Il 12 agosto 2001 mia sorella, i miei fratelli e io smontammo dalla Wolkswagen Passat blu in cui eravamo pigiati e mettemmo piede sull’umido suolo di Bolechow. Era una domenica, e il tempo non era dei migliori. Dopo sei mesi di preparativi eravamo finalmente arrivati.
Anzi, come mi piace pensare, eravamo tornati.
Esattamente sessant’anni prima – il 1° agosto 1941 – quello che era stato il distretto asburgico della Galizia,regione sotto la cui giurisdizione ricadeva la città di Bolechow, passò sotto il controllo dei tedeschi che, avendo infranto il patto Molotov-Ribbentrop, due mesi prima avevano invaso la Polonia orientale e adesso erano decisi a risolvere una volta per tutte il problema ebraico. Di lí a breve – forse già verso la fine di agosto, certamente nel mese di settembre del 1941 – i piani dell’Aktion della prima area, ovverosia lo sterminio di massa degli ebrei, cominciarono a prendere forma. Tali azioni erano programmate per il mese di ottobre. Quella relativa a Bolechow ebbe luogo il 28 e il 29 ottobre del1941. Si calcola che costò la vita a un migliaio di ebrei.
Uno di loro mi interessa in modo particolare.
Il 16 gennaio 1939, un lunedí, Shmiel Jäger scrisse una lettera accorata ai parenti di New York. Ne seguirono altre, ma fu proprio il suo contenuto che, mi sarei reso conto in seguito, ci indusse a «tornare» a Bolechow. Circostanza ancor piú importante, esiste un collegamento tra le due date: il viaggio che realizzammo nell’agosto del 2001 e gli accadimenti dell’agosto del1941.
Quando ripenso alla domenica in cui finalmente giungemmo a Bolechow, momento culminante di un viaggio che aveva richiesto mesi di preparativi, diverse migliaia di dollari e un accurato coordinamento tra gente vivente in due continenti diversi, un viaggio durato appena sei giorni, dei quali solo in uno, a dire il vero, seguimmo il programma prestabilito, cioè parlare con persone che vivevano in quel luogo fatidico, a Bolechow, l’agognata città di tanti racconti, su cui avevo scritto per quasi trent’anni, l’unico posto (cosí pensavo) dove avrei potuto scoprire cosa era accaduto a tutti loro – quando ripenso a tutto questo provo vergogna per la superficialità, l’ingenuità, l’impreparazione che caratterizzò quell’avventura.
In effetti vi eravamo giunti senza avere la minima nozione di quel che avremmo trovato. Mesi prima, a gennaio, quando cominciò a profilarsi l’idea del viaggio, avevo contattato per email Alex Dunai a L’viv,chiedendogli di informarsi se a Bolechow vivesse qualcuno abbastanza anziano da aver conosciuto la mia famiglia. Alex mi rispose che il sindaco della città, da lui interpellato, gli aveva dato assicurazioni in proposito. È una piccola cittadina, spiegò; se ci fossimo recati lí,non avremmo dovuto far altro che andarcene in giro e chiedere alla gente di indicarci chi poteva aver conosciuto Shmiel e la sua famiglia, e forse avremmo scoperto cosa era veramente accaduto. Poiché ero comunque deciso a partire – è stata sin dall’inizio la mia ossessione, volevo vedere Bolechow, quasi convinto che l’aria e il suolo di quel posto potessero svelarci chissà quale verità – non ebbi bisogno di sapere altro. Fu questa remotissima eventualità – che una domenica pomeriggio avremmo potuto imbatterci casualmente in un ucraino tanto vecchio da essere già adulto sessanta anni prima, circostanza già di per sé alquanto improbabile, e che per di piú aveva conosciuto i miei parenti – che mi spinse a rompere gli indugi e a convincere i miei fratelli (anche se a loro non rivelai quanto tenue fosse questa probabilità) a seguirmi laggiú.
E cosí, dietro questo viaggio, che mi pareva quanto mai evocativo, quasi un simbolo dell’unità della famiglia, si celava un inganno.
Tuttavia, seppure per caso, finimmo per scoprire cosa era successo a zio Shmiel e alla sua famiglia; e quindi forse è inutile continuare a provare sensi di colpa, come ancora mi capita, per aver persuaso i miei fratelli a intraprendere un viaggio che molto probabilmente si sarebbe rivelato un insuccesso, non fosse stato per il cugino di mia madre, Elkana, che viveva in Israele... Elkana, l’ultimo discendente maschio di uno Jäger nativo di Bolechow, che aveva abbandonato il cognome paterno per assumerne uno ebraico, suggellando cosí in un certo qual modo l’estinzione di un ramo della famiglia di mia madre e la cui presenza, comunque, nonostante ciò, assicurava la sopravvivenza in Israele di un elemento atavico, il patrimonio genetico della famiglia Jäger. Elkana, il leggendario, quasi mitico cugino che, come tutti noi sapevamo, in Israele era un famoso macher, un eroe della guerra d’Indipendenza, un ex combattente che aveva fatto saltare ponti e che, quelle rare volte in cui era venuto a trovarci a Long Island, atterrava in elicottero sul tetto di casa nostra con tanto di scorta della polizia, con nostro grande giubilo e per l’invidia dei bambini del quartiere. Elkana, che aveva conservato un forte senso della famiglia e amava parlarne con le persone, sicuro che ascoltassero le sue storie con interesse, e che pertanto comunicò la notizia del nostro viaggio a Bolechow a un conoscente, il quale a sua volta ne parlò con altri, che lo raccontarono ad altri ancora... Non è il solo DNA a condizionare le vicende di una famiglia. Sono quindi consapevole che le vicissitudini di Shmiel non sarebbero mai state narrate, né sarebbe mai valsa la pena di raccontarle, se quello stesso ingenuo desiderio di migliorare non lo avesse spinto a rimanere in Polonia, insistendo a essere un pesce grosso in uno stagno piccolo, come una volta si espresse mio nonno, e a ostinarsi a rimanere lí, forse anche con un certo risentimento, dopo che i tre fratelli erano andati via.
O per lo meno io, che di questo tipo di tensioni ne so qualcosa, credo che tali fossero i sentimenti che lo animavano.
Nell’agosto del 1941 il destino degli ebrei di Bolechowpassò ufficialmente nelle mani dei tedeschi.
Nell’agosto e nel settembre di quell’anno la maggior parte dei giudei di quella città, inclusi il mio prozio, la moglie e le quattro figlie, molto probabilmente non avevano un quadro chiaro di quel che li aspettava. Di certo circolavano voci su uccisioni di massa a occidente, ma in pochi vi davano credito – un modo per difendersi, come spesso accade, dall’atroce verità. È importante sottolineare che in quel principio di autunno molti ebrei di Bolechow erano già provati dalle severe privazioni patite in due anni di dura occupazione sovietica; chi ha avuto la fortuna di beneficiare del senno di poi difficilmente ricorda che, in seguito alla fuga dei bolscevichi di fronte all’avanzata tedesca, molti ebrei speravano in qualche modo di adattarsi alla nuova situazione, per quanto difficile fosse. E in realtà, benché drasticamente mutata sotto certi aspetti, nei primi mesi dell’occupazione nazista la vita quotidiana continuò in maniera quasi surreale a conservare le stesse caratteristiche del periodo prebellico. Per esempio, agli ebrei non era proibito frequentare la sinagoga il sabato. Un uomo con cui parlai sessantadue anni dopo l’invasione tedesca ricordò distintamente di aver assistito alle funzioni religiose di Yom Kippur nel 1942. «Sapevano che ci avrebbero uccisi tutti» mi disse. «A che pro darsi la pena di impedircelo?».
E cosí, nel settembre del 1941 gli ebrei piú devoti della città mantennero le tradizioni dei loro avi. Settembre volgeva al termine, e cosí l’anno ebraico. Nel 1941 Rosh Hashanah, il Capodanno, sarebbe caduto a metà di quel mese, e alcuni degli ebrei di Bolechow si prepararono alla ricorrenza. Fra le tradizioni che si tramandano per tale occasione vi è la ripresa del ciclo settimanale di lettura della Torah. La parashat del primo sabato del nuovo ciclo è, naturalmente, la parashat Bereishit, che si apre con la creazione dei cieli e della terra e termina con la decisione di Dio di sterminare l’umanità con il diluvio universale. In essa viene tracciata, per cosí dire, un’imponente e terribile parabola, dalla creazione ispirata al completo annientamento del mondo.
Nel 1941 la lettura della parashat Bereishit ebbe luogo sabato 18 ottobre. La settimana seguente, il 25 ottobre, si sarebbe dovuta leggere la parashat Noach, il racconto del diluvio e della salvezza di pochi eletti. Mi chiedo quanti ebrei di Bolechow si recarono alla shul, alla sinagoga, in quella circostanza, visto che tra sabato 25 ottobre e sabato 1° novembre si verificò il primo sterminio di massa, cui sopravvissero in pochissimi – la prima Aktion, che ebbe inizio martedí 28 e si protrasse fino al giorno seguente. È dunque possibile, forse anche probabile, che l’ultima parashah ascoltata da molti ebrei della città fosse la Noach, la narrazione dello sterminio sistematico voluto da Dio, uno dei tanti descritti nella Torah. Ma anche ammesso che numerosi giudei di Bolechow quel sabato 25 fossero rimasti a casa, per indifferenza o per paura,anche se l’ultima lettura della Torah svoltasi nella grande e antica shul sul Ringplatz, o in una delle tante shul piú piccole, o anche nelle case dedicate alla preghiera, fu la prima del nuovo anno, ebbero comunque motivo di riflessione. Perché la parashat Bereishit affronta sí temi di grande interesse generale – sicuramente la Creazione, ma anche l’espulsione di Adamo ed Eva e, in particolare, la bugia e l’inganno, dalle ammalianti menzogne del serpente agli intrighi egoistici all’interno della prima famiglia della Creazione – ma il suo nucleo è costituito dalla storia di Caino e Abele, il grande affresco biblico del fratricidio originario, che rappresenta il tentativo piú compiuto di spiegare l’origine delle tensioni e delle violenze non solo tra congiunti, ma tra i popoli della Terra.
Il noto racconto comprende i primi sedici versetti del quarto capitolo della Genesi: come Adamo conobbe Eva, che rimase incinta e partorí Caino, evento di cui si vantò: «Ho ricevuto un uomo per grazia del Signore!»; come poi diede alla luce il fratello minore, Abele. Come, stranamente, fu al fratello minore che venne assegnato il lavoro meno duro di badare alle greggi, mentre il maggiore era costretto a sgobbare coltivando la terra, e come i due fratelli presentassero le loro offerte a Dio, i frutti della terra e i primogeniti del gregge;come il Signore gradí l’offerta di Abele ma reputò scadente quella di Caino, il quale andò su tutte le furie, e «con la testa bassa». Come Dio rimproverò Caino, ammonendolo a non errare piú: «Perché sei tu sdegnato? E perché vai con la testa bassa? Se tu fai bene, forse non potrai tenere alta la testa?Mentre se fai male, il tuo peccato non ti sta forse alla porta per lanciarsi su di te? Le sue brame sono rivolte a te, ma tu puoi dominarlo»; e come invece Caino, non riuscendo a controllare il suo impulso peccaminoso, condusse il fratello in un campo e lo uccise. Come l’onnisciente Dio chiese a Caino dove fosse il fratello, domanda a cui l’uomo forní la celebre risposta, carica di scontrosa impudenza, ben nota ai genitori di bambini che hanno commesso delle marachelle: «Son forse io il custode di mio fratello?». E come Dio annunciò che la voce del sangue di Abele «grida dalla terra fino a me», maledicendo Caino e condannandolo a vagare «errabondo e fuggiasco sulla terra!». E infine l’angoscia di Caino, la cacciata dal Paradiso, il marchio impresso sulla sua fronte.
Malgrado l’arcaica crudezza, è una storia che chiunque abbia genitori, fratelli o sorelle – in pratica ognuno di noi – troverà inquietante e familiare. Una giovane coppia, la nascita del primo figlio; l’arrivo del secondo, con ciò che questo comporta, in termini di sentimenti piú complessi e ambigui;i germi di un’oscura rivalità; la riprovazione dei genitori, la vergogna, la menzogna, l’inganno. La violenza in un momento di – come definirlo?
La partenza, a un tempo fuga ed esilio.
Un lunedí di gennaio del 1939, Shmiel Jäger, all’epoca quarantatreenne uomo d’affari con moglie e quattro figlie, scrisse la prima di quelle lettere. È vero che quasi ogni aspetto del rapporto tra mio nonno e il fratello maggiore può essere solo oggetto di congetture, poiché Shmiel ormai da lunghi anni si è disgregato in un insieme di atomi dispersi nell’aria della cittadina di Belzec,mentre la materia che costituiva mio nonno, da tempo decomposta, è tornata alla terra in quella piccola porzione del cimitero di Mount Judah, nel Queens, riservata agli ebrei originari di Bolechow. Ma alcuni passi di questa lettera, degli episodi esplicitamente citati, non necessitano di ipotesi, e fanno trapelare l’esistenza di liti familiari, di problemi di vicinanza, distanza e «intimità», non da un punto di vista spaziale bensí afferente alla sfera emotiva.
La missiva si apre con la data, scritta cosí: 16/I 1939.
16 gennaio 1939. Quel sedici gennaio era un lunedí, circostanza verificabile in diversi modi, per esempio attraverso siti web che in un decimo di secondo forniscono anche al ricercatore meno esperto una messe di informazioni di ogni tipo, cronologiche, geografiche, topografiche e via discorrendo. Parecchi siti sono in grado di indicare in quale data di ogni anno del secolo scorsosi è svolta la lettura rituale di una certa parashah, o quella settimanale della Torah, oppure, in una frazione di secondo, quale haftarah, la selezione dai profeti, fu letta in un certo giorno.
Secondo alcuni la lettura settimanale di un estratto della haftarah in aggiunta ai brani della Torah è da ricondursi alla forma di sotterfugio elaborato dai rabbini quando nel secondo secolo a.C., durante un periodo di oppressione greca del popolo ebraico, i dominatori avevano proibito la lettura della Torah. In risposta a questo divieto, i rabbini del secondo Commonwealth ebraico sostituirono la lettura settimanale della parashot con altre tratte dai libri dei Profeti, non proibiti. I brani venivano attentamente scelti in modo che la parte di haftarah da leggere in determinate settimane avesse una stretta connessione tematica con la parashah di quella settimana (per esempio, un brano della Torah sui sacrifici indicato dal Sommo sacerdote per l’espiazione – una parashah sui rituali capri espiatori – poteva essere sostituito da uno dell’haftarah riguardante la purificazione e la conseguente redenzione del popolo d’Israele: la mia parashah, la mia haftarah). In tal modo,le letture settimanali del sabato, durante questo primo periodo di oppressione, diedero vita a un mondo narrativo parallelo, nel quale le letture scelte evocavano con forza quel che era proibito, divenuto d’un tratto indicibile.
Insomma, esistono parecchi modi per risalire, tramite internet, alle date esatte degli avvenimenti. Eppure,anche se potrà sembrare strano, il metodo da me impiegato per verificare alcune tipologie di informazioni si basa sulla memoria umana, ed è infallibile quanto gli sconfinati archivi di dati presenti in rete.
Un mio giovane amico ha la particolare capacità di indicare all’istante il giorno della settimana di qualunque data degli ultimi duemila anni. È una qualità utilissima a chi, come me, si interessa a storie ben piú antiche dell’era dei giornali o del calendario. Questa persona è in grado, per esempio, di dire che il 18 luglio 1290 – il giorno dell’editto di Edoardo I con il quale si disponeva che l’intera popolazione ebrea d’Inghilterra lasciasse il paese entro il primo novembre di quell’anno (un mercoledí), pena la morte – era un martedí (tale giorno coincideva, quell’anno, con il digiuno del nono giorno del mese ebraico di Ab, rituale che commemora una serie di calamità subite dal popolo ebraico, distruzione del Tempio inclusa); e malgrado il fatto che un gruppo di giudei in fuga venisse scelleratamente lasciato annegare dal comandante della nave che avevano preso anolo per fuggire («Implorate Mosè» li scherní prima di abbandonarli, «che aiutò i vostri avi ad attraversare il Mar Rosso» crudele inganno che il malvagio capitano pagò con la vita, perché fu impiccato per ordine del re, inorridito dal crimine commesso contro degli innocenti, uomini, donne e bambini), gli ebrei d’Inghilterra in effetti lasciarono la nazione, molti attraversando la Manica e trovando rifugio in Francia... In ogni modo, Nicky sarebbe anche in grado di precisare che il periodo di relativa tranquillità per quegli ebrei durò solo sino a un venerdí di sedici anni dopo, poiché il 22 luglio 1306, con un editto del sovrano Filippo il bello (le cui finanze languivano pericolosamente), tutti gli ebrei di Francia, che tra uomini, donne e bambini ammontavano forse a centomila individui, furono espulsi da quella nazione, le loro terre, case e beni mobili confiscati e venduti all’asta, e Filippo il bello, per nulla intimorito, a quanto pare, dalla condanna dell’usura contenuta nelle Scritture, assunse la titolarità dei crediti vantati nei confronti dei cristiani dagli strozzini ebrei, ormai non piú in grado di riscuoterli (sei secoli dopo, in Francia vi era ancora un radicato antisemitismo. Il 15 ottobre 1894 – un lunedí – un ufficiale dell’esercito francese, Alfred Dreyfus, di origine giudaica, venne arrestato con l’accusa, basata su false prove, di aver rivelato ai tedeschi dei segreti militari; il processo che ne seguí, per non parlare della scoperta dei tentativi di insabbiamento da parte delle alte sfere governative al fine di proteggere ufficiali antisemiti, fu uno dei piú clamorosi scandali della storia moderna francese ed europea che divise l’opinione pubblica. La micidiale conflittualità che scatenò è ben illustrata dalla celebre frase di sfida, il famoso J’accuse!, lanciata al presidente della Repubblica dal romanziere Émile Zola, comparsa sulla prima pagina di un giornale, L’Aurore, il 13 gennaio 1898, un giovedí. In effetti i quotidiani di tutta Europa si occuparono diffusamente del caso, particolare che vale la pena di menzionare, perché tra i giornalisti stranieri che seguirono la vicenda c’era un giovane austriaco, Theodor Herzl,futuro fondatore del movimento sionista moderno. In seguito egli affermò che fu proprio il caso Dreyfus, con il radicato razzismo verso gli ebrei venuto alla luce durante il processo, a far nascere in lui il convincimento che l’unica soluzione del problema dell’antisemitismo europeo fosse la creazione di una patria per il popolo ebraico – un luogo, cioè, da dove non potesse essere cacciato).
Comunque, tornando al quattordicesimo secolo,c’erano altri posti in cui rifugiarsi, ed è certo possibile che alcuni degli ebrei espulsi prima dall’Inghilterra e poi dalla Francia decidessero di attraversare i Pirenei edi stabilirsi in Spagna. È altrettanto possibile che qui prosperassero, anche se va aggiunto che tale tregua non durò a lungo, visto che esistono altre due date da ricordare a questo proposito, cioè il 30 marzo, un venerdí, e il 30 luglio, un lunedí, del 1492: la prima è quella dell’editto che decretava l’espulsione degli ebrei dalla Spagna emanato da Ferdinando e dalla sua sposa Isabella,sovrani ben noti agli studiosi americani in quanto finanziatori dei viaggi di Colombo, ma molto meno celebri, temo, per essere stati gli autori di tale documento ufficiale; la seconda è quella dell’entrata in vigore del provvedimento, con la condanna di circa duecentomila ebrei all’esilio – anche se, va precisato, decine di migliaia di loro vennero uccisi mentre cercavano di lasciare il paese da avidi comandanti di navi che li gettarono in mare dopo aver incassato enormi somme di denaro per trasportarli, o da famelici spagnoli che, dando credito alla voce secondo cui gli ebrei ingoiavano oro e preziosi, li trucidarono per le strade. Sappiamo tuttavia che molti riuscirono a scamparla, essendo stati invitati a stabilirsi nei suoi territori dall’astuto e tollerante sultano ottomano Bajazet, che intendeva rinvigorire il suo regno («Come si può definire Ferdinando d’Aragona un sovrano saggio, se egli ha impoverito il suo regno e arricchito il nostro?» pare abbia affermato). E infatti, molti di quelli che si insediarono in Turchia non se la passarono male. Non bisogna tuttavia dimenticare che quasi tutti i discendenti dei Sefarditi in fuga stabilitisi a Tessalonica, la grande città bizantina in seguito annessa all’impero ottomano, attualmente appartenente alla Grecia settentrionale – quasi tutti i sessantamila discendenti diretti di quei rifugiati ebrei, che vissero agli inizi degli anni Quaranta del Novecento – perirono, inevitabilmente, in seguito all’entrata dell’esercito tedesco in quella città, il9 aprile 1941, un mercoledí (la prima deportazione di circa duemilacinquecento persone, numero affatto modesto rispetto a quelli che seguiranno, partí dalla stazione di Salonicco la mattina del 14 marzo 1943, una domenica). E il mio amico può dirvi che il 29 ottobre di quello stesso anno fatale, il 1941, giorno in cui, come apprendemmo a Bolechow, fu ucciso uno Jäger che, forse anche per lo stesso desiderio di Shmiel di essere un pesce grosso in un piccolo stagno, viveva ancora a Bolechow dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale,era un mercoledí.
Insomma, è straordinario come certi ricordi siano fallaci, mentre altri sembrino perfetti come macchine.
Fu un lunedí che Shmiel scrisse questa lettera.
Bolechow, 16 gennaio 1939
Caro Joe, cara Mina e cari bambini, Ti starai chiedendo, caro cugino, la ragione per cui ti scrivo dopo tutti questi anni; avrei continuato a farlo, se solo tu avessi voluto... Mi auguro che tu e i tuoi cari siate tutti in buona salute; come vanno gli affari? Non ho notizie, spero che la risposta sia «bene» – i miei fratelli non se la passano granché e, quel che è peggio, stanno tutti male; in ogni modo è inutile che ti dica ciò che sai meglio di me.
Poiché viviamo in tempi che si possono solo definire strani,se non incredibili – mi riferisco ai problemi che stanno avendo gli ebrei – a maggior ragione mi auguro che tu possa aiutarmi, fosse anche solo con una lettera di risposta, se non concretamente...
Naturalmente, ti prego di prendere in considerazione questa supplica solo nel caso tu possa davvero fare qualcosa; devi sapere che di recente mi è accaduto un incidente – anzi, un disastro: ho perso un autocarro in un incendio, quello per cui avevo un permesso; devo assolutamente prenderne un altro, ma non sono nelle condizioni economiche per racimolare la somma necessaria, e non posso rivolgermi ai miei fratelli; visto che non sono in grado di aiutarmi è inutile che li faccia preoccupare.
Da una parte non sono nemmeno certo, mio caro cugino,che tu risponderai a questa mia lettera, ma lo spero tanto. Per questo ti supplico: aiutami a uscire da questa situazione, se ti è possibile. E se puoi contatta mio cognato Schneelicht, vedi se anche lui può darmi una mano.
Ti faccio notare che, nel caso non riesca a comprare un altro autocarro entro il primo marzo di quest’anno, mi verrà ritirata la licenza commerciale, e inoltre sono l’unico socio ebreo dell’associazione commercianti della nostra comunità ad avere la licenza per un autocarro.
Non voglio scriverti una lettera melensa, parlandoti della licenza che ho perso, della mia bellissima famiglia e delle mie meravigliose e beneducate figlie, non mi dilungherò in chiacchiere, il mio unico desiderio è continuare a lavorare e non essere di peso a nessuno.
Pertanto, ben sapendo che un uomo d’affari americano non ha troppo tempo da dedicare alla lettura, mi fermo qui, sperando che tu e la tua cara moglie abbiate compreso la situazione in cui verso, in fiduciosa attesa di un vostro riscontro, miei amati – a chi dovrei rivolgermi in caso di bisogno se non ai miei cari? Ti abbraccio e mando un bacio a te, alla cara Mina e agli adorati bambini.
Un abbraccio, baci affettuosi da mia moglie e dalle mie bambine,
Tuo cugino
Sam
Sin dalla frase di apertura appare evidente che non dev’essere stato facile redigere questa lettera. E questo non perché Shmiel avesse difficoltà a scrivere: dopotutto, parlava fluentemente quattro lingue e ne conosceva a sufficienza altre due, e dalle sue missive non si evince alcuna ostentazione in proposito, nonostante avesse dei motivi di vanto, per esempio la bella casa che possedeva, la moglie, le quattro avvenenti figlie,l’alto rango che ricopriva nella cittadina dove i suoi antenati vivevano da quattrocento anni, i floridi affari. Aveva scelto di scrivere in tedesco, e le frasi fluiscono speditamente dalla sua penna. Non era la sua linguamadre, né lo era per il destinatario, ma come sappiamo era la lingua franca usata dalla famiglia per scrivere. Il problema era che lui conosceva appena l’uomo a cui si rivolgeva per chiedergli un prestito consistente.
Già solo questo indica, in maniera alquanto commovente, quanto Shmiel, malgrado fosse solo l’inizio di un anno che si sarebbe rivelato tremendo, fosse preoccupato per i suoi affari, la fiorente attività di commercio di carni che aveva orgogliosamente impiantato a partire dalla macelleria di famiglia, gestita con oculatezza da generazioni di Jäger le quali, come oggi è possibile riscontrare dall’attento esame di numerosi documenti delle comunità ebraiche di Bolechow, sorprendentemente conservatisi, vedevano accrescere il volume dei propri affari (finalità che i certificati di matrimonio e di morte naturalmente non possono testimoniare) attraverso matrimoni strategici con famiglie di commercianti nello stesso o in altri rami...
Per esempio:
In un certificato anagrafico relativo allo zio di mio nonno Ire Jäger, nato a Bolechow nella casa numero 141il 22 agosto 1847, documento noto come certificato di nascita numero 446 dell’anno 1847 della città di Bolechow, nello spazio delle annotazioni compare la seguente frase in tedesco, con una grafia elegante, piena di arzigogoli: «Der Zuname der unehel: [ichen] Kindes Mutter is Kornblüh[Kornbuch?]»: «Il cognome della madre illegittima del bambino è Kornblüh [Kornbuch?]». Ciò che attrasse la mia attenzione quando esaminai per la prima volta questo documento – tra le centinaia di quelli che Alex Dunai aveva dissepolto per me dall’oblio in cui giacevano in Ucraina – non fu, come si potrebbe pensare, l’aggettivo unehelich, «illegittimo» – la prole di tutti gli ebrei era considerata tale dalle autorità, poiché i matrimoni non erano stati celebrati in chiese cattoliche e i giudei, il piú delle volte, non si preoccupavano di pagare l’esorbitante somma necessaria a registrare come legittimi i propri figli – ma il nome Kornblüh, che mi parve subito familiare, perché ricordavo vagamente che mio nonno ne aveva parlato in qualche occasione. Ma quando vidi riaffiorare sul documento quel nome dimenticato, mi resi conto che in uno dei suoi racconti doveva avermi detto che si trattava del cognome da nubile di sua nonna. Cosí entrai nel sitowww.jewishgen.org e consultai il database del «Registro degli affari della Galizia» risalente al 1891, ovvero la trascrizione di un polveroso tomo, d’incredibilmente scarso interesse per la stragrande maggioranza delle persone nel mondo, intitolato Kaufmannisches Adressbuch für Industrie, Handel und Gewerbe, XIV: Galicia, la cui prima edizione venne pubblicata a Vienna dalla casa editrice L. Bergmann & Comp. nel 1925, conservato in fotocopia alla British Library: in pratica si tratta di una versione a stampa dell’elenco di titolari di aziende della Galizia, la provincia dell’impero austro-ungarico di cui all’epoca Bolechow faceva parte. Avevo già fatto ricorso a questo database, quindi sapevo che vi comparivano degli Jäger
– con nomi come Alter, Ichel e Jacob – anche se per ragioni non piú appurabili non vi compare il mio bisnonno Elkune Jäger, malgrado sia menzionato nel certificato di nascita del suo primo figlio, avuto nel 1890 dalla prima moglie, come Fleischer, macellaio (prima moglie, primo figlio: solo di recente e in maniera del tutto fortuita ho scoperto, durante una ricerca su documenti resi da poco disponibili on line, che la mia bisnonna Taube era la seconda moglie di Elkune; la prima era deceduta agli inizi degli anni Novanta dell’Ottocento, con le loro due bambine in tenera età. Si chiamava Ester Silberszlag; iniziai a ricostruire su internet il suo albero genealogico, cercando qualche legame con i vari antenati della mia famiglia; impegnai molte ore, fin quando non mi resi conto che stavo sprecando tempo a fare ricerche su un ramo che, al pari di certi primi matrimoni documentati nella Torah – quello di Abramo o di Isacco – portava in un vicolo cieco).
Ebbi l’intuizione di provare con il nome KORNBLUH; il computer ronzò per qualche secondo, poi sciorinò i risultati della ricerca in cinque colonne – COGNOME; NOME; CITTÀ; PROFESSIONE; PROFESSIONE IN INGLESE – confermando le mie supposizioni:
KORNBLUH CH. BOLECHOW FLEISCHER, FLEISHHANDLER, MACELLAI, CARNE E CARNE AFFUMICATA
KORNBLUH JAC. MAJER BOLECHOW FLEISCHER, FLEISHHANDLER, MACELLAI, CARNE E CARNE AFFUMICATA
KORNBLUH SCHLOME BOLECHOW FLEISCHER, FLEISHHANDLER, MACELLAI, CARNE E CARNE AFFUMICATA
Insomma, mi pare chiaro che verosimilmente poco prima della sua morte, avvenuta il 7 maggio 1845, il mio bis-bis-bis nonno Abraham Jäger organizzò un vantaggioso matrimonio tra il figlio Isak, all’incirca ventenne, e Neche Kornblüh, rampolla di una famiglia di commercianti specializzati nella lavorazione della carne bovina, animali che pascevano nei verdi e ondulati pascoli che circondavano quel borgo idilliaco. Ho inoltre il sospetto – forse mal interpretando la voce stringata benché suggestiva contenuta nel quattordicesimo volume («Galizia») del Kaufmannisches Adressbuch für Industrie, Handel und Gewerbe, che furono i miei antenati del ramo Jäger a trarre maggior profitto da quel matrimonio combinato, visto che, dopo tutto, questi Kornblüh parevano inseriti anche in molti altri settori commerciali.
Ma allora, a giudicare da queste preziose ancorché oscure fonti, alla metà del diciannovesimo secolo a Bolechow doveva fiorire una prospera comunità mercantile! Sebbene avessi concentrato la mia ricerca sugli Jägere i Kornblüh – con risultati soddisfacenti, visto che rispondevano in modo adeguato agli interrogativi suscitati dal certificato di nascita del mio pro-prozio Ire, che aveva destato la mia curiosità – decisi di digitare semplicemente il nome della città nel campo relativo all’elenco dei commercianti del 1891; venne fuori la lista di tutti i mercanti di Bolechow che sul finire dell’Ottocento, in qualche remota circostanza, si erano premurati di iscriversi in quella lista. Scorrendo nomi e attività lavorative, dalle piú comuni a quelle irrimediabilmente scomparse, cercai di immaginare quei concittadini dei miei antenati Jäger da lungo tempo defunti. JACOB ELLENBOGEN, AGENTE COMMERCIALE, mi dava l’idea di passarsela bene: me lo figuravo con un viso largo, dalle sembianze slave, gli occhi piccoli e lo sguardo penetrante, carico di suscettibile umorismo, vestito elegantemente con abiti che si faceva arrivare da Lemberg o persino da Vienna, sempre impaziente di concludere l’ennesimo affare. La voce dedicata a ABRAHAM GROSSBARD, FORNAIO, mi restituiva un profumo di pane fresco ed evocava in me l’immagine di un uomo di grande bontà e pazienza;una di quelle persone che sanno aspettare, lasciar lievitare le cose. BERL REINHARZ, Getreide- und Produktenhandler, produttore e commerciante di grano, residente a Skole, piccola località termale nei pressi di Bolechow, sicuramente arrivava in città ogni lunedí, giorno in cui si teneva il mercato, come scoprii in seguito: mi figuravo un tipo slanciato, gradevole d’aspetto, tranquillo e industrioso. L’altrimenti anonimo GOLDSCHMIDT, pescivendolo, era sicuramente grande e grosso, e non privo di un certo senso dell’umorismo (la vita è maleodorante, ma qual è l'alternativa?). GEDELJE GRÜNSCHLAG, d’altra parte, era un uomo completamente dedito agli affari,con la sua florida attività di Baumaterialienhandlerei, una ditta costruttrice, unita alla Holzhandlerei, il commercio di legnami – l’opposto, per certi versi, di EFRAIM FREILICH, un Hadern-und- Knocheshandler, vale a dire un rigattiere ambulante. Naturalmente non sapevo nulla delpovero Efraim, ma non potevo fare a meno di pensare,col rischio di sbagliarmi di grosso, che il suo nebuchl, la penosa professione che esercitava, avesse indurito il suo animo; probabilmente aveva tentato in ogni modo di migliorare la propria condizione, di abbandonare il commercio di chincaglierie...
Ma queste, ovviamente, non erano che fantasie, piccoli piaceri in cui indulgevo. Era molto piú probabile l’altra ipotesi suggeritami da quell’elenco, che cioè l’attività di famiglia ereditata da Shmiel, la macelleria ampliatasi grazie al commercio di carni all’ingrosso, che a un certo punto aveva richiesto l’acquisto di alcuni autocarri che in seguito gli procurarono non pochi grattacapi – tale impresa era stata gestita dai suoi antenati(quindi anche dai miei) con scelte molto oculate...
Quindi è l’attività commerciale della famiglia a preoccupare Shmiel Jäger nel gennaio 1939, e a ragione. Cosa ne era stato di quell’autocarro, dal quale dipendeva il suo commercio di carni? Ormai non è piú possibile appurarlo anche se, ovviamente, la fantasia ci indurrebbe a dare una risposta drammatica. In questo caso la storia ci viene in aiuto. Sappiamo che nel gennaio del 1939 il governo polacco allora in carica perseguiva una politica antisemita e aveva adottato aspre misure restrittive in merito alle attività commerciali degli ebrei, per quanto non paragonabili a quelle messe in atto dalla Germania.In realtà, dopo il 1935, alla morte dell’autocratico ma (relativamente) moderato leader Josef Piłsudski, il governo polacco assunse una posizione decisamente reazionaria;ammiratori di Hitler, il quale di lí a poco avrebbe distrutto totalmente la Polonia, i capi della fazione conservatrice del paese non fecero mistero di voler ridurre in modo drastico quella che era avvertita come l’influenza degli ebrei sulla traballante economia – e questo proprio mentre l’élite politica polacca, con il suo elevato senso di civiltà, denunciava le violenze in atto contro gli ebrei.«L’alta idea che abbiamo della nostra civiltà» recita un proclama governativo del 1937, «e l’assoluto rispetto dell’ordine e della pace di cui ogni stato necessita, ci portano alla condanna dei violenti atti antisemiti... Nello stesso tempo, è comprensibile che il paese manifesti l’intenzione di difendere la propria cultura ed è naturale chela società polacca persegua l’autonomia economica».Questa forma piú attenuata e mitigata di antisemitismo è ben sintetizzata dall’incitazione del primo ministro Sławoj-Składkowski alla «lotta economica» contro gliebrei «con ogni mezzo – ma senza l’uso della forza».
Comunque, la legislazione contro gli ebrei in seguito adottata ebbe effetti devastanti su uomini d’affari come Shmiel Jäger. Tra il 1935 e il 1939 il governo polacco dichiarò guerra alle attività commerciali delle comunità ebraiche, incoraggiando i cittadini a boicottarle: gli imprenditori cristiani furono diffidati dallo stringere affari con gli ebrei; i cristiani vennero dissuasi dall’affittare immobili ai giudei; agitatori antisemiti fecero la loro apparizione nelle città polacche durante i giorni di mercato,ammonendo i gentili a non vendere nulla ai discendenti di Abramo. Nelle fiere i chioschi dei commercianti di origine semitica venivano spesso distrutti, e nelle piccole città i negozianti ebrei erano non di rado oggetto di atti terroristici da parte di teppisti spalleggiati dal governo. Questo attacco astuto e preordinato mirava non tanto a indebolire le attività economiche dei giudei, quanto a intaccare l’intera vita culturale delle comunità ebraiche (anche se gli effetti prodotti in particolare su imprese commerciali come quella gestita da Shmiel sono facilmente immaginabili). Per esempio, il governo polacco proibí lo shkite, la macellazione rituale ebraica. Già fortemente provata dalla grande depressione – nel 1934 un terzo degli abitanti ebrei della Galizia avevano fatto domanda di sussidi economici di qualche tipo – la sicurezza economica degli ebrei polacchi fu distrutta dal boicottaggio. È alla luce di questo momento storico che le lettere di Shmiel vanno lette, traboccanti come sono di dolorosi accenni a «problemi» – anche se naturalmente i guai seri, nel 1939, erano ben là da venire. E comunque,anche se la calamità subita da Shmiel, il problema con gli autocarri, fosse stata accidentale e non connessa agli eventi contingenti, taluni accenni contenuti nella lettera – «i problemi che stanno avendo gli ebrei», «mi verrà ritirata la licenza», «sono l’unico ebreo ad avere la licenza» – suggeriscono che, per quanto floride fossero state le sue precedenti condizioni, benché avesse raggiunto, almeno per un periodo, l’obiettivo di essere un pesce grosso in uno stagno piccolo, Shmiel, come quasi tutti gli ebrei in quel piccolo stagno, versava ormai in tremende difficoltà.
E cosí quel giorno di gennaio scrisse una lettera.
Ti starai chiedendo, caro cugino, la ragione per cui ti scrivo dopo tutti questi anni; avrei continuato a farlo, se solo tu avessi voluto... Mi auguro che tu e i tuoi cari siate tutti in buona salute; come vanno gli affari? Non ho notizie, spero che la risposta sia «bene»...
La ragione per la quale questa lettera mi fa pensare di nuovo alla vicinanza e alla lontananza è che, sebbene sia indirizzata a un parente stretto – al cugino di primo grado Joe Mittelmark, figlio del fratello maggiore della madre – si avverte subito un tono alquanto formale, indice di un certo imbarazzo. Si noti la strana sequenza: il saluto apparentemente caloroso con la ripetizione per ben tre volte dell’epiteto «caro» (che troviamo di nuovo nella prima riga della lettera vera e propria), seguito da una frase spiccatamente difensiva(«avrei continuato a farlo, se solo tu avessi voluto») che denota una sorta di forzato distacco. In parte questa freddezza, questo tono imbarazzato, senza dubbio sono dovuti al fatto che Shmiel è costretto a chiedere dei soldi, cosa di per sé mai piacevole. Ma io sono a conoscenza anche di altre ragioni che spiegano il disagio, il distacco, il formalismo percepibili nella lettera. «Hai i capelli dei Mittelmark» sibilava alle volte mia madre quand’ero bambino, in tal modo espropriandomi della mia identità, dei tratti caratteristici della sua famiglia, degli Jägere degli Jaeger, quell’istrionica e grandiosa famiglia ebrea austro-ungarica che attribuiva estrema importanza all’aspetto e alle somiglianze (i loro bei volti dalla fronte alta, gli occhi insolitamente azzurri dalle orbite altrettanto insolitamente profonde, altro non erano che manifestazioni fisiche di intelligenza, talento artistico,cultura e raffinatezza, qualità che a loro giudizio connotavano quella famiglia, riassunte nella parola tedesca Feinheit, «raffinatezza», spesso usata dai suoi componenti e negata a coloro che per qualche ragione disapprovavano). «Non sopporto quando sei cosí sgarbato» mi sgridava, guardandomi di sfuggita i capelli crespi. «È il Mittelmark che è in te».
In realtà so bene perché Shmiel si sentiva cosí a disagio quel lunedí di gennaio, mentre scriveva una lettera a questo Joe. Costui, il «caro cugino» al quale indirizza la sua umile supplica, era un Mittelmark; e già allora, nel gennaio del 1939, il contrasto tra gli Jäger e i Mittelmark andava avanti da una generazione.
Questa storia di dissidi familiari somiglia, a prima vista, a una faida tra cugini. In fondo, mio nonno e i suoi fratelli avevano un debito di riconoscenza piuttosto imbarazzante verso l’agiato zio Mittelmark, che aveva dato loro il denaro per il viaggio in America; va inoltre aggiunta l’orribile circostanza che tale debito era stato pagato in carne umana (cosí la vedeva mio nonno), con quella cioè di due delle sue tre sorelle Jäger: la maggiore, Ray, Ruchele, fidanzata con Sam Mittelmark, quel figlio dello zio tutt’altro che attraente, suo cugino di primo grado e, morta la ragazza, una settimana prima delle nozze, la minore, Jeanette, Neche, che sposò quello stesso cugino quando fu in età da marito. Per tutta la vita mio nonno biasimò suo cugino per aver costretto a una vita infelice quelle due ragazze prematuramente scomparse,una a ventisei anni, l’altra a trentacinque; ed è facile immaginare che questo rancore fosse condiviso, in qualche misura, dagli altri fratelli, persino dal lontano Shmiel.
Insomma, sembra una faida tra cugini. Ma se si legge attentamente tra le righe – cosa naturale se si è cresciuti in un certo tipo di famiglia, con cinque fratelli –si capisce che tutto deve aver avuto inizio da una vicenda di velenosi risentimenti tra fratelli e sorelle. Quando ero bambino, mio nonno mi narrava l’avvincente e tragica storia delle nozze combinate delle sue due sorelle con il cugino, soffermandosi soprattutto sull’angoscia procurata da quei matrimoni a sua madre che, trentasettenne, si era ritrovata improvvisamente vedova consette figli da tirare su, e dopo otto anni di vedovanza,di povertà e di stenti nella natia Bolechow, con una terribile guerra in corso, si trovò infine costretta a vendere – poiché è questo che fece – ben due delle sue incantevoli figlie al suo ricco fratello stabilitosi a New York:fu il prezzo da pagare per i biglietti della nave che li avrebbe portati in America e la possibilità di una nuova vita per la sua famiglia. A questo punto del racconto mio nonno commentava: «Le si spezzò il cuore!». E io, bambino, ascoltavo e pensavo: «Che storia tragica, questa delle mogli barattate, le spose della morte!». Ma adesso, ogni volta che rievoco questa vicenda, mi chiedo che fratello sia mai colui che costringe una sorella amata ad acconsentire a un tale matrimonio. E mi domando quali fossero i rapporti tra la mia bisnonna Taube e suo fratello.
Insomma, tra consanguinei possono insorgere dei problemi. Quando si cresce insieme, con tanti, forse troppi bambini in una casa angusta, è facile che nascano piccole e all’apparenza insignificanti incomprensioni che ci si porta dentro e infine esplodono con furibonda violenza. A rifletterci adesso, mi chiedo chi si comporterebbe in questo modo con sua sorella, e mi tornano in mente altre vicende della nostra famiglia,episodi piú o meno lontani nel tempo. Per esempio,quando ruppi il braccio a mio fratello Matt avevo dieci anni e lui otto; eravamo nel giardino sul retro della nostra casa, stavamo litigando e in un momento d’ira glielo spezzai, cosí come si fa con un ramoscello; adesso so che, qualunque fosse la ragione contingente di quell’atto violento, i veri motivi erano piú profondi: il colore dei suoi capelli, il fatto che il suo secondo nome fosse Jaeger, nome che ero convinto di meritare piú di lui; gli piaceva lo sport, aveva un mucchio di amici, e soprattutto era venuto al mondo cosí poco tempo dopo di me. Benché quasi coetanei, non avevamo altro in comune:non ricordo di averne mai cercato la compagnia da bambino, e sono sicuro che anche lui non gradiva la mia. Preferivo di gran lunga stare con Eric, il fratellino piú piccolo, che al pari di me era interessato (e, come ben presto apparve evidente, con ben altro talento) alla pittura, al disegno, all’arte, e al quale, quand’ero sui dieci anni e lui intorno ai sei, cercavo di insegnare la storia degli antichi egizi, felice di avere qualcuno con cui condividere quella passione. Nello scantinato preparavo i costumi: corone da faraone fatte con barattoli di candeggina vuoti, ampi colletti, gonnellini con la parte anteriore di cartone, le vesti degli oppressori degli ebrei. Nella mia stanza al piano superiore indossavo i paramenti regali, impugnavo lo scettro e il frustino e,con l’egocentrismo tipico del fratello maggiore e non poca vanità, gli imponevo di recitare ad alta voce nomi e date delle dinastie, incombenza a cui si prestava volentieri perché (solo ora lo capisco) desiderava il mio affetto, mentre io non volevo altro che un compagno per i miei strani giochi. Rivedo la scena: io seduto dietro una piccola scrivania di quercia con una corona di plastica dipinta di blu, Eric in ginocchio davanti a me,a impappinarsi con nomi e date di cui non gli importava niente, solo per farmi piacere.
Con Matthew, a cui spezzai il braccio, mi comportavo, adesso me ne rendo conto, in modo meno crudele. Forse è per questo che, chi l’avrebbe mai detto?, è stato lui ad accompagnarmi nella ricerca di Shmiel: perché a cogliere le immagini immortalate nelle centinaia di fotografie scattate nei nostri viaggi, prima a Bolechow e poi in Australia, Israele, Scandinavia e infine durante un’ultima tappa in Ucraina, erano sempre per primi i suoi occhi fulvi, cosí simili a quelli delle icone davanti alle quali, per generazioni, pregavano i membri della famiglia greco-ortodossa di sua moglie. E forse per questo Eric, colui che nella mia vanità e arroganza, nell’egoistica convinzione che dovesse condividere tutti i miei interessi, come un satellite che ruota intorno al proprio sole, avevo considerato il mio compagno, fu proprio lui il fratello che si allontanò dopo anni di indifferenza da parte mia.
Quei tremendi silenzi tra fratelli sono una peculiarità della mia famiglia, quasi un’eredità genetica.
Penso a mio padre, che per trentacinque anni non rivolse la parola al fratello maggiore, Bobby, al quale un tempo era molto legato e che lui, ragazzo cresciuto nel Bronx, osservava (lo venni a sapere solo dopo la morte dello zio) di nascosto mentre si applicava ingombranti tutori ortopedici alle gambette esili come stecchini. Bobby che, ormai adulto, venne ucciso dalla poliomielite, come spesso accade, e alle cui esequie, pochi mesi prima che io e i miei cinque fratelli partissimo alla ricerca dello sconosciuto fratello di mio nonno, mio padre lesse un elogio funebre di tale struggente intensità che solo allora mi resi conto della ragione di quel silenzio durato tanti anni, la profondità e non la mancanza del sentimento. Come in una bizzarra equazione il cui risultato è uguale a zero, appena mio padre riallacciò i contatti con Bobby si allontanò dall’altro fratello, un uomo mite, snello, che non dimostrava la sua età e che persino in vecchiaia recava i segni di un’acne devastante; nato lo stesso giorno di mio fratello Matt, lui stesso provetto fotografo, per quanto dilettante, fu il primo a incoraggiare il nipote nell’hobby che sarebbe diventato il suo lavoro.
E penso anche a mio nonno, a com’era stato autoritario ma accondiscendente con zio Julius, la cui sola colpa era la scarsa avvenenza e raffinatezza, la mancanza di Feinheit. Penso a mio nonno e a Shmiel, e continuo a chiedermi cosa fosse successo tra loro, quale impulso di inconfessata e inconoscibile emozione, quella che un giorno mi aveva portato a rompere il braccio di mio fratello, avesse potuto spingere mio nonno a fare qualcosa di molto piú terribile, qualcosa di cui cominciai a darmi pensiero solo dopo la scoperta delle lettere di Shmiel.
Quando quel lunedí di gennaio del 1939 Shmiel si decise a scrivere la sua lettera, aveva bisogno di denaro per comprare un nuovo autocarro; entro la fine di quell’anno avrebbe implorato un prestito che poteva salvargli la vita. Tra gennaio e dicembre del 1939, periodo a cui risale l’ultima lettera, il fratello di mio nonno scrisse ripetutamente chiedendo soldi a mia nonna, alla sorella minore Jeanette, questa volta non per l’acquisto o la riparazione di un automezzo, ma per procurarsi dei documenti,affidavit, carte di espatrio, per le quattro figlie (all’inizio), per due figlie (un po’ più tardi), forse (in ultimo)per una figlia, «la cara Lorka», come giocosamente chiamava la maggiore, il cui nome, secondo quanto scopri ida un certificato di nascita speditomi qualche anno fa dagli Archivi dello Stato polacco, era Leah.
Se questa crisi non termina al piú presto sarà impossibile sopportare oltre la situazione. Se solo il caro Sam [Mittelmark] riuscisse a procurare un affidavit per la cara Lorka,questo allevierebbe un poco i miei problemi.
Nel rileggere tali lettere mi rendo conto che a renderle cosí toccanti è l’uso della seconda persona plurale. In effetti, ognuna di esse è rivolta a un «voi» – «Vi saluto e vi bacio dal profondo del cuore», è il commiato preferito da Shmiel – e per questo è difficile, di fronte a queste come ad altre missive indirizzate a destinata ridiversi, non sentirsi coinvolti, vagamente responsabili. Quando le ritrovammo, la loro lettura costituí la mia prima esperienza della perturbante vicinanza dei morti, per quanto lontani riescano sempre a mantenersi.
Lettera dopo lettera, la richiesta di denaro diviene sempre piú pressante, e aumentano i riferimenti ai«problemi». All’inizio della primavera, Shmiel ne scrive una in tono amareggiato, in cui esordisce cosí: «Il 19aprile ho compiuto quarantaquattro anni, e sino a oggi non ho mai vissuto tranquillo, nemmeno un giorno,succede sempre qualcosa». E continua:
Come sono felici le persone che hanno questa fortuna – anche se so che in America la vita non è facile per tutti, ma quantomeno la gente lí non è preda costante del terrore. Il problema della licenza per gli autocarri si aggrava di giorno in giorno, le attività commerciali ristagnano, siamo in piena crisi, nessuno fa piú affari, la situazione è critica. Dio voglia che Hitler sia fatto a pezzi! Solo allora ricominceremmo a respirare, dopo tutto quel che stiamo passando.
In ogni modo, da una lettera spedita qualche tempo dopo alla sorella Jeanette risulta chiaro che la «situazione critica» non si riferisce semplicemente alla sfera degli affari:
Dai giornali potete farvi solo una vaga idea di quel che gli ebrei stanno passando qui; quel che sapete è solo la centesima parte della realtà: se si esce per strada, a piedi o alla guida di un automezzo, c’è appena il dieci per cento delle probabilità di riportare a casa la pelle. Agli ebrei hanno ritiratole licenze di lavoro, e cosí via.
È quindi in atto un’escalation di violenza: le rappresaglie da cui il governo polacco si illudeva di prendere le distanze erano invece una realtà di fatto per i commercianti ebrei della Galizia, già economicamente vessati. In realtà, sappiamo dai resoconti dei giornali dell’epoca che sul finire degli anni Trenta in Polonia le aggressioni ai danni degli ebrei aumentarono considerevolmente: in150 città, tra il 1935 e il 1937, quasi mille e trecento ebrei rimasero feriti e centinaia vennero uccisi da... be’, dai loro stessi vicini: polacchi e ucraini con cui avevano vissuto fianco a fianco piú o meno pacificamente, «come una famiglia» (come mi disse un’anziana donna di Bolechow) per tanti anni... fin quando si scatenò una forza malefica che cancellò ogni legame. «I tedeschi erano cattivi» ripeteva mio nonno, quando mi descriveva – con quale grado di attendibilità, in base a quali fonti o dicerie non so e non posso sapere – quel che accadde agli ebrei di Bolechow durante la seconda guerra mondiale. «I polacchi ancora peggio. Ma erano gli ucraini i peggiori di tutti». Un mese prima che mi recassi in Ucraina con i miei fratelli, mi trovavo nel soffocante vestibolo del consolato ucraino sulla Quarantanovesima Est di New York in attesa del visto; mi misi a osservare alcune persone accanto a me, impegnate in un’animata, persino esasperata discussione in ucraino con un funzionario barricato dietro un vetro a prova di proiettile, mentre in testami ronzava in continuazione la frase «erano gli ucraini i peggiori di tutti», come una sorta di cantilena.
Ma è nelle ultime lettere che il tono di Shmiel assume echi di autentico panico. In una indirizzata a mio nonno, scritta probabilmente nell’autunno del 1939 – incui chiede al fratello come ha trascorso l’estate – ventila la possibilità di far espatriare una delle sue figlie, accennando di nuovo alla gravosa situazione finanziaria:
Se solo fossero aperte le frontiere manderei una delle mie figlie in America o in Palestina; mi sentirei piú sollevato, perché oggi come oggi i figli pesano parecchio sul bilancio familiare, soprattutto le ragazze. Dio voglia che il mondo si rassereni, perché adesso è completamente offuscato. Si vive costantemente nel terrore. Non siate broyges [in collera, in yiddish] con me, miei cari,se vi scrivo tutte queste lettere cosí pessimiste, non c’è da meravigliarsene – oggigiorno è facile farsi del male. Ti ho scritto cosí tante volte, caro Aby...
È difficile non cogliere una nota di biasimo in quest’ultima frase.
È chiaro che alla fine del 1939 Shmiel era ossessionato dall’idea di far uscire la sua famiglia dalla Polonia. Nell’ultima lettera indirizzata alla sorella Jeanette e al cognato Sam Mittelmark, la fantasia galoppa:
Comunque è questo che ho in mente: mi risulta che molte famiglie abbiano la possibilità di andare in America, e alcune sono già emigrate, qualora i loro parenti che vi risiedono versino in deposito un acconto di 5.000 dollari; in questo modo potreste aiutarci a espatriare, io, mia moglie e le ragazze, e poi riavere indietro il deposito; potreste anche offrire delle garanzie e fare in modo di anticiparmi quella cifra; con tale denaro in custodia non sarò, una volta in America, di peso a nessuno. Altrimenti non vi avrei fatto una proposta simile. Nel caso in cui dovessi vendere tutto quel che possiedo ricaverei circa 1.000 dollari, escluse le spese, da portare in America, ma naturalmente, se esiste una probabilità che cosí facendo potessimo salvarci, non esiterei, come sai.
Shmiel aveva sempre fatto il commerciante; questo spiega perché ponga ogni questione sul piano degli affari: è tutto fatti e cifre. Ma ben presto nelle sue letteresi insinua una nota di disperazione. Quella che segue è una parte che mi riesce sempre difficile leggere:
Dovreste inoltrare delle domande, dovreste scrivere che sono l’unico membro della famiglia ancora in Europa, che ho fatto pratica come meccanico di automobili e che sono già stato in America dal 1912 al 1913 –
(naturalmente qui si riferisce al disastroso, breve soggiorno che lo aveva visto, diciottenne, ospite dello zio Abe, il quale lo aveva convinto a tornare in Polonia pronosticandogli un sicuro successo)
– forse potrebbe funzionare. ... Da parte mia, scriverò una lettera, in inglese, a Washington, indirizzata al presidente Roosevelt, in cui dichiarerò che i miei fratelli e tutta la mia famiglia vivono in America, che i miei genitori sono persino sepolti lí... forse funzionerà. Consultatevi con mia cognata Mina, magari potrà darvi dei consigli su come agire, perché voglio davvero andare via da questo Gehenim con la mia cara moglie e le mie amatissime quattro figlie.
«Mia cognata Mina»: allude a Minnie Spieler, colei di cui non conoscevo la vera identità e che da bambino prendevo in giro.
Shmiel scrive Rosiwelt il nome del presidente, e Waschington il nome della capitale, e per chissà quale motivo ciò produce l’effetto di annullare il distacco professionale con cui tento, nel leggere queste missive, di decifrare il corso dei pensieri di Shmiel. Immagino quest’uomo che, in tono accorato e supplichevole, dichiara l’intenzione di scrivere una lettera al «presidente Rosiwelt»a «Waschington»; penso al suo modo di essere e di considerare la propria posizione nel mondo; a come chiuse questa lettera, riaffermando il suo innato orgoglio...
ma voglio sottolineare a voi tutti che non intendo partire senza portare con me alcuna risorsa... la vita è il bene piú prezioso, purché si abbia un tetto sulla testa e del pane da mangiare e ci siano benessere e salute. Chiudo questa lettera e rimango in attesa di una sollecita risposta da parte vostra in merito alla questione.
Quando penso a tutto questo, non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe accaduto nel caso in cui un impiegato a Washington, un giorno del 1939, avesse aperto una certa lettera recante uno strano francobollo,scritta in un inglese scolastico e fin troppo formale, se si fosse dato la pena di leggerla, o l’avesse semplicemente gettata via, considerandola quel che dopo tutto era, l’ennesima, indecifrabile missiva di qualche ebreuccio polacco.
In tutte le storie sulla morte di Shmiel e della sua famiglia ricorre quel crimine orribile, l’efferato tradimento: forse a opera di un vicino malvagio, o dell’infedele domestica polacca. Ma nessuna di tali eventualità mi dava da pensare quanto quella di un inganno ben piú tremendo.
Poiché a Shmiel furono tolte casa, proprietà e infine la stessa vita, le sole lettere rimaste sono quelle spedite dalla Polonia, mentre le risposte sono andate perdute. Non abbiamo quindi modo di sapere se e come ottennero riscontro da parte di chi gli era vicino – non la governante polacca o i suoi vicini ebrei (o polacchi e ucraini),ma il cugino, il fratello, la sorella, il cognato, ai quali aveva scritto cosí freneticamente. E, se risposero, con quanto calore lo fecero? Ho letto e riletto quelle lettere,e adesso mi chiedo se si fece abbastanza. Mi riferisco a iniziative concrete. È vero che, in una lettera indirizzata a mio nonno, Shmiel accenna a del denaro che aveva ricevuto – otto dollari – quindi un qualche riscontro deve esserci stato. Ma che ne fu dell’affidavit? Perché, malgrado la frequenza e l’intensità delle lettere ai suoi parenti di New York, Shmiel si lamenta sempre di non aver avuto risposta da nessuno? Autunno del 1939:
Carissimo fratello e carissima cognata,Poiché è da molto che non ricevo una vostra lettera, vi sollecito a inviarmi notizie vostre e di tutta la cara famiglia. È trascorso anche parecchio tempo dall’ultima lettera di Jeanette. Perché? Non me lo spiego...
Oppure:
Scrivetemi piú spesso, cosí mi infonderete nuova vita, mi sentirò meno solo.
La cara Ester vi scriverà un poscritto. Vi abbraccio e vi bacio con tutto il cuore, mi mancate molto,
il vostro
Sam.
O ancora, la piú aspra:
Caro Aby,
Stavo per spedire questa lettera quando, proprio in quel momento, ho ricevuto la tua risposta.
Mi rimproveri che la mia cara moglie non si sia rivolta ai fratelli e alle sorelle. Questo mi porta a credere che tu sia impazzito. Certo che ha già scritto loro, senza ricevere risposta. Cos’altro dovrebbe fare?
Naturalmente, non c’è modo di sapere cosa accadde a questo punto tra i due fratelli. Quella che, a una fredda lettura, sembra indifferenza da parte di mio nonno potrebbe, dopo tutto, attribuirsi a un’innocente domanda. Forse, tra i tesori sepolti nelle soffitte e nelle fogne delle abitazioni superstiti in cui un tempo vissero gli ebrei di Bolechow, esiste un cumulo di lettere conservate insieme a qualche album di fotografie e degli oggetti preziosi, avvolti in una coperta e chiusi in una valigetta di cuoio abbandonata nel buio pesto di un capanno, tra le quali ve n’è una che reca francobolli americani e comincia cosí: «Caro fratello, abbiamo fatto il possibile, ma non siamo riusciti a raccogliere la somma di denaro che ci hai chiesto. Ester ha già provato a rivolgersi aisuoi parenti qui negli Stati Uniti?»... Chissà. Tutte le lettere che mio nonno, Jeanette e Joe Mittelmark scrissero (o potrebbero aver scritto) a Shmiel sono ormai ridotte in polvere: non lo sapremo mai.
Eppure cercai di scoprire qualcosa. Il mese prima della partenza per l’Ucraina, riunii mia madre e i suoi cugini – i figli ancora in vita dei fratelli di Shmiel – per chiedere loro cosa ricordassero di quel periodo poco precedente alla guerra in cui arrivarono le lettere. I tre cugini erano cresciuti insieme, per qualche tempo anche nello stesso appartamento, nel Bronx. Un pomeriggio di giugno del 2001 sedemmo nel patio dell’abitazione del cugino di mia madre, a Chicago, e i miei parenti cercarono di rievocare quegli anni. Ma all’epoca erano troppo piccoli, non potevano capire cosa stava accadendo, le loro reminiscenze erano vaghe; di una cosa però erano assolutamente certi: tutti adoravano Shmiel, e per lui era stato fatto il possibile. Avrei voluto che mi riferissero episodi concreti, dei dettagli, qualche storia
o aneddoto che recasse in sé la sgradevole simmetria della verità, ma ne ricavai solo una serie di triti fatti e melense banalità.
Allan, il cugino di mia madre che ci ospitava, affermò categoricamente: «Avrebbero fatto tutto il possibile per farli espatriare».
Allan è il figlio della seconda delle tre sorelle, quella che una volta mi scrisse: «Non ti rivelo la mia data di nascita perché sarebbe stato meglio se non fossi mai venuta al mondo»; questo forse spiega perché sia diventato uno psicologo.
Si dichiararono tutti d’accordo con lui.
«Mi ricordo quando, dopo la guerra, giunse la notizia della loro morte» interloquí con voce strascicata l’altra cugina di mia madre, Marilyn.
Ha un paio di anni piú di mia madre, ma conserva un viso liscio, quasi luminoso che, come mi ha superfluamente confidato, ha ereditato dalla madre, Jeanette, la zia favorita di mia madre («Lei sí che aveva una pelle bellissima, le fotografie non le rendono giustizia» se ne uscí a un certo punto quel giorno di un fine settimana,con il sorprendente accento del profondo sud acquisito negli anni in cui era stata via dal Bronx. «Fotograffie». Ho diverse fotografie della madre di Marilyn – in una indossa lo sfarzoso abito nuziale di pizzo che i suoi agiati cugini, parenti acquisiti, acquistarono perché adornasse la sposa, come fosse un trofeo; un’altra fu scattata poco prima che morisse, a trentacinque anni; mia madre mi ha rivelato che negli ultimi tempi Jeanette era diventata muta, dopo il primo attacco chela colpí e che infine l’avrebbe portata alla tomba – e sono costretto a prendere per buono quel che mi ha riferito Marilyn, anche se da quelle fotografie non traspare granché della leggendaria bellezza di cui ho cosí spesso udito parlare; a me pare solo una piacente donna ebrea dell’inizio del secolo scorso. Mi chiedo adesso se la ragione per cui provai uno strano sollievo nel sentire dalla figlia, quasi cinquant’anni dopo la sua morte, che in effetti era davvero una bella donna, fu che a quel punto ero ancora riluttante ad accettare l’idea che cosí tante storie della mia famiglia potessero essere state abbellite o persino frutto d’invenzione).
In ogni modo, Marilyn stava rispondendo alla mia domanda se i suoi genitori, che dopo tutto erano stati destinatari di almeno due lettere, avessero fatto qualcosa per Shmiel; non rammentava di averli sentiti parlare degli appelli di Shmiel prima dello scoppio della guerra, però serbava vivida memoria del giorno in cui,mesi dopo la fine del conflitto, vennero a sapere che lui, la moglie e le figlie erano stati uccisi insieme a tutti gli altri.
«Ricordo quando giunse la notizia» mi riferí questa amabile signora del sud, fissandomi con gli occhi azzurri spalancati e percorsi da una leggera sorpresa.«Non solo piansero – si misero a urlare».
Impossibile ricostruire i rapporti tra fratelli, settant’anni dopo. A un certo punto, in quell’incontro tra cugini a Chicago, tirai fuori le fotocopie delle traduzioni delle lettere di Shmiel che avevo fatto per i vari parenti e le diedi loro.
«No, no, no» reagí mia madre, allontanando i fogli.«Non voglio leggerle, è troppo doloroso».
Quindi con la lingua produsse quel suono lievemente sibilante, dolente, di biasimo che emetteva ogni qualvolta era sul punto di pronunciare la parola yiddish nebuch, che significa qualcosa come che gran peccato.
Caino, adombratosi per la preferenza accordata da Dio all’offerta del fratello minore, viene rimproverato dal Signore:«Perché sei tu sdegnato? E perché vai con la testa bassa? Se tu fai bene, forse non potrai tenere la testa alta? Mentre se fai male, il tuo peccato non ti sta forse alla porta per lanciarsi contro di te? Le sue brame son rivolte a te, ma tu puoi dominarlo!».
Rashi si dilunga nella spiegazione del testo ebraico, dove appare l’inconsueta e alquanto misteriosa raffigurazione del peccato quale femmina di animale in agguato sulla porta. Su quale porta? viene da chiedersi. «All’ingresso della vostra tomba» è la risposta di Rashi; è lí «che vi aspetta». Egli tuttavia ritiene ancor piú importante per la comprensione del significato di questo passo il sostantivo cui si riferisce l’aggettivo possessivo «sue» nella frase «le sue brame». In effetti il testo ebraico è non poco controverso. In lingua ebraica la parola «hatâ’t», «peccato», è un sostantivo femminile, quindi da un punto di vista grammaticale il testo dovrebbe recitare,alla lettera, t’shukâtâh – «le brame di lei». Invece compare al maschile: t’shukâtu, «le brame di lui». Il che ci porta a ritenere che in questa frase la locuzione «le sue brame» si riferisca ad Abele. Pertanto il significato del passo sembra piú o meno «le sue brame son rivolte a te» – cioè, per rappacificarsi e mantenere buone relazioni con te, che sei suo fratello – «ma tu puoi dominarlo» – in altre parole, reprimerai questo slancio di riconciliazione fraterna, o forse, è piú corretto dire,soffocherai qualunque buona intenzione nasca in te, per quanto involontariamente.
Eppure, per qualche ragione, Rashi si preoccupa di rigettare questa interpretazione. E cosí, nelle parole «le sue brame» ravvisa un riferimento extratestuale – una parafrasi del termine «peccato» qui, yêtzer hârâh, «un impulso al male».Poiché da un punto di vista grammaticale la frase è al maschile, Rashi elude il problema posto dall’aggettivo possessivo maschile ipotizzando che esso sia in relazione a un vocabolo non presente nel testo. Poiché, in base a qualsiasi tipo di emendamento testuale, questa interpretazione appare piuttosto forzata – e inoltre l’escamotage usato da Rashi comporta ulteriori problemi esegetici, non da ultimo il fatto che Caino evidentemente non «domina» i suoi impulsi peccaminosi,circostanza che invece la contorta lettura di Rashi implica –vale la pena domandarsi perché egli sia cosí determinato nel respingere l’interpretazione piú naturale che, guarda caso, è quella che intende richiamare la nostra attenzione, tra l’altro,sulle tormentose dinamiche di aggressione, vergogna, senso di colpa e tentativi di riconciliazione che si instaurano nei dissidi tra fratelli.
Ma allora è vero che si tende a interpretare i testi che leggiamo attribuendo loro il significato che vi vogliamo ravvisare?