1369: IL MOSTRO DELL'AVEROIGNE

                     (The Beast of Averoigne, Maggio 1933)

 

Molto presto la vecchiaia corroderà i miei ricordi come una tarma in un arazzo fatiscente, così come corrode i ricordi di tutti. Perciò, io Luc Le Chaudronnière, un tempo conosciuto come astrologo e stregone, scrivo questo racconto sull'origine e sulla distruzione del Mostro dell'Averoigne.

E, quando avrò terminato, questo scritto verrà chiuso e sigillato in un cofano di ottone e nascosto in una stanza segreta della mia casa di Ximes, affinché ancora per molti decenni nessuno sappia la verità su quella faccenda.

Infatti non sarebbe conveniente che prodigi diabolici di tal fatta venissero divulgati, mentre qualcuno che vi ebbe parte si trova ancora in Purgatorio. E, al presente, la verità la sappiamo soltanto io e pochi altri che hanno giurato di mantenere il segreto.

È, noto a tutti che l'avvento del Mostro coincise con la comparsa di quella rossa cometa proveniente dalla costellazione del Dragone, all'inizio dell'estate del 1369. Riempiva di luce sinistra la notte in tutto l'Averoigne, recando la paura di calamità e pestilenze nella sua coda, simile alla rutilante capigliatura di Satana, scompigliata dai venti della Gehenna, quando si scatena sull'umanità. E, ben presto, fra la gente, cominciò a diffondersi la diceria della presenza di uno strano demonio, qualcosa di mai udito, persino nelle più cupe

leggende.

È toccò proprio a Frate Jerome dell'Abbazia Benedettina di Perigon, fare la conoscenza di quell'orrore, prima che si manifestasse agli altri. Tornando, a ora tarda, da una visita a Santa Zenobia, Jerome venne sorpreso dalla notte. Non c'era la luna che potesse rischiarargli il cammino nella foresta ma, fra i tronchi contorti delle querce centenarie, scorgeva l'implacabile fiammeggiare della cometa che pareva lo stesse inseguendo. Jerome si sentì invadere da una

irragionevole paura delle tenebre e delle ombre profonde, per cui affrettò il passo verso l'ingresso posteriore dell'Abbazia.

Passando fra gli antichi alberi che troneggiavano fittissimi ai piedi di Perigon, credette di intravedere la luce delle finestre e si sentì più rincuorato. Ma, proseguendo nel cammino, si rese conto che la sorgente della luce era molto più vicina e che proveniva da una foltissima macchia. Fluttuava, guizzando come un fuoco fatuo, e mutava continuamente di colore, ora pallida come un fuoco di Sant'Elmo, ora rossa come il sangue sgorgante da una ferita, o verde

come gli umori veleniferi che circondano la luna.

Poi, in preda a un terrore indicibile, Jerome vide che la «cosa», aureolata di luce come un nembo infernale, muovendosi e spostandosi, rivelava confusamente la nera abominazione di una testa e di un corpo che non appartenevano ad alcun essere creato da Dio.

Quell'orrore stava eretto, superando di molto, in statura, anche l'uomo più alto, ondeggiava come un serpente, e il suo corpo ondulato dava l'impressione

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di essere di pece fluida e bollente. La grossa testa nera di protendeva in avanti su un collo da rettile. Gli occhi, piccoli e privi di palpebre, brillavano come i carboni di un braciere da stregone, ed erano profondamente incassati e ravvicinati in un grugno senza naso, al di sopra di una doppia fila di denti di

pipistrello gigante.

Questo fu tutto quello che Jerome riuscì a vedere e niente di più, prima che il mostro sparisse nel suo nembo, cangiante dal verde veleno un rosso fiammeggiante. Non aveva neanche potuto formarsi un'idea delle forme e del numero delle membra di quell'orrore.

Correndo e scivolando, era sparito fra le querce centenarie, insieme alla luce infernale.

Quasi morto di paura, Jerome raggiunse l'ingresso posteriore dell'Abbazia e bussò al portone. Il frate portinaio, udendo il racconto di ciò che aveva incontrato nel bosco, non ebbe il coraggio di rimproverarlo per aver fatto tardi.

L'indomani, un cervo maschio venne trovato morto nella foresta, a valle di Perigon: una cosa mai successa. Era dilaniato in un modo osceno e, chiaramente, né da un lupo né da un bracconiere. Non presentava alcuna ferita, all'infuori di uno squarcio che gli apriva la spina dorsale dalla nuca alla coda. Lo stesso midollo spinale era stato risucchiato, ma nient'altro era stato divorato.

Nessuno era in grado di stabilire quale belva potesse aver compiuto uno scempio simile. Però i monaci, già prevenuti dal racconto di Jerome, si convinsero che nell'Averoigne sì trovava una creatura dell'Abisso. E Jerome si stupì della misericordia del Signore che gli aveva permesso di evitare la fine del povero cervo.

Adesso, notte dopo notte, la cometa si faceva sempre più grande, ardendo come una nube di sangue e di fuoco, mentre le altre stelle impallidivano, al suo confronto. E, giorno dopo giorno, dai contadini, dai preti, dai boscaioli che venivano nell'Abbazia, i Benedettini udivano racconti di paurose e misteriose devastazioni. Erano stati trovati lupi morti, con la spina dorsale squarciata e svuotata del bianco midollo spinale, ed anche un bue e un cavallo avevano subito la stessa sorte.

Poi sembrò che il mostro sconosciuto si facesse più ardito... o, per lo meno, che si fosse stancato di umili prede come le creature delle fattorie e delle foreste.

Dapprima non attaccò persone vive, ma si limitò ai morti, come un immondo divoratore di carogne. Due cadaveri, sepolti di fresco, furono trovati abbandonati nel cimitero di Santa Zenobia, dove il mostro li aveva estratti dalla tomba, mettendone a nudo le vertebre.

In entrambi i casi, solo una piccola parte del midollo spinale era stata divorata, ma le salme erano state fatte a pezzi, forse per la rabbia e per la delusione, e i brandelli delle loro carni giacevano qua e là, frammisti a quelli dei sudari. Da un fatto del genere, pareva  si dovesse  concludere che il mostro

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si compiaceva soltanto del midollo spinale delle creature appena uccise.

Comunque, dopo quell'episodio, i morti non vennero più molestati.

Ma, la notte seguente la profanazione delle tombe, due carbonai che attendevano alla preparazione del carbone di legna nella foresta, non lontano da Perigon, furono uccisi nella loro capanna. Altri carbonai che abitavano poco distante avevano udito le loro urla, seguite da un improvviso silenzio e, sbirciando attraverso le fessure della porta sprangata, avevano scorto una sagoma oscura che brillava in modo osceno, uscire dalla capanna. Però fino all'alba non avevano trovato il coraggio di andare a vedere che cos'era successo ai loro compagni che avevano subito la stessa sorte dei lupi, del cervo e delle salme.

Teofilo, l'Abate di Perigon, era ricorso a tutto ciò che sapeva per scongiurare il pericolo di quel demonio che aveva deciso di manifestarsi nelle vicinanze dell'Abbazia. Pallido per i digiuni, le penitenze e le lunghe ve-glie di studio e di preghiera, convocò i monaci a capitolo e, mentre parlava, nei suoi occhi incavati brillava un ardore marziale contro gli accoliti di Asmodeo.

«Purtroppo, si trova fra di noi un potente demonio sorto dalle Malebolge, insieme alla cometa. E noi, monaci di Perigon, dobbiamo uscire con la Croce e l'Acqua Santa per ricacciare quel essere maligno nella sua tana nascosta che, forse, si trova poco lontano dalle nostre porte.»

Così, quello stesso pomeriggio, Teofilo, in compagnia di Jerome e di altri sei monaci, scelti fra i più coraggiosi, uscì alla ricerca del demonio, inoltrandosi nella foresta, per chilometri e chilometri. Con le torce accese e brandendo le croci, penetrarono in tutte le caverne che incontravano, ma non trovarono altro che lupi e tassi. E si spinsero perfino a perlustrare i ruderi e i sotterranei cadenti del castello abbandonato di Fausseflammes, che si diceva fosse infestato dai vampiri. Ma non riuscirono a trovare la minima traccia del mostro né della sua tana.

E il culmine dell'estate passò, pieno di atti di terrore, nelle notti illuminate dal malefico bagliore della cometa. Più di quaranta, fra uomini, donne e bambini, furono uccisi straziati dal mostro che, quantunque sembrasse cacciare di preferenza nei dintorni dell'Abbazia, tuttavia, a volte, si spingeva fino alle sponde del fiume Isoile e alle porte di La Frênaie e di Ximes.

Furono in molti a vederlo, di notte, sotto forma di una nera mostruosità circondata da una luminescenza cangiante, ma nessuno lo vide di giorno. E sempre nel più assoluto silenzio. La «cosa» non produceva alcun rumore, e nei suoi sinuosi movimenti era più veloce di una vipera.

Una volta, alla luce della luna, fu vista, nell'orto dell'Abbazia, scivolare verso le finestre, fra i cespugli di piselli e le rape. Poi, con il favore delle tenebre, penetrò nel monastero. Senza svegliare gli altri, sui quali doveva aver pronunciato una formula infernale, prese Frate Jerome dal pagliericcio a capo della fila di giacigli, nel dormitorio. E l'orrendo delitto non venne scoperto che all'alba, quando il monaco che dormiva accanto a Jerome, svegliandosi, vide

il cadavere a faccia in giù, con la tonaca squarciata e il dorso ridotto a brandelli di carne sanguinolenta.

Una settimana più tardi, la stessa sorte toccò a Frate Agostino.

E, nonostante gli esorcismi e l'aspersione dell'Acqua Benedetta su tutte le porte e su tutte le finestre, il mostro fu rivisto scivolare furtivo per i corridoi dell'Abbazia e, nella cappella, lasciò un segno irriferibile e blasfemo della sua presenza.

Erano in molti a credere che minacciasse l'Abate in persona, per il fatto che Frate Costantino, il cantiniere, una sera, tornando a ora tarda da una visita a Vyones, alla luce delle stelle, aveva visto la «cosa» varcare il muro esterno, in direzione della finestra della cella di Padre Teofilo, che era prospiciente la foresta. E, accorgendosi della presenza di Costantino, il mostro si era lasciato scivolare a terra come una scimmia gigantesca, ed era sparito fra gli alberi.

Fra i monaci, grandi furono lo scandalo e la costernazione per quegli avvenimenti, e i religiosi conclusero amaramente che la creatura infernale mirava direttamente all'Abate, che non lasciava mai la sua cella, assorto in preghiere e digiuni. Pallido e più emaciato di un morente, continuava a mortificare la sua carne fino a vacillare per la debolezza, mentre una specie di febbre maligna lo divorava rapidamente.

A parte gli attacchi costanti al Monastero, quell'orrore cominciò a spingersi sempre più lontano e persino all'interno della città circondate da mura. Verso la metà di agosto, quando la cometa cominciò a declinare un po', avvenne la dolorosa morte di Suor Teresa, la giovane nipote prediletta di Teofilo, uccisa e dilaniata dalla Bestia infernale, nella sua cella del convento benedettino di Ximes.

In quell'occasione, il mostro fu visto da alcuni per le strade, da altri, mentre scavalcava le mura di Ximes, come un enorme scarafaggio o un ragno che cercasse di riguadagnare la sua tana segreta.

Corse voce che la pia Teresa, fra le mani rigide per la morte, stringesse una lettera di Padre Teofilo, nella quale il monaco le faceva una particolareggiata descrizione dei tremendi avvenimenti successi nella sua Abbazia e le confessava il suo rammarico e la costernazione nel sentirsi incapace di lottare contro quel satanico orrore.

Tutte queste notizie mi giunsero all'orecchio durante l'estate, in casa mia, a Ximes. Fin dall'inizio, a causa del mio commercio con le cose occulte e le potenze delle tenebre, la Bestia misteriosa fu subito al centro del mio interesse. Capii che non poteva trattarsi di una creatura terrestre o degli inferi terreni ma, considerando le sue caratteristiche e la sua genesi, sulle prime, non riuscii a saperne più degli altri. Invano consultai le stelle e feci ricorso alla geomanzia e alla negromanzia, ed anche i colleghi consultati si limitarono a dire che la Bestia doveva essere extraterrestre, al di là delle facoltà conoscitive degli spiriti sublunari.

Poi mi rammentai di quel misterioso anello che avevo ereditato da mio padre, Stregone anche lui. Quel monile proveniva dalla leggendaria Iperborea e, un tempo, era appartenuto al Negromante Eibon.

 

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Era costituito di un oro più rossiccio di tutto quello che la Terra aveva prodotto nei suoi svariati e lunghissimi cicli, e portava incastonata una gemma color porpora, così intensa e riverberante come non se ne trovano più. Nella pietra era stato imprigionato un antico demonio, uno spirito dei mondi preumani, che rispondeva alle richieste degli Stregoni e alle loro domande.

Perciò tirai fuori l'anello da uno scrigno che veniva aperto molto raramente e feci tutti i preparativi necessari per la consultazione. E, quando la gemma di porpora venne mantenuta, voltata all'ingiù, al di sopra di un piccolo braciere pieno di ambra incandescente, il demone diede la sua risposta, in una voce stridula che sembrava il canto sibilante del fuoco.

E mi informò sulle origini della Bestia, proveniente dalla cometa rossa, dicendo che apparteneva a una razza di demoni stellari che non avevano più visitato la Terra fin dallo sprofondamento dell'Atlantide, e mi illustrò gli attributi del mostro, invisibile e intangibile dall'uomo nella sua forma originaria e che poteva manifestarsi soltanto sotto un aspetto estremamente abominevole. Nel contempo, mi disse che la Bestia poteva essere vinta nel caso fosse stata sorpresa sotto forma tangibile.

Quelle rivelazioni furono fonte di orrore e di sorpresa anche per me, studioso di scienze occulte. E, per molte ragioni, considerai l'esorcismo un mezzo molto dubbio e pericoloso. Ma il demonio spergiurava che non esisteva altro modo.

Meditando su quanto avevo appreso, rimasi ad indugiare fra i libri e gli alambicchi, perché le stelle mi avevano avvertito che il mio intervento sarebbe stato richiesto a suo tempo. In seguito alla morte di Suor Teresa, vennero da me, in forma privata, il Prefetto di Ximes e l'Abate Teofilo, nei cui consunti lineamenti e nell'aspetto abbattuto, ravvisai i sintomi di una tristezza mortale,

insieme all'orrore ed all'umiliazione. E, sia pure con chiara riluttanza, i due mi chiesero consiglio e assistenza per uccidere la Bestia.

«Voi, Messer Le Chaudronnière,» disse il Prefetto, «siete ritenuto un esperto nelle arti arcane della Stregoneria e delle formule che evocano e scacciano i demoni. Perciò, avendo a che fare con un demonio del genere, è possibile che possiate avere successo là dove tutti gli altri hanno fallito. Non è volentieri che ricorriamo a voi per questa faccenda, perché non è decoroso che la Chiesa e la Legge si alleino con la Stregoneria. Ma esiste la disperata necessità di impedire che il demonio faccia altre vittime. Per il vostro aiuto riceverete una generosa ricompensa in oro e la garanzia dell'immunità per tutto il resto della vostra vita, dagli interventi dell'Inquisizione che, in caso contrario, il vostro modo di agire potrebbe provocare. Il Vescovo di Ximes e l'Arcivescovo di Vyodnes sono partecipi di questo patto che deve restare segreto.»

«Non voglio alcuna ricompensa, se è in mio potere liberare l'Averoigne da questo flagello. Però mi state proponendo un compito molto difficile e forse anche pieno di pericoli sconosciuti.»

«Avrete tutta l'assistenza possibile», replicò il Prefetto. «Anche i soldati saranno a vostra disposizione, se necessario.»

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Quindi Teofilo, con voce debole e rauca, mi assicurò che, dietro mia richiesta, tutte le porte sarebbero state aperte per me, comprese quelle dell'Abbazia di Perigon, e che sarebbe stato fatto tutto il possibile per abbattere il demonio.

Dopo una breve riflessione, dissi: «D'accordo. Allora, prima del tramonto, mandatemi due soldati a cavallo e un destriero per me.

Scegliete gli uomini in base al loro valore e alla discrezione. Questa notte stessa intendo visitare Perigon, che sembra essere il centro di quell'orrore.»

Tenendo presente l'avvertimento del demonio imprigionato nel rubino, non feci alcun preparativo per il viaggio, e provvedetti soltanto a infilarmi all'indice l'anello di Eibon e ad appendermi alla cintura un piccolo martello, invece della spada. Poi attesi l'ora stabilita per l'arrivo dei soldati e dei cavalli a casa mia, così come era stato pattuito.

Si trattava di due robusti guerrieri di provato valore, armati di corazze, spade e alabarde. Io montai il terzo cavallo, una giumenta nera e irrequieta, e lasciammo Ximes diretti a Perigon, seguendo un itinerario che attraversava la foresta infestata dai lupi mannari.

I miei compagni erano taciturni e parlavano unicamente per rispondere alle mie domande e sempre con poche parole.

La cosa mi faceva piacere, perché garantiva che avrebbero saputo tacere su tutto ciò che fosse potuto succedere, prima dell'alba.

Procedevamo ad andatura sostenuta, mentre il sole tramontava tra gli alberi in un lago di fuoco, simile a sangue sgorgante e, ben presto, le tenebre cominciarono a tessere la loro ragnatela sempre più fitta da macchia a macchia, chiudendosi al di sopra delle nostre teste come una trappola diabolica. Ci internammo sempre più nel folto dei boschi tenebrosi e persino io, maestro di Stregonerie, non potei impedirmi un leggero tremito di paura al pensiero di ciò che si nascondeva in quel buio.

Puntuali e senza essere stati molestati in alcun modo, raggiungemmo l'Abbazia non appena la luna era appena sorta, quando tutti i monaci, eccetto l'anziano portiere, si erano già ritirati nel dormitorio. L'Abate, tornando da Ximes al tramonto, aveva avvertito il portinaio della nostra venuta, raccomandandogli di farci entrare.

Ma ciò non rientrava nei miei piani. Dicendo che avevo motivo di ritenere che la Bestia sarebbe entrata nuovamente nell'Abbazia quella notte stessa, manifestai la mia intenzione di attendere fuori dal monastero, chiedendogli di accompagnarci a fare il giro perimetrale dell'edificio, in modo che potessi rendermi conto dell'ubicazione delle diverse stanze.

Il portiere mi accontentò e, durante la ricognizione, m'indicò una certa finestra al secondo piano, che corrispondeva alla cella di Teofilo. Quella finestra si affacciava sulla foresta, e rimarcai la temerarietà dell'Abate, nel lasciarla aperta. Il portiere mi precisò che quella era una abitudine fissa di Padre Teofilo, nonostante le reiterate intrusioni demoniache nel monastero. All'interno della cella si notava la luce tremolante di una candela, come se l'Abate stesse vegliando in preghiera.

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Lasciammo i cavalli in custodia al portiere e, finito il giro di ispezione, tornammo sotto la finestra dell'Abate Teofilo, in lunga e paziente attesa.

Smorta e incavata come la faccia di un cadavere, la luna salì nel cielo, trascorrendo al di sopra delle querce frondose e rovesciando una spettrale luce argentea sulle pietre grigie delle mura dell'Abbazia. A occidente, la cometa fiammeggiava fra le costellazioni prive di splendore, velando la coda dello Scorpione.

Aspettammo ora dopo ora nella zona d'ombra che si andava rimpicciolendo di un'alta quercia, in un punto in cui nessuno, dalla finestra, poteva vederci. Quando la luna ci ebbe oltrepassati, degradando a ovest, l'ombra cominciò ad allungarsi verso il muro.

Tutto era mortalmente tranquillo e non si scorgeva alcun movimento, all'infuori del lento spostamento delle luci e delle ombre. Circa a metà fra la mezzanotte e l'alba, il cero nella camera di Teofilo si spense, come se si fosse consumato fino alla fine e, da quel momento, la cella rimase buia.

I soldati mi facevano compagnia in quella veglia, senza fare domande, con le armi pronte. Sapevano molto bene quale terrore demoniaco avrebbero dovuto affrontare, prima dell'alba, ma non c'era ombra di trepidazione, nel loro respiro. E, sapendo molte più cose di loro, dal canto mio mi tolsi l'anello di Eibon dal dito, tenendolo pronto per fare quello che il demonio mi aveva suggerito.

I due uomini, secondo i miei ordini, erano molto più vicini di me alla foresta, che osservavano senza interruzioni. Ma non c'era nulla che si muovesse, in quell'ombra fremente e, lentamente, la notte si avviò alla fine e il cielo cominciò a impallidire, simile ad un crepuscolo mattutino. Poi, un'ora prima del sorgere del sole, quando l'ombra proiettata dalla grande quercia aveva già raggiunto il muro e stava salendo verso la finestra di Teofilo, accadde quello che prevedevo.

All'improvviso, senza alcun segno premonitore, un orrore di rossa luce infernale si accese, come una fiamma alimentata dal vento, balzando fuori dalla macchia della foresta ed esplodendo al di sopra di noi, stanchi e sfiniti dalla lunga veglia notturna.

Uno dei soldati venne gettato a terra, e vidi protendersi su di lui, in un rosso fluttuare di sangue spettrale, la nera e quasi serpentina forma della Bestia. Una grossa testa da rettile, senza naso e orecchie, gli stava addentando l'armatura con una violenza inaudita, e si sentivano i denti colpire e rodere la corazza di ferro. Senza indugi, posai l'anello di Eibon su un masso scelto in precedenza, e frantumai la pietra scura con il martello che mi ero portato.

Dai frammenti della gemma emerse il demonio liberato, dapprima sotto forma di un fuoco fumoso delle dimensioni della fiamma di una candela, ma poi crebbe man mano, fino a sembrare il falò di una fascina. Quindi, sibilando dolcemente con la voce del fuoco, si gettò in avanti, per dare battaglia alla Bestia, come mi aveva promesso, in cambio della libertà, dopo ere di prigionia.

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Si avvicinò alla Bestia, fiammeggiando come un auto da fè, e il Mostro lasciò perdere il soldato caduto, ritirandosi come un serpente ustionato. Il corpo e le membra della Bestia si contorcevano in un modo atroce, e sembravano disciogliersi come cera: mutando lentamente, sotto l'aspetto bestiale, la «cosa» andava assumendo vaghe e indistinte sembianze umane. Quel viscido nerume si dissolveva in spirali, per ricomporsi in una specie di tessuto, con la foggia e le pieghe di una tonaca e di un cappuccio, come quelli indossati dai Benedettini. Quindi, sotto il cappuccio, cominciò ad apparire un viso il quale, per quanto in ombra e distorto, era quello dell'Abate Teofilo.

Quel prodigio durò un istante, ma anche i soldati lo videro. Però, il demonio sotto forma di fuoco, continuava ad assalire quella «cosa» così orrendamente trasfigurata, e quel viso pareva liquefarsi in una colata di cera nerastra, sprigionando una colonna di fumo fuligginoso, seguito da un fetore di carne bruciata, insieme a qualche innominabile e nauseabonda sozzura. E, dalla nube di fumo, più potente del sibilo del demonio, si levò un unico grido: la voce di Teofilo. Ma il fumo continuava a espandersi, nascondendo assalitore e assalito e non si udì più altro, all'infuori del ruggito del fuoco.

Alla fine, quel fumo color sabbia cominciò ad alzarsi disperdendosi fra le macchie, e una danzante luminosità dorata, a foggia di fuoco fatuo, prese a librarsi al di sopra degli alberi scuri, verso le stelle.

Compresi allora che il demonio dell'anello aveva mantenuto la promessa e se ne stava tornando ai suoi remoti abissi ultramondani, dai quali lo Stregone Eibon lo aveva tratto per portarlo a Iperborea a farne il prigioniero della gemma color porpora.

Il puzzo di bruciato svanì nell'aria, insieme al fetore immondo, e di ciò che era stata la Bestia non c'era più traccia. Mi resi conto che l'orrore generato dalla cometa rossa era stato portato via dal feroce demonio. Il soldato caduto si rialzò, illeso sotto l'armatura e si pose al mio fianco, con il compagno, senza dire una parola. Però sapevo che avevano visto la metamorfosi della Bestia e che avevano indovinato qualcosa della verità. Così, mentre la luna impallidiva in prossimità dell'alba, feci loro giurare solennemente di mantenere il segreto, con l'ingiunzione di assistere, in qualità di testimoni, a ciò che stavo per fare, in presenza dei monaci di Perigon.

Avendo sistemato in tal modo la faccenda, affinché la fama dell'Abate Teofilo non avesse a soffrirne, svegliammo il portinaio.

Dicemmo che la Bestia ci era piombata addosso all'improvviso, che aveva raggiunto la cella dell'Abate prima che potessimo impedirglielo, e che era tornata stringendo Teofilo fra le spire serpentine, come se volesse portarlo con sé nella cometa tramontante.

Io avevo esorcizzato l'immondo demonio che era sparito in una nube di fuoco e di vapori di zolfo e, per colmo di sventura, l'Abate era stato arso dal fuoco. La sua morte poteva essere considerato un martirio, ma non sarebbe stato inutile: la Bestia non avrebbe più infestato il paese né tormentato Perigon, perché il mio esorcismo era infallibile.

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La versione venne accettata, senza obiezioni, da parte dei monaci, profondamente addolorati per il loro Abate. E, in fondo, rispecchiava abbastanza la verità, perché Teofilo era innocente, completamente ignaro e incosciente del cambiamento che avveniva in lui, di notte, nella sua cella, e delle atrocità commesse dalla Bestia, per mezzo del suo corpo, trasfigurato in maniera tanto spregevole.

Ogni notte le «cosa» era scesa dalla cometa per soddisfare la sua bramosia diabolica ma, essendo impalpabile e impotente, aveva approfittato dell'Abate, modellando le carni del monaco a immagine di qualche immondo mostro extrastellare. Aveva anche ucciso una giovane contadina a Santa Zenobia la stessa notte in cui noi eravamo in attesa, dietro l'Abbazia. Però, da quel momento, la Bestia non fu più vista nell'Averoigne e le sue nefandezze non si ripeterono più.

A suo tempo, la cometa passò in altri cieli, svanendo lentamente e, anche l'oscuro terrore che aveva seminato, divenne una leggenda, raccontata in diversi modi, come accade di tutte le cose passate.

L'Abate Teofilo fu canonizzato per il suo strano martirio, e coloro che leggeranno questo racconto nei tempi futuri, non vi presteranno fede, dato che penseranno che nessun demonio o spirito maligno può aver prevalso a quel modo sulla vera santità. Anzi, nessuno lo crederà, perché il velo che divide l'uomo dalla divinità è molto tenue.

I cieli sono infestati da cose cui è pazzesco credere, e strane abominazioni transitano di continuo fra la Terra e la Luna e attraverso le galassie. Cose innominabili sono giunte a noi sotto forma di orrori extraterrestri e continuano a venire. E i demoni delle stelle non sono come i demoni della Terra.

 

FINE

(Trad. Teobaldo del Tanaro)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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