1550: IL RITROVAMENTO DI
VENERE
(The Disinterment of Venus,
Luglio 1934)
Prima
dei deplorevolissimi e scandalosi avvenimenti del 1550, l'orto di Périgon era
situato sul lato sudest dell'Abbazia. In seguito a quei fatti, venne
trasportato sul lato nordest, dov'è rimasto per sempre, e l'antico recinto fu
abbandonato alle erbacce e ai rovi che, per tassative disposizioni degli Abati
successivi, non furono mai né estirpati né ostacolati.
Le
circostanze che provocarono lo spostamento delle piantagioni di rape e di
carote dei Benedettini, diedero corpo a una storia nota e raccontata in tutta
l'Averoigne. Ed è molto difficile poter dire fino a che punto la leggenda sia
stata infarcita di fantasia.
Un
mattino di aprile, tre monaci stavano zappando di buona lena, nell'orto. Si
chiamavano Paolo, Pietro e Ugo. Il primo era già attempato, ma sano e robusto;
il secondo nel fiore della giovinezza, ed il terzo poco più di un ragazzo, che
da poco aveva pronunciato i voti solenni.
Animato
da una foga tutta particolare, nella quale gli impulsi primaverili del vigore
giovanile dovevano avere la loro buona parte, Ugo attaccava il terreno
argilloso con uno zelo anche maggiore di quello dei compagni. Il suolo era
quasi sgombro di sassi, frutto della diligente coltivazione di molte
generazioni di monaci; però la zappa di Ugo, proprio per la vigoria con la
quale veniva maneggiata, incontrò quasi subito un oggetto durissimo, ben
seppellito e di natura indeterminata.
Ugo
pensò che quell'ostruzione, molto probabilmente un piccolo masso, dovesse
essere rimossa, sia per l'onore del monastero, quanto per la gloria di Dio.
Impegnandosi a fondo, cominciò a scavare e ad ammucchiare di lato il terreno
argilloso e biancastro, nel tentativo di riportare l'oggetto alla luce.
Il
compito si presentava più arduo di quanto si attendesse, e il supposto macigno,
man mano che affiorava, cominciò a rivelare una forma veramente singolare e una
stupefacente lunghezza. Lasciando perdere il loro lavoro, anche Pietro e Paolo
vennero in suo aiuto. E ben presto, grazie agli sforzi di tutti e tre,
l'oggetto misterioso fu del tutto dissepolto.
Nella
grande buca che avevano scavato, i monaci poterono contemplare, in un ammasso
di terriccio, il torso e la testa di marmo di una donna o di una dea pagana. La
pallida pietra delle spalle e delle braccia, leggermente sfumata di rosa
pallido come se fosse viva, era stata ben ripulita dalle zappe, ma il viso e i
seni erano ancora tutti incrostati di argilla.
La
statua era eretta, come se si reggesse su un piedistallo nascosto. Un braccio
era alzato a carezzare, con la mano finissima e ben modellata, i contorni della
spalla e del petto; l'altro, pigramente abbandonato lungo il corpo, era ancora
sepolto nel terreno.
Continuando
a scavare, i monaci scoprirono le anche formose e le cosce ben tornite e,
alla fine, alternandosi nella
buca che ormai
superava in altezza la
95
statura
di un uomo, pervennero al piedistallo sepolto, che posava su un pavimento di
granito.
Mentre
erano intenti a scavare, i monaci si erano sentiti pervasi da una strana e
potente eccitazione, della quale ben difficilmente avrebbero potuto spiegarsi
la causa, ma che sembrava insorgere come un oscuro contagio, dal petto e dalle
braccia della statua.
Frammisto
ad un pio orrore, dovuto alla sconveniente paganità e nudità del simulacro,
provavano anche un in-definibile piacere che avrebbero represso come
disdicevole e impudico se l'avessero riconosciuto.
Nel
timore di scheggiare o di graffiare il marmo, ora maneggiavano la zappa con più
precauzione e, quando lo scavo fu compiuto e anche i piedini aggraziati furono
scoperti sul loro piedistallo, Paolo, il più anziano, ritto nella buca accanto
all'immagine, cominciò a raschiar via le incrostazioni di creta rimaste su quel
corpo meraviglioso, con manate di foglie e di erba. Compì quel lavoro con cura
meticolosa e finì di ripulire il marmo con gli orli e le maniche della tonaca
nera.
Adesso,
tanto lui quanto i suoi compagni, non del tutto digiuni di cultura classica,
erano convinti che si trattasse di una statua di Venere, appartenente, senza
dubbio, ai tempi dell'occupazione romana dell'Averoigne, quando gli invasori
avevano innalzato alcuni templi a quella divinità.
Le
vicissitudini quasi leggendarie del tempo e lunghi anni di interramento, non
avevano danneggiato molto Venere.
L'insignificante
mutilazione dell'apice di un orecchio, quasi non si notava, nascosta com'era
dai riccioli della chioma, e la frattura parziale di un piede serviva, casomai,
a conferire una più avvincente seduzione alla sua languida bellezza.
Era
raffinata come le fantasie dei sogni giovanili, ma quella perfezione aveva
qualcosa di indefinibilmente diabolico. Le linee della figura, nella pienezza
della femminilità, erano gravide di esasperante lussuria: le labbra in un viso
che richiamava quello di Circe, erano tumide, ed atteggiate a un mezzo sorriso
invitante e ambiguo. Doveva essere opera di qualche ignoto scultore della
decadenza; non era la nobile, matronale e materna Venere dei tempi eroici, ma
la maliziosa e invereconda voluttuosa Citera delle orge misteriose, pronta a
perdersi nell'oblio della Notte.
Pareva
che un incantesimo proibito, un richiamo pagano, emanasse dal marmo soffuso di
incarnato, per avvolgere come un velo invisibile il cuore dei monaci. In un
improvviso e comune impulso di pudore, si ricordarono di essere dei religiosi e
cominciarono a discutere su che cosa si dovesse fare di quella Venere, perché,
nel giardino di un monastero, era proprio fuori luogo.
Dopo
una breve discussione, Ugo andò a riferire la scoperta all'Abate, per avere
disposizioni circa la sistemazione della statua.
Nel
frattempo, Paolo e Pietro ripresero il loro lavoro nell'orto lanciando, di
tanto in tanto, alcune occhiate furtive alla dea pagana. L'Abate Agostino venne
a vedere di persona, accompagnato
dai monaci che, in quel momento,
96
non
erano impegnati in qualche specifica incombenza. Ispezionò la statua in
silenzio, con aria arcigna; e gli altri attesero rispettosamente, non osando
proferir parola prima dell'Abate.
E
anche Agostino, nonostante la santità della vita e il rigido temperamento, in
un certo qual modo si sentì disorientato dallo strano incantesimo che sembrava
emanare da quel marmo. Naturalmente non lasciò trapelare nulla, e la solita
austerità del suo comportamento si incupì. Ordinò seccamente di portare delle
corde e diresse il sollevamento di Venere dal suo giaciglio di argilla e la
successiva sistemazione della statua, in piedi, nell'orto, accanto allo scavo.
In questo compito, Paolo, Pietro e Ugo furono aiutati da altri due.
Ora,
i monaci che si accalcavano per osservare la statua da vicino, erano molti, e
parecchi si sentivano anche tentati di toccarla, nonostante la proibizione del
loro superiore per un'azione tanto riprovevole. Alcuni dei Benedettini più
anziani e più austeri insistettero per la sua immediata distruzione, sostenendo
che quel simulacro era un obbrobrio pagano che profanava l'orto dell'Abbazia
con la sua presenza. Altri, più pratici, fecero presente che quella Venere,
essendo un raro e stupendo esemplare di scultura romana, poteva essere venduta,
con un ottimo ricavo, a qualche ricco amatore
d'arte
di pochi scrupoli religiosi.
Agostino,
nonostante fosse convinto che la Venere doveva essere distrutta come un impuro
idolo pagano, tuttavia si sentì invadere da una strana e peculiare esitazione
che lo trattenne del dare gli ordini necessari per la sua distruzione. Era come
se l'insinuante grazia invereconda del marmo stesse chiedendo mercè al pari di
una creatura viva, con una voce per metà umana e per metà divina.
Distogliendo
lo sguardo da quel candido seno, con voce rauca, ordinò ai monaci di tornare alle
loro occupazioni e alle loro preghiere, aggiungendo che la Venere poteva
restare nell'orto fino a che fossero state prese le decisioni relative alla sua
sistemazione e al suo destino. Per il momento, e nell'attesa, incaricò uno dei
confratelli di recare delle tele di sacco e di ricoprire le nudità della dea.
In
seno alla tranquilla comunità di Périgon il ritrovamento di quella antica
statua divenne la fonte di molte discussioni e di alcuni perturbamenti e
dissensi. A causa della curiosità dimostrata da alcuni monaci, l'abate ordinò
che nessuno si avvicinasse alla scultura, eccetto coloro che, per ragioni di
lavoro, erano costretti ad una involontaria prossimità. E lui stesso, in
quell'occasione, venne criticato da qualcuno dei più anziani, per il suo indugio
nel non distruggere subito la Venere. Durante i pochi anni che gli rimasero da
vivere, dovette rimpiangere amaramente la mollezza di quel momento.
Nessuno,
comunque, poteva immaginare il grave scandalo che sarebbe scoppiato entro breve
tempo. Infatti, il giorno seguente lo scoprimento della statua, divenne
manifesto che stava circolando qualche influsso demoniaco e sovvertitore. Fino
a quel momento le infrazioni disciplinari erano state molto rare fra i
monaci e
le mancanze più gravi totalmente sconosciute, ma adesso
97
sembrava
che uno spirito di disubbidienza, di mancanza di devozione, di volgarità di
linguaggio e di scorretto agire, avesse permeato Périgon.
Paolo,
Pietro e Ugo, furono i primi a essere puniti per i loro peccati.
Un
decano, scandalizzato, li aveva sorpresi a discutere con impudica leggerezza,
di certi argomenti che si addicevano molto di più alla conversazione di galanti
uomini di mondo che non a quella di monaci. A loro giustificazione, i tre
confessarono di essere stati tormentati da pensieri e immagini carnali, fin dal
ritrovamento della Venere, e perciò maledicevano la statua, sostenendo di
essere stati pervasi da un sortilegio pagano emanante da quel marmo che dava
l'impressione di essere vivo.
Quello
stesso giorno, altri monaci vennero accusati di mancanze consimili, ed altri
ancora confessarono visioni e desideri lubrici come quelli che avevano
tormentato Sant'Antonio nel deserto. Anche costoro erano propensi a incolpare
la Venere.
Prima
della preghiera serale, parecchie infrazioni alle regole del monastero erano
state riconosciute, e alcune di esse di natura tale da richiedere i rimproveri
e le punizioni più severe. Monaci che fino a quel momento avevano mantenuto una
condotta esemplare, vennero trovati colpevoli di infrazioni di tale portata che
potevano essere soltanto imputate alla diretta influenza di Satana o di qualche
altro potente demonio.
E
fu peggio ancora la notte, quando si scoprì che Ugo e Paolo non erano a letto,
nel dormitorio, e nessuno era in grado di dire dove fossero andati. Non
tornarono nemmeno il giorno seguente. Per ordine dell'Abate, si fecero ricerche
nel vicino villaggio di Santa Zenobia, e si venne a sapere che Paolo e Ugo
avevano trascorso la notte in una taverna malfamata, bevendo in compagnia di
donnacce e che, alle prime luci dell'alba, avevano preso la strada per Vyones,
il capoluogo della provincia. Più tardi vennero ripresi e riportati al
monastero e protestarono che la loro colpa era unicamente dovuta a qualche
contagio demoniaco, contratto toccando la statua.
Di
fronte al calo di moralità senza precedenti che imperversava a Périgon, nessuno
dubitò che si fosse scatenato qualche diabolico incantesimo. E la fonte di
quella malia era fin troppo ovvia. E, inoltre, strane storie venivano
raccontate dai monaci che avevano lavorato nell'orto o che erano transitati
nelle vicinanze della statua.
Giuravano
che la Venere non era affatto un idolo scolpito, ma una donna di carne e
sangue, o un vero e proprio demonio in sembianze femminili che aveva
ripetutamente cambiato di posizione e che si era drappeggiata addosso la tela
di sacco, in modo da lasciare scoperte le formosità di una spalla e una parte
del petto. Altri asserivano che la Venere passeggiava per l'orto di notte, ed
altri ancora che era addirittura entrata nel monastero, comparendo dinanzi a
essi, come un fantasma.
Tutti
quei racconti suscitarono molta paura e molto orrore e nessuno osò più
avvicinarsi al simulacro. Benché la situazione fosse scandalosa al massimo, gli
ordini per la demolizione della statua - nel
timore che qualsiasi
monaco la
98
toccasse
potesse contrarre lo spaventoso maleficio che aveva portato Ugo e Pietro alla
rovina e alla perdizione e spinto gli altri al turpiloquio - non arrivarono.
Comunque
si pensò di assumere un laico, perché distruggesse l'idolo e ne portasse via i
frammenti per sotterrarli. E ciò, senza dubbio, sarebbe stato effettuato in
tempo utile, se non fosse stato per lo sconsiderato e fanatico zelo di Frate
Luigi.
Era
questi un monaco giovane, di buona famiglia, tenuto in molta considerazione fra
i Benedettini, tanto per il viso angelico, quanto per la sua austera pietà.
Bello come Adone, era tutto dedito alle veglie ascetiche e alle preghiere
prolungate, tanto da superare, a quel riguardo, perfino l'Abate e i decani.
Al
momento dello scoprimento della statua, era intento a ricopiare un testo latino
e né allora, né in seguito, si era mai preoccupato di andare a vedere un
ritrovamento che considerava più che dubbio.
Aveva
espresso aperta disapprovazione nell'udire i particolari della scoperta, dai
confratelli, e sentendo che l'orto dell'Abbazia era profanato dalla presenza di
quell'immagine oscena, aveva accuratamente evitato tutte le finestre dalle
quali i suoi occhi avessero potuto scorgere il marmo.
Quando
l'influsso del male pagano e la corruzione, divennero evidenti fra i suoi
confratelli, manifestò una grande indignazione, giudicando assolutamente
intollerabile che dei monaci virtuosi e timorati di Dio, fossero indotti a
commettere azioni vergognose per opera di qualche incantesimo demoniaco e
idolatra. Aveva riprovato apertamente l'esitazione di Agostino nel distruggere
quell'idolo malefico, e diceva che sarebbe successo di peggio se l'avessero
lasciato intatto.
Tenendo
presente tutto ciò, figurarsi l'estrema sorpresa e l'allarme a Périgon quando,
il quarto giorno dall'esumazione della statua, si scoprì che Frate Luigi era
sparito. La notte precedente, il letto non era stato occupato, ma pareva
impossibile che il monaco avesse lasciato il monastero, cedendo agli stessi
impulsi e desideri che avevano causato la rovina di Paolo e Ugo.
L'Abate
interrogò a fondo tutti i monaci e si venne a sapere che Frate Luigi, l'ultima
volta, era stato visto trafficare nell'officina dell'Abbazia. Siccome aveva
sempre dimostrato scarso interesse per gli arnesi e il lavoro manuale in
genere, quell'elemento fu ritenuto di peculiare importanza. Si fece subito
un'ispezione al laboratorio, e il monaco addetto all'officina, scoprì
immediatamente che mancava il martello più pesante.
La
conclusione era ovvia. Luigi, spinto da virtuoso fervore e santo sdegno,
durante la notte doveva essere andato a demolire l'infausto simulacro di
Venere.
Agostino,
e tutti i monaci che lo avevano seguito, corsero senza indugio nell'orto. Ma
incontrarono gli ortolani, i quali, avendo notato da lontano che la statua non
era più al suo posto accanto alla buca, si stavano affrettando a riportare la
faccenda all'Abate.
99
Non
avevano avuto il coraggio di indagare sulla scomparsa, perché erano fermamente
convinti che la statua avesse ripreso vita e fosse in agguato in qualche punto
dell'orto.
Rinfrancati
dal numero e dalla presenza di Agostino, i monaci si avvicinarono tutti assieme
allo scavo. Sul bordo trovarono il martello mancante, abbandonato sull'argilla
ammucchiata, come se Luigi lo avesse gettato da parte. Accanto, i sacchi che
avevano ricoperto l'immagine, ma nemmeno un frammento di marmo, come tutti si
aspettavano di vedere. Le orme di Luigi erano chiaramente impresse sul bordo
della buca, stranamente vicine al segno lasciato dal piedistallo della statua.
Chissà
come, la Venere era stata capovolta ed era caduta nello scavo profondo. Il
corpo di Frate Luigi, con il cranio fracassato e le labbra ridotte ad una
poltiglia sanguinolenta, giaceva schiacciato sotto il petto della statua. Le
braccia del povero monaco erano strette attorno alla dea, come in un disperato
abbraccio d'amore, al quale la morte aveva raggiunto la sua rigidità. Ma, anche
più orribile e inspiegabile, era il fatto che le marmoree braccia di Venere
avessero mutato posizione e fossero avvinghiate al morto, come se fossero state
scolpite e modellate nell'atteggiamento di un abbraccio amoroso.
Impossibile
esprimere l'orrore e la costernazione dei Benedettini. Qualcuno se la sarebbe
data a gambe immediatamente, in preda al panico, alla vista di quello
spaventoso e abominevole prodigio, ma Agostino li trattenne, infiammato dal
religioso furore di chi si trova a dover fronteggiare l'opera incombente
dell'Avversario.
Fece
portare una croce e un aspersorio con l'Acqua Santa, dicendo che il cadavere di
Luigi doveva essere recuperato dall'orrenda e dolorosa posizione in cui si
trovava. Il martello di ferro, abbandonato presso la buca, costituiva la prova
della retta intenzione che aveva spinto Luigi ad agire, ma era anche
altrettanto evidente che il frate aveva ceduto al fascino della statua.
Tuttavia, la Chiesa non poteva abbandonare i suoi figli caduti nel peccato, in
balìa del Demonio.
Quando
venne recata la scala, Agostino stesso scese per primo, seguito da tre dei più
robusti e coraggiosi monaci, disposti a rischiare la propria salvezza
spirituale per la redenzione di Luigi.
Riguardo
a ciò che seguì, le leggende variano lievemente. Alcune dicono che l'aspersione
dell'Acqua Santa compiuta da Agostino sulla statua e sulla vittima non
ottennero tangibili risultati, mentre altre raccontano che le gocce d'acqua si
tramutarono in vapore infernale, quando colpirono la Venere caduta, e che
fecero annerire il corpo di Luigi, come quello di un morto da un mese, provando
in tal modo la sua completa ed eterna dannazione.
Però,
in un punto concordano tutte, e cioè che gli sforzi dei tre robusti monaci,
condotti all'unisono sotto la direzione dell'Abate, furono impotenti a
sciogliere l'abbraccio marmoreo della dea dalla sua preda.
Così,
per ordine di Agostino, la buca venne riempita fino all'orlo di terra e di
sassi, e il luogo stesso
in cui era stata scavata, venne
lasciato senza tumulo o
100
altri
contrassegni e fu presto ricoperto da erbacce e rovi, insieme al resto
dell'orto abbandonato.
FINE
(Trad.
Teobaldo del Tanaro)
101