Come il conte d’O. divenne
«l’uomo dal garofano rosso»
Nell’era della prosperità, c’erano belle serate da Maxim’s, serate paragonabili a quelle d’anteguerra, ma senza quel senso di raffinatezza e felice spensieratezza che le aveva caratterizzate.
Gli americani, allora molto numerosi, e che erano tutti forti bevitori, si abbandonavano talvolta a eccentricità fuori dell’ordinario.
Il signor V., un diplomatico d’oltreoceano, era famoso per le sue stravaganze.
Essendo un giorno passabilmente ubriaco, nota a fianco a lui una signora che giudica troppo scollata.
– Permettetemi, – le disse con galanteria, – di mettervi un soprabito sulle spalle.
E le versa un piatto di piselli sulla schiena. La serata cominciava bene...
In seguito si reca all’Esposizione delle Arti Decorative e non esita un solo istante a spogliarsi completamente per soddisfare un bisogno naturale. Un agente si precipita...
– Non mi toccate, – grida il signor V., – sono «il manichino che piscia».
Lo condussero al posto di polizia.
Un giovane greco, che aveva osservato la scena con grande attenzione, prese le difese dell’americano e addirittura salì a fianco dell’autista nel cellulare, dicendo:
– È vergognoso! Non si ha il diritto di arrestare un cittadino francese che si dedica a esibizioni artistiche. Perché è arte questa, signor agente, è dell’arte.
* * *
Una sera si è potuta vedere la signora Z., moglie d’un grosso finanziere di Chicago, esibirsi in pubblico nell’atto di... come dire? In ogni caso, lei era scesa nelle cucine per cercare la pentola nella quale, in presenza di tutti, ebbe la spudoratezza di... preferisco non continuare.
Questa donna grassa, brutta, una vera furia, arrivava sempre accompagnata da cattivi ragazzi dall’aspetto di boxeur. A Cornuché non piaceva riceverla e le negava il tavolo, nonostante le spese folli che faceva. Tuttavia lei riusciva talvolta a sedersi egualmente e ogni volta suscitava un tafferuglio.
Quella sera si accontentò di quella piccola prodezza e andò a proseguire le sue raffinate facezie a Montmartre, accompagnata dai suoi gigolo, che uscendo lanciarono qualche urrà in onore dei nostri tennisti che avevano vinto la Coppa Davis e celebravano la vittoria bevendo champagne seduti all’esterno del locale. Era una bella sera d’estate. C’erano Lacoste, Cochet, Borotra, Brugnon accompagnati da colleghi e noti tennisti. In mezzo a loro, su un tavolino, la Coppa scintillava al chiarore della luna e delle lampade elettriche.
Ma, con la complicità dell’alcol e nell’animazione della festa, si pensò sempre meno alla Coppa; di modo che, quando i giocatori se ne andarono, molto semplicemente la dimenticarono.
Non avevo fatto molta attenzione a ciò che avveniva all’esterno, perché il servizio non mi lasciava un momento libero. La clientela era numerosa e brillante, Paul Poiret troneggiava in mezzo a un gruppo di belle figliole. Due o tre maragià cenavano con il loro seguito; Douglas Fairbanks festeggiava il suo passaggio a Parigi.
Fu allora che vidi apparire il conte d’O. che portava trionfalmente sulle braccia il glorioso trofeo, cioè la Coppa Davis, che aveva appena trovato portandola via da quel tavolo all’esterno.
Ero egualmente sorpreso sia dell’uno sia dell’altra.
– Ebbene! Roman, – mi disse il conte, – che pensate del mio ritorno?
– Sensazionale, – risposi.
– Non crediate che sono divenuto un tennista, Roman. Ho solo trovato questo oggetto di fuori. Verranno forse a cercarlo?
– Potrebbe essere.
Il conte mi consegnò la Coppa e io la diedi alla cassa, dove i giocatori vennero a reclamarla solo molte settimane dopo.
In seguito domandai al conte sue notizie, poiché da molti anni non l’avevo rivisto.
Ricordiamo che il conte, prima della guerra, pur sfarfallando intorno alle più famose cortigiane del tempo, doveva accontentarsi d’una ammirazione verbale, perché la sua situazione patrimoniale non gli permetteva di spingere oltre i vantaggi che gli derivavano dal lustro della sua uniforme e del suo bell’aspetto. Dopo la guerra, alla morte del patrigno, aveva ereditato una notevole fortuna.
– Roman, – mi annunciò il conte, – sto per gettarmi in una di queste vite allegre! Voglio riguadagnare il tempo perduto. Io sono come sono, ho bisogno di tempo.
Queste sue ultime parole mi ricordarono il tempo in cui, sentendosi chiamare «bel cavaliere» o «uomo galante» da Liane de Pougy o da Emilienne d’Alençon, rispondeva invariabilmente:
– Io sono come sono, ho bisogno di tempo.
E accompagnava la sua formula stereotipata con un sottile sorriso.
Il conte d’O. si mise dunque a fare «la bella vita» e a «riguadagnare il tempo perduto»; poté alla fine realizzare il sogno di tutta la vita, avere delle amanti. A sessant’anni divenne il don Giovanni di Parigi. O piuttosto, si vide assalito da un nugolo di donne che cercavano di arrivare al suo portafoglio, prendendo la strada del suo cuore.
Le sue avventure amorose durarono tre anni e durante questo tempo di prodigalità e follie, si conquistò il titolo di «uomo dal garofano rosso» perché portava sempre all’occhiello quel fiore.
La sua prima amante fu madame M., donna abbastanza bella ma completamente sconosciuta nell’ambiente delle mondane. Il primo dono del conte fu un mantello di chinchilla; lo stesso giorno fece servire sulla sua tavola una torta dov’era nascosto un collier di perle. Da un giorno all’altro madame M. divenne una delle donne più in vista del suo ambiente.
Lei lo ringraziò prendendosi, in barba al conte, un amante del cuore.
Un giorno che il conte saliva al primo piano con l’amante, per bere abbondante champagne, il principe M. la notò e chiese subito a Gérard se poteva presentarlo a lei.
Il conte e madame M. erano in piedi a fianco al salottino, Gérard aprì la porta e fece segno al principe d’entrare. Dietro le spalle del conte fece lo stesso cenno a madame M., che capì. Gérard le sussurrò all’orecchio: – Entrate là – e, avvicinandosi al conte, cominciò con lui una conversazione a non finire. Il conte ascoltava distrattamente le chiacchiere di Gérard, mentre il principe e madame M. si chiudevano nel salotto. Quando si accorse dell’assenza della sua amante, Gérard gli disse di pazientare perché lei era andata alla toilette.
Qualche tempo dopo, l’«uomo dal garofano rosso» invitò al Café de Paris il principe, al quale venne presentato un conto arretrato di 7.000 franchi. Il conte pagò quel conto. Però non si negava, in seguito, la soddisfazione di dire ad alta voce, davanti a noi, cosa pensava del principe.
Essendo madame M. divenuta l’amante in carica del principe, il conte si consolò con una cameriera di Tolosa, che abbigliò sontuosamente e di cui fece la sua amante.
* * *
L’orgoglio d’essere generoso non aveva limiti per il conte d’O. Gli strappavano un’amante, lui partiva per la provincia e ne riportava un’altra, sempre una cameriera. La portava dal parrucchiere, dal sarto, dal gioielliere etc., e con qualche biglietto da mille trasformava la servetta provinciale in un’affascinante cortigiana.
Una scia di donne facili seguiva sempre l’«uomo dal garofano rosso» e la sua favorita; lui era così generoso da non permettere che una donna pagasse un conto in sua presenza. Come per caso, era sempre circondato da donne e anche quelle che pranzavano lontane da lui si sistemavano nei suoi pressi quand’era il momento di pagare il conto. La cosa non falliva mai: il conte pagava o firmava il conto.
Infaticabile vitaiolo, faceva ogni sera visita a tutti i locali notturni di Parigi, accompagnato da numerose donne. Talvolta, per cambiare, portava il suo «pollame» al bal musette e innaffiava magnificamente le gole dei cattivi ragazzi, che lo adoravano.
Lo vidi più volte tornare da Chez Maxim’s con un occhio pesto. Era molto discreto su come ciò gli fosse capitato, ma ho sempre pensato che da perfetto gentiluomo qual era, il conte aveva dovuto prendere cavallerescamente le difese di qualche «onesta donna» che picchiava «il suo uomo».