Lo sport da Maxim’s. Gare truccate

Lo «sport» ippico altro non è che un seguito di trucchi e macchinazioni. Si può convincersene grazie a qualche aneddoto che sto per raccontare, fatti che sono avvenuti sotto i miei occhi. Da quel magnifico posto d’osservazione che è il bar di Chez Maxim’s ho potuto egualmente constatare che c’era tuttavia anche del vero «sport».

Da prima della guerra, avevo avuto più d’una volta occasione di udire discorsi tenuti da sportivi professionisti, discorsi che mi avevano fatto riflettere sull’autenticità delle esibizioni a pagamento. Le «rivelazioni» sensazionali di Léon Sée, l’ex manager di Carnera, hanno sorpreso solo il pubblico ingenuo. Per me, non erano che nuovi esempi del modo in cui lo sport è praticato, quando diventa una professione.

Per esempio, è un segreto di Pulcinella che la rappresentanza francese Hurlier-Gomez vinse i primi Sei Giorni di Parigi esclusivamente per incoraggiare il pubblico pagante a tornare l’anno seguente. Sarebbe stato infatti maldestro, da parte dei dirigenti del Vel’ d’Hiv, lasciare che per la prima volta vincessero gli stranieri...

Durante la stagione 1912-1913, la lotta greco-romana era molto di moda. Tutte le cortigiane andavano pazze per quello spettacolo e abbreviavano i loro pasti per recarvisi. Erano felici solo quando potevano portare da Maxim’s uomini dal torace possente.

La mistificazione non era minore in quelle come in tutte le altre manifestazioni sportive. Il giorno prima delle gare tutti i lottatori facevano una prova al Ginnasio Deriaz, dietro la Bastiglia. Uno dei combattimenti più riusciti fu quello di Almela, detto «il Picador», contro un cinese di 140 chili di cui ho dimenticato il nome. Il cinese riuscì ad atterrare «il Picador», che fece il giro della pista dibattendosi sotto i 140 chili dell’avversario. L’arbitro ebbe grande difficoltà a separarli. La gente gridava: «basta!, basta!», alcune donne svenirono. «Il Picador» restò steso, come un moribondo. Lo portarono via quattro uomini. Il pubblico chiese sue notizie. Allora lui tornò sul ring, l’aria d’un mezzo morto, e fu oggetto d’una ovazione unanime.

Ebbene, tutto ciò non era che un bluff; di tutta la scena era stata fatta una prova presso Deriaz, fratello del lottatore, manager svizzero che conoscevo bene.

E nella lotta libera com’è possibile non ci sia mistificazione? È verosimile che uomini di quella forza possano torcersi braccia e gambe senza rompere qualcosa? Se i combattimenti fossero reali sono certo che non ci sarebbero, in quel mestiere, altro che menomati.

Una volta ho assistito a un incontro di boxe, senza alcuna specie di finzione. Non si svolgeva né al Vel’ d’Hiv, né alla sala Wagram, ma semplicemente da Maxim’s.

Alcuni dei gentiluomini più conosciuti della colonia americana a Parigi s’erano riuniti, nel salotto Luigi XVI, per un pranzo privato. Una violenta discussione cominciò tra due convitati per futili motivi. La cosa degenerò al punto che giudicarono necessario battersi. Nessuno intervenne per dividerli, però chiamarono il padrone:

– Signor Cornuché, volete farci da arbitro?

Molto sportivamente, il signor Cornuché si tolse la giacca e tirò su le maniche della camicia. Gli avversari fecero altrettanto. Erano due uomini giovani e molto muscolosi. Si batterono per tre quarti d’ora a pugni nudi. Erano di forza pari; entrambi sanguinavano.

Alla fine uno degli avversari cade, si rialza per attaccare ancora, ricade e si rialza solo per riconciliarsi con il vincitore, che lo strinse nelle sue braccia.

Si medicarono le ferite e la festa continuò allegramente.