Il Gin-Club e i fratelli Cornuché
Quando entrai da Chez Maxim’s trovai clienti che avevano il titolo di «abituali», clienti per lo più di per sé titolati, i membri del Gin-Club.
Erano per la maggior parte piuttosto anziani e qualcuno mostrava una certa bizzarria del carattere.
Mi domandavo, ad esempio, se il conte di Contades non prendesse la Maison come un ricovero notturno. Per quasi tutta la serata e quasi tutta la notte restava là, davanti al suo tavolo in compagnia della sua amante.
Si era arrivati al punto di dover trascurare la pulizia della sala dove lui si trovava. Non poteva sopportare la vista d’una scopa e quando vedeva un dipendente munito di tale attrezzo guardava la sua amante con aria scontenta:
– Vedi Coco, – diceva con voce strascicata, – stanno per fare ancora polvere, vogliono metterci alla porta.
Chiamava allora Cornuché:
– Eugène, Eugène, che cos’è, che cos’è questo cameriere che pretende di spazzare?
Ogni sera era la stessa storia, così come ogni sera mangiava una coda e uno zampetto di maiale. La sua voce era dolce, parlava con molta lentezza e quando si udivano le sue recriminazioni pronunciate con quel tono così calmo, tutti i dipendenti si divertivano. La sua amante, madame L., ancora oggi avvenente, fu la sua compagna fino alla morte.
Il comandante Béjè, altro membro del Gin-Club, era un gran bell’uomo, alto, vigoroso, portava i baffi a punta. Grande estimatore di acquavite invecchiata, di cui abusava, non aveva successo con le donne cui dispiacevano i suoi modi. Non mancava mai di pizzicare le signore che passavano a portata della sua mano, il che gli attirava talvolta qualche schiaffo. Un giorno lo sorpresi mentre raccontava storie salaci alla custode dei gabinetti. Credo che fosse un modo di consolarsi degli insuccessi con il bel sesso.
Citerò ancora il conte di Sessel. Arrivava sempre più o meno nelle prime ore del mattino, e ordinava invariabilmente due uova e un quarto di Vittel. Talvolta al primo boccone si addormentava e gli capitava persino di lasciare che la sua barba s’inzuppasse nelle uova. Un giorno che il conte dormiva già profondamente, entrò all’improvviso Alexandre Duval, il simpatico ristoratore, impeccabile col suo tubino, il colletto duro dalle punte rivoltate, l’eterna cravatta alla Lavallière.
Guardò il conte di Sessel per qualche istante coi suoi piccoli occhi canzonatori semichiusi.
– Soprattutto non svegliatelo, – disse, – è il sonno del giusto.
– Ma niente affatto, – replicò una voce tonante dietro di lui, – è il sonno dell’ubriaco.
Il nuovo venuto era Maurice Bertrand che, anche lui ubriaco, con un pugno vigoroso sul tavolo, fece saltare le due uova al piatto sulle ginocchia del conte. Costui si risvegliò di soprassalto, mentre Bernard abbracciandolo gli diceva:
– Vero, mio vecchio Sessel? Abbiamo bevuto di nuovo troppo stasera.
Il conte, risvegliato, respinse l’abbraccio di Maurice Bertrand con orrore:
– Eccoti ancora ubriaco, uomo disgustoso, – gridò.
– Io ubriaco! – replicò Maurice Bertrand. – È troppo buffo, tu sei ebbro stecchito, tu vieni qui a smaltire la sbornia e hai l’audacia di dirmi che non mi tengo in piedi...
E tentò qualche passo vacillante verso Alexandre Duval.
– Voi mi conoscete, signor Duval, sono rappresentante di champagne e sono costretto a bere tutto il giorno. Ebbene, mi avete mai visto ubriaco?
– Mai, – rispose con gravità Alexandre Duval.
– E tu Eugène, mi hai mai visto ubriaco?
– Mai, – rispose Cornuché, – se così non fosse non rimettereste più piede qui.
– Ah! Lo vedi! – fece trionfalmente Maurice Bertrand, girandosi verso il conte di Sessel. – Non sono io l’ubriaco, sei tu e quel che è peggio è che tu ti ubriachi con l’acqua minerale Vittel.
– Orrore, io che ignoro il sapore dell’acqua!
Maurice Bertrand, titubante, si sedette:
– Se vuoi ti indicherò io un trucco per non avere la bocca impastata. Non hai che da fare come me. Ogni sera bevo una bottiglietta d’olio; ciò impedisce ai fumi dell’alcol d’arrivarmi al cervello e il giorno dopo sono pronto a ricominciare il mio giro. E adesso, Eugène, mandaci una magnum Monopole Dry.
– No, Maurice, si chiude, i camerieri sono stanchi, su... partiamo.
– Eugène, nessuno mi ha mai rifiutato una bottiglia di champagne.
– È impossibile, il sommelier è andato via.
– Eugène, tu mi offendi! Mi vendicherò, vedrai!
Cornuché non dava prova di malafede sostenendo l’assenza del capo-sommelier. In effetti costui andandosene chiudeva le cantine e consegnava la chiave all’uomo di fiducia che doveva fare la riapertura, la mattina dopo. Una volta andato via neanche il proprietario poteva avere una bottiglia. Le cose stanno ancora così, il sommelier Camille Huet è tuttora in carica, dopo quarant’anni di servizio ininterrotto.
Cornuché lo portava sempre con sé nei nostri giri d’acquisto. Era un conoscitore senza eguali, un degustatore infallibile, che conosceva a fondo il suo mestiere. Non gli è mai capitato di sbagliare un acquisto, né di lasciare andare a male un carico di mercanzia; soprattutto aveva saputo circondarsi d’un gruppo di uomini esperti nella professione.
Pochi giorni dopo quell’incidente ero in servizio di pomeriggio alla porta, quando vidi un funerale che discendeva la rue Royale venendo dalla Madeleine. Era un funerale civile, cosa rara a quel tempo, ed era seguito solo da un piccolo gruppo di persone. Mi apprestavo a scoprirmi il capo davanti allo sfortunato che si recava alla sua ultima dimora in modo così poco consono, attraverso un percorso troppo trafficato, quando con mia grande sorpresa vidi il carro funebre fermarsi davanti a me.
Prima ch’io potessi fare un solo gesto, quattro becchini avevano preso il feretro ed erano entrati nel locale, portandolo sulle spalle. Il corteo seguì ed entrò a sua volta da Chez Maxim’s. Non mi fu difficile riconoscere Maurice Bertrand, camminava alla testa del corteo, il viso affondato in un grande fazzoletto bordato di nero.
Nella strada si era formato un capannello di persone e nessuno, tra i curiosi, dubitava si trattasse d’un vero funerale. Quanto al signor Cornuché, terrorizzato dalle conseguenze che poteva portare uno scherzo così azzardato – la vendetta di Maurice Bertrand – si strappava i capelli dalla disperazione.
Nel frattempo i becchini avevano depositato la bara su una tavola nel bel mezzo del salone e avevano piazzato intorno quattro candelabri. I ceri furono accesi. Poi d’un tratto il signor Maurice Bertrand fece finta di aspergere d’acqua santa la bara; gli altri l’imitarono. Allora lui chiese:
– Signori, volete vedere per l’ultima volta il vostro sfortunato amico?
– Sì, sì, – risposero in coro, – vogliamo rivederlo il nostro povero, caro amico.
Un becchino aprì la cassa e una volta sollevato il coperchio apparvero, distese su un cuscino di velluto, otto bottiglie di champagne.
Dopo qualche istante tutti bevevano alla salute di Maxim’s.
– Vero? È stata una bella trovata! – esclamava Maurice Bertrand, dando una pacca sulla schiena a Cornuché.
Ecco come ci si divertiva in quelle bellissime giornate del 1900! Oggi tutto ciò non lo si troverebbe altrettanto buffo. Il fatto è, soprattutto, che non si troverebbero altrettante persone disposte a dissipare il proprio tempo e il proprio denaro, per mettere a punto un’innocente messa in scena del genere. Ma i membri del Gin-Club vivevano per la maggior parte delle loro rendite e non avevano altra preoccupazione che trascorrere la vita in modo gradevole. Maurice Bertrand, che era rappresentante d’una importante ditta di champagne, sapeva unire l’utile al dilettevole. Morì, ancora giovane, dopo aver resistito quasi trent’anni allo spaventoso regime che aveva adottato: champagne, olio di ricino, champagne, olio di ricino e così via.
Se il Gin-Club fu alla base del successo mondiale di Maxim’s, Eugène Cornuché fu senza dubbio il grande animatore, molto più del suo socio Chauveau.
Costui si occupava soprattutto della cucina e sorvegliava l’office. Era di carattere abbastanza taciturno e poco adatto ad accogliere la clientela. Questo compito era riservato a Eugène Cornuché, che al contrario piaceva molto, grazie al suo eterno sorriso agli angoli delle labbra. Di bassa statura e abbastanza pingue, aveva una testa energica, capelli tagliati a spazzola, occhi vivi e maliziosi e un mento ben disegnato. Era molto umano con il personale, ma non ammetteva la minima negligenza nel servizio. In cambio, non avrebbe sopportato che un cliente mancasse di rispetto a uno dei suoi dipendenti, avrebbe certamente preferito perderlo. Era un capo che ci incoraggiava e ci dava l’esempio.
Benché senza alcuna cultura (solo a quarant’anni si decise a prendere lezioni di grammatica per essere in grado di scrivere correttamente), egli conquistò la clientela, una clientela elitaria, unanime nel tessere i suoi elogi.
Quando vendette Maxim’s a una società inglese, lo fece solo a condizione che il fratello ne divenisse il direttore. Con il denaro che gli procurò la vendita comprò l’Ambasciatori e l’Alcazar, sempre in società con Chauveau.
Gustave Cornuché prese dunque la direzione di Maxim’s quando aveva già molti anni di servizio nel locale.
Fisicamente somigliava molto al fratello, ma era lungi dal possedere la stessa intelligenza. Tuttavia era un brav’uomo, che piaceva al cliente. Riceveva i suoi amici con calore e li curava particolarmente, ciò rendeva però gelosa la restante clientela. Osservava la massima tolleranza verso le donne e per loro passava sopra a molte cose.
Durante il suo regno, si trovava da Maxim’s la migliore tavola di Parigi. Comprava sempre prodotti eccellenti. Gran conoscitore di vini, organizzò nell’interrato della rue Boissy-d’Anglas una cantina, unica a Parigi, sia per la qualità dei vini che per la loro razionale collocazione.
Oltre Gérard e Camille Huet, il signor Cornuché ebbe altri collaboratori che, grazie alle loro qualità, l’aiutarono molto a fare della sua Maison la prima del mondo. Devo citare soprattutto un collaboratore della prima ora, Charles Candidus. Fu lui che diede alla Maison il suo carattere «spensierato» e fu l’anima di Maxim’s per molti anni. Così, quando a seguito d’una discussione con il signor Rousseau, chef in capo della cucina, il signor Candidus ci lasciò, con la ferma intenzione di non tornare più, Cornuché, incapace di fargli cambiare opinione, gli affidò il casinò di Trouville e quando, a seguito di vertenze con la municipalità di questa città, decise di lanciare Trouville, fu ancora a Charles Candidus che si rivolse.
Costui fu il vero fondatore di Deauville; prima collaborando con gli architetti durante la costruzione del casinò, del Normandy e del Royal, e poi lanciando queste imprese, imprimendo loro uno slancio che del resto non conosceranno mai più da allora. Candidus è attualmente concessionario dei buffet nei campi da corsa della regione parigina, posizione che esige grandi qualità d’amministratore, a causa dello spostamento quotidiano del personale, del materiale, etc. Candidus organizzò anche la famosa cena del Ballo benefico dei Lettini Bianchi e seppe trasportare una parte dell’Opéra in un ristorante di gran lusso.