Fu il giorno della celebrazione del mio barmitzvah che la ricerca ebbe inizio.
Come ogni altro bambino ebreo, mi era stata impartita un’educazione religiosa, soprattutto per far piacere a mio nonno, anche se a suo avviso, visti gli insegnamenti all’acqua di rose in quanto ebrei riformati, snaturati rispetto a quelli rigidi, rigorosamente ortodossi impartitigli a Bolechow una vita fa, io e i miei tre fratelli avremmo anche potuto frequentare una scuola cattolica. L’educazione religiosa era finalizzata alla preparazione del bar mitzvah; in seguito, per volere di mio nonno, a questa prima formazione religiosa se ne aggiunse una seconda.
All’età di nove o dieci anni cominciammo a frequentare la scuola domenicale, le cui lezioni si tenevano nello scantinato di un albergo del posto, che in seguito assurse a ben triste fama, per lo meno nella zona, perché nel 1974 vi fu stuprata la celebre cantante pop italoamericana Connie Francis, al termine di un’esibizione teatrale. Nello scantinato di questo edificio tutt’altro che accogliente, un uomo alto e molto stimato, un certo signor Weiss, ci impartiva lezioni di storia del popolo ebraico, ci leggeva la Bibbia, ci insegnava i nomi dei profeti e ci spiegava il significato delle festività.
Appresi cosí che molte ricorrenze commemorano episodi di fuga dall’oppressione imposta da civiltà pagane che già allora trovavo piú interessanti, piú potenti e affascinanti rispetto a quella dei miei antenati ebrei. Frequentando le lezioni domenicali, avvertivo un vago senso di delusione e di imbarazzo all’idea che gli antichi ebrei erano costantemente oppressi da qualche altro popolo, perdevano una guerra dopo l’altra contro nazioni piú grandi e potenti e, anche quando attraversavano un periodo di relativa tranquillità, erano vittima delle punizioni inflitte dal loro cupo e implacabile Dio. A una certa età, soprattutto se si ha una particolare indole – che attira lo scherno dei ragazzi piú grandi – non è divertente trascorrere il tempo libero a leggere storie di vittime. Da bambino e poi da adolescente, trovavo molto piú affascinanti le civiltà di altri antichi popoli piú gaudenti, che guarda caso erano gli oppressori degli ebrei. Quando studiavamo la Pasqua ebraica e la precipitosa fuga da eretz Mitzrayim, la terra d’Egitto, fantasticavo sugli egiziani, le loro gioiose poesie d’amore, i diafani vestimenti di lino, le divinità della morte con la testa di sciacallo, i massicci sarcofagi di oro purissimo; quando rievocavamo Purim e il trionfo di Ester sul malvagio visir persiano Haman, chiudevo gli occhi e immaginavo le superbe raffinatezze dei Medi, i bassorilievi di Persepoli con le ripetitive e ipnotiche raffigurazioni di innumerevoli, riverenti vassalli con vesti sgargianti e profumate barbe arricciate. E leggendo la storia del miracolo commemorato ogni anno con la festività di Hanukkah, l’olio santo del Tempio miracolosamente conservato la cui quantità, otto giorni dopo la profanazione del luogo santo perpetrata da un sovrano ellenista, era persino aumentata, riflettevo sulla saggezza e sugli effetti positivi della politica ellenizzante di Antioco IV, che recò stabilità a quelle regioni in perenne travaglio.
Questo pensavo a quel tempo. Ma adesso so che la vera ragione per cui preferivo i greci a tutti gli altri popoli, ebrei compresi, era per il loro modo di narrare le storie in tutto simile a quello di mio nonno. Quando mio nonno raccontava una storia – per esempio, quella che si concludeva con la frase «ma lei morí una settimana prima delle nozze» – non seguiva un andamento cronologico, sarebbe stato troppo ovvio; al contrario, impiegava un procedimento con andamento circolare, creando per ogni evento, ogni personaggio menzionato con la sua voce baritonale e cantilenante, una storia nella storia, un racconto all’interno del racconto, cosí che (come mi spiegò una volta) la vicenda principale non seguiva un filo conduttore, non era costruita un tassello dietro l’altro; piuttosto, come in una serie di scatole cinesi o di matrioske russe, ogni evento ne conteneva un altro, che a sua volta ne conteneva un altro ancora, e cosí via. Per esempio, la storia della sua bellissima sorella costretta a sposare un cugino deforme cominciava inevitabilmente dall’improvvisa morte del padre, avvenuta una mattina alle terme di Jaremcze, perché è da quell’evento che iniziarono le difficoltà per la famiglia di mio nonno,gli anni terribili che portarono alla dolorosa decisione della madre di dare la figlia maggiore in moglie al figlio gobbo di suo fratello in cambio del biglietto della nave per l’America, paese dove intraprendere una nuovama, come poi si rivelò, altrettanto tragica esistenza. Naturalmente, per raccontare la storia della morte improvvisa del padre avvenuta una mattina a Jaremcze,mio nonno doveva fare una digressione e rievocare il periodo di agiatezza della sua famiglia, quando alla fine dell’estate si recavano in vacanza in splendide località termali, come per esempio Jaremcze, un luogo ameno ai piedi dei monti Carpazi, o a Baden, o a Zakopane, nome quest’ultimo che trovavo quanto mai affascinante. A quel punto, però, per fornire un quadro piú completo della vita che conducevano in quell’aureo periodo precedente alla morte del padre, avvenuta nel 1912, la narrazione risaliva ancor piú indietro nel tempo, per incentrarsi sulla sua figura di uomo rispettato e influente all’interno della comunità; e infine tale digressione a sua volta lo avrebbe portato ai primordi, come la famiglia si fosse stabilita a Bolechow sin da quando i primi ebrei vi si erano stanziati, agli albori della città.
Le scatole cinesi si aprivano una dopo l’altra, e io, seduto ai suoi piedi, ne contemplavo il contenuto come ipnotizzato.
Guarda caso, era proprio questo il modo in cui i greci raccontavano le loro storie. Omero, per esempio, interrompe di frequente la narrazione degli eventi principali nell’Iliade per muoversi a spirale nel tempo e nondi rado nello spazio, andamento che conferisce agli episodi descritti ricchezza psicologica e spessore emotivo, lasciando intravedere il concetto che ignorare determinate vicende, essere all’oscuro delle trame intricate che, ancorché sconosciute agli uomini, sono alla base della realtà, può rivelarsi un errore fatale. Probabilmente, l’esempio piú celebre di questa modalità narrativa è rappresentato dall’incontro tra due guerrieri, Glauco e Diomede, descritto all’inizio del poema: mentre i rispettivi schieramenti, greco e troiano, si preparano a darsi battaglia, costoro si lanciano nella narrazione di una lunga storia volta a mettere in risalto la propria valenza militare e il prestigio del proprio casato, e le genealogie, riportate con dovizia di particolari, sono cosí dettagliate che presto emergono gli importanti legami familiari esistenti tra i due; tra giubili di gioia i due guerrieri, che appena qualche minuto prima si sarebbero volentieri uccisi a vicenda, si stringono la mano giurandosi eterna amicizia. Per citare un esempio tratto dalla prosa, anche lo storico Erodoto, secoli dopo Omero, nel comporre il grande affresco storico dell’inopinata vittoria dei greci contro il potente impero persiano al principio del quinto secolo avanti Cristo, ricorre a questa antica quanto suggestiva tecnica narrativa.
Volendo parlare del conflitto greco-persiano, Erodoto trova piú che naturale analizzare la storia della Persia e ciò genera digressioni piú o meno lunghe, dalla celebre storia di un sovrano orientale il quale desiderava che un altro uomo contemplasse le nudità della moglie (peccato di arroganza, siamo autorizzati a credere, che provocherà la caduta dell’impero), a un intero capitolo dedicato alla storia, ai costumi, alle tradizioni, all’arte e all’architettura egiziani, visto che l’Egitto faceva parte dell’impero persiano. E via discorrendo.
Comunque, ogni cultura, ogni autore ha un proprio modo di raccontare storie, e ogni stile schiude ad altri narratori possibilità imprevedibili. Per esempio, da un certo romanziere francese si può apprendere come, in teoria, si possa consacrare la parte centrale di un voluminoso romanzo a una conversazione avvenuta durante un pranzo; da un romanziere americano (ma polacco di nascita) come il dialogo risulti curiosamente quanto pericolosamente indistinguibile dalla narrazione; leggendo un famoso scrittore tedesco si può invece constatare, non senza sorpresa, come in determinate circostanze illustrazioni e fotografie, elementi considerati inappropriati o inconciliabili con testi impegnativi, possano aggiungere spessore alle tristi vicende descritte. E, naturalmente, l’opera di autori greci quali Omero ed Erodoto dimostra che il racconto di una storia non debba necessariamente snodarsi secondo un criterio strettamente cronologico, accadde questo e poi quest’altro – la modalità narrativa, per intendersi, impiegata nella Genesi, che alla lunga, bisogna convenirne, può risultare tediosa e monotona. In realtà, sebbene a quel tempo non ne fossi consapevole, in quel particolare andamento circolare del racconto, che a lungo credetti un’invenzione di mio nonno, risiedeva la vera ragione – piú della bellezza, dei piaceri, delle nudità ricorrenti nell’immaginario dei popoli pagani, piú della loro forza e delle loro vittorie – per la quale erano i greci e non gli ebrei ad accendere la mia fantasia durante la prima infanzia.
E cosí mio nonno, che ai miei occhi incarnava la quintessenza dell’ebraicità, suscitò in me la passione per le altre civiltà.
La storia che studiavamo nel corso delle lezioni domenicali, oltre allo studio delle origini delle festività ebraiche, generava in me una sorta di conflitto interiore: ero un ebreo ammiratore dei greci. Tale ambiguità potrebbe spiegare gli scarsi risultati conseguiti nella seconda parte della mia educazione, la cosiddetta scuola ebraica, che cominciai a frequentare all’età di dodici anni. Le lezioni si tenevano il mercoledí pomeriggio nella sinagoga della nostra comunità, un edificio col tetto spiovente e i banchi scuri; il corso era incentrato sulla preparazione al bar mitzvah. L’insegnante era un omino grassoccio che anteponeva al nome il titolo onorifico di «Dottore», caratteristica dell’area culturale dell’Europa centrale (anche se costui era di Boston); le lezioni duravano due ore ed erano principalmente dedicate all’apprendimento della lingua ebraica. A dodici anni studiavo già il greco antico ed ero in grado di leggere brani non troppo complicati: una storia piccante su un dio e una ninfa, una descrizione di Erodoto dei coccodrilli del Nilo, insomma argomenti ben piú interessanti rispetto alle monotone e irose elucubrazioni dei profeti ebrei contenute nei passi dell’haftarah che bisognava intonare il giorno della celebrazione del barmitzvah dopo la lettura di brani della Torah, o le bizzarre proibizioni sul cibo e sul sesso che si trovano nel Levitico. Quindi studiavo il greco e non l’ebraico, di cui conoscevo l’alfabeto quel tanto che bastava per leggerlo correntemente in occasione del bar mitzvah, ma non avendone una reale padronanza, per quanto sapessi compitare la frase aba babayit: «Il padre è a casa».
Fu solo molto piú tardi, parecchio tempo dopo aver studiato a fondo i classici greci e latini, che mi preoccupai di riprendere l’ebraico e cominciai a impegnarmi con maggiore serietà nel suo apprendimento. E non perché a venticinque anni avessi sviluppato una maggiore sensibilità religiosa rispetto a quando ne avevo tredici ma, piuttosto, perché a quell’età, proprio prima di iniziare il dottorato, mi prese il desiderio di approfondire la conoscenza di nuove lingue, per emulare mio nonno, autentico poliglotta, e mi infastidiva il pensiero di aver sprecato l’opportunità avuta da bambino di impararne una. Cosí comperai un massiccio tomo intitolato Introduzione all’ebraico della Bibbia, e per circa un anno mi addentrai lentamente nei meandri di quella lingua. Nel 1985, dopo qualche mese, fui in grado di leggere alcuni passi della Scrittura, e cosí tornai nella stessa libreria e acquistai altri volumi, non di grammatica ma testi esegetici che avrei dovuto studiare anni prima; avendo maturato una certa competenza e un notevole interesse per le letterature antiche e per i testi sacri, mi appassionai alla Bibbia, non perché credessi in ciò che vi è scritto, ma perché ormai la concepivo come un prodotto delle antiche civiltà mediterranee.
E cosí per alcuni mesi mi immersi nello studio della cultura giudaica, e imparai la struttura della Tanakh, la Bibbia ebraica, i titoli e gli argomenti dei libri da cui è composta, le diverse parashot, le letture settimanali estratte dalla Torah, i cinque libri di Mosè, come e quando va letta ogni parashah, il loro significato.
Appresi, per esempio, che l’argomento della parashat Bereishit, la prima sezione del libro della Genesi, è l’origine delle cose; vi si narra come dalle tenebre in differenziate apparvero le forme del creato: gli oceani, la volta celeste, il cielo, la terra, quindi gli animali, le piante, i pesci, gli uccelli e infine gli esseri umani. Compresi che alcune storie celano delle allegorie del mondo:per esempio, la storia di Adamo ed Eva spiega, tra l’altro, perché la donna debba sopportare i dolori del parto; o la vicenda di Caino e Abele (da ragazzo mi turbava non poco, a tal punto che in quelle lezioni domenicali non la imparai mai bene, e a lungo non seppi chi dei due, Caino o Abele, fosse il «cattivo»), causa dell’esistenza della violenza, dell’omicidio e della guerra. Lessi la parashat Noach, la parte della Genesi in cui viene narrata la storia dell’Arca di Noè e il suo angoscioso peregrinare intorno alla Terra – ridivenuta una massa indistinta di acqua, perché Dio, in uno dei suoi momenti di furore distruttivo, aveva deciso di spazzare via la sua Creazione – e che annovera anche la genealogia dei discendenti di Noè, concentrandosi, con crescente intensità man mano che il racconto procede, su una famiglia in particolare, e quindi su un uomo, Abramo. Appresi come il duro viaggio di Abramo attraverso il mondo conosciuto, in cerca della terra promessagli da Dio, l’epico errabondare narrato nella parashah dal titolo Lech Lecha («Esci dal tuo paese»), lo costringa a percorrere strane lande sconosciute, a confrontarsi con l’estrema bontà e la malvagità umana, come si narra nella parashat Vayeira, «Ed Egli apparve», dove si legge come a Sodoma e Gomorra egli si imbatta nel completo disprezzo della legge morale di Dio, e come, sul monte Moriah, gli venga intimato di abbandonarsi totalmente alla volontà di Dio, anche se questo avesse dovuto costargli la vita del figlio.
Confesso che nei miei studi da autodidatta della cultura ebraica non mi sono mai spinto oltre la parashat Vayeira. Naturalmente conosco l’epilogo dei cinque libri che cominciai a leggere venti anni fa: la storia di Giuseppe, il discendente prediletto di Abramo, ripudiato dai fratelli, abbandonato e poi condotto in Egitto, dove infine la sua tribú prosperò – sebbene in ultimo la sua famiglia e la sua tribú intrapresero quel lungo, arduo,inimmaginabile viaggio di ritorno verso la propria terra, ormai non piú sentita come tale, essendo a tutti loro sconosciuta.
Come ho già detto, il primo avvenimento della parashat Bereishit non è, come molti pensano, la creazione dei cieli e della terra, ma piuttosto che, all'inizio della sua creazione del cielo e della terra, quando esisteva solo un vuoto incommensurabile, disse «Sia la luce». È questo, in effetti, il primo atto della creazione di cui si parla nella Bereishit. Trovo estremamente interessante il fatto che ogni elemento del creato sorto da queste parole – luce e tenebra, notte e giorno, terre aride e oceani, piante e animali, e infine l’uomo creato dalla polvere – venga descritto come scaturito da un atto di separazione. Che fece Dio quando si rese conto che la luce era cosa «buona»? La separò dalle tenebre, e quindi continuò in quest’opera di divisione, fin quando le parti costitutive dell’universo assunsero un ordine giusto e armonioso.
Rashi dedica relativamente poco spazio alla sua analisi ditale aspetto, essendo principalmente interessato alle implicazioni morali dell’iniziale separazione della luce dalle tenebre:«Il suo semplice significato» scrive riguardo alla separazione operata da Dio, «si spiega cosí: Egli vide che la luce era cosa buona, e che non poteva essere mescolata alla tenebra, la cui sfera era il disordine, cosí Egli assegnò all’una il giorno, e all’altra la notte». Perché una simile decisione? Perché la luce, sostiene Rashi, «non è destinata ai malvagi, quindi Egli la riserva ai giusti per i tempi a venire». Naturalmente, l’implicazione morale insita in tale separazione soddisfa l’esigenza narrativa del capitolo 3 della Genesi, che culmina con la storia della Creazione: la vicenda di Adamo ed Eva e il frutto proibito dell’albero della conoscenza. La Genesi comincia con la Creazione che, come abbiamo visto, è il risultato di una separazione fra elementi, e termina con l’allusione alla distinzione decisiva, quella tra Bene e Male, che gli esseri umani comprendono solo dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza, albero che la Torah definisce, come la luce, «buono», una «delizia per gli occhi» di Eva, «desiderabile perla conoscenza»: è in virtú di questa bontà, piacevolezza, desiderabilità che Eva ne assaggia il frutto.
Vorrei soffermarmi un momento su questo albero, il cui frutto, nonostante fosse buono, si rivelò, come sappiamo,dannoso per l’umanità: secondo la Bereishit, fu per averlo mangiato che gli esseri umani vennero cacciati dal Paradiso,divenendo infine, loro malgrado, mortali. Vorrei esaminare brevemente il piacere e la delizia insite nell’albero della conoscenza, perché nella Bereishit le connessioni tra creatività, capacità di giudizio, conoscenza e piacere sono, a mio avviso, del tutto naturali. L’inclinazione verso la conoscenza e il desiderio di conferire un ordine al sapere si manifestarono in me sin dall’infanzia. Ciò è dovuto, non nutro alcun dubbio in proposito, all’azione combinata, o dovrei dire al frutto, delle doti intellettuali di mio padre – uno scienziato – e della predilezione di mia madre per l’ordine, quel gusto per l’organizzazione rigorosa che lei scherzando, ma solo fino a un certopunto, ascrive al suo «sangue tedesco».
«È il mio sangue tedesco» era solita ripetere, e in effetti mia madre è il prodotto un tempo biondo di famiglie che avevano appellativi genuinamente tedeschi – non di origine ebraica – quali Jäger e Mittelmark (quest’ultimo, come venni a sapere, era anche il nome di una contea della Prussia); lo diceva a volte ridendo, a volte in tutta serietà, mentre rifaceva un letto sfatto o metteva in ordine una mensola con i nostri libri di scuola, o quando cercava di sistemare oggetti di mio padre, di gran lunga meno ordinato di lei, con risultati non di rado comici, come accadde per esempio la volta in cui radunò un mucchio di rottami, giocattoli, lampade e piccoli aggeggi che lui aveva laconicamente promesso di aggiustare senza mai farlo, e li ripose in una scatola sulla quale, con un pennarello blu, scrisse con la sua larga grafia chiara, COSE DA AGGIUSTARE ALEVAY – «alevay» è una parola ebraica che significa all’incirca «chissà quando», ed esprime una sorta diottimismo logoro e disilluso: «dovrebbe giusto accadere (ma non accadrà)».
Insomma mio padre amava la conoscenza, mia madre l’organizzazione, e probabilmente è per questo che io, sin da bambino, scoprii un piacere intenso nel sistematizzare il sapere. A procurarmi diletto non era semplicemente la lettura di testi sugli antichi egizi e, piú tardi, sui greci e sui romani, o di libri di archeologia, sui Romanov, o sulle uova Fabergé; piú specificamente, il godimento consisteva nell’organizzare le nozioni che andavo lentamente assimilando, nel redigere e mandare a memoria gli elenchi delle dinastie, i glossari lessicali, le tavole geroglifiche, le cronologie dei vari Caterina, Nicola e Alessandro.Questa, ora lo comprendo, era la prima espressione di un impulso in fondo non dissimile da quello che spinge a scrivere – imporre ordine al caos dei fatti, assemblandoli in una storia che abbia un inizio, uno svolgimento e una conclusione.
Ma se provavo un precoce piacere, per quanto bizzarro, nell’ordinare una massa caotica di dati – risultato della predisposizione dei miei genitori – è altresí vero che avvertivo una sorta di dolore, persino una forma di ansia, di fronte alle nozioni che sembravano resistere a ogni forma di organizzazione.
In ogni modo fu a partire dalla celebrazione del barmitzvah, quel sabato pomeriggio in cui la mia voce s’incrinò cosí atrocemente, cerimonia che rappresentava il culmine della frammentaria educazione ebraica ricevuta, che cominciò a svilupparsi la curiosità sulle origini della mia famiglia ebrea, che mi spingeva a porre delle domande. Naturalmente curioso lo ero sempre stato:come poteva essere altrimenti, visto che ad alcuni il mio viso ricordava un parente morto da lungo tempo? Ma il fervido interesse per la genealogia della mia famiglia,dapprima una sorta di passatempo, in seguito quasi un’ossessione, ebbe inizio in quel giorno di aprile. Questo, devo aggiungere, non aveva niente a che vedere con la cerimonia in sé, con il rituale per il quale mi ero preparato cosí a lungo; fu piuttosto durante il ricevimento tenuto a casa dei miei genitori che tutto ebbe inizio. Perché, passando di parente in parente per ricevere baci,pacche sulla spalla e congratulazioni, provai un certo fastidio alla vista di quella massa indistinta di volti sconosciuti eppure dai tratti somatici simili ai miei, tanto che cominciai a interrogarmi sui vincoli che mi legavano a costoro, a tutte quelle Ide, Trudy, Giulii, Silvie e Hilde,ai nomi Sobel, Rechtschaffen, Feit, Stark, Birnbaum e Hench. Cominciai a chiedermi chi fossero, quale poteva mai essere il legame che ci univa. Poiché non mi piaceva trovarmi di fronte a quella orda indifferenziata di parenti, irritato da una tale babilonia, da quel momento dedicai ore, settimane, anni alla ricerca dell’albero genealogico della mia famiglia, per chiarire le relazioni,ordinare i rami e le linee parentali, sistemare informazioni che infine raggruppai in schede di archivio, diagrammi e cartelle. Naturalmente è sciocco ritenere che si possa «diventare» adulti a tredici anni, nondimeno credo si possa affermare che, seppur in modo involontario,i festeggiamenti del bar mitzvah mi resero piú consapevole della mia identità ebraica, ben piú del significato delle parole che recitai quel giorno di aprile del 1973.
E cosí, all’indomani di quella celebrazione cominciai a porre domande non solo sul misterioso Shmiel, ma anche su tutti gli altri. Tali interrogativi mi spinsero dapprima a scrivere lettere ai parenti ancora vivi nel 1973 – un numero già di gran lunga inferiore rispetto a sette o otto anni prima, quando mi recavo con la mia famiglia a Miami Beach. Scrissi ai congiunti che vivevano nel Queens, a Miami, Chicago e Haifa, e non di rado trovai le loro risposte deludenti e sconcertanti («Non ti rivelo la mia data di nascita» mi disse al telefono un pomeriggio del 1974 la sventurata Sylvia, sorella di mio nonno, «perché sarebbe stato meglio se non fossi mai venuta al mondo»). Ma il piú delle volte queste persone anziane erano compiaciute che un ragazzo cosí giovane manifestasse un tale interesse per il loro remoto passato, e quindi erano ben felici di rispondere alle mie domande e raccontarmi tutto quel che sapevano. Per esempio Pauline, una zia di mio padre (che chiamavamo zia Pauly), mi scrisse quasi un centinaio di lettere con la sua vecchia, sgangherata e rumorosa macchina da scrivere Underwood, tra il giugno 1973, in risposta alla mia prima, timida lettera, e il giugno del 1985, anno in cui il suo formidabile cervello, che mi aveva fornito cosí numerosi, nonché precisi e importanti dettagli sulla famiglia di mio padre («Anche a me sembra di ricordare qualcuno che parlava di una città chiamata...»), cedette. Alla fine, le «a», le «e» e le «o» della sua vecchia macchina da scrivere si cancellarono e divennero indistinguibili, forse analogamente a quanto stava avvenendo ai suoi tessuti cerebrali, ai quali dovevo cosí tanto, che si andavano sfaldando e sclerotizzando inesorabilmente.
O come la mia prozia Miriam di Haifa, moglie del fratello di mio nonno, Itzhak, fervente sionista, che aveva convinto il marito, malgrado i prosperi affari della loro macelleria, che il futuro del popolo ebraico era in Palestina, ragion per cui, insieme ai due figli, evitarono il destino che inghiottí Shmiel e gli altri. Le scrissi spesso, e mi diede parecchie informazioni sulla Bolechow di un tempo. Ero felice ogniqualvolta ricevevo quegli aero-grammi in carta velina con gli esotici francobolli israeliani, la fine carta azzurrina con la caratteristica, antiquata grafia di stampo europeo vergata con una penna biro blu che ricopriva ogni lembo del leggerissimo documento. Malgrado la scrittura illeggibile e l’inglese di non facile comprensione, quanto a sintassi e ortografia,ricavai un mucchio di informazioni sull’esistenza piacevole in quella vecchia cittadina e sui commenti adulatori che suo padre era solito fare parlando del mio bisnonno, Elkune Jäger; entrambi, mi spiegò, erano stati membri dello stesso circolo sociale a Bolechow, dettaglio (un circolo?) che mi fece riflettere sulla vita che si conduceva nei borghi della Galizia sul finire dell’Ottocento. Ero particolarmente interessato ad acquisire informazioni sul mio bisnonno, poiché a quell’epoca ero grande abbastanza da comprendere che la storia di una famiglia è ben piú che una questione di schemi e alberi genealogici: essa aiuta a capire la personalità degli individui, e di conseguenza avrei conosciuto meglio quella di mio nonno.
Elkune Jager non lo ricordo ma mio padre mi dice che era membro della stessa sinagoga e anche del circolo e mi dice che era un uomo molto buono e distinto che gli piaceva dare soldi alle famiglie povere, e che aveva un’ottima opinione e simpatia per i cittatori Cristiani e questo era molto importante per lui e per tutta la città. Ma morí molto giovane nel secol ostava con Rachel a riposare e gli successe un attacco di cuore questa fu una treggedia per tutta la città e la famiglia...
Mi ci volle un po’ per capire che «cittatori» stava per cittadini. Rachel, realizzai con un fremito, era la sorella maggiore di mio nonno, quella che morí una settimana prima delle nozze, anch’ella, come scoprii in seguito, pervia di una malattia cardiaca.
Sapendo che Miriam e il marito erano rimasti a Bolechow fino agli anni Trenta, trovai il coraggio di chiederle anche di Shmiel. Ricordo l’oscuro turbamento che provai quando, di nascosto da mio nonno, le scrissi la lettera con cui la pregavo di dirmi esattamente cosa fosse accaduto a lui e alla sua famiglia. Ma su questo argomento zia Miriam fu piú vaga, e poté fornirmi solo queste informazioni, in un aerogramma che reca la data del20 gennaio 1975:
La data di Onkel Shmil e della sua famiglia quando morirono nessuno sa dirmela, 1942 i tedeschi uccisaro la zia Ester e due figlie. La figlia maggiore andò con i partigiani sulle montagne e morí con loro. Onkel Shmil e la figlia Fridka i tedeschi uccisero 1944 a Bolechow, cosí mi dice un uomo di Bolechow nessuno sa cosa è vero.
Che questa versione si rivelasse falsa non è certo colpa sua (lei stessa, del resto, adesso me ne rendo conto, mi aveva messo in guardia sulla sua attendibilità). Non fece altro che ripetere ciò che aveva sentito dire.
Piú tardi, avendo imparato a non riporre eccessive aspettative nelle risposte alle mie lettere, quando cominciavo ormai a considerarmi un ricercatore esperto,avendo messo a punto un certo metodo di lavoro, presi a scrivere anche a enti e organismi: erano quel tipo di lettere cui bisogna accludere ricevute di bollettini postali, per esempio all’ufficio anagrafe della città di New York, per pagare fotocopie di certificati di nascita e di morte (costavano cinque dollari l’uno, all’epoca), agli enti gestori dei cimiteri (tra i miei istituti prediletti) dai nomi come «Monte Sion» e «Monte Giuda» («la tomba riservata a Mina Spieler a tutt’oggi non è stata reclamata»), a istituti quali l’«Asilo per gli orfani ebrei», ad archivi dall’acronimo inquietante, come l’AGAD, situati in paesi che a quel tempo erano al di là della cortina di ferro, e dai quali non ricevevo mai risposta malgrado accludessi vaglia postali internazionali; tali domande mi hanno portato, venti anni dopo, a sviluppare sistemi di indagine piú sofisticati. Venne il momento delle ricerche genealogiche sui siti web, sul Social Security Death Index, su genealogy.com e jewishgen.org, sull’archivio in rete di Ellis Island, dal quale appresi la data precisa, il1913, dell’arrivo di Shmiel a New York, luogo che giudicò non adatto a lui; ormai esistevano organizzazioni per il ricongiungimento delle famiglie; intrattenevo una fitta corrispondenza con perfetti sconosciuti, modalità del tutto diversa dai laboriosi scambi di aerogrammi cui mi dedicavo da adolescente; spedivo domande via email a persone che vivevano in California o nel Colorado, nel Galles o in Danimarca, che quanto meno parlavano correntemente l’inglese e rispondevano subito. Questo, in ultimo, mi portò a intraprendere viaggi, nel corso degli anni, in decine di città, da Sidney a Copenaghen a Beer Sheva, a imbarcarmi su aeroplani, traghetti e treni stipato insieme a ragazzi e ragazze ebrei in uniforme e le pistole appese ai corpi minuti; e a recarmi,infine, nella stessa Bolechow, dove appresi ciò che era accaduto dai testimoni oculari ancora in vita.
Il tempo passava, avevo ormai superato la ventina, e di tanto in tanto mi rituffavo nei dossier compilati, facendo qualche piccolo passo in avanti; scrivevo lettere a questo o quell’archivio, acquisendo cosí qualche altra notizia. Prima dei quarant’anni, mi parve chiaro di aver ormai raccolto tutte le informazioni disponibili sulla storia della mia famiglia: soprattutto sugli Jäger, poiché, oltre al materiale documentale, ricavabile da archivi e biblioteche, c’era quella miniera di dati tramandati oralmente; e, negli anni, anche sulla famiglia paterna, i taciturni Mendelsohn. L’unico vuoto, la sola irritante lacuna, era quella relativa a Shmiel e alla sua famiglia, sui quali non esistevano fatti da annotare a matita su schede, date da inserire nei programmi di ricerca di genealogie, aneddoti o episodi che li riguardassero. Tuttavia,con il trascorrere degli anni era meno dolorosa la constatazione di non essere riusciti a scoprire altro di loro,poiché ogni decade faceva recedere l’intera vicenda nei meandri del passato, e i miei parenti assumevano contorni sempre piú vaghi, non solamente quelle sei persone, ma tutte le vittime dell’Olocausto; e con il succedersi dei decenni sembravano appartenere sempre meno a noi e sempre piú alla storia. Paradossalmente, per questa ragione risultò piú facile accantonarne la memoria, perché dopo tutto erano in tanti a pensarci, non a loro individualmente, ma a tutte le vittime dei nazisti, e quindi erano sempre vivi nella memoria.
Malgrado ciò, di tanto in tanto accadeva che qualche ricordo riaffiorasse in superficie, facendo sorgere in me l’interrogativo se esistesse ancora qualche informazione da scoprire su di loro.
Per esempio:
Mio nonno amava raccontare storie divertenti, perché era una persona spiritosa, e comunque si risulta piú simpatici se si fa ridere la gente. Rammento – o meglio, me l’ha detto mia madre – che una volta, durante il pranzo della festività del Ringraziamento, tanto tempo fa, la sorella di mio nonno si fece addirittura la pipí addosso per il gran ridere, tanto era esilarante l’episodio che lui raccontò. Nessuno ricorda piú quale fosse tra le tante storie buffe del suo repertorio, perché l’aneddoto della mia prozia che si scompisciò dalle risa l’ha eclissata – è diventata essa stessa una storiella divertente, che viene tramandata per spiegare, o forse per preservare, un certo aspetto della personalità di mio nonno. A me in particolare era solito narrare episodi sulla città in cui era nato, dove la sua famiglia di facoltosi macellaie, in seguito, di spedizionieri di carne, aveva vissuto «sin dagli albori di Bolechow», come ripeteva sempre schiarendosi la voce, gli occhi enormi spalancati come quelli di un bambino, dietro le lenti dall’antiquata montatura di plastica nera. Pronunciava il nome della città con la l gutturale, quasi carezzando con la gola il fonema kh, com’è tipico dei nativi di quelle zone: BUHlehkhuhv. Molto tempo dopo scoprii che quella pronuncia è di antica origine yiddish. Anche l’ortografia è cambiata: Bolechow quando la città era sotto il dominio austriaco, Bolechów per i polacchi, Bolekhov negli anni sovietici, e adesso, quando infine la città rientra nello stato ucraino, che ne ha sempre rivendicato l’appartenenza, Bolekhiv. Gli abitanti di quella regione dell’Europa orientale amano raccontare una barzelletta che rispecchia i continui cambiamenti fonetici e ortografici: parla di un tale nato in Austria, che va a scuola in Polonia, si sposa in Germania, fa dei figli in Unione Sovietica e muore in Ucraina. E senza aver mai lasciato il suo villaggio!, termina la barzelletta.
Fu una signora conosciuta sul finire degli anni Novanta a correggermi la pronuncia del nome della città dove la famiglia di mia madre aveva vissuto per oltre tre cento anni. Era la madre di un mio amico di recente data. Dopo un po’ che ci frequentavamo appresi che lui, della generazione dei miei genitori, era nato in una località vicino Bolechow – una cittadina che un tempo si chiamava Stryj, oggi Striy. Quando in seguito mi ci recai, rimasi colpito dalle condizioni in cui versava quella che un tempo era la sinagoga principale, ridotta a un rudere con la volta scoperchiata, da cui fuoriescono lussureggianti alberi di alto fusto. Quando scoprii questa singolare coincidenza che creava un legame tra le nostre famiglie, lo riferii al mio amico, uno scrittore come me. Essendo a conoscenza del mio interesse perla storia di quella piccola e ormai dimenticata parte del mondo, mi propose di farmi conoscere sua madre, una donna di quasi novant’anni, con la speranza che mi confidasse i suoi ricordi. Sua madre, la signora Begley. Begley: un nome che, come altri provenienti da città dove un tempo vivevano ebrei come lei, aveva subito una lieve mutazione; infatti il nome originario era Begleiter, che in tedesco significa «compagno» o «accompagnatore». Naturalmente accettai di buon grado l’invito del mio amico, poiché anche in quell’epoca, ero ormai sulla quarantina, ogni tanto qualche strana coincidenza,curiose memorie di Bolechow, di Shmiel o di eventi specifici del passato della nostra storia familiare, riaffioravano all’improvviso nel presente, facendo balenare la possibilità che i morti non fossero scomparsi ma ci stessero aspettando da qualche parte...
Qualche anno fa, per esempio, lessi che era ancora possibile chiedere alla Croce Rossa notizie sulle vittime dell’Olocausto, malgrado fossero trascorsi sessant’anni. E cosí un giorno mi recai nel distretto piú vicino, situato in un ampio edificio rettangolare, alquanto impersonale, non distante dalla mia abitazione. Sulla facciata vi era una grande croce rossa. Entrai e compilai sei moduli con i dati dei miei congiunti scomparsi. Lo feci malgrado nutrissi ben poche speranze, consapevole delle scarse probabilità di ottenere informazioni;in ogni modo, mi dissi, non si sa mai.
E infatti è cosí. Una quindicina di anni fa mio fratello minore, all’epoca assistente costumista nei film di Woody Allen, dovendo acquistare delle stoffe capitò in una bottega buia, traboccante di rotoli di tessuti, nella zona deputata di New York, il Garment District. A un certo punto notò che l’anziano commerciante dietro il bancone aveva il braccio tatuato, e attaccò bottone con quell’individuo. Durante la conversazione, mio fratello parlò di alcuni nostri parenti di Bolechow periti nell’Olocausto; a quella notizia il vecchio ebreo batté le mani come in estasi ed esclamò: «Ah, Bolechow! Quelli sí che avevano delle pelli di qualità!».
Una volta, dopo aver inoltrato la richiesta di informazioni tramite un sito internet dedicato alle genealogie, un anziano signore mi contattò per dirmi che un tempo aveva conosciuto un certo Shmiel Jäger. Prima che avessi tempo di replicare, aggiunse che tale Shmiel Jäger era originario di Dolina, una cittadina non lontana da Bolechow, e che quando nell’estate del 1941 erano giunti i tedeschi era fuggito verso est, in quella che all’epoca era l’Unione Sovietica. «Mi è giunta voce che abbia sposato una donna uzbeka, e hanno persino avuto dei figli!» gridò nella cornetta quel vecchio, che era duro d’orecchi. Divertito al pensiero di un ebreo originario di uno shtetl che errava in un paese cosí lontano come l’Uzbekistan, lo ringraziai per avermi chiamato e attaccai, pensando che quella notizia non fosse poi cosí straordinaria.
Eppure fu un’esperienza conturbante: come il tocco improvviso di una mano gelida.
In un’altra occasione mio fratello Matt – poco piú piccolo di me, al quale per lungo tempo non sono stato particolarmente legato, diversamente dall’altro fratello minore che come me manifestava una certa predisposizione artistica; Matt, verso cui avvertivo, man mano che crescevo, un’oscura quanto feroce conflittualità, che mi portò, in un momento d’ira, a fargli molto male – mi chiamò per dirmi che si era recato a un raduno internazionale di sopravvissuti dell’Olocausto a Washington, dove vive. Poiché di mestiere fa il fotografo, probabilmente era andato per scattare qualche foto dell’evento; non lo so e non ricordo. In ogni modo mi disse di essersi imbattuto in un tale che aveva conosciuto Shmiel Jäger.
«Cosa?» reagii.
«Non zio Shmiel» si affrettò a spiegare. E mi raccontò quel che gli aveva riferito quell’uomo: lo Shmiel Jäger da lui conosciuto non si chiamava cosí, ma durante la guerra, quando si era unito a un gruppo di partigiani operanti nella zona di Lwów, aveva preso questo nome per ragioni di sicurezza, come facevano i partigiani,che assumevano le identità di conoscenti morti.
Mentre ascoltavo, ricordai: «La figlia piú grande si uní ai partigiani sulle montagne e morí con loro. Onkel Shmil e la figlia Fridka i tedeschi uccisero 1944 a Bolechow».
Insomma, non si sa mai. Per questo riempii quei moduli della Croce Rossa, con ben poche speranze li consegnai all’impiegato dietro il bancone e me ne tornai a casa. Circa quattro mesi dopo ricevetti per posta un voluminoso plico della Croce Rossa. Mentre l’aprivo mi tremavano le mani. Anche se mi accorsi subito che la mole era dovuta alle sei domande che mi avevano restituito. Il settimo foglio era una lettera con cui mi si informava che non si avevano notizie sul destino di Ester Jäger, Lorka Jäger, Frydka Jäger, Ruchatz (come ancora pensavo che si chiamasse) Jäger, Bronia Jäger, cittadini della città polacca di Bolechow.
Riguardo a Shmiel Jäger, concludeva la lettera, il suo caso era considerato «ancora aperto»...
Per tale ragione, quindi, non vedevo l’ora di conoscere la madre del mio amico, questa signora Begleyche era vissuta cosí vicino ai miei parenti defunti, zio,zia e cugine di mia madre. Non che mi aspettassi di ricavare chissà quali informazioni; desideravo solo avere l’opportunità di parlare con qualcuno della stessa età e origine, poiché mi sembrava incredibile che fosse ancora in vita una persona vissuta in quei luoghi e a quel tempo. Ero cresciuto con la convinzione che la gente di quell’epoca appartenesse ormai irrimediabilmente al mondo in bianco e nero del passato.
Tuttavia è anche vero che quando appresi dell’esistenza di quella donna cosí anziana, la madre di Louis,mi abbandonai, proprio come un adolescente, a fantasticherie tali da provarne un certo imbarazzo. Mi chiedevo se fosse possibile che... si fossero incontrati, anche se quella donna era originaria di Stryj mentre i miei parenti erano di Bolechow. Li ricordava? Sapevo (non ricordo piú la fonte dell’informazione) che la famiglia della moglie di Shmiel era di Stryj. In quella città il fratello aveva uno studio fotografico, e una delle figlie diShmiel, come scoprii per caso dopo la morte di mio nonno, vi aveva lavorato per un breve periodo; cosí, quando Louis si offrí di presentarmi alla sua straordinaria madre – o almeno cosí la ritenevo dopo aver letto il primo libro di Louis, che narrava di come lui e la madre fossero scampati al nazismo, mettendo nel sacco tedeschi e ucraini, impresa non riuscita alla mia famiglia – la mia fantasia si lanciò in arditi voli pindarici. Immaginai una scena risalente, per dire, all’ottobre del 1938, Louis (all’epoca Ludwik) e la madre che entravano nello studio Schneelicht a Stryj per celebrare con una foto il quinto compleanno del bambino, figlio unico. Mi pareva di vedere la figlia di Shmiel, nonché cugina di mia madre, Lorka, una ragazza di diciassette anni, alta, avvenente, riservata, che prendeva diligentemente il cappotto della signora Begley mentre questa faceva il suo ingresso nell’atelier (doveva avere un collo di pelliccia, pensai, visto che il marito, come mi aveva rivelato una donna ucraina all’angolo di una strada sessant’anni dopo, era il dottore piú importante della città) e, vincendo la naturale ritrosia, sussurrava qualche parolina dolce al bambino, che indossava un berretto di lana da cui fuoriuscivano ciocche di capelli biondi, particolarità che forse in seguito gli avrebbe salvato la vita. Nella mia fantasia quell’inattesa gentilezza da parte di una ragazza dall’aspetto cosí compito colpiva la signora Begley – lei stessa donna seria e profondamente riservata – in quel lontano 1938, e proprio per questo ricordava persino dopo tutti quegli anni quella ragazza morta ammazzata, la giovane Lorka Jäger, permettendomi cosí, in un certo qual modo, di recuperarla dal passato.
In realtà le cose andarono cosí.
Incontrai la signora Begley solo nel 1999, al ricevimento di uno dei figli di Louis, un pittore. Alla festa, che si teneva in una sala al piano superiore di una imponente galleria in un quartiere residenziale di New York, c’era un gran trambusto, e la signora Begley se ne stava impettita su una sedia in fondo al salone, sul viso un’espressione che denotava l’orgogliosa soddisfazione di una nonna e una certa irritazione dovuta alla sordità (poco dopo che le ero stato presentato mi spiegò che aveva problemi di udito, anche senza tutto quel frastuono).
«E cosí la sua famiglia viene da lí?» mi chiese quando le strinsi la mano e mi chinai per parlarle. Rimasi lievemente disorientato dai suoi modi, come se stessimo conversando già da un po’, e non ero sicuro se con quel«lí» intendesse la Polonia orientale o l’Olocausto.
«Sí» risposi, «vivevano a Bolechow».
Lo pronunciai BUH-leh-khuhv. Il viso della signora Begley, con una fronte alta, luminosa, aveva un’espressione intelligente; in altri tempi lo si sarebbe descritto come il volto di una Rebecca, tipicamente semitico e alquanto affascinante; era incorniciato da una candida chioma, e in esso spiccava un solo occhio, con uno sguardo deciso, ironico, allusivo. L’altro era opaco, lievemente socchiuso; non gliene chiesi mai il motivo. Era uno sguardo che catturava l’interlocutore senza mai abbandonarlo; lo trovavo snervante, anche dopo il primo approccio, soprattutto perché sembrava che quell’occhio vigile, freddo, indagatore non seguisse la conversazione, bensí fosse altrove, in qualche segreta dimensione, concentrato su quanto le era accaduto e su ciò che aveva perso, una privazione cosí grande che sapeva non avrei mai compreso, anche se in qualche modo desiderava parlarmene. La sera in cui feci la sua conoscenza sedeva lí, con un elegante tailleur pantalone nero, una mano serrata intorno al pomo di un bastone da passeggio; era protesa verso di me, quasi a suggerirmi il suo interesse, ma certo anche per il terribile baccano che le impediva di sentire; quando le dissi che la mia famiglia era originaria di Bolechow – BUH-lehkhuv – l’occhio sano ebbe un guizzo divertito, e per la prima volta sorrise.
«Che? BUH-lehkhuv?» ripeté sprezzante.
Scosse il capo, al che arrossii come mi capitava da adolescente, quando era iniziata l’ossessione per quel posto. In tono acido mi corresse, «Si dice Buh-LEH-khooff. È una città polacca. Lei l’ha pronunciata in yiddish!».
Provai imbarazzo e diffidenza; mi era parso di percepire un lieve senso di superiorità di classe e culturale ormai fuori luogo: l’altezzosità, o cosí mi parve, degli ebrei imborghesiti, del tutto simili ai loro concittadini gentili,ebrei cresciuti nella Polonia ancora libera, che in famiglia parlavano polacco e ostentavano disprezzo verso gli ebrei delle zone rurali, come mio nonno, nato nemmeno dieci anni prima di quella signora Begley, eppure vissuto in un mondo completamente diverso, dominato dalla cultura austriaca e non polacca, in cui si parlava in yiddish, e dove persino un viaggio in una cittadina come Stryj veniva considerato una sorta di evento.
In ogni caso, quando articolai male il nome di Bolechow le mie segrete fantasticherie andarono d’improvviso in frantumi. Fu per questo che, dopo avermi corretto la pronuncia, la signora Begley mi domandò il nome della mia famiglia; «Jäger» risposi. Lei scosse il capo, non aveva mai sentito quel nome; malgrado ciò le parlai dello studio fotografico della famiglia Schneelicht e del mio prozio acquisito vissuto nella sua città, Stryj, il teatro delle mie chimere sul suo incontro con la mia parente, in un tempo lontano. Tale eventualità mi avrebbe permesso di riagganciare quel remoto passato,nel quale i miei congiunti sembravano essere irrimediabilmente, disperatamente cristallizzati, al limpido presente di quell’incontro, al nitore del momento in cui,nel corso di una festa chiassosa svoltasi in una banale serata d’autunno, in una tranquilla città, mi ero imbattuto in quell’anziana signora dalla chioma argentata, che camminava appoggiandosi a un bastone.
Comunque, malgrado gli incidenti di percorso, in tutti gli anni in cui scrissi lettere, posi interrogativi e feci interviste e ricerche su internet, avevo appreso un mucchio di informazioni su Bolechow, per lo piú esatte. Per esempio, a proposito della frase: «Vivevano lí sin dagli albori di Bolechow!» e della relativa domanda, cioè da quando, be’, è possibile risalire persino al giorno.
Gli ebrei americani di una certa generazione, nipoti,come me, di nonni immigrati agli inizi del ventesimo secolo, con ogni probabilità sono cresciuti ascoltando storie riguardanti «la terra dei padri», le cittadine o i villaggi dai quali provenivano il nonno, la nonna, la nana, il bubby o lo zeyde, il genere di paesi resi celebri da scrittori quali Isaac Bashevis Singer o da Il violinista sul tetto, insomma una realtà da tempo scomparsa. Si è portati a ritenere, come è capitato a me per lungo tempo, che tali luoghi fossero piú o meno tutti uguali, modesti borghi di tre o quattromila abitanti, con le case in legno raggruppate intorno a una piazza; a posti simili siamo oggi sin troppo propensi ad attribuire un certo fascino nostalgico, forse perché, se pensassimo ai passatempi dei loro abitanti, a cose tipo il ping pong, la pallavolo, lo sci, il cinema e il campeggio, sarebbe molto piú difficile riuscire a immaginare cosa accadde loro,tanto vicini ci sembrerebbero. In pochi si sarebbero presi la briga di scrivere di luoghi cosí ordinari, a meno che, naturalmente, non fossero stati cancellati dalla carta geografica, nel qual caso diventerebbe importante testimoniare proprio quella ordinarietà.
In ogni modo, questa è l’idea che avevo di Bolechow. Poi, un giorno, non molto tempo fa, mio fratello maggiore Andrew mi mandò come regalo per la festività di Hanukkah un volume rarissimo, pubblicato nel1922 dalla Oxford University Press, intitolato Le memorie di Ber di Bolechow. (Ho detto «regalo per la festività di Hanukkah», pur consapevole che l’espressione non è del tutto rispondente al vero, come avrebbe invece fatto piacere a mio nonno: poiché le mie due cognate non sono ebree, e ai miei nipoti viene impartita un’educazione religiosa mista oggi piuttosto comune, il dono che mi fu inviato in quell’occasione lo considerai un«regalo di Natale». Il fatto è che quando eravamo piccoli a casa mia non esisteva una vera e propria tradizione della festività di Hanukkah. Il ricordo piú vivo è quello di mia madre, la cui formazione ortodossa era talmente forte, malgrado l’azione dissacrante operata da mio padre nei confronti della religione, che la prima notte di Hanukkah si metteva una tovaglia o un centrino sulla testa, mentre noi bambini ci radunavamo attorno al tavolo della cucina alquanto imbarazzati, intonando davanti alle candele le benedizioni in ebraico che ricordavamo a stento. E se la memoria la tradiva, completava le frasi, per niente turbata, con espressioni in yiddish: «Yaidel-daidel-daidel-dai». La menorah di ottone che usava, un tempo appartenuta a sua madre, era piccola, di foggia semplice e antiquata; a un certo punto suo padre ce ne regalò una piú elaborata, con i leoni rampanti di Giuda che sorreggevano la candela centrale. Ma ciò avvenne dopo che quasi tutti noi figli ci eravamo iscritti all’università; quindi immagino che mia madre abbia compiuto da sola il rito annuale davanti a quell’oggetto solenne, anche se, ricordo, quando mio nonno era ancora vivo, lei aveva l’abitudine di chiamarlo in California nel momento in cui stava per accendere la candela, per cantargli al telefono la benedizione;in un certo senso, dopo tutto, non era sola... Noi però,come stavo dicendo, non la consideravamo una vera e propria festività, e l’abitudine di scambiarci i regali si andò perdendo con l’età. Per questo rimasi molto sorpreso quando mio fratello maggiore, qualche anno fa,cominciò a spedire a tutti noi dei doni scelti con cura).
Le memorie di Ber di Bolechow è la prima traduzione in lingua inglese di un volume risalente all’inizio del diciannovesimo secolo, che consta di circa novantacinque fogli fittamente manoscritti in corsivo in un elegante ebraico, tipico del ceto colto del diciottesimo secolo. Ne è autore un ebreo polacco, Ber Birkenthal, cittadino di Bolechow. Costui, che visse dal 1723 al 1805, in un periodo tumultuoso della storia della Polonia e, come attestano le sue memorie, della stessa Bolechow, fu un personaggio eminente – un saggio che godeva di grande reputazione, la cui tomba, nel cimitero della cittadina, divenne meta di pellegrinaggio. Il padre era un commerciante di vini lungimirante e di ampie vedute,sin dalla prima infanzia incoraggiò la precoce curiosità intellettuale del figlio – tanto da far impartire al bambino lezioni di greco e latino da sacerdoti cattolici, circostanza inaudita che, seppur per un breve periodo, avrebbe fatto sorgere dei sospetti sull’autenticità della fede religiosa di Ber. Da bambino precoce egli divenne un uomo precocemente maturo: commerciante di vini dalla florida attività ma anche studioso di sconfinata ampiezza e profondità, conosceva il polacco, il tedesco e l’italiano altrettanto bene dell’ebraico, del greco e del latino, approfondí con successo lo studio della grande opera italiana sulla storia del mondo conosciuta come Relazioni universali, pubblicata per la prima volta tra il 1595 e il 1598 (che cominciò a tradurre in ebraico), e l’esegesi degli arcani testi cabalistici che tanto lo affascinavano, come la Hemdat Yamin, di Nathan Ghazzati, il cosiddetto profeta del falso messia Shabbtai Zvi. Pertanto, Ber di Bolechow era un uomo che riuniva in sé il dinamismo intellettuale laico e progressista che concorse a creare la Haskalah, il grande movimento illuminista ebraico del diciottesimo secolo, il cui ispiratore fu,quando si dice il caso, il filosofo Moses Mendelssohn,nonno del celebre compositore.
Dall’edizione delle memorie di Ber pubblicata nel ventesimo secolo a cura di un certo Vishnitzer, apprendiamo che Bolechow, città natale di Ber, era situata nella parte orientale della provincia nota come Galizia, che si estende verso occidente fino a Cracovia, a oriente fino a Lemberg (l’odierna L’viv). Questa zona della Galizia è relativamente vicina ai Carpazi, una formidabile barriera naturale a sud della quale si estende la pianura pannonica. (Per quanto non invalicabile, come appresi da un’anziana donna che, nel 1943, ebbe la ventura di attraversare a piedi nudi quella catena montuosa da Bolechow fino in Ungheria, dove gli ebrei autoctoni,ancora immuni dalle tragedie della guerra, stentarono a comprendere le ragioni di quella fuga disperata). Il territorio galiziano in cui sorse la città di Bolechow era appartenuto a un nobile polacco, tal Nicholas Giedsinski; nel 1612 costui fondò la città e le concesse uno statuto. Tale documento contiene la legislazione relativa alle tre etnie coesistenti in quel territorio: ebrei, polacchi e (come recita lo statuto) ruteni, come venivano chiamati a quel tempo gli ucraini. Vishnitzer rileva che, sebbene gli ebrei si fossero stanziati in quella zona prima della fondazione della città, una comunità regolare apparve solamente dopo il 1612, quando lo statuto concesso da Giedsinski decretò eguali diritti e libertà per gli ebrei.
Vishnitzer elenca i rari privilegi di cui godevano gli ebrei di Bolechow, quasi quattrocento anni or sono. Era loro permesso di acquistare appezzamenti di terreno nel centro urbano ed erigervi case («Era proprio lí, sulla Ringplatz» mi diceva mio nonno quand’ero bambino, riferendosi al negozio di famiglia: proprio sulla piazza principale). Fu loro concesso un lotto per la costruzione di una sinagoga e, al di là del corso d’acqua che attraversa la città, un terreno dove seppellire i defunti. Quando ci si reca a Bolechow, una delle prime cose che saltano alla vista quando si attraversa il fiumiciattolo che scorre verso il cimitero è una grossa lapide sul retro della quale spicca il nome JAGER.
Gli ebrei di Bolechow, prosegue il curatore di questo libro, godevano del diritto di voto nell’elezione del borgomastro (il quale, al momento dell’insediamento, doveva giurare di salvaguardare i diritti delle tre etnie che convivevano in città) e dei membri del Consiglio comunale. Godevano inoltre delle garanzie di difesa: la corte comunale polacca non poteva dirimere una disputa tra un giudeo e un gentile in assenza di un rappresentante della comunità ebraica. (Mio nonno mi riferí che una volta suo padre si era rivolto alle autorità austriache, con le quali pare intrattenesse eccellenti relazioni, forse grazie a tutte le bottiglie di Tokaj che era solito offrire,per far uscire di prigione un ebreo indigente. «La sua parola aveva un certo peso» diceva mio nonno). Quindi non c’è da meravigliarsi, come scrive Vishnitzer, che «i rapporti tra la comunità ebraica e quella dei gentili fossero all’insegna dell’armonia».
Come ci si può aspettare, visto il tipico entusiasmo dello studioso e la fortunata attività commerciale che egli condusse, le memorie di Ber Birkenthal oscillano tra l’esoterico e (ben piú di frequente) il mondano. Non mancano, a onor del vero, dotte allusioni a passi biblici. «Una notte» scrive, «mi sovvenni di una frase della Bibbia. Era tratta dal salmo 58, versetto 5: «Son velenosi a guisa di serpenti; qual serpe sorda che chiuse gli orecchi, né ascolta la voce di chi l’incanta... Passino come bava di lumaca, come un aborto non vedano il sole!». Ma, piú spesso, Ber appare interessato ad argomenti mondani, dalla politica («Dopo che Poniatowski venne nominato Comandante supremo...»), agli affari(«Rimasi molto deluso per non essere riuscito a ottenere quella partita di vini d’annata. Ne discussi con il mio socio, tornando da Miskolcz, poiché, dovendo far ritorno a Lemberg, non ne avrei piú avuto l’opportunità...»),drammi locali («Con gran difficoltà, e a furia di incalcolabili sforzi e numerose intercessioni, sono stati scarcerati...»), e questioni domestiche («Appena mia sorella e mia cognata, Rachel, vennero a conoscenza del mio desiderio di sposare questa vedova, andarono a parlare con Yenta, per organizzare al piú presto l’incontro»).
Una vita ordinaria, in definitiva, malgrado l’eccezionale intelletto del memorialista. Comunque, va ricordato che nel periodo in cui Ber era una personalità di spicco a Bolechow la vita in quella città era meno sicura rispetto a centocinquanta anni prima, l’epoca della sua fondazione a opera del nobile polacco. Nel diciottesimo secolo l’intera Polonia costituiva un’entità politicamente instabile, con le incessanti incursioni di russi, tartari e cosacchi che portavano inevitabile scompiglio nella comunità ebraica della cittadina. E fu cosí che, nel luglio del1759, Ber Birkenthal di Bolechow ebbe un terribile, penoso incubo che si rivelò una premonizione: sognò, come ricorda angosciato nelle sue memorie, che la moglie era alle prese con «un doloroso travaglio». Sapeva trattarsi di un segno; ma il giorno seguente apprese che ventotto furfanti ruteni calati di sorpresa dalle rigogliose montagne circostanti avevano attaccato i quartieri ebraici, mettendo a ferro e fuoco le abitazioni e uccidendo un uomo. La famiglia e le proprietà di Ber non scamparono alla distruzione, come riferisce lo stesso autore nelle sue memorie. Poiché di quegli eventi cosí distanti dalla nostra esperienza personale esiste il resoconto di un testimone oculare, preferisco evitare giri di parole e citare testualmente la descrizione che egli ne dà:
Nel frattempo altri due briganti si erano introdotti nella mia casa e avevano sorpreso mia moglie Leah ancora a letto. Pretesero una grossa somma di denaro, al che la mia consorte diede loro un ducato e 20 gulden, scusandosi di non aver altro. Uno dei due la colpí brutalmente con il manico di una scure sul braccio e sulla schiena, tanto che i lividi neri sulla pelle rimasero a lungo visibili. Le intimarono di consegnare loro gli ori e le perle. Qualcuno avanzò l’ipotesi che i briganti fossero a conoscenza di quei gioielli perché informati dai gentili della nostra città. Mia moglie fu costretta a dar loro tutti gli oggetti preziosi: due splendide collane di finissime perle, una a quattro e l’altra a cinque fili, un diadema di particolare valore e bellezza e dieci anelli d’oro con magnifici erari diamanti incastonati. Il valore di queste gioie ammontava a quel tempo a 3000 gulden. Oltre a ciò i briganti saccheggiarono la mobilia e appiccarono il fuoco alla casa.
L’attacco a sorpresa, il delatore cristiano, la rapina e l’assalto violento, l’avida appropriazione di oggetti preziosi: la storia si sarebbe ripetuta. (Vorrei far notare che il diminutivo polacco di Leah, il nome della moglie di Ber, è Lorka). Comunque si verificarono anche inaspettati e inspiegabili atti di generosità. Ber loda la solerzia di una ragazza cristiana che tardò ad abbandonare la casa in fiamme per cercare di mettere in salvo i libri del suo padrone. «Ne ebbe pietà» scrive, «perché sapeva quanto li amassi». Anche gesti simili si sarebbero rinnovati, secoli dopo.
Ma il terrore evocato da questo brano, sebbene non insolito per Bolechow e le altre città dell’impero austro-ungarico, non rappresentava la regola. Le memorie di Ber di Bolechow non si configurano come un testo dal tono particolarmente letterario, e considerata la minuziosità con cui sono descritte le transazioni commerciali e i procedimenti giudiziari, per non parlare della presenza di aspetti esoterici tipici delle prime pubblicazioni del periodo, tali memorie difficilmente avrebbero conquistato molti lettori; in realtà a essere cosí preziosa per noi, che sappiamo quel che accadde in seguito, è proprio l’ordinaria quotidianità della vita che questo strano e dimenticato libro ha registrato.
Fino a qualche tempo fa, l’unico altro testo su Bolechow e la sua comunità ebraica di cui fossi a conoscenza era un volume intitolato Sefer HaZikaron LeKedoshei Bolechow, cioè il «Libro commemorativo dei martiri di Bolechow», a cura di Y. Eshel, pubblicato nel 1957 da un gruppo che si definisce Associazione di ex residenti di Bolechow. Si tratta, in altre parole, di quel che si definisce un libro Yizkor: uno delle centinaia di volumi compilati dopo la seconda guerra mondiale, una raccolta di ricordi di persone che avevano abbandonato il proprio paese prima del conflitto e di testimonianze di quanti erano invece rimasti, il cui intento è commemorare le comunità – villaggi o città di varia grandezza –distrutte dagli eventi bellici, e naturalmente rievocare, per quanto possibile, un mondo completamente scomparso. Posseggo una copia di questo libro, appartenuto a mio nonno; è rilegato in tela blu, ormai molto scolorita, ed è scritto in ebraico e in yiddish. Da ragazzo, le rare volte che mio nonno mi permetteva di toccare quella preziosa reliquia, mi chiedevo perché mai fosse in una lingua comprensibile (pensavo allora) solo alle vittime. Mio nonno me ne mostrava le fotografie, e su un foglio di carta intestata dell’azienda di famiglia – anche lui aveva l’irrefrenabile istinto di conservare, preservare gli oggetti – infilato tra le pagine che separano la sezione in ebraico da quella in yiddish, aveva segnato i numeri delle pagine dove veniva menzionata la sua famiglia. Ecco quel che scrisse, a volte con grafia maiuscola, a volte nel suo corsivo largo, commettendo qua e là qualche errore di ortografia:
44 – SCUOLA EBRAICA BARONE HIRSH
67 – IN BASO MUNICIPIO destra
67 – In basso il nostro negozio sinistra
110 – IL CENTRO DELLA CITTÀ INCENDIATO
282 – ISAK e SHMIEL, i miei due fratelli
189 – La scuola pubblica che friquentai
Diversamente dal solito, l’unica enfasi è costituita dalle sottolineature. In effetti è strano vedere la scrittura di mio nonno, che conoscevo tanto bene – mi pare quasi di ascoltare le sue descrizioni, ma troppo laconiche, senza quella cadenza cantilenante e le infiorettature che un tempo rendevano cosí memorabili ai miei occhi tutte quelle storie sul suo mondo, la sua infanzia, la sua città. Su questo stesso pezzo di carta in basso è stampato il motto dell’azienda: LE NOSTRE DECORAZIONI ABBELLISCONO LA VITA.
Ma c’è dell’altro: noto solo ora che quando parlava con me mio nonno chiamava sempre «Ray» la sorella maggiore Ruchele, «Jeanette» la sorella minore Neche,«Julius» suo fratello Yidl, mentre nel riferirsi al fratello scomparso lo chiamava invariabilmente Shmiel, proprio com’è scritto nella sequenza riportata. In altre parole, non usava il nome «ufficiale», Sam (con il quale egli indicava se stesso, venni a sapere molto tempo dopo), corrispondente ai vari Ray, Jeanette e Julius, ma il nome yiddish: Shmiel. La spiegazione credo sia da ricercarsi nel fatto che per lui gli altri parenti avevano una sorta di duplice identità, una appartenente all’infanzia perduta in un impero da tempo crollato, in cui si parlava yiddish, e l’altra all’età adulta, a un mondo deltutto diverso, lingua compresa. Ma è anche vero che l’ultima volta in cui mio nonno vide il fratello maggiore fu nel 1920, quando intraprendente diciottenne lasciò per sempre Bolechow, e pensare a Shmiel con il suo nome yiddish indica a mio avviso la profondità della perdita del fratello ucciso, come l’espressione di un volto cupo in una foto che ha perso la didascalia.
Ma torniamo all’interrogativo sollevato dalla baldanzosa affermazione di mio nonno, che la sua famiglia viveva a Bolechow dagli albori di quella città. Da quando, cioè? I due libri a nostra disposizione ci forniscono la risposta. Dal primo, le memorie di Ber Birkenthal, il saggio di Bolechow, apprendiamo la data in cui tutto ebbe inizio; dal secondo, naturalmente, sappiamo quando tutto finí. Gli Jäger vissero a Bolechow per i tre secoli e mezzo di esistenza della città, periodo duranteil quale, secondo l’intenzione dei fondatori, fra le comunità di ebrei, polacchi e ruteni regnò una relativa armonia, il che vuol dire dal 1612, quando l’equanime conte Giedsinski la fondò, fino al 1941, con l’invasione tedesca e il nuovo avvento dei ruteni.
E cosí per lungo tempo la nostre conoscenze si riducevano a questo:
Avevamo chiara la storia di Bolechow e la sua ubicazione geografica. Sapevamo tante cose sui componenti della famiglia Jäger, indietro nel tempo fino ai miei bisavoli, Hersh e Feige Mittelmark e Isak e NecheJäger: che lavoro facevano, il tipo di città in cui vivevano, i nomi dei loro figli, nipoti e bisnipoti e, in parecchi casi, le date di nascita, di morte e di matrimonio. Di molti conoscevamo persino l’aspetto, grazie alle vecchie fotografie accuratamente conservate nell’album di mia madre. Ci erano note tantissime storie.
Dei parenti perduti sapevamo almeno questo:
Shmiel Jäger e sua moglie Ester, con le quattro figlie,i cui nomi allora ero convinto fossero Lorca, Friedka, Ruchatz e Bronia, vivevano a Bolechow, come tutti gli Jäger da trecento anni a quella parte. L’indirizzo lo appresi da una guida polacca del 1929 sulle attività commerciali di quella zona: via Dlugosa 9a.
Nel settembre del 1939 i nazisti invasero la Polonia, ma agli ebrei fu concessa una tregua grazie al patto Molotov-Ribbentrop, che assegnò la zona ove sorgeva Bolechow all’Unione Sovietica. Come se la passarono Shmiel e la sua famiglia sotto i sovietici, non è dato sapere.
I nazisti infransero il patto nell’estate del 1941, e subito dopo, all’inizio di quella stagione, invasero la Polonia orientale. In breve tempo arrivarono a Bolechow.
Sappiamo che Shmiel possedeva un autocarro (o piú di uno?). Qualcuno ha detto che i nazisti requisivano gli autocarri.
Che lui era uno dei primi della lista (lista?).
Che a un certo punto Shmiel e la sua famiglia si nascosero da qualche parte, forse nell’antico maniero appartenuto ai conti polacchi, i Giedsinski, un tempo padroni del territorio dove sorse la città. Secondo mio nonno «erano nascosti in un castello». Comunque, si nascondevano, o almeno alcuni di loro.
Che un vicino li tradí o li consegnò ai tedeschi.
(oppure)
Che fu la domestica polacca, la shiksa, a farlo. Quale delle due ipotesi? Impossibile appurarlo.
Abbiamo letto nella lettera di zia Miriam che nel 1942 i tedeschi uccisero Ester e due delle figlie. Doveva trattarsi di Ruchatz e Bronia. Si nascondevano insieme agli altri? Impossibile saperlo.
Zia Miriam aveva detto che in qualche modo Lorca scappò sulle montagne e si uní ai partigiani, e fu uccisa insieme a loro. Quali montagne? Quali partigiani? Quando? Come? Anche lei si era nascosta? Lo ignoriamo.
Aveva anche scritto che zio Shmiel e Friedka erano stati uccisi dai tedeschi nel 1944. Si nascondevano in qualche altro luogo? Come e perché la famiglia si era separata? Rimane avvolto nel mistero.
Per lungo tempo furono queste le uniche informazioni in nostro possesso. Non era granché, comunque ben piú della laconica frase «Uccisi dai nazisti». Per un lungo periodo fummo convinti che non avremmo potuto scoprire di piú; e vista la vastità dello sterminio, i troppi anni trascorsi, considerato che ormai non c’era piú nessuno a cui chiedere, ci sembrava comunque di saperne abbastanza.
I primi capitoli della Bereishit, la parte che si apre con la creazione dell’universo e che si riduce, nel tempo, alla storia di Adamo ed Eva e la loro fatale cacciata dal Paradiso (evento che segna l’inizio della storia dell’umanità), sottolineano il piacere derivante dall’albero della conoscenza: sappiamo che esso era una cosa buona, una delizia per gli occhi, qualcosa di«desiderabile per la comprensione» – in altre parole, necessario alla distinzione, in definitiva, alla creazione (poiché è solo dopo averne mangiato i frutti che Adamo ed Eva procreano).
Nondimeno, tutti noi sappiamo anche che l’albero genera dolore oltre che piacere. Perché alla piacevole conoscenza che deriva dai suoi frutti si accompagna una grande sofferenza –la cacciata dal Paradiso, l’obbligo di lavorare, il travaglio del parto – sino all’estrema tragedia, quella della morte.
Nella mia continua ricerca di plausibili significati insiti nella parashat Bereishit, che, dopotutto, è l’inizio della vasta narrazione della Torah sulla storia del popolo ebraico, nonho ancora trovato risposta alla domanda che mi ero posto sin da bambino, quando lessi questo episodio durante una delle lezioni domenicali. Perché, mi chiedevo, la conoscenza deriva da un albero e non da una pietra, da una nuvola, da un fiume – o persino da un libro? Gli alberi che all’epoca mi erano familiari non mi offrivano alcuna soluzione. Davanti alla nostra casa c’era una fila di piccole querce dall’aspetto non particolarmente intelligente, mentre sul retro, a ridosso dell’abitazione, per un certo periodo crebbero degli enormi salici dall’aspetto alquanto cupo – le cui fronde, durante i temporali, si agitavano strusciando contro le finestre della mia camera e di quella dei miei fratelli – e un altro alberello al limitare della nostra proprietà, in un angolo nei pressi del cumulo di concime organico, che il mio industrioso genitore sperava, ogni anno, diventasse «adulto». Sotto una di queste piante, anni dopo quelle lezioni domenicali, ascoltai per caso una conversazione tra mio padre, mia madre e i loro genitori, riguardo a un segreto sul mio nonno paterno che mi sbigottí, spingendomi ancor piú decisamente allo studio della sua famiglia. Un altro di quegli alberi fu abbattuto da un uragano che colpí imprevedibilmente la zona di New York nell’agosto del 1976; per fortuna i rami che infransero i vetri della cucina erano piuttosto teneri, e quando la mattina seguente mia madre entrò nella stanza dopo aver sentito il fracasso nella notte, urlò alla vista di quella massa mostruosa che sovrastava la finestra, protendendosi ovunque, e sembrava sul punto di divorare la finestra stessa e l’ampio davanzale su cui lei meticolosamente poggiava alcuni dei suoi ninnoli preferiti: candelieri biancazzurri di Delft, utensili israeliani di stile vagamente design in aromatico legno di olivo, brocche di ceramica italiana dai colori vivaci e vasi con piante che fiorivano lussureggianti grazie alle sue cure. Fu proprio il giorno prima dell’uragano che la moglie del fratello di mio nonno Julius, quello che non si adattò mai alle usanze familiari, sprovvisto com’era di Feinheit, di finezza, dovette essere sepolta, essendo morta all’improvviso la notte precedente in un ascensore del palazzo in cui abitavano, nelBronx. I miei genitori radunarono diligentemente noi bambini e ci recammo tutti, quel giorno di pioggia battente che precedette l’uragano, a Mount Judah, dove la povera Roslyn, deceduta a cinquantotto anni, sarebbe stata seppellita insieme atutti gli Jaeger, Yaeger, Jager e Jäger di Bolechow che la stavano aspettando. Su quel funerale inzuppato mia madre racconta una delle sue storie preferite: mentre noi Mendelsohn attendevamo che arrivassero gli altri, sotto un temporale cosí violento da bucare gli ombrelli, che riempí di acqua fangosa il feretro aperto, tanto che mi chiesi, per la prima volta, cosa succedeva all’interno dopo essere stato sigillato, lei ebbe improvvisamente l’idea di farci riparare in un posto relativamente piú comodo, una cappella funeraria nelle vicinanze, e di come, di fronte alle atterrite resistenze di qualcuno, lei sene uscí con la seguente frase: «Oh, andiamo, che male c’è? Lí dentro ci sono solo vecchi ebrei simpatici!».
Insomma quel salice non doveva essere particolarmente saggio, visto che non era riuscito a salvare nemmeno se stesso. C’era un altro albero nella nostra proprietà che mi piaceva contemplare da bambino, quando mi chiedevo cosa fosse mai un «albero della conoscenza». Si trattava del grande e contorto melo piantato in un angolo del giardino sul retro,sul lato opposto rispetto a quello occupato per un certo periodo dal salice piangente. Quell’albero aveva una particolarità che appresi solo quando iniziai la scuola media: sul tronco erano stati innestate ben sette varietà di meli, e la pianta produceva altrettanti tipi di frutti – che noi, poveri provinciali abituati ai cibi acquistati al supermercato, non assaggiammo mai, cadevano al suolo a marcire fin quando qualcuno, noi ragazzi oppure il giardiniere che i miei assunsero quando fummo piú grandi, li rimuoveva con un rastrello. L’unica persona che vidi mangiare quelle mele fu mio zio Nino – non un consanguineo, ma un collega e amico di mio padre di origine italiana, che da bambino mi affascinava molto perché possedeva una macchina sportiva, mangiava pietanze a noi del tutto sconosciute, e parlava di luoghi esotici in cui era stato, e che quindi mi ricordava piacevolmente mio nonno;anche se la sicurezza da uomo di mondo con la quale zio Nino coglieva e mangiava le mele verdi aveva ai miei occhi qualcosa di spiccatamente non ebreo, e dunque, adesso me ne rendo conto, inconsapevolmente alimentava il desiderio che mi prese in seguito di studiare le culture e le lingue non semitiche, estranee alla mia gente, quelle dei greci e dei romani, ipopoli mediterranei di cui lo stesso Nino era manifestamente un’incarnazione... A proposito di quell’albero, a questo punto dovrei aggiungere che un giorno, avrò avuto dieci anni,mio nonno mi rincorse attorno al suo tronco, minacciandomi di darmele di santa ragione – se non ricordo male, brandiva minaccioso una bottiglia di latte vuota – perché avevo cercato di bruciare dei modellini di automobili proprio ai piedi dell’albero, e mentre mi rincorreva continuava a ripetere: «Un fuoco vuoi accendere, un fuoco? Vuoi ucciderci tutti?». Allora non conoscevo ancora la storia della casa dove lui aveva trascorso l’infanzia, a Bolechow, colpita durante la prima guerra mondiale da una granata russa e andata in fiamme, o il fatto che aveva visto, in un altro bombardamento nel corso della stessa guerra, un compagno di scuola bruciare vivo –l’espressione esatta sarebbe bollito vivo – quando nel fiume che attraversa Bolechow caddero degli ordigni.
Sappiamo che l’albero della conoscenza nella Bereishit non era una quercia, né un salice o un melo, ma un fico; lo desumiamo dal fatto che dopo averne mangiato il frutto, acquisendo la vergognosa consapevolezza della loro nudità,Adamo ed Eva si coprirono con delle foglie di fico. In proposito Friedman ha ben poco da aggiungere, a parte la considerazione senza dubbio interessante che quelle improvvisate coperture dei primi due esseri umani in realtà non erano«indumenti», ma rozze protezioni, poiché è stato Dio, come recita la Genesi 3,21, a dar loro i primi indumenti. Invece Rashi approfondisce il dettaglio delle foglie di fico, traendone(come spesso avviene) una conclusione morale: «Si ripararono proprio con ciò che determinò la loro rovina».
A mio modo di vedere, questo passaggio dalla rovina alla riparazione è intimamente connesso alla natura stessa della conoscenza, la quale è, nel migliore dei casi, un processo: dall’ignoranza alla consapevolezza, dalla «rovina» intellettuale alla sua «riparazione», dal caos indistinto al sapere sistematico. La conoscenza, quindi, come pernicioso punto di partenza e di arrivo, fonte di dolore e al tempo stesso di piacere. A mio avviso questa caratteristica del progresso può manifestarsi solo con il trascorrere del tempo e risponde, infine, alla domanda sul perché la conoscenza derivi da un albero. L’albero è infatti un corpo che cresce e la crescita, come la conoscenza, può aver luogo solo con e attraverso il tempo, al di fuori del quale parole come «crescere» e «imparare» sono prive di significato.
Ed è il tempo, alla fine, a conferire un significato e un senso al piacere e al dolore che derivano della conoscenza. Vi è un certo piacere nell’orgoglio di accumulare: dal vuoto e dal caos si passa all’abbondanza e all’ordine. Il dolore, d’altra parte, è associato al tempo in un’accezione leggermente diversa. Per esempio (poiché il tempo muove in una sola direzione), se si conosce una cosa non si può ignorarla, e di conseguenza determinati tipi di conoscenza sono dolorosi. E ancora: mentre, come spiegavo prima, alcune forme di conoscenza recano piacere, fornendoci informazioni che si desiderava possedere e permettendo cosí di conferire un senso a ciò che appariva un caotico guazzabuglio, avviene anche che certe cose, determinati fatti, vengano appresi troppo tardi perché abbiano una conseguenza positiva.
Ascoltate:
Mio nonno morí nel 1980. In piena notte, sebbene fosse molto debole – era divorato da un cancro, e mia madre mi aveva confidato che gli rimanevano una o due settimane di vita – si alzò dal letto con indosso il pigiama bianco immacolato, ed ebbe la forza di sgusciare fuori di soppiatto senza svegliare la moglie (colei che detestava le piume del suo cappello, la sopravvissuta di Auschwitz), uscire di casa, premere il bottone
«T» dell’ascensore, trascinarsi per tutto l’atrio di marmo della Forte Towers, imboccare la porta del retro che conduceva alla piscina, e infine gettarsi in acqua. Mio nonno non sapeva nuotare.
Tanto grande era il dolore. Ora, mi chiedo, quale dolore?
Mio nonno si era tolto la vita e io ero preoccupato –avevo venti anni, ma per lui continuavo ad averne sempre undici – sulla possibilità di dare un’attuazione minuziosa alle istruzioni relative al suo funerale, che mi aveva impartito: il cadavere doveva essere lavato, posto in una semplice bara di legno e sepolto nella tomba acquistata al cimitero del Queens che gli spettava in quanto nativo di Bolechow. Mi chiedevo se tutto ciò gli sarebbe stato negato. Invece tutto si svolse secondo le sue volontà, e mio nonno riposa a New York. Nelle settimane successive, mia madre si recò diverse volte a Miami Beach per sistemare i suoi affari. (Mio nonno ebbe il coraggio di scherzare anche sulla propria morte. Quando mia madre aprí una cassetta di sicurezza contenente le sue carte, proprio in cima trovò un biglietto vergato con l’inconfondibile grafia di mio nonno, il quale sapeva che lei l’avrebbe letto solo dopo la sua scomparsa: «Adesso, Marlene, per prima cosa smettila di piangere, lo sai che quando piangi sei brutta...»). Come aveva già fatto con la madre, donò la maggior parte delle sue cose a enti di beneficenza ebraici, tranne ovviamente oggetti particolarmente significativi per la famiglia, che portò a Long Island.
Tra questi, il libro dalla copertina blu sbiadita, Sefer HaZikaron LeKedoshei Bolechow, il «Libro commemorativo dei martiri di Bolechow». Quando lo vidi, quell’estate del 1980, ricordai di averlo notato anni prima a casa sua, una volta che andai a trovarlo da solo. Avevo quindici anni, e in qualche modo ero già considerato il biografo ufficiale della famiglia, con grande orgoglio di mio nonno, nonostante mi canzonasse per le domande importune che gli rivolgevo. Durante quella visita mi aveva chiesto di aiutarlo a svuotare un mucchio di scatole piene di «cose inutili», come disse; gli sedetti accanto, lui mi passava le cose da buttare – pacchi di lettere legati con elastici o con dello spago, patenti scadute, articoli strappati dal Reader’s Digest – e io le gettavo in un grosso secchio della spazzatura foderato con una busta di plastica bianca. Quando, a un certo punto, andò in bagno, ne approfittai per dare un’occhiata furtiva a un pacco di lettere; si trattava della corrispondenza intrattenuta con la terza moglie, Alice. Le scorsi velocemente, e mi saltò agli occhi una frase.«Francamente, non so che farmene dei tuoi 400.000 dollari, ho anch’io del denaro da parte». (Ovviamente supposi che quella missiva fosse stata scritta quando divorziarono). Adesso mi rimprovero per non aver infilato quel pacco di lettere nella mia valigia; nonno non se ne sarebbe mai accorto. Ma in quel periodo non ero incuriosito dai suoi matrimoni susseguitisi alla morte improvvisa di mia nonna, li consideravo storia «recente»e quindi priva di reale interesse. Una cosa è certa: le sue nozze con Alice, avvenute nel 1970, sono piú lontane oggi di quanto lo fosse il mondo di Shmiel, uomo d’affari a Bolechow, all’epoca in cui ficcavo il naso nella corrispondenza di mio nonno.
In ogni modo, fu allora che mi mostrò il Sefer HaZikaron LeKedoshei Bolechow, il «Libro commemorativo dei martiri di Bolechow», e mi chiedo se non fu sempre quel giorno, magari la notte stessa, che mio nonno sfogliò quel libro e appuntò per me (cosí mi piace credere)su quel pezzo di carta con l’intestazione della sua vecchia azienda, tanto accuratamente conservato, tutte le informazioni necessarie per individuare le pagine in cui avrei trovato le loro fotografie, prevedendo che ben presto non avrebbe piú potuto mostrarmelo di persona.
Mia madre prese con sé anche altri oggetti che avevano per lei un valore affettivo (gli occhiali con l’apparecchio acustico incorporato, tanto per fare un esempio),documenti bancari, l’album di famiglia con quelle fotografie in bianco e nero che in seguito avrei conosciuto a menadito, pur sapendo ben poco dei soggetti ritratti.
Tra gli effetti personali di mio nonno c’era anche un oggetto che da bambino vedevo di frequente, ma a cui non avevo mai prestato attenzione: lo strano portafogli,quello lungo, sottile e tutto bitorzoluto che riponeva meticolosamente nella tasca interna delle sue tanto amate giacche. Naturalmente lo riconobbi, ma il contenuto non lo avrei mai indovinato.
Quando finalmente lo aprimmo, trovammo un fascio di fogli ripiegati, scritti fittamente in tedesco con una grafia uniforme, decisa, elegante. In gioventú mia madre aveva iniziato a studiare quella lingua con scarso successo – amava raccontare dell’amara delusione dell’insegnante, che si aspettava ben altri risultati da una ragazza che, dopo tutto, si chiamava Marlene Jaeger – e cosí mi consegnò i fogli, visto che a quel tempo studiavo il tedesco all’università. «Lieber Teurer Bruder samt liebe Teure Schwägerin». Tradussi: «Amatissimo fratello e amatissima cognata». «Liebe Jeanette und Lieber Sam». «Cara Jeanette e caro Sam». E «Lieber Cousin». Continuai a leggere e a tradurre le tre lettere, «Lieber Aby». «Caro Aby».
Aby, mio nonno.
Controllai le date: Bolechow, 16/1/1939. Cito a caso alcuni passi. Una lettera inizia: Ich lebte einige monate mitder Hoffnung mich mit Euch meine Teure persönlich sehn zukönnen, leider wurde mir der Traum verschwunden. «Per alcuni mesi ho vissuto nella speranza di rivedere i miei cari, ma i miei sogni sono svaniti» (a lungo, dopo averla letta, non potei fare a meno di ripensare a quella frase. Perché Shmiel aveva intrattenuto fiduciosamente quel sogno e per quale motivo era svanito? Chi gli aveva dato false speranze? Ci riflettei a lungo, ben consapevole che non di rado i rapporti tra fratelli, per ragioni non desumibili dai documenti scritti, degenerano).Dalla seconda pagina di un’altra lettera (tutti i fogli sono scrupolosamente numerati sul margine superiore): «Man hält mich in Bolechów für einen reichen Mann...». «I cittadini di Bolechow mi considerano ricco...». «Du machst vorwürfe mein l. Frau warum sie wendet sich nicht zu ihr Bruder und Schwester». «Hai rimproverato la miac[ara] moglie per non essersi rivolta al fratello e alla sorella». «Wass die Juden machen hier mit, dass ist aber ein hunderster teil wass ihr weisst...». «Le notizie che vi arrivano sulle condizioni degli ebrei qui sono solo la centesima parte della realtà». «Die Liebe Lorka arbeitet in Stryjbei einem Fotograf». «La cara Lorka lavora a Stryj, in uno studio fotografico». «Die kleine Bronia geht noch in Schule». «La piccola Bronia va ancora a scuola». «... in ständiger Schreck ergriffen», «pervasi da costante terrore». «Gebe Gott das Hitler verrisen werden soll!». «Voglia Dioche Hitler sia fatto a pezzi!». E naturalmente leggevo sempre le chiuse: «Ich grüsse und Küsse Euch alle vomtiefsten Herzens, dein Sam». «Vi saluto e vi bacio tutti dal profondo del cuore, tuo Sam». Von Euer Treuren Sam, «dal vostro affezionato Sam», von Euer Sam, «dal vostro Sam». Sam. Sam.
Shmiel.
Cosí era questo che mio nonno si portava dietro. Le lettere inviategli da Sam, negli ultimi, disperati anni,quando ancora poteva scrivere, quando ancora era convinto di trovare una via d’uscita. Quelle lettere erano sempre state lí, davanti ai miei occhi, nelle estati in cui gettavo sguardi noncuranti al vecchio portafogli, impaziente di uscire con mio nonno per ascoltare le sue storie, senza la piú pallida idea della storia che portava con sé dentro la tasca interna sinistra. Erano lí, davanti a me, e non le avevo viste.
Ascoltate:
Anni dopo la morte di mio nonno, decisi di provare a fare una ricerca sul sito web dedicato alle genealogie ebraiche. Bisognava immettere i nomi dei propri familiari e delle città in cui risiedevano; quindi fornire il proprio indirizzo, nell’eventualità che qualcuno volesse contattarvi.
Cosí inserii tutti i cognomi dei miei parenti. Fui ancor piú scrupoloso: non mi limitai a elencare nomi e città di origine dei miei tre nonni nati in Europa (MENDELSOHN, RIGA; JAGER JAEGER YAGER YAEGER, BOLECHOW; STANGER, CRACOVIA), ma anche quelli di quanti potevano avere un qualche legame di parentela con i miei consanguinei, e quindi digitai anche RECHTSCHAFFEN, KALUSZ (il marito della mia prozia Sylvia), BIRNBAUM, SNIATYN (i parenti della mia bisnonna paterna), WALDMANN, BOLECHOW (mio nonno mi aveva detto, quando avevo circa tredici anni, che suo padre aveva una sorella, Sarah, sposata con un Waldmann), BEISPIEL, KALUSZ (parenti di «Tante»), MITTELMARK, DOLINA (la famiglia del ramo materno di mio nonno), KORNBLÜH, BOLECHOW (la famiglia della nonna paterna di mio nonno). E, pur temendo che fosse inutile, anche SCHNEELICHT, STRYJ. Neveluce. Forse quel giorno nevicava.
Solo poche combinazioni ottennero dei risultati. Fui quasi subito contattato da una gentile signora di Long Island, il cui padre era il nipote di quella Sara Jäger che aveva sposato un Waldmann. Per quanto possa sembrare sciocco e sentimentale, visti i rapporti di parentela alquanto remoti, a quella notizia mi rallegrai per settimane. Poi, all’incirca un anno dopo, feci una scoperta ancor piú sorprendente: dal sito risultava che qualcun altro stava cercando dei BIRNBAUM di SNIATYN, e cosí venimmo a conoscenza di un ramo della mia famiglia paterna (ci mancò poco che perdessi questa occasione: inizialmente avevo inserito BIRNBAUM di CRACOVIA, perché mi pareva di ricordare che fosse quella la città di origine dei genitori di mia nonna. Poi, piú o meno un anno dopo aver fatto questa ricerca, esaminando alcune vecchie lettere di zia Pauly mi imbattei in una frase: «Credo che fossero di Cracovia, ma mi sembra anche di ricordare una città chiamata Sniatin o Snyatyn, forse potrà esserti utile». Quindi corsi il rischio di non incontrare la meravigliosa coppia del Colorado in cerca dei BIRNBAUM di SNIATYN, che si rivelarono nostri cugini).
Ma l’esito piú inaspettato delle mie ricerche fu quello relativo agli SCHNEELICHT di STRYJ. Qualche anno fa mi recai da mio fratello maggiore, che vive nell’area di San Francisco; mentre ero lí ascoltai un messaggio lasciato nella mia segreteria telefonica di New York da untale che aveva letto il mio annuncio in merito alla famiglia Schneelicht di Stryj e che chiedeva di incontrarmi. Ero talmente eccitato che, senza aspettare di tornare aNew York, lo chiamai quella sera stessa da casa di miofratello. Viveva nell’Oregon. Mi spiegò che suo padre,morto appena qualche anno prima, nel 1994, all’età di centotré anni, si chiamava Emil Schneelicht, era nativo di Stryj e aveva perso nell’Olocausto parecchi dei suoi sei fratelli e sorelle. Mi fece anche i nomi dei genitori del padre, Leib Herz Schneelicht e Tauba Lea Schneelicht, nomi che allora, naturalmente, non mi dissero nulla. Poi mi elencò i nomi dei fratelli e della sorelle di suo padre. Erano:
Hinde
Moses
Eisig (suo padre)
Mindel
Ester
Saul
Abraham
Quando pronunciò il nome Ester rimasi letteralmente a bocca aperta. Avevo sempre considerato la moglie di zio Shmiel appartenere a un passato remoto e intangibile, e parlare con quel tale fu un’esperienza emozionante e, per certi versi, straordinaria. Era legato a lei piú di quanto non fossi mai stato io – in effetti era suo nipote, cugino delle ragazze che avevo sempre considerato «nostre» cugine – conosceva quelle persone di cui si erano perse le tracce, in virtú di un vincolo parentale di cui non avevo mai nemmeno sospettato l’esistenza:come avrei potuto, del resto, sapendo cosí poco di lei,ignorando persino se avesse fratelli o sorelle? A quel punto cominciai a chiedermi quante altre tracce avesse lasciato dietro di sé la moglie di Shmiel, quanti ulteriori indizi si potevano scovare, navigando in internet o scartabellando archivi considerati di scarso rilievo, viste le esigue informazioni in mio possesso, dettagli che non sarei stato in grado di individuare nemmeno se mi fossero capitati sotto gli occhi.
Tuttavia, stavo forse traendo delle conclusioni affrettate: dopo tutto, poteva anche esserci piú di una Ester Schneelicht nata a Stryj nell’ultima decade del diciannovesimo secolo. Ma mentre questo pensiero molesto mi attraversava la mente, l’uomo all’altro capo del filo aggiunse qualcosa. Mi disse che alcuni dei fratelli e delle sorelle di suo padre, i quali, per quanto ne sapevo, era noi fratelli e le sorelle della mia prozia Ester, avevano dei nomignoli, cosa che naturalmente non ignoravo essendo questa una caratteristica della mia famiglia. Mi rivelò,per esempio, che suo padre Eisig veniva anche chiamato Emil. Mentre parlava prendevo nota, e su un foglio appuntai EISIG = EMIL. Poi aggiunse che una delle zie, Mindel o Mina, non era morta nell’Olocausto, perché parecchio tempo prima si era stabilita negli Stati Uniti e viveva a New York con suo marito. Un fotografo.
«Mina» ripeté la voce all’altro capo del telefono. O Minnie, com’era anche chiamata.
Stavo per scrivere MINDEL = MINA = MINNIE quando la mano cominciò a sudare, e il cuore a battere all’impazzata.
«Aspetti» lo fermai. «Aspetti».
Mi schiarii la voce, quindi domanda: «Era sposata aun fotografo e si chiamava Minnie?».
«Sí» confermò l’uomo. «Suo marito si chiamava Spieler. Jack o Jake. Spieler. Erano miei zii. Jack e Minnie Spieler».
Ascoltate:
Da quel momento cominciai a utilizzare regolarmente il sito jewishgen.org, mettendomi in contatto con una donna che, al pari di me, aveva legami familiari con Bolechow. Quando finalmente la incontrai, costei si rivelò una persona esuberante, estroversa e generosa proprio come le sue email lasciavano presagire; aveva una massa di boccoli rossicci che in qualche modo sembrava esprimere la sua personalità, come mi resi conto quando la incontrai un giorno di marzo del 2001 al Greenwich Village. Si era offerta volontaria per il sito internet dell’Yizkor Book Project. (Molti di quei libri,incluso il Sefer HaZikaron LeKedoshei Bolechow, sono in yiddish, in ebraico o in entrambe le lingue, e il sito jewishgen.org ha sponsorizzato un progetto per tradurli in inglese e metterli on line). Questa donna, Susannah,era stata a Bolechow – anche se, come mi spiegò in seguito, nessuno dei suoi parenti stretti o conoscenti eraoriginario di quella città, dettaglio che mi commosse emi colpí particolarmente – e aveva diffuso in rete delle foto di quella città. Le avevo inviato una email per comunicarle quanto mi erano piaciute le immagini, e cosí iniziammo una corrispondenza; da lei appresi alcune informazioni che si rivelarono fondamentali.
Per prima cosa, mi mise in contatto con un giovane ricercatore ucraino, Alex Dunai, che le aveva fatto da guida a Bolechow – o, come si chiama oggi, Bolekhiv –il quale, mi ragguagliò, aveva effettuato ricerche in diversi archivi di vari uffici locali. In seguito a questa indicazione contattai Alex per email, chiedendogli di intraprendere una indagine negli archivi ebraici di Bolechow che miracolosamente non erano andati distrutti dalla guerra, e dopo circa due mesi ricevetti dall’Ucraina un voluminoso plico, contenente oltre cento fotocopie di altrettanti originali, corredate dalle scrupolose traduzioni di Alex, dattilografate. A questo proposito dirò, per il momento, che i documenti piú antichi rimasti della comunità ebraica di Bolechow, ora custoditi negli archivi comunali di L’liv, partono dagli inizi del diciannovesimo secolo, e tra questi v’è un certificato di morte, che reca la data del 26 novembre 1835, attestante il decesso di un certo Sheindel Jäger, di anni ottantanove, avvenuto il giorno 24 di quel mese. Questo Sheindel, vedovo della defunta Juda Jäger, era morto (notazione forse superflua) di «vecchiaia», presso un indirizzo indicato come Casa 141; per ragioni amministrative, tutte le abitazioni del paese erano numerate e nei documenti ufficiali si indicavano questi numeri invece che i civici delle strade, anche se, come appresi qualche anno dopo da una donna ben informata, durante un pranzo a Tel Aviv, quella si chiamava Schustergasse, via del ciabattino. Possiamo quindi dedurne che Juda Jäger, l’antenata piú remota di cui ho trovato traccia, era nata nel 1746 o, forse, nel 1745; era la madre di Abraham Jäger (1790-1845), a sua volta padre di Isak Jäger (nato intorno al 1825 e morto prima del 1900, l’anno di nascita del fratello sionista di mio nonno, Izthak, da cui prese il nome), che era il padre di Elkune Jäger(1867-1912), il mio bisnonno deceduto all’improvviso in una località termale, evento da cui scaturirono una serie di circostanze culminanti con un inconcepibile epilogo: l’uccisione per arma da fuoco, percosse e camera a gas di suo figlio, sua nuora e quattro nipoti; genitore di Abraham Jaeger (1902-1980: il mio nonnino), il padre di Marlene Jaeger Mendelsohn (nata nel 1931),mia madre.
Debbo constatare, non senza una certa amara ironia, che la ragione per cui sono a conoscenza di tutto questo è, in ultima analisi, l’esistenza del Sefer HaZikaron LeKedoshei Bolechow, ovvero il «Libro commemorativo dei martiri di Bolechow». Infatti fu grazie a questo volume che ebbi modo di conoscere Susannah, la quale mi mise in contatto con Alex, un socievole giovane ucraino divenuto con il tempo mio amico, che si guadagna da vivere aiutando ebrei americani a ricostruire laloro tormentata storia familiare. È stato lui a scovare i documenti che attestano le origini dei miei parenti Jäger, a partire da quell’insospettata figura femminile del diciottesimo secolo – che verosimilmente potrebbe aver conosciuto Ber Birkenthal di Bolechow e magari, chissà, gli avrà anche messo addosso i suoi occhi (azzurri?),una donna che, come tutti i suoi discendenti, dal figlio al pro-pronipote, cioè mio nonno, era nata e vissuta nella stessa casa, l’edificio numero 141, in una città chiamata Bolechow, non distante da Lemberg (in seguito Lwów, quindi L’vov, l’attuale L’viv), nella Galizia appartenente al monarchico impero austroungarico.
Questa fu la prima cosa che Susannah fece per me. La seconda produsse un risultato imprevedibile.
Nella nostra corrispondenza avevamo parlato delsuo viaggio a Bolechow nel 1999, poiché stavo prendendo in considerazione l’idea di recarmi anch’io laggiú. Pensavo, all’epoca, di scrivere un articolo sul ritorno nel villaggio di origine della propria famiglia, dopo due generazioni, allo scopo di incontrare gli attuali abitanti per scoprire, se esistenti, tracce ancora visibili della vita di un tempo. Un giovedí di gennaio del 2001scrissi una email a Susannah in cui le chiedevo se, in base alla sua esperienza, a Bolechow, anzi Bolekhiv, ci fosse ancora qualcuno in vita che serbasse chiara memoria del periodo precedente la seconda guerra mondiale – qualcuno che potessi intervistare per un articolo che avevo in progetto di redigere. Forse, aggiunsi,avrei potuto convincere Alex ad aiutarmi a pubblicare annunci sui giornali locali.
Mi rispose martedí 30 gennaio, fornendomi, quasi per caso, informazioni che mi sbalordirono. A proposito dei vecchi abitanti di Bolechow che potevano essermi di qualche utilità, mi rivelò che un ebreo molto anziano, l’ottantanovenne Eli Rosenberg, si era di recente trasferito, insieme alla consorte della stessa età, da Bolechow a New York. Secondo Susannah si trattava «dell’ultimo ebreo di Bolekhov», che un tempo esercitava il mestiere di cappellaio in quel paese (negli anni che seguirono incontrai anche l’ultimo ebreo di Stryj, e l’ultimo ebreo di una cittadina alle porte di Riga. Si chiamava Mendelsohn). Costui, mi spiegò, era sopravvissuto alla guerra perché nell’estate del 1941, con l’arrivo dei tedeschi, si era unito all’esercito sovietico in ritirata. Nel 1944, tornato nella città liberata, aveva scoperto che nessuno dei membri della sua famiglia era sopravvissuto, ma aveva comunque deciso di rimanere. Salvo quest’ultimo dettaglio, è una storia che in seguito avrei sentito piú di una volta.
Guardai lo schermo del mio computer, con il cursore lampeggiante sulla parola «tornato» nella frase «tornato a casa dopo la guerra scoprí che nessun membro della sua famiglia e dell’intera comunità ebrea era sopravvissuto». Avevo sempre considerato Bolechow una sorta di luogo mitico (per me esisteva solo attraverso i racconti di mio nonno), e l’attuale Bolekhiv una città irrimediabilmente diversa da quella del periodo bellico (erano trascorsi sessant’anni, e nessuno degli abitanti originari, ebreo, polacco o ucraino, vi risiedeva ancora); per questo la presenza di un vecchio ebreo di Bolechow, ancora oggi in vita, per di piú a New York, una persona in grado di colmare la distanza tra l’animata cittadina descritta da mio nonno e quella riportata dalle cartine geografiche, tra Bolechow e Bolekhiv, mi sembrava un fatto improbabile quanto l’esistenza degli extraterrestri.
Alla fine della sua email Susannah mi chiedeva se vivevo nelle vicinanze di New York; in tal caso si offriva di accompagnarmi a conoscere i Rosenberg, che abitavano a Brooklyn. Mi spiegò che parlavano solo russo e yiddish, e poiché lei aveva studiato a fondo quest’ultima lingua poteva fare da interprete. Accettai la proposta con entusiasmo, solo in parte dovuto alla speranza che questo Eli Rosenberg potesse gettare luce sul destino di Shmiel e della sua famiglia. L’ultimo ebreo di Bolechow che avevo sentito parlare in yiddish era mio nonno, morto ormai da venti anni. Desideravo riascoltare quell’idioma.
Susannah rispose subito, comunicandomi una«grande notizia!»: aveva chiamato il signor Rosenberg
– per la precisione aveva conversato con il figlio – fissando un appuntamento, il mio primo e, credevo, unico incontro con un ebreo di Bolechow che potesse rivelarmi qualcosa, di qualunque tipo, degli accadimenti relativi agli anni immediatamente precedenti la guerra, alla guerra stessa e al dopoguerra. La data stabilita era l’11 marzo. Sarei andato a casa di Susannah e con la sua macchina ci saremmo recati a Brooklyn. Mi avvertí che Eli Rosenberg parlava in modo sommesso, le sue condizioni di salute non erano buone, la morte della moglie, Feyge – circostanza che Susannah aveva appreso solo durante l’ultimo colloquio con il figlio – era stata un duro colpo.
Per tutto il tragitto verso Brooklyn fui molto teso. Ancora una volta, com’era accaduto con la signora Begley a quella festa di due anni prima, l’idea di incontrare qualcuno vissuto a Bolechow all’epoca che mi interessava mi trasmetteva un’emozione quasi spasmodica,al limite della sopportazione: quando montai sull’auto di Susannah e vidi Manhattan scomparire alle nostre spalle, mi tremavano le gambe. Mentre percorrevamo strade sconosciute, lei attenta alla segnaletica, io nel ruolo di navigatore con un enorme stradario davanti,venni di nuovo assalito da fantasie cosí intense e vivide, per quanto immotivate, considerata la banalità delle informazioni che potevo ricavare da quell’incontro –Shmiel aveva comprato un cappello da quell’uomo? – che, dopo aver parcheggiato e individuato il piccolo appartamento all’interno di un gigantesco stabile in pietra e mattoni dall’aspetto sovietico, avevo a stento la forza di parlare. Per fortuna, pensai, l’onere della conversazione toccava a Susannah.
In realtà non ci fu molto da dire. Seduto nell’appartamento di Rosenberg, scarsamente ammobiliato e illuminato ancor meno, con il rumore di un pallone da basket i cui rimbalzi echeggiavano nel piccolo cortile del complesso edilizio, apparve subito chiaro che le condizioni del signor Rosenberg erano seriamente peggiorate dall’ultima volta che la mia amica l’aveva sentito. Susannah mi presentò in yiddish, e io la pregai subito di dirgli che speravo avesse conosciuto il fratello di mio nonno, Shmiel Jäger.
«Shmiel Jäger, Shmiel Jäger» ripeté con voce flebile e alquanto stridula Eli Rosenberg, la bocca aperta. Manon aggiunse altro; si limitò ad alzare una mano sopra il capo, come per indicare una persona alta. Susannah gli domandò qualcosa, lui annuí vigorosamente e le rispose.
«Ha detto che era un uomo molto alto» tradusse Susannah.
Un uomo molto alto, considerai tra me, deluso. A giudicare dalle fotografie in mio possesso non sembrava; a essere sinceri, in famiglia nessuno lo era.
Poi Eli Rosemberg si voltò verso Susannah e le chiese chi fossi. Il figlio, un uomo bruno sui quaranta dalle sembianze slave, ci offrí tè e biscotti. Il televisore a tutto volume era sintonizzato su uno spettacolo a premi. Susannah spiegò di nuovo a Eli che ero il nipote del fratello di Shmiel Jäger, il quale all’epoca aveva una macelleria a Bolechow. Gli ripeté che volevo sapere se lo aveva conosciuto.
«Shmiel Jäger, Shmiel Jäger» fece eco il vecchio, annuendo commosso con aria apparentemente saggia, impressione del tutto fuorviante. Poi si volse a guardarmi,ed esclamò: «Toip!» annuendo ancora, con aria compiaciuta. Non avevo idea di cosa stesse parlando. Susannah scambiò con lui qualche altra battuta, come per assicurarsi di aver inteso correttamente, quindi si rivolse a me.
«Sostiene che Shmiel Jäger era sordo. Toip».
Guardai prima lei poi Eli Rosenberg, che continuava ad annuire, la mano a coppa vicino all’orecchio come per mimare la sordità. Quindi tornò a chiedere a Susannah chi fossi e cosa volessi.
Provai di nuovo una cocente delusione. Se Shmiel fosse stato sordo, sono certo che mio nonno o qualcun altro ne avrebbe fatto menzione. Era il tipo di dettaglio abbastanza rilevante ma innocuo che sarebbe filtrato dalle maglie della censura imposta da mio nonno sui racconti riguardanti il fratello. Chissà con quale vicino, alto e sordo, senza alcun legame di parentela con il sottoscritto,questo Eli Rosenberg stava confondendo il mio prozio scomparso. Mi arresi. Tutta l’energia, le segrete aspettative che mi avevano aiutato a sopportare l’esasperante lentezza di quella smozzicata conversazione in una lingua che non sentivo parlare da venti anni, il fanatico fervore della speranza che quell’uomo potesse rivelarmi qualche particolare importante, decisivo, magari com’erano morti, l’ultima volta che li aveva visti, insomma qualcosa – tutto ciò, mi resi conto, in un certo qual modo mi aveva spossato, come svuotato. In quel momento volevo solo andare via da quel posto buio e deprimente,tornare a casa e rifugiarmi nelle mie fotografie, che quanto meno sapevo autentiche.
Poi il figlio, scusandosi, disse che il padre si stava stancando. Fu un sollievo. Ci alzammo, ci stringemmo la mano – Eli aveva una stretta sorprendentemente vigorosa – e io e Susannah ci avvicinammo alla porta. Con lo sguardo perso nel vuoto, il vecchio ripeté: «Shmiel Jäger, Shmiel Jäger». Seguí qualche attimo di imbarazzo e il figlio, mortificato, spiegò che le sue condizioni erano notevolmente peggiorate da quando l’anno prima aveva perso la moglie.
«Peccato che non siate venuti un paio di anni fa» si rammaricò. «Avrebbe potuto darvi parecchie informazioni».
Da allora ho sentito innumerevoli volte frasi simili. Ma in quel momento, ascoltandola per la prima volta,rimasi amareggiato. Era doloroso pensare quante cose avrei potuto scoprire se solo avessi cominciato le mie ricerche un paio di anni prima, forse anche uno solo.
Ero immerso in tali pensieri, annuendo comprensivo al figlio, quando improvvisamente Eli Rosenberg mi fissò e aggiunse qualcosa, pronunciando un’unica parola che, in ultimo, era riuscita a farsi largo tra i neuroni atrofizzati e le sinapsi ormai bruciate, a emergere in superficie prima di sprofondare di nuovo e per sempre:
«Frydka».
Ascoltate:
La prima fotografia che possiedo di Shmiel lo ritrae seduto con l’uniforme dell’esercito austriaco accanto a un altro giovane, in piedi, dall’identità destinata, sembrava, a rimanere un mistero. A giudicare dall’aspetto,Shmiel era un giovane decisamente avvenente, come del resto ci era sempre stato descritto: mascella volitiva, labbra carnose, lineamenti regolari, occhi bellissimi, profondi, azzurri... be’, sapevo che erano di quel colore anche se dalla foto non si capiva. Shmiel divenne maggiorenne in un’epoca in cui, quando si era cosí belli (e spesso anche quando non lo si era), si diceva, «Potresti fare del cinema!» o «Potresti fare l’attore!». Ed è questo che ci avevano sempre detto: era un principe, sembrava un divo. I soggetti ritratti in questa fotografia sono chiaramente in posa e, malgrado abbia novant’anni, la qualità dell’immagine è piú raffinata di tutte le altre in nostro possesso; è evidente che venne scattata in uno studio fotografico –forse proprio in quello della famiglia della ragazza che avrebbe sposato, dopo la guerra e la caduta dell’impero per il quale aveva combattuto, il cui sovrano, Francesco Giuseppe, godeva fama di benevolenza verso i giudei e per questo gli venivano dati con immensa riconoscenza dagli ebrei, che affiancavano ai loro nomi ufficiali quelli in yiddish, Jeanette e Neche, Julius e Yidl, Sam e Shmiel, nomignoli in yiddish simili al suo: untzere Franzele, «il nostro piccolo Franz», o Yossele, «Joey».
In questa fotografia Shmiel è seduto rigidamente su una sedia, con indosso l’uniforme dell’esercito austroungarico, ma l’artificiosità della scena e della posa sono ampiamente riscattate dalla sua presenza. Con sguardo sognante, come se si fosse distratto durante i lunghi e tediosi preparativi per scattare la foto, fissa un punto lontano verso sinistra, mentre in piedi alla sua destra c’è il commilitone. Costui, molto piú maturo, ha tratti piú ordinari, è impassibile ma di aspetto non sgradevole, e porta i baffi (Shmiel non li aveva ancora).Quando, tanto tempo fa, vidi per la prima volta la fotografia, sapevo che questo soldato doveva aver avuto una vita, una famiglia, una storia, e tuttavia mi sembrava, come del resto adesso, che vi comparisse quasi per un motivo estetico, un po’ come se oggi un fotografo pubblicitario scattasse una foto a un diamante posto su un pezzo di carbone per reclamizzare una gioielleria:insomma, avevo l’impressione che fosse lí per mettere in risalto la bellezza di Shmiel, per confermarne la leggendaria avvenenza. Eppure la figura di quest’uomo,pur non particolarmente attraente, senza dubbio piú anziano del mio prozio, esprime un certo garbo affettuoso: il braccio robusto è amichevolmente poggiato sulla spalla destra del compagno piú giovane.
Per anni di questa fotografia conservai una fotocopia fatta quando andavo alle superiori: mia madre aveva preso l’originale dal prezioso album di suo padre,insieme ad altre foto simili, e la custodiva in una busta di plastica sigillata dentro una scatola di cartone conservata in un armadietto chiuso nello scantinato. Sulla scatola aveva scritto con un pennarello:
ALBUM DI FAMIGLIA:
Jaeger
Jäger
Cushman
Stanger
Cushman era il cognome da ragazza della mia nonna materna; Stanger quello della madre di mio padre,Kay, e delle sue sorelle Sarah, quella con le lunghe unghie laccate di rosso, e Pauly, l’autrice di tante lettere.
La fotografia originale che ritraeva Shmiel al tempo di guerra era racchiusa in una di queste scatole, e io ne possedevo solo la fotocopia. Conservai questa riproduzione in un album di vecchie fotografie che costituí il nucleo originario di quel che in seguito divenne un voluminoso archivio di famiglia. Per questo ebbi a lungo a disposizione solamente l’immagine di due uomini e non la scritta sul retro, che comunque in qualche momento devo aver letto, per le seguenti ragioni:
Che io ricordi, l’unica volta che mi fu permesso di toccare l’originale fu in occasione di un compito di storia riguardante i conflitti armati europei, alle superiori. Non ricordo se stavamo studiando la prima o la seconda guerra mondiale, ma in entrambi i casi era utile portare quella fotografia in classe. So per certo che la solenne fotografia del mio giovane prozio con l’uniforme austro-ungarica della prima guerra mondiale che portai a scuola era l’originale, perché per lungo tempo ricordai quel che mio nonno aveva scritto sul retro, con un pennarello rosso e la sua grafia in corsivo piena di ghirigori. Rammento chiaramente la reazione della mia insegnante di storia delle superiori, quando quel giorno di trent’anni fa mi presentai con l’originale in classe: si portò le mani sul bel viso cordiale ed esclamò: «Oh, no!». Ecco cosa aveva scritto mio nonno (o, per lo meno, ciò che ricordai a lungo):
Zio Shmiel, nell’esercito austro-ungarico, ucciso dai nazisti.
Questo è quanto rammento, e non per via della reazione sconvolta della signora Munisteri, ma perché sapevo bene qual era stato il destino di quel bellissimo giovane ritratto nella fotografia, ed ero ormai avvezzo alla frase ucciso dai nazisti. Fu questo che mi si fissò in mente, anche dopo che mia madre la ripose in gran fretta nella scatola con i documenti di famiglia da cui era stata temporaneamente sottratta con la valida motivazione di ottenere un bel voto in un compito di storia.
Cosí per lungo tempo, avendo a disposizione solo la fotocopia dell’immagine, non potei far altro che studiare il volto di Shmiel, e probabilmente piú lo osservavo
– anzi ne sono sicuro – piú mi convincevo quanto fosse facile svanire nel nulla ed essere relegato per sempre nell’oblio. Dopo tutto c’era Shmiel, con quel sembiante,con un nome che qualcuno, seppur di rado, ancora pronunciava, con una storia ben precisa e una famiglia di cui conoscevamo, o credevamo di conoscere, i nomi dei componenti; eppure accanto a lui figurava quell’altro giovane di cui non si sarebbe mai saputo nulla, come se, riflettevo nell’osservare la foto, non fosse mai nato.
E poi, a distanza di molti anni da quando, ancorabambino, ero oggetto di coccole e pizzicotti sulle guance nei soggiorni di quei parenti di Miami, da lungo tempo defunti; da quando fotocopiai quella fotografia,desideroso unicamente di svolgere i compiti assegnatimi; da quando avvertii per la prima volta il desiderio discoprire quante piú cose possibili su Shmiel, con il quale condividevo una certa curvatura delle sopracciglia e la linea della mandibola, per cui al solo vedermi alcune persone scoppiavano a piangere, desiderio che, decenni dopo, mi avrebbe fatto viaggiare per un anno intero
– io, scrittore, in compagnia di mio fratello minore, fotografo, l’uno con frasi da scrivere ed epigrafi da decifrare, l’altro, involontariamente travolto dalle vicende di famiglia, con le sue fotografie da scattare e da stampare, due fratelli, lo scrittore e il fotografo, in viaggioper l’Australia, a Praga, Vienna, Tel Aviv, Kfar Saba, Beer Sheva, Vilnius, Riga, e poi di nuovo Tel Aviv, Kfar Saba, Beer Sheva, Haifa, Gerusalemme, Stoccolma e, infine, quei due giorni a Copenaghen insieme a colui che un tempo si era spinto ancor piú lontano, con un segreto in serbo per noi; un anno intero, estate e autunno e inverno e una primavera che si confondeva con l’autunno, il tempo stesso che sembrava fuor di sesto mentre il passato risorgeva dalle sue ceneri, dal fango, da vecchi giornali e polvere e whisky e sali alla violetta eri affiorava ancora una volta come una scritta sbiadita e quasi illeggibile sul retro di una vecchia fotografia, venuta a competere con il presente fino a confonderlo; un anno trascorso a seguire le tracce di persone vissute in un tempo ben piú lontano dell’epoca di Miami Beach,quando vecchi ebrei mi affibbiavano pizzicotti sulle guance e mi regalavano matite, ai cui occhi Shmiel era l’imponente, il grande, solenne e comunque remoto genitore delle loro compagne di classe, quelle quattro ragazze, tutte scomparse; dopo aver sorvolato l’Atlantico e il Pacifico per parlare con loro e racimolare anche la minima informazione rimasta, il piú tenue indizio che potessero fornirmi – dunque, a distanza di molti anni,quando ero ormai pronto a fermarmi e scrivere questo libro, il resoconto di tutti quei viaggi, una volta convinta mia madre a lasciarmi vedere l’originale di quella fotografia, il retro, certo, ma anche la stessa foto, solo allora fui finalmente in grado di leggere nella sua completezza la didascalia, le parole che mio nonno aveva scritto sul retro, per comunicarmi qualcosa che,adesso me ne rendo conto, come molto altro che aveva sottolineato per me, reputava fondamentale trasmettermi affinché ne facessi motivo di riflessione (ma come potevo capirlo allora, quando l’unica cosa che mi interessava era una fotografia da portare in classe per un’interrogazione? In fondo, vediamo solo quel che vogliamo vedere, e il resto svanisce). Ecco, adesso posso dirvi cosa recitava quella scritta in maiuscolo, vergata con inchiostro blu: HERMAN EHRLICH E SAMUEL JAEGER NELL’ESERCITO AUSTRIACO, 1916. E con il pennarello rosso aveva aggiunto la frase che ricordo da sempre: UCCISO DAI NAZISTI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE.
Ehrlich? Il giorno che recuperammo le scatole chiesi a mia madre, sconcertato da un nome mai sentito prima, malgrado tutte le ricerche.
«Be’» rispose con una certa impazienza, «è il marito di Ethel, erano cugini di mio padre. La sorella era quella Yetta Katz, grande, grossa e carina, una cuoca straordinaria».
Ero ancora perplesso. Voltai la fotografia ed esaminai di nuovo le due figure, una cosí familiare, l’altra cosí disperatamente ignota. Poi, venendomi in aiuto, mia madre aggiunse un dettaglio.
«Oh, Daniel» esclamò, «lo hai conosciuto! Herman Ehrlich. Herman il barbiere!».
Di notte, quando ripenso a tutto questo, sono contento di quel che so, ma principalmente rifletto su quelche avrei potuto ancora scoprire e che ora non è piú possibile ricostruire, un patrimonio di ricordi ormai svaniti per sempre. Ecco l’insegnamento che ne ho ricavato: ci sono tante cose che non comprendiamo, indaffarati come siamo a vivere, cosí numerose che non vi facciamo caso, fin quando all’improvviso, per qualche ragione – ci si accorge di somigliare a una persona morta da tempo; d’un tratto si avverte quanto sia importante che i nostri figli conoscano le proprie origini –non si ha bisogno di quell’informazione che in passato,se solo si fosse chiesto, qualcuno avrebbe potuto fornire. Ma quando ci si decide a farlo, è troppo tardi.
Sul resto della famiglia ovviamente da tempo sapevo tutto quel che c’era da sapere; a lungo ho creduto fosse cosí anche per i sei membri scomparsi nell’Olocausto. Perché nella mia mente la parola scomparso si riferiva non solo al fatto che erano stati uccisi, ma alla loro relazione con la storia e la memoria: remota oltre ogni speranza, irrecuperabile. Nell’attimo in cui mia madre disse «Herman il barbiere» mi resi conto che mi sbagliavo: le tracce di quelle sei persone esistevano ancora, da qualche parte.
Quindi fu per una sorta di senso di colpa, oltre che per curiosità, per il desiderio di conoscere cosa era realmente accaduto loro, per quanto ancora si poteva appurare, che infine mi decisi a tornare indietro. Mettere da parte il computer, l’assertività dei libri e dei documenti, con le loro descrizioni degli eventi cosí stringate da non dare mai l’impressione che fossero effettivamente occorsi a persone in carne e ossa (per esempio, il documento che registrava il seguente fatto: «Durante la marcia verso la stazione di Bolechów, in attesa di essere trasportati a Belzec, erano costretti a cantare, soprattutto la canzone “Mia piccola città di Belz”»); rinunciare alla comodità di consultare atti ufficiali e alla praticità di internet, mettersi in viaggio e compiere ogni sforzo necessario, per quanto scarsi potessero essere i risultati,per scoprire chi e cosa fosse ancora rimasto; invece di leggere libri e apprendere i fatti in quel modo, avrei parlato con tutti loro, come un tempo facevo con mio nonno. E cosí avrei accertato, persino cosí tardi, se fosse ancora possibile scovare altri indizi, fatti e dettagli importanti quanto quelli che mi ero lasciato sfuggire perché, quando coloro che li conoscevano erano ancora in vita, non ero abbastanza maturo per rivolgere le mie domande, non avevo messo a fuoco l’oggetto della mia ricerca.
E cosí, ottantuno anni dopo che mio nonno aveva abbandonato l’operosa cittadina che sorgeva tra boschi di pino e di abete alle pendici dei monti Carpazi, e ventuno anni dopo la sua morte avvenuta in una piscina circondata da palme; trecentottantanove anni dopo che gli Jäger si stabilirono a Bolechow, e sessant’anni dopo che vi scomparvero, vi feci ritorno.
Questo era solo l’inizio.
TESTO DI UNA LETTERA DI ABRAHAM JAEGER, RECANTE LA DATA DEL 25 SETTEMBRE 1973, RINVENUTA DALL’AUTORE IN UN MUCCHIO DI VECCHIE CARTE IL 6 GIUGNO 2005:
Carissimi bambini, Elkana, Ruthie e nipoti,
È quasi Yom Tov e vi auguriamo un Felice e Prospero Anno Nuovo, vi prego di dare questa fotografia a Daniel per l’album di famiglia. La persona in piedi è Herman il barbiere,quella seduta è il mio caro fratello SHMIEL quand’erano soldati nell’esercito austriaco, la fotografia fu scattata nel 1916.
Me l’ha data Ethel.
Felice Anno Nuovo
Baci
Papà – il nonno
Saluti affettuosi da Ray