Post scriptum

(Febbraio 2007)

Sin dalla pubblicazione di questo libro, nel settembre del 2006, ho sempre sperato che venissero alla luce nuove informazioni sui miei sei parenti scomparsi –che qualche lettore, contro ogni probabilità, fosse a conoscenza di particolari relativi ai miei familiari e mi contattasse. Non ho dovuto attendere a lungo.

Due mesi dopo l’uscita de Gli scomparsi negli Stati Uniti, ricevetti una email da Yaacov Lozowick, direttore dell’archivio dello Yad Vashem, con la quale mi comunicava di aver letto il libro e di voler condividere con me le emozioni che aveva suscitato in lui. Ebbe così inizio un’amichevole corrispondenza. Circa un mese dopo, a capodanno del 2007, in un’altra email Yaacov mi informava di essersi imbattuto nel nome di una delle Jäger in una vasta documentazione acquisita di recente, quasi tutta proveniente da archivi dell’ex Unione Sovietica, caricata sul database dello Yad Vashem appena il giorno prima, e mi inoltrò un link relativo al riferimento in questione. Scoprii che una delle voci di un documento facente parte di quella montagna di nuovi dati – oltre 350.000 – fornisce una notizia concreta in merito al destino occorso a uno dei miei parenti scomparsi, dalla quale se ne deduce un’altra riguardante un ulteriore componente della famiglia.

La voce in oggetto è citata in un rapporto redatto subito dopo la fine della guerra da un organismo noto come «Commissione d’inchiesta straordinaria dello Stato sovietico per l’accertamento dei crimini di guerra perpetrati dagli invasori fascisti tedeschi e dai loro complici» (devo aggiungere che l’amico al quale mi sono rivolto per la traduzione del documento in questione ha tenuto a precisare quanto segue riguardo alla parola russa che significa «crimine», presente nella denominazione di detto organismo: «Bisogna notare che il termine “crimine” ha forti implicazioni morali – con un’accezione diversa, per esempio, rispetto a quella usata nel romanzo Delitto e castigo, dove ha un significato più neutro, legale – e non sarebbe esagerato tradurla con“azioni malvagie” o “infamie”»). Questa commissione,istituita nel 1942 dal Soviet Supremo e conosciuta con l’acronimo ChGK, aveva il compito di indagare sui crimini di guerra perpetrati dai tedeschi.

Secondo i loro archivi furono impiegati più di trentamila investigatori che interrogarono i sopravvissuti delle cittadine e dei villaggi Judenrein, documentando le loro storie; pare siano stati ascoltati oltre sette milioni di cittadini sovietici. Le ventisette voluminose sinossi, compendio di questa sterminata massa di informazioni raccolte da testimoni oculari, rappresentarono il complesso delle prove prodotte dai russi al processo di Norimberga. Una delle città visitate dagli investigatori della commissione straordinaria fu Bolechow – o, come la chiamavano i russi, Bolekhov.

Yaacov mi inviò tre pagine del rapporto Bolekhov.Nella prima compare il seguente titolo:

 

VERBALE DELL’INCHIESTA SUI CRIMINI DEI FASCISTI

TEDESCHI E DEI LORO COMPLICI COMPIUTI NEL DISTRETTO

DI BOLEKHOV NELLA REGIONE STANISLAVOV

 

Nella terza pagina speditami da Yaacov, settima e ultima del rapporto Bolekhov, compaiono cinque firme:quella del presidente e dei quattro membri del comitato investigativo. Tali firme, illeggibili, appaiono proprio sotto una lista verticale di altri nomi che, riportati alla maniera russa secondo l’ordine cognome, nome, patronimico, sono dattilografati in cirillico (come le scritte che si possono vedere davanti all’edificio denominato un tempo Dom Katolicki, a Bolekhov, CINEMA e TEATRO).I nomi sono preceduti da un numero e seguiti da diverse informazioni, suddivise in colonne: anno di nascita, sesso, professione, data di morte o del rastrellamento,indirizzo. Alcuni nominativi della lista – che sono in grado di leggere in quanto anni fa ho studiato l’alfabeto cirillico, forse nel desiderio di ingraziarmi la scontrosa ultima moglie di mio nonno, un tempo russa, prima che Auschwitz la rendesse cittadina del nulla – mi sono ormai familiari, grazie ai viaggi da me intrapresi e alle persone conosciute. Per esempio, riconosco una Malka Abramovna Lew, probabilmente parente di Dyzia Lew,anche se purtroppo Dyzia non può più fornirmi alcuna informazione; e un certo Dovid Israelevich Reifeisen, che presumo parente dell’avvocato Reifeisen, colui che si impiccò prima che la situazione precipitasse. Compare anche una donna con il nome da nubile di Meg Grossbard; mi chiedo chi possa essere, anche se temo che non potrò mai scoprirlo, dal momento che non ricevo più telefonate notturne da Meg.

L’ultima voce reca il numero 350. Quando la prima volta scorsi velocemente quelle pagine, rimasi colpito dal fatto che per nessuno dei nomi venga indicata la«professione». Intuii subito che questa anomalia era dovuta alla circostanza che l’anno di nascita della quasi totalità delle trecentocinquanta persone cade tra gli anni Venti e i Trenta, e per quasi tutti la data di morte o del rastrellamento in cui vennero catturati è il 3 settembre 1942; il che significa che tutti coloro che compaiono nella lista erano bambini tra i dieci e i quattordici anni. Leggendo i nomi, compresi che si trattava dei bambini ebrei di Bolekhov uccisi durante i rastrellamenti che precedettero la seconda Operazione del 3, 4 e 5 settembre 1942, quella i cui sopravvissuti vennero condotti a Belzec su carri bestiame. L’Aktion nella quale, secondo quanto ricostruito nei cinque anni di stesura di questo libro, erano morti la mia prozia Ester e la figlia minore,Bronia.

Per una strana coincidenza, Bronia è il nome che apre la lista nella seconda pagina inviatami da Yaacov:è la numero uno. Compare con il nome Bronia Samuelevna Yeger, e l’indirizzo corretto, Dlugosa 9. L’anno di nascita che figura nel documento è il 1929, il che fornisce una conferma ufficiale all’ipotesi di Jack Greene – lo stesso anno di nascita, come mi disse nel soggiorno di casa sua a Sidney, ormai quattro anni fa, di Bob, suo fratello. Il giorno in cui Bronia venne catturata e uccisa è il 3 settembre 1942.

E così, in seguito a un’altra scoperta fortuita, aun’ennesima, improbabile casualità manifestatasi contro ogni ragionevole aspettativa, posso aggiungere questo dato concreto alla piccola quantità di fatti assemblati: che Bronia, della quale non si ricorda altro se non che era una bambina che giocava ancora con i balocchi,fu catturata e uccisa durante il primo giorno della terrificante seconda Operazione a Bolekhov e che morì a tredici anni, se li aveva compiuti (non conosciamo ancora la sua data di nascita). Quindi la sua breve esistenza ha un inizio («1929») e una fine («3 settembre1942»).

Come accennavo prima, questo nuovo documento fornisce anche un altro tipo di informazione – implicita, non concreta. Dovete sapere che alla fine dei miei viaggi e delle interviste con i sopravvissuti, quando credevo di aver appurato che zia Ester e Bronia erano state catturate durante la seconda Operazione, ero giunto alla conclusione – in accordo con la mia natura sentimentale – che quelle ultime, inimmaginabili ore,forse giorni, di vita, madre e figlia le avessero almeno vissute insieme: il viaggio, l’attesa, nude e impaurite, certo, ma quanto meno insieme; la madre che abbraccia la figlia mentre i gas venefici si diffondono nella camera a gas. Ma adesso, grazie alla testimonianza di qualche vicino riferita pochi anni dopo, un episodio insignificante tra i milioni di fatti accertati dalla«Commissione d’inchiesta straordinaria dello Stato sovietico per l’accertamento dei crimini di guerra perpetrati dagli invasori fascisti tedeschi e dai loro complici», possiamo affermare che Bronia trovò la morte durante le operazioni di rastrellamento, tristemente famose, come sappiamo, per i brutali assassini di bambini. E poiché adesso sono a conoscenza di questo evento, sono anche portato a ipotizzare una circostanza di cui non avrò mai conferma, per quanto la ritenga molto probabile: qualsiasi sofferenza mia zia – Ester Jägernata Schneelicht, una donna di quarantasei anni, madre di quattro ragazze, una signora di Bolekhov da tutti ritenuta una brava moglie e un’ottima massaia, che molto verosimilmente passava le lunghe serate invernali a lavorare all’uncinetto, con un un bel paio di gambe, e che in un’occasione aggiunse un poscritto in una lettera spedita a New York, purtroppo andato perduto,ragion per cui nulla è giunto sino a noi dei suoi pensieri – qualsiasi sofferenza dovette affrontare nelle ultime,terribili ore della sua vita, non ebbe nessuno con cui condividerla.