti di Nathaire, come bambolotti o burattini nella gerla di un venditore
ambulante.
Circa
le susseguenti scorrerie e devastazioni del colosso, esistono pressapoco un
centinaio di leggende, molto note in tutta l'Averoigne: racconti di un orrore
unico e di un'efferatezza senza confronti fra le altre storie di quella terra
infestata dai demoni.
I
caprai delle colline sottostanti Ylourgne lo videro arrivare e fuggirono a
tutta velocità con le loro greggi sui crestali più alti. Però il gigante prestò
loro poca attenzione, limitandosi a calpestarli come scarafaggi quando non
riuscivano ad allontanarsi dal suo cammino.
Seguendo
il ruscello che costituiva la sorgente del fiume Isoile, raggiunse il bordo
della grande foresta, e si racconta che sradicasse un pino altissimo e che,
dopo averlo ripulito dei rami con le mani, se ne facesse un randello che, da
allora in poi, portò sempre con sé.
Con
quella clava, più pesante di un ariete, ridusse a un mucchio di macerie una
cappella votiva situata sul ciglio della strada che costeggiava i boschi.
Incontrò un villaggio e lo attraversò menando randellate sui tetti, rovesciando
i muri e schiacciando gli abitanti sotto i piedi.
Per
tutto quel giorno non fece altro che andare avanti e indietro, in preda ad una
pazzesca mania di distruzione, come un Ciclope ubriaco di morte. Anche gli
animali più selvaggi della foresta cercarono di sfuggirlo, pieni di paura.
I
lupi che stavano cacciando, lasciarono perdere la preda e corsero, ululando
cupamente di terrore, e rifugiarsi nelle tane rocciose. Ed anche i neri e
feroci cani da caccia, padroni delle foreste, non se la sentirono di
attaccarlo, e si nascosero, guaendo, nei canili.
Anche
gli uomini udirono la sua risata possente, il suo mugghiare da tempesta: lo
videro avvicinarsi da una distanza di parecchi chilometri e fuggirono o corsero
a nascondersi meglio che potevano. I Signori che possedevano dei castelli
recintati dai fossi, raccolsero gli armati, alzarono i ponti levatoi e si
prepararono come per l'assedio di un esercito. Gli abitanti dei borghi e dei
paesi si rintanarono nelle caverne, nelle cantine, in antichi sotterranei e
persino sotto mucchi di fieno, sperando che passasse senza vederli. Le chiese
erano affollate di gente in cerca di rifugio, che invocavano la protezione
della Croce, ritenendo che Satana in
persona, o qualcuno dei suoi
62
principali
luogotenenti, fosse insorto per saccheggiare e ridurre in rovina il
paese.
Il
gigante, durante le sue scorrerie, continuava a urlare incredibili maledizioni,
inimmaginabili oscenità e bestemmie, in un tono di voce che ricordava il tuono
estivo. Fu udito indirizzarsi alla feccia di figure ammantate di nero che
recava nel cappuccio, in un tono di ammonimento o di dimostrazione, come fa il
maestro con gli alunni.
Chi
aveva conosciuto Nathaire, ravvisò subito l'incredibile rassomiglianza con il
gigante e con la sua strana voce tronfia. Si sparse sempre più insistente la
voce che lo Stregone sciancato, per la lealtà dimostrata verso il Nemico,
avesse ottenuto di poter trasferire la propria anima, traboccante di odio, in
quel titanico colosso e che, in compagnia dei suoi discepoli, fosse tornato a
vendicarsi, con ira incommensurabile e smisurato rancore, del mondo che si era
fatto beffe di lui per il suo fisico mingherlino e lo aveva insultato per la
sua stregoneria. Si vociferava anche sull'origine negromantica della mostruosa
creatura; infatti si diceva che il colosso avesse apertamente proclamato la propria
identità.
Sarebbe
tedioso riferire nei minimi particolari tutte le enormità e le atrocità
attribuite a quel gigante predatore... Si raccontò che avesse ghermito delle
persone in fuga - soprattutto preti e donne - squartandoli poi pezzo a pezzo,
come può fare un bambino con un insetto... e cose anche peggiori che non è il
caso di nominare.
Molti
testimoni oculari raccontavano lo scempio che fece di Pierre, il Signore di La
Frênaie, che stava cacciando un cervo superbo nella vicina foresta, con i cani
e i servi. Afferrò cavallo e cavaliere di sorpresa, con una mano e, sollevatili
al di sopra degli alberi, li scaraventò contro le granitiche mura del castello
di La Frênaie. Poi, preso il cervo rosso che Pierre aveva cacciato, lo scagliò
addosso all'uomo e al cavallo; e le enormi chiazze di sangue prodotte
dall'impatto dei corpi, rimasero a lungo visibili sulle pareti del castello, e
non furono mai cancellate del tutto, né dalle piogge autunnali, né dalle nevi
invernali.
E
si raccontavano anche storie senza fine sulle imprese di osceno sacrilegio e di
profanazione commesse dal colosso sulla statua di legno della Vergine Maria che
gettò nel fiume Isoile, a monte di Ximes, insozzata con intestini umani in
putrefazione tratti dal cadavere di un infame fuorilegge, o dei cadaveri già
pieni di vermi che strappò con le proprie mani dalle tombe sconsacrate e lanciò
nel chiostro dell'Abbazia Benedettina di Périgon; e della chiesa di Santa
Zenobia che seppellì con i preti e i fedeli sotto una montagna di immondizie,
composta di tutto il letame sottratto alle fattorie del circondario.
8.
L'abbattimento del colosso
Il
gigante si spostò senza soste avanti e indietro, con un irregolare, folle
procedere a zig-zag, da un punto all'altro del tormentato
territorio, come un
63
energumeno
posseduto da qualche implacabile demonio assetato di male e di delitti,
lasciandosi alle spalle, come fa il mietitore con la falce, una enorme distesa
di rovine, di rapine e di carneficine. E quando il sole, oscurato dal fumo dei
villaggi in fiamme, si trasformò in un mare di foschia, oltre la foresta,
continuò ad agitarsi nel crepuscolo e a fare udire lo scroscio fragoroso del
suo folle e apocalittico cachinno.
In
quello stesso tramonto, nei pressi delle porte di Vyones, Gaspard du Nord,
voltandosi indietro, vide attraverso le brecce dell'antica foresta, la testa e
le spalle del terribile colosso che si spostavano lungo il corso dell'Isoile,
scomparendo ogni tanto alla vista, quando era occupato a compiere qualche
orrida impresa.
Per
quanto intorpidito dalla debolezza e dallo sfinimento, Gaspard affrettò la sua
fuga. In fondo non credeva che il mostro avrebbe attaccato Vyones, oggetto
precipuo dell'odio e della malvagità di Nathaire, prima dell'indomani. L'anima
dannata del Negromante, esultando per le sue quasi infinite possibilità di
nuocere e di distruggere, doveva avere la chiara intenzione di dilazionare
l'atto finale della sua vendetta e, durante la notte, avrebbe continuato a
terrorizzare i villaggi dei dintorni e dei distretti rurali.
Nonostante
i vestiti a brandelli e il sudiciume che lo rendevano praticamente
irriconoscibile, Gaspard, venne lasciato passare dalle guardie che custodivano
le porte della città, senza domande. Vyones rigurgitava già di fuggiaschi che
avevano cercato rifugio fra le sue robuste mura, dopo essere scappati dalle
campagne adiacenti, e a nessuno veniva negato l'accesso, nemmeno alle persone
dalla reputazione più dubbia. Le mura erano presidiate da arcieri e
alabardieri, raccolti con l'intenzione di contrastare il passo al gigante.
I
balestrieri si erano disposti al di sopra della porta, e le catapulte e gli
argani, a corti intervalli, occupavano l'intera cinta dei bastioni. La città
pullulava e ronzava come un alveare in agitazione.
Per
le strade era un susseguirsi di crisi isteriche in un caotico pandemonio. Visi
pallidi e stravolti dal panico si pigiavano un po' dovunque, in una inutile
processione. Qua e là cominciavano a divampare le torce, come anime in pena,
nel crepuscolo che stava degradando nella notte, come se l'ombra di ali
minacciose fosse sorta dall'Abisso. L'oscurità portava con sé una intangibile
paura e un velo di soffocante oppressione.
Attraverso
tutta quella folla disordinata, in preda al delirio, Gaspard, come uno stanco,
ma indomito nuotatore che affronti un'ondata di eterno, viscido incubo, sia
pure a stento, raggiunse la sua soffitta.
Riuscì
a malapena a mangiare e a bere qualcosa. Stanco e prostrato oltre i limiti
della resistenza fisica e spirituale, si lasciò cadere sul pagliericcio, senza
togliersi di dosso i cenci e il sudiciume raggrumato, e si addormentò di colpo,
riposando per circa un'ora e mezza, fra mezzanotte e l'alba.
Si
svegliò con i pallidi raggi di una livida luna che lo colpivano in pieno
entrando dalla finestra; si alzò e passò il resto della notte a studiare e
preparare qualcosa di occulto
che, secondo lui, offriva l'unica
possibilità di
64
sostenere
una lotta con il mostro demoniaco creato e animato da Nathaire.
Lavorando
febbrilmente al lume della luna che stava tramontando e di una fioca candela,
Gaspard raccolse parecchi ingredienti alchemici che conosceva a fondo e che
sapeva come usare, e ne fece un miscuglio mediante un lungo processo nel quale,
in qualche modo, c'entrava la cabala: una specie di polvere grigio-scuro che
aveva visto usare da Nathaire in numerose occasioni.
Aveva
pensato che il colosso, essendo composto di ossa e di carni di morti,
illecitamente manipolati e vivificati unicamente dall'anima dello Stregone
defunto, avrebbe reagito all'azione di quella polvere che Nathaire aveva usato
per far tornare nella tomba le larve resuscitate. Se quella polvere entrava
nella narici di un cadavere vivente, lo costringeva a tornare alla tomba e lì a
giacere in un rinnovato torpore di morte.
Gaspard
produsse una notevole quantità di quella mistura, ritenendo che pochi pizzichi
non sarebbero bastati per far cadere quella gigantesca mostruosità. Il fioco
lume della candela sgocciolante era già quasi sopraffatto dalla bianca luce
dell'alba, mentre terminava la formula latina della spaventosa invocazione che
conferiva al composto molta della sua efficacia. Quelle parole che invocavano
la collaborazione di Alastor e di altri spiriti demoniaci, le pronunciò molto
malvolentieri. Ma sapeva che non esistevano alternative: la stregoneria poteva
essere combattuta unicamente con la stregoneria.
Il
mattino arrecò nuovi terrori a Vyones. Gaspard aveva preconizzato, per una
specie di intuito, che il colosso, assetato di vendetta e che si diceva avesse
vagato tutta la notte per l'Averoigne, spinto da un'energia diabolica e senza
risentire della minima stanchezza, si sarebbe avvicinato all'odiata città di primo
mattino.
E
le sue previsioni si rivelarono giuste. Aveva appena terminato il suo lavoro,
quando udì un crescente tumulto nella strada e, al di sopra delle urla e del
lugubre lamento delle voci piene di terrore, il rombo lontano che annunciava il
gigante.
Gaspard
si rese conto che non aveva tempo da perdere, e voleva appostarsi in un luogo
dal quale poter gettare la polvere nelle narici del colosso alto trenta metri.
Tanto le mura della città quanto la maggior parte dei campanili delle chiese
non erano abbastanza elevati per il suo proposito e, dopo una breve
riflessione, capì che la maestosa cattedrale che sorgeva al centro di Vyones,
era l'unico posto dove, dal campanile, potesse fronteggiare l'invasore con
successo.
Aveva
la certezza che gli armati sulle mura avrebbero potuto fare ben poco per
impedire al mostro di entrare e di sfogare le sue malvagie intenzioni. Nessuna
arma terrena sarebbe stata in grado di colpire un cadavere di taglia normale,
figuriamoci uno resuscitato in quella maniera, che poteva benissimo essere
riempito di frecce e trapassato da dozzine di lance, senza che la sua marcia
potesse essere ritardata.
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Riempì
in fretta una borsa di cuoio con la polvere, se la appese alla cintola e si
infilò nella ressa della gente per la strada. Erano in molti a fuggire verso la
cattedrale, a cercare la protezione della sua eccelsa sacralità, e quindi gli
bastò lasciarsi trasportare dalla fiumana terrorizzata.
Le
navate della cattedrale erano gremite di fedeli, e i sacerdoti stavano
celebrando delle Messe solenni, con voci rese esitanti dal panico.
Passando
inosservato fra la folla pallida e impaurita, Gaspard raggiunse una scala a
chiocciola che, con infinite giravolte, portava al campanile munito di grondaie
e di rosoni artistici. Qui, si appostò, acquattandosi dietro la statua di un
grifone con la testa di gatto. Da quel punto godeva il vantaggio di riuscire a
tener d'occhio, al di là delle guglie e dei timpani, l'approssimarsi del
gigante che con il torace e la testa, sorpassava di molto le mura della città.
Un
nugolo di frecce, visibile anche a quella distanza, venne scagliato contro il
mostro il quale, all'apparenza, non si degnò neppure di fermarsi per estrarle.
I grossi macigni lanciati dalle catapulte, per lui non erano più di una
manciata di ghiaia e i pesanti proiettili delle balestre che penetravano nelle
sue carni, erano soltanto delle schegge insignificanti.
Nulla
riusciva a contrastargli l'avanzata. Le minuscole figure di una compagnia di
lancieri, che gli si opponevano con le armi puntate, furono spazzate via dalle
mura sovrastanti la porta orientale, da un solo colpo di striscio del pino di
ventun metri che usava come randello. Quindi, ripulite le mura, il colosso le scavalcò,
piombando su Vyones.
Ruggendo,
sghignazzando, ridendo come un Ciclope impazzito, avanzò per le viuzze fra le
case che gli arrivavano alla cintola, calpestando senza pietà tutti quelli che
non riuscivano a sfuggirgli in tempo, e menando fendenti sui tetti con il
randello. Con una manata fece rovinare le guglie sporgenti e i campanili delle
chiese, mentre le campane continuavano a suonare, in doloroso allarme, durante
la caduta. Un coro spaventoso di strilli e di lamenti di voci isteriche
accompagnava il suo passaggio.
Si
stava dirigendo verso la cattedrale, come Gaspard aveva previsto, ritenendo
quell'alto edificio la meta più agognata per dar sfogo alla sua malvagità.
Adesso
le strade erano deserte ma, per stanare la gente, o per colpirla negli stessi
rifugi, il gigante continuava ad avanzare, usando il tronco di pino come un
ariete contro le pareti, le finestre e i tetti.
Impossibile
descrivere le rovine e la strage che si lasciava alle spalle.
E
ben presto fu davanti al campanile della cattedrale, sul quale Gaspard lo stava
aspettando, al riparo della cariatide. La testa del gigante era a livello della
cella campanaria, e i suoi occhi brillavano come stagni di zolfo in fiamme.
Aveva le labbra socchiuse e mise in mostra delle zanne simili a stalattiti, in
un ghigno spaventoso quando gridò in un tono di voce simile al rombo di un
tuono:
«Oh!
Eccomi a voi, preti piagnucolanti e pusillanimi fedeli di Dio senza potere!
Venite fuori e inginocchiatevi davanti a Nathaire, il Maestro, prima che vi
spedisca al Limbo!»
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Fu
allora che Gaspard, con un coraggio senza confronti, sorse dal suo
nascondiglio, ponendosi in piena vista del colosso ringhiante.
«Avvicinati,
Nathaire, se sei davvero tu, empio e dissennato profanatore di tombe e
predatore di sepolcri!», gli gridò, con aria di sfida. «Avvicinati che voglio
parlare con te!».
Una
mostruosa espressione di stupore, mitigò la furia diabolica di quelle fattezze
ciclopiche. Sbirciando Gaspard, dubbioso e incredulo, il gigante abbassò il
tronco di pino e si avvicinò al campanile, al punto che il suo viso venne a
trovarsi a pochissimi metri dall'intrepido studioso. Poi, quando parve convinto
dell'identità di Gaspard, riprese l'atteggiamento di collera ossessiva, con gli
occhi che sembravano sprizzare un fuoco infernale, e contraendo i lineamenti
del viso in una specie di maschera di irato Apollo.
Descrivendo
un arco di incredibile ampiezza con il braccio sinistro, puntò minacciosamente
le dita contro la testa del giovane, stendendo su di lui un'ombra nera come
quella di un avvoltoio che passi a volo spiegato davanti al sole. Gaspard
scorse le facce bianche e meravigliate degli alunni del Negromante spuntare dal
cappuccio, sulle spalle del colosso.
«Dunque,
tu sei Gaspard, il mio discepolo apostata!», ruggì il gigante, come una bufera.
«Credevo ti stessi putrefacendo nella segreta di Ylourgne... e invece ti
ritrovo qui, sul campanile di questa maledetta cattedrale che sto per
distruggere... Avresti fatto meglio a restare dove ti avevo lasciato, mio caro
Gaspard.»
Mentre
parlava, il respiro si abbatteva sullo studioso come le zaffate ventose
provenienti da una catacomba. Le dita enormi con le unghie annerite, simili a
pale, sembravano le grinfie di un orco.
Gaspard,
intanto, aveva afferrato furtivamente la borsa di cuoio che portava appesa alla
cintura, sciogliendone la chiusura. E, mentre la mano contratta scendeva su di
lui, vuotò tutto il contenuto della borsa sulla faccia del gigante, e la
polvere finissima, salendo in una nuvola grigio-scuro, nascose alla vista
quelle labbra ghignanti e quelle narici palpitanti.
Al
massimo della tensione, Gaspard rimase in attesa dell'effetto con la paura che
la polvere, in ultima analisi, potesse rivelarsi inefficace contro le arti
superiori e le risorse sataniche di Nathaire. Ma, forse per puro miracolo, a
quanto sembrava, la vitalità maligna in quegli occhi simili a stagni senza
fondo, stava morendo, man mano che il mostro inalava quella nube oscura. La
mano alzata che stava per afferrare il giovane, ricadde senza vita. La rabbia
era sparita dalla spaventosa maschera contratta del viso del gigante, come da
quello di un morto; il grande tronco di pino piombò con uno schianto nella via
deserta, e poi, con passi incerti, barcollanti e incontrollati e le braccia
penzoloni, il gigante voltò le spalle alla cattedrale e tornò indietro,
attraverso la città devastata.
Camminando
brontolava tra sé, e chi lo udì, giurava che la voce non era più quella così
terribile, simile al tuono, di Nathaire, ma un mormorio confuso di toni e di accenti
di una moltitudine di uomini, fra i quali era riconoscibile la
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voce
di qualcuno dei morti trafugati. E, a intervalli, in mezzo a tutto
quell'agghiacciante bailamme, si udiva anche la stessa voce di Nathaire,
identica a quella di quando era in vita, come se protestasse furiosamente.
Scavalcate
le mura orientali, come aveva fatto nel venire, il colosso continuò a vagare
avanti e indietro per parecchie ore, non più in preda al furore e dando in
escandescenze ma, come era prevedibile, alla ricerca delle varie tombe e
sepolcreti dai quali le centinaia di cadaveri che lo componevano, erano stati
strappati.
Da
catacomba a catacomba, da cimitero a cimitero, percorse tutta la regione, ma
non c'era tomba che potesse accogliere le spoglie di quel colosso.
Poi,
verso sera, lo si vide lontano, sullo sfondo del rosso tramonto, intento a
scavare con le mani, nel soffice terreno argilloso della sponda dell'Isoile. E,
in quel punto, il colosso si distese nel suo stesso scavo e non si rialzò più.
Per quanto riguarda i dieci discepoli, si pensò che, non essendo riusciti a
scendere dal cappuccio, fossero stati schiacciati da quel corpo mostruoso. Infatti,
da quel momento, si persero le loro tracce.
Per
parecchi giorni, nessuno ebbe il coraggio di avvicinarsi al cadavere insepolto.
E il corpo, decomponendosi rapidamente sotto il sole estivo, emanava un fetore
tale che provocò un'epidemia di pestilenza in quella parte dell'Averoigne. E
coloro che, in autunno, quando il fetore si era già attutito di parecchio, si
avventurarono nelle vicinanze, giurano di aver udito levarsi ancora da quello
scheletro enorme, spogliato dai corvi, la voce di Nathaire che continuava a
protestare furiosamente.
Per
quanto riguarda Gaspard del Nord, che aveva salvato la provincia, si tramanda
che sia vissuto in grande onore fino a tarda età e che sia stato l'unico
Stregone della regione a non incorrere mai nella disapprovazione della Chiesa.
FINE
(Trad.
Teobaldo del Tanaro)
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