1
Nessun dolore
Là fuori il silenzio era una presenza quasi solida e confortante. Dopo il vociare confuso della sala del trono, la quasi totale assenza di suoni era come un balsamo per la sua mente costantemente ingombra.
Anche ora che il peggio sembrava passato. Ora che, finalmente, aveva visto il suo più grande desiderio avverarsi e il suo mondo risorgere alla vita, Mojheardean non riusciva a trovare pace. L’aria aveva un sapore dolce verso sera, ricordava fin troppo bene quando invece non si respirava che morte e desolazione. Dopo che l’Alberopietra si era destato e una nuova primavera aveva pervaso la corte di Pietrabuia, tutto aveva cominciato ad avere un nuovo sapore. Elettrizzante, vivificante.
Era il sapore della vita che tornava a scorrere.
Sentiva anche con più forza il suo stesso potere. Palpitava nello spazio tra le mani e la roccia quando si avvicinava, fluiva come un sussurro costante tra il suo essere e le radici stesse della montagna. Mai, prima di allora, l’aveva percepito tanto forte, mai la sua voce era stata così potente.
Quel potere che era stato inservibile durante la sua prigionia, quel segreto che aveva coltivato tanto a lungo tra le mura tetre del palazzo di pietra, aspettando il momento adatto alla rivalsa, non l’aveva salvato. Non gli era servito per riportare agio alla sua gente, eppure ora sembrava ruggire e dargli credito più di ogni altra cosa di fronte a tutti i detrattori. Si era insinuato tra i giochi di corte, tessendo trame come fili di ragnatela, tanto sottili e fragili da sembrare inesistenti, uno sforzo che gli era valso qualche alleato inaspettato.
Doveva stare attento e agire con astuzia. Se si fosse mostrato troppo potente avrebbe attirato la morte prima del tempo. Viaggiava su una lama sottile, ne era ben conscio.
Avrebbe usato quell’arma solo in casi di assoluta necessità.
Godendo della brezza che soffiava tra le pareti a strapiombo sulla valle, Mo appoggiò le mani alla balaustra di pietra e si affacciò sul precipizio. La terrazza era stata costruita su uno spuntone di roccia e, come tutto il palazzo, sembrava un’emanazione stessa della montagna. Il pavimento era stato ricavato dalla pietra viva, levigato fino a splendere dalle mani esperte dei suoi antenati. Dal loro stesso potere. Forse i Grigi, sotto la sua guida, potevano davvero tornare ai fasti di quel tempo perduto.
Pensò a sua madre, pallida e triste mentre osservava i parapetti in pietra finemente scolpita come da dietro una prigione. E per lei quel luogo doveva aver rappresentato proprio quello. Una prigione crudele, dove lasciava di volta in volta un pezzo della propria essenza vitale. Dove, a poco a poco, avrebbe perso anche il senno.
Mo inspirò a fondo l’aria fresca, da quando Alice aveva preso a chiamarlo con quel diminutivo, gli era stato facile farlo proprio, sapendo che lei lo pronunciava con affetto. Almeno tra sé poteva far finta di essere qualcun altro, qualcuno che non fosse Mojheardean di Pietrabuia. Mo aveva almeno un’amica che pensava a lui di tanto in tanto, che non l’avrebbe cercato per un qualche tornaconto, che, senza pensarci un attimo, l’aveva accolto e curato. Mojheardean sire di Pietrabuia, che sedeva sul Trono di Pietra, avrebbe mai conosciuto qualcosa come l’amicizia o l’affetto? Fece scorrere le mani sulla pietra liscia e la sentì vibrare, toccata da innumerevoli vite prima della sua, vite che avevano trovato ben poca gioia tra quelle pareti di roccia tetra e sterile.
Il suo tormento, passato e presente, non era nulla a confronto.
Nairnering.
La sua mente continuava a sussurrarne il nome. Di giorno come di notte.
Lui aveva fatto in modo che il destino di Pietrabuia potesse cambiare. Lui e il potere inestimabile del Sangue della Foglia.
Prima si era convinto fosse il desiderio di vendetta a gridare a gran voce il suo nome. Ora? Ora lottava contro un desiderio mai sopito, un desiderio vergognoso e dolente.
Quella brama gli strisciava nel ventre e nel cuore nei momenti più impensati, trascinando con sé ricordi amari e allo stesso tempo dolcissimi, facendosi beffe di lui.
Del suo orgoglio, di ogni cosa che riteneva sacra, di qualsiasi piacere passato o futuro.
Quel maledetto desiderio lo stremava.
Come? Come poteva desiderare in modo così disperato e totale, e nel medesimo tempo disprezzarsi di più a ogni pensiero che sfiorava il Luminoso?
La notte era il momento peggiore. Portava con sé immagini di devastazione e piacere. Strazio lavato via da baci e carezze.
Quanto di quello che affiorava nei sogni era frutto della sua mente distrutta dal Rovo di Morte e quanto faceva parte della realtà? Mojheardean se lo domandava spesso.
Colse un movimento alle proprie spalle ma non se ne preoccupò.
Aveva sempre qualcuno alle calcagna da quando era asceso alla guida del suo popolo. Inspirò l’aria della sera incipiente e finse di non accorgersi dell’impazienza della guardia. Rijghar aveva preteso che non fosse mai lasciato solo e, quando aveva protestato per quella che ai suoi occhi era un’ossessiva intrusione nella propria intimità, l’uomo si era inchinato e gli aveva detto che il Trono di Pietra era una seduta scomoda, che era più sacrificio che agio. E grazie tante.
Conosceva il sacrificio. Aveva vissuto per esso tutti gli anni che era stato ad appassire tra le braccia crudeli del Rovo di Morte. Lasciando che i Luminosi prosciugassero ogni goccia di coraggio che aveva in corpo. Si era aggrappato al pensiero e alla gloria dei suoi avi. Aveva tenuto stretta la ragione nonostante la sua mente anelasse l’oblio, anche quando l’unico sollievo sarebbe stato quello di lasciarsi scorrere via. Aveva sofferto per il suo popolo. Per dare speranza alla sua gente.
Era tornato e aveva fatto in modo che le radici dell’Alberopietra venissero bagnate col sangue della vita.
Aveva sacrificato ogni cosa, anche la stima che aveva di sé, e non sembrava mai abbastanza.
Col polpastrello seguì la vena scura che il passaggio di un rampicante aveva lasciato sulla pietra, percepì il lieve vibrare della vita che scorreva poco più in là, dove l’edera era tornata a crescere. Dove il verde scuro delle foglie abbracciava quello tenero dei virgulti. Pensò ad Alice, alla sua serra. A quello che le aveva visto fare. Alle sue mani affondate nella terra, al sangue scarlatto che nutriva le radici, ai fiori che maturavano e rinvigorivano alla sola presenza della giovane. A cosa significasse avere un potere così grande.
Pensò a Nairnering, ancora, al suo mistero, al suo sangue che lo salvava. Che salvava tutti loro.
Alle mille facce che si incollava addosso. Sentì il cuore stringersi per la consapevolezza di provare una pulsione quasi irrefrenabile verso ognuna di loro. Anche quelle che non conosceva affatto. Anche quelle incredibilmente crudeli.
Un sentimento spregevole che poteva solo cercare di soffocare a ogni costo. Ma il suo corpo continuava a tradirlo, così come il suo dannato inconscio che tutto faceva salvo seguire la ragione. Mojheardean sentì le unghie spezzarsi sulla pietra mentre la coscienza lo sbeffeggiava: non c’era parte di lui che non riconducesse il pensiero di Nair al piacere e alla salvezza. Come durante la sua prigionia, quando giungeva per strapparlo al tormento delle spine, quando aveva baciato le sue lacrime, quando lo aveva nutrito con miele e latte di mandorla. Quando lo aveva confortato e blandito, la voce ridotta a un sussurro di seta sulla sua mente esausta. Le mani delicate come il tocco di fiori che a stento riusciva a ricordare nel buio cosmico in cui era precipitato. Come quando lo aveva sedotto per carpire verità che lui aveva giurato di tenere sepolte, ricompensandolo poi con un poco di pace e calore. E in seguito, quando aveva versato il sangue sul suolo sterile ai piedi dell’Alberopietra, quando con gli occhi pallidi come neve disciolta aveva regalato un futuro a un intero popolo.
«Il vostro bagno è pronto, sire.» Un flebile sussurro alle sue spalle.
Mo si raddrizzò, farsi sorprendere curvo e vulnerabile era un errore grossolano alla corte di Pietrabuia. Voltandosi, si fece scivolare addosso la maschera che fino a poco tempo prima aveva portato così bene e che all’improvviso era diventata terribilmente scomoda.
La giovane lo osservò torcendosi le mani. Era una delle loro rare femmine, una bellezza acerba e terrorizzata. Lanciò un’occhiata all’interno, dove alcuni servitori aspettavano immobili. Ognuno di loro era un “dono” inviato da qualche Signore o Signora delle casate più illustri. Più di nome che di fatto, comunque. Il lustro e la ricchezza avevano lasciato la corte di Pietrabuia da secoli, ma i nomi erano ancora importanti e quelli tra loro che potevano nutrire dei servitori si erano affrettati a mandare omaggi al nuovo sire, sotto forma di giovani maschi e una o due delle loro femmine. Carne fresca per ingraziarsi il nuovo sovrano. O per spiarlo. O ancora, secondo Rijghar, per ucciderlo.
Alcuni avevano fatto lo sforzo di indagare i suoi gusti, altri avevano semplicemente scelto i pezzi migliori del loro arsenale.
La fanciulla era una cosina ossuta che cominciò a tremare sotto il suo sguardo. Mo distolse gli occhi da quel corpo inutilmente esposto e dipinto. Qualcuno l’aveva acconciata per il piacere. La sottile tunica non nascondeva nessuna delle sue forme appena accennate, le cime dei piccoli seni erano state dipinte di un rosso acceso, così come le sue labbra tremanti. La pelle, lucida e all’apparenza liscia, era terribilmente pallida in contrasto con le linee scure dell’inchiostro con cui l’avevano segnata per abbellirle il corpo. Mo non avrebbe saputo dire quale fosse il colore degli occhi della giovane, non avevano mai lasciato il pavimento. Ma la paura che emanava arrivò strisciando, gli camminò sulla pelle e sul cuore, facendolo sentire meschino e lurido, a dispetto della consapevolezza che mai avrebbe mosso un dito sulla creatura terrorizzata al suo cospetto.
Ricordando quello che gli aveva detto annuì, ignorando il fatto che lei non potesse vedere quel cenno con gli occhi piantati sui suoi piedi. Facendo attenzione a non sfiorarne il corpo pietrificato sul vano della porta, le passò accanto per entrare. Il suo appartamento era stato arricchito di stoffe e arazzi, tirati fuori da qualche ripostiglio polveroso e ripuliti per onorare la casa del nuovo signore di Pietrabuia.
Mojheardean era del tutto indifferente a quello sfoggio di ricchezza logoro e decadente. Sapeva di dover mantenere uno status, come sapeva di non poter sbraitare contro quell’assembramento di giovani di bell’aspetto mandati a lui come carne da macello, nella migliore delle ipotesi. Non poteva esporsi, non poteva permettersi di offendere qualsiasi fragile alleanza si prospettasse. Lottando per reprimere il disgusto lasciò che un servitore gli si avvicinasse per sciogliere il nastro che teneva chiuso il colletto della camicia. Avrebbe voluto respingere le sue mani esitanti e fare da solo, avrebbe voluto cacciare via tutti e pensare da sé a lavare via un’altra giornata passata a muovere pedine sulla scacchiera della corte dell’Alberopietra. Cercando di vuotare il suo sguardo di qualsiasi inflessione osservò ognuno dei fae che fremevano in attesa di un suo gesto, del cenno di essere stati scelti.
Quella sera c’erano facce nuove, come quella della ragazza che lo aveva richiamato sul terrazzo, poteva solo sperare che coloro che erano stati sostituiti al suo cospetto non avessero subito ripercussioni. Non avevano colpa se non li aveva scelti per il suo letto. Non aveva la minima intenzione di giacere con qualcuno che tremava alla sola idea di stare nella stessa stanza con lui. Né avrebbe assecondato le mire di quel covo di serpenti dividendo il letto con spie più o meno compiacenti.
Il giovane gli fece scorrere timidamente le mani sul petto, riscuotendolo dal fugace quanto accattivante pensiero di un’altra piccola fuga verso i Bassimonti. Mojheardean incontrò lo sguardo trepido del servitore, incapace d’impedirsi una certa durezza, tanto che quello sussultò e fece un passo indietro.
Sospirò e raccolse ogni grammo di pazienza disponibile finché non ritrovò un certo equilibrio. Probabilmente al ragazzo era stato ordinato di cercare di portarselo a letto, sapeva bene come funzionavano certe cose, le aveva viste succedere alla corte di suo padre e in quella di suo fratello dopo di lui. Nessuno era stato messo al corrente del fatto che trovasse quella pratica abominevole. Non ancora.
Doveva muoversi con astuzia o le funeste previsioni di Rijghar si sarebbero avverate fin troppo presto.
Con un cenno richiamò il giovane, che si avvicinò a capo chino. Mo si sfilò la camicia dalla testa e gliela porse, poi accettò una coppa di vino dolce dalle mani di un altro servitore. Quello sembrava meno timido, i suoi occhi scuri erano carichi di promesse mentre le sue dita lo sfioravano nel passargli il calice. Gli voltò le spalle per consentirgli di sciogliere la treccia con cui gli avevano acconciato i capelli quella stessa mattina. Era stanco, incredibilmente stanco. Possibile che fosse passato appena qualche giorno da quando si era seduto sul trono di pietra?
Finse di provare piacere, di rilassarsi mentre sentiva le dita del ragazzo affondare tra i capelli, mentre quelle mani estranee da burattino cercavano di blandirlo, di sedurlo. Mojheardean, sovrano di Pietrabuia, signore dei Grigi, il cui nome era entrato negli inni della sua gente, l’uomo cui tutti si inchinavano al passaggio, avrebbe voluto urlare di frustrazione. Una volta almeno nella sua vita avrebbe ricavato piacere con un fine che fosse il piacere stesso? Piacere per il piacere. Non avrebbe chiesto altro. Non l’amore, non l’affetto, non la grazia di un sentimento sincero… solo, quello.
Annusò l’interno della coppa, un aroma dolce e fragrante gli riempì le narici. Vino dei pendii. Uno degli amministratori gli aveva assicurato che nelle stagioni a venire la produzione dei vigneti sarebbe triplicata. Le viti, che fino a poco tempo prima avevano dato frutti scarsi e poco produttivi, erano rinverdite. I filari si stavano rinfoltendo e presto ci sarebbe stata uva sufficiente per produrre vino in quantità. Avrebbero finalmente potuto vendere i prodotti della loro terra invece che comprarli a caro prezzo nella valle.
Fece roteare il liquido dorato nella coppa, non avrebbe bevuto, non se lo poteva permettere, ma poteva fingere. Come per qualsiasi altra cosa del resto.
Sentì le dita leggere del giovane sciogliere i nodi della sua treccia e indugiare sulla linea del collo, lo sentì premere i polpastrelli tra i muscoli tesi e contratti e, per un solo istante, immaginò di poter godere di quelle carezze. Percepì la ritrosia di quelle mani mentre scivolavano sulla pelle orribilmente segnata della schiena. Dove il rovo di morte aveva affondato le proprie unghie affilate e crudeli. Dove il suo corpo non era riuscito a risanarsi abbastanza in fretta e le cicatrici dolevano ancora. Subito s’irrigidì, ma soppresse il desiderio di scrollarsi di dosso quelle attenzioni indesiderate: poteva essere solo inutile e dannoso mostrarsi vulnerabile in modo palese. Era con il distacco e la fermezza che era arrivato sul Trono di Pietra. Doveva conservare il sangue freddo se voleva rimanerci abbastanza da fare la differenza.
«Come ti chiami?» domandò a quel servitore così solerte. Quale delle casate gli aveva offerto un servo tanto determinato a compiacerlo?
«Mi chiamo Bor, sire,» rispose con un filo di voce. «Sono stato riscattato dopo un lungo esilio. Tu mi hai riscattato,» rispose abbassando la testa con deferenza.
Mo annuì e fece un passo avanti, sottraendosi finalmente al tocco maldestro del giovane. Forse era solo gratitudine quella che stava ricevendo.
La femmina che l’aveva richiamato all’interno gli si accostò e con la testa bassa prese ad armeggiare con la patta delle braghe. Le sue piccole mani malferme gli fecero di nuovo venire voglia di urlare, ma prese un bel respiro e la lasciò fare. Era probabile che, se le avesse rivolto la parola, sarebbe svenuta ai suoi piedi. Si chiese se alcune delle storie macabre che si raccontavano sulla depravazione della corte di suo fratello fossero giunte alle orecchie delicate della ragazza. Scacciò il desiderio di rassicurarla, poteva sfruttare quella paura e l’avrebbe fatto, ancora, per il bene della sua gente. Poco importava che ogni dannata volta sentisse un pezzo della propria anima andare in frantumi.
Lasciò che lo svestissero, che lo conducessero verso la vasca interrata della stanza da bagno, che lo accompagnassero mentre scendeva nell’acqua tiepida e profumata. Lasciò fuori il dolore, i suoi stupidi desideri, il rancore, il bisogno. Futili amenità. Lui era fatto per quello, per riportare il suo popolo alla prosperità a costo di ogni cosa.
Lasciò che cercassero di tirare i suoi fili mentre dentro di sé alimentava la certezza che sarebbe stato lui, alla fine, a tirare i loro.