La mia prima sera Chez Maxim’s

Una carrozza si fermò davanti alla porta del locale. Ne scesero due signori. Per quanto fossi inesperto, l’importanza di quelle persone s’imponeva anche a me.

– Per il tuo debutto hai fortuna, – mi disse Gérard. – Sai chi è quello con le borse sotto gli occhi? È il principe di Galles. Viene qui a cena col marchese di Breteuil.

Rimasi immobile, contemplando il futuro re d’Inghilterra, là a due passi da me. La gomitata d’un collega mi fece allora comprendere che il mio mestiere non consisteva solo nel contemplare i clienti, ma anche nel darsi da fare.

– Ne vedrai altri, di principi e di re, – mi disse Gérard. – Ieri sera è arrivato il Kronprinz con due signore, due dame molto rispettabili.

In quel momento, due trottatori alla Orloff si bloccarono davanti a noi. Gérard si precipitò verso la donna affascinante alla quale apparteneva un equipaggio così brillante.

– Il marchese è qui? – domandò lei.

– No, madame, il signor marchese non è qui.

La signora fece un gesto di collera e la vettura ripartì, trascinata via dai cavalli che sembravano nervosi come la loro padrona.

– Il marchese buscherà qualcosa, per mancanza di puntualità.

– È dunque la marchesa? – chiesi ingenuamente.

Gérard alzò le spalle.

– Imparerai un po’alla volta a distinguere le «legittime» dalle altre. Quella era la Pantera.

– La Pantera?

– Sì, una regina del circo.

Io non mi capacitavo. Come avrei potuto immaginare che esistesse al mondo un ristorante abbastanza chic perché i re potessero venirvi a pranzare senza perdere dignità e abbastanza snob perché domatrici da circo vi fossero ricevute con la stessa considerazione.

La mia educazione in tal senso era ancora tutta da fare.

Devo dire che questa Pantera era una sorella della famosa Marthe Richer, cosa che allora ignoravo.

Verso le dieci il locale si vuotò di tutta la sua brillante clientela e si abbassarono le tende della porta.

Fu per me ulteriore motivo di sbalordimento: non potevo credere che la serata finisse così presto.

– Come? – esclamai. – Si chiude... Di già?

– Al contrario, – mi rispose Gérard, – ci si prepara ad aprire!

A quell’epoca, in realtà, Maxim’s chiudeva alle dieci per rifare la sua toilette e prepararsi a ricevere degnamente la clientela di mezzanotte. Si arieggiava per mandare via il fumo dei sigari, si spazzava, si puliva. Tutto veniva rimesso in ordine. Si apparecchiavano i tavoli prenotati. Gli tzigani salivano sulla pedana e accordavano i violini.

In breve Maxim’s riprendeva fiato prima d’affrontare il turbine, che doveva travolgere clientela e personale, fino all’alba.

Ma ecco che si arresta la prima carrozza. Gérard mi fa il nome del barone von W. e di Sua Altezza Reale il principe di Baviera. Sono due tedeschi dal viso rubicondo, il cranio completamente rasato, vestiti in modo impeccabile. Il principe s’inchina e offre il braccio a un’incantevole piccola donna bionda, una delicata porcellana di Sassonia, avvolta nell’ermellino, di nome Lina Siliac. Discende poi un’altra giovane donna, meno graziosa anche se molto seducente: è Mariette Beurer. Le due signore entrano con passo deciso, ma la sala è ancora vuota. Gérard s’affretta dietro la bella Lina.

– Come mai, – esclama lei con leggero accento alsaziano, – è mezzanotte e non c’è ancora nessuno?

– Stasera non verrà nessuno, – risponde freddamente Gérard, impadronendosi delle pellicce delle due dame, mentre Eugène Cornuché, il proprietario, si precipita davanti a Sua Altezza.

In quel momento è un equipaggio di mule che si ferma davanti a noi.

– Madame Réjane, – mi sussurra Gérard.

– Madame Réjane! – ripetevo, a bocca aperta per l’ammirazione, vedendo passarmi davanti l’illustre attrice e con infinito rispetto ricevevo gli effetti personali dell’elegante clubman2 che l’accompagnava, il conte Arnold de Contades.

A quel tempo non avevo ancora avvicinato tutte queste celebrità, tutti questi vanti del mondo intero, e potevo ben essere impressionato nel dovermi prendere cura del copricapo del granduca Cirillo, nipote dell’Imperatore e autocrate di tutte le Russie, o quello di Sua Maestà Leopoldo II re del Belgio, nonché sovrano dello Stato indipendente del Congo. Ma più avanti, avvicinai troppo da presso tutte queste glorie, perché un nome basti ancora a turbarmi.

Era naturale che quella sera sentivo tutti quei nomi rintronarmi le orecchie. Come li avrei mai riconosciuti? mi chiedevo con angoscia, dal momento che da Chez Maxim’s era usanza non dare numeri al guardaroba. Come riconoscere Liane di Nancy? Dal suo mantello di chinchilla? E Manon Loty? Dal suo collier di perle a quattro fili? E Jane Harding dal cinquantenne che l’accompagna?

Tutta la bella vita del ’900 sfila davanti a me: Marthe Ely, detta principessa del Colorado, Eugénie Fougère, stella delle Folies, Jeanne d’Arcy, la futura Jeanne Bloch, madame de Promeneur, Berthe Fontana, Margot de Grèves; quella sera per me tutte quelle splendide donne non sono che silhouette dai nomi indistinti, la stessa cosa in conclusione ch’esse sono divenute ora, a distanza di trentacinque anni, per i giovani che frequentano oggi Chez Maxim’s.

Intanto trascorreva rapidamente la serata. Numerosi clienti erano già andati via. Poco abituato a stare sveglio, cominciai a sonnecchiare. Molto tardi si presentò il marchese di P. accompagnato da una giovane donna, sconosciuta al personale del locale, giacché né Gérard né alcuno dei miei colleghi seppero dirmi il nome. Era trascorso dal loro ingresso circa un quarto d’ora, quando sentimmo all’interno un fracasso spaventoso.

Ci precipitammo, Gérard in testa, aprendoci un varco nella calca degli avventori che si affollavano all’uscita, poco desiderosi d’essere coinvolti in un incidente più o meno scandaloso.

Sulla soglia della grande sala, vedemmo un alto specchio frantumato e, seduta su un divanetto, la bella sconosciuta in preda a una crisi di nervi, mentre Cornuché e i maître d’hôtel s’interponevano tra il marchese di P. e quattro o cinque argentini infuriati.

Ecco cos’era successo:

In un locale come Chez Maxim’s, dove in fondo si è curiosi e pettegoli come in un piccolo villaggio, soprattutto a quel tempo, quando la clientela si reclutava in un ambiente molto ristretto, la bella sconosciuta, che accompagnava il marchese di P., aveva solleticato la curiosità generale, specialmente quella d’una comitiva di giovani argentini, che aveva preso posto sotto il grande specchio.

Non la lasciavano con lo sguardo e quando le passavano accanto, ballando, non mancavano di fissarla con insistenza. Il marchese, pieno d’indulgenza, non faceva caso al loro comportamento, ma la sua compagna non tardò a manifestare una certa impazienza.

Uno dei sudamericani si permise d’invitarla a ballare. Lei rifiutò con un gesto secco. Le signore che accompagnavano gli argentini fecero allora un’osservazione sgarbata. Furono scambiate parole agrodolci.

Alla fine, la giovane e bionda sconosciuta afferrò una bottiglia di champagne, che era stata appena servita nel suo secchiello da ghiaccio, e la lanciò a tutta volata sugli avvenenti argentini. La bottiglia passò sulle loro teste e andò a infrangere il grande specchio a venti centimetri da madame O.

I frammenti dello specchio caddero sul divanetto e lo champagne inondò l’abito di lei.

A quel punto non c’era più nessuno nella sala, se non il marchese di P. che si scusava con madame O. e le chiedeva di mandargli la fattura d’un abito identico a quello che era stato macchiato.

In quel momento a calamitare la mia attenzione non era quella scena, ma la vista di Durand e Amédée che «accompagnavano fuori» gli argentini. I due maître d’hôtel erano dei veri atleti e avevano i gesti giusti per effettuare questo genere d’operazione con rapidità e pulizia. Così i sudamericani, giovani e belli, non ci misero molto a sparire, trasportati come pacchi.

– Ebbene, piccolo mio, hai l’aria un po’ imbambolata, – mi disse Henriette Beurer, che era rimasta per vedere come andava a finire.

– Ne vedrai delle altre, – fece eco Gérard.

– Fortuna che non siamo obbligati ad «accompagnarli fuori» dal corridoio.

Henriette Beurer s’eclissò ridendo; il barone von W. l’aspettava pazientemente fuori. Il marchese di P. se ne andò poi con la sua amica, dopo aver consegnato a Cornuché un assegno per il grande specchio di cui non restavano che frantumi.

Qualche istante dopo, erano circa le quattro del mattino, ero seduto con il resto del personale a fare il solito spuntino prima di andare a dormire. Naturalmente tutti commentavano l’incidente.

– Domani tutti i clienti vorranno sapere se c’è stato spargimento di sangue, – disse Amédée.

– Bisognerà rispondere di sì, – fece Gérard, – fa loro piacere.

– Naturalmente, – rispose Amédée, che sapeva meglio di chiunque altro vezzeggiare la clientela, mentre suggeriva imperiosamente il piatto del giorno.

– E stasera bisognerà mandare indietro la gente. Tutte le nostre signore accorreranno nella speranza di assistere a una nuova battaglia.

– Nulla impedisce che ce ne siano due in una settimana, – fece notare Durand.

– Questi argentini sono battaglieri! – constatò un personaggio che aveva l’aria più d’un diplomatico che d’un maître d’hôtel. – Accidenti! Si capisce, sono belli, sono ricchi, tutte le donne corrono loro dietro. Dunque credono che gli sia tutto permesso.

– Fa lo stesso, non c’è voluto molto a farli uscire, – replicò Amédée, che aveva dell’amor proprio. – L’hai visto, giovanotto?

– E se qualche volta diventa qualcosa di molto grave? – domandai.

– Non succede mai. S’interviene sempre in tempo.

2 I club erano circoli anglicizzanti e i soci erano dandy che si vestivano e si comportavano all’inglese. Félix Potin fu il fondatore della grande distribuzione in Francia. Aveva cominciato nel 1844 con una famosa drogheria e nel 1902 fondò i grandi magazzini col suo nome divenuto famoso.