2. La voce del sangue di tuo fratello

Quando giungemmo a Bolechow, una domenica d’agosto del 2001, quarto giorno del nostro viaggio nell’Europa dell’est, l’umore non era dei migliori. Da quanto tempo non viaggiavamo insieme tutti e quattro,Andrew, Matt, Jennifer e io? Forse era il 1967, in occasione della famosa, «unica» vacanza a Ocean City, nel Maryland, che ricordo soprattutto perché quel giorno andò in onda l’ultimo episodio della serie televisiva Il fuggitivo. Malgrado avessi supplicato i miei genitori di svegliarmi per seguirne l’epilogo, loro pensarono bene di lasciarmi dormire, e cosí non seppi mai, perlomeno non con la dovizia di particolari che avrei desiderato,come si era arrivati a scoprire il vero assassino, né assistetti al momento tanto atteso in cui l’uomo con un braccio solo, il cattivo, veniva arrestato e la vittima innocente, dopo tutti quegli anni di inseguimenti, veniva finalmente scagionata... Credo sia stata quella l’ultima volta in cui noi fratelli, o almeno buona parte di noi, abbiamo viaggiato insieme. Eravamo cresciuti in una modesta abitazione disposta su due piani, e noi quattro maschi dormivano in due stanze; ormai però avevamo perso l’abitudine di condividere a lungo spazi ristretti.

Per via dei miei studi classici so che la parola «intimo» deriva dal latino intimus, superlativo formato a partire dalla preposizione in, che nella lingua inglese conserva lo stesso significato; il comparativo invece assume un’altra forma, interior. In, interior, intimus: interiore, piú interiore, il piú interiore. Per chiunque abbia una famiglia, queste parole delineano una lampante verità emotiva: crescendo insieme in un nucleo familiare, nel quale si condivide lo stesso spazio interiore, interior, ci si sente piú legati l’un l’altro, piú intimi, rispetto a chiunque altro, coniugi inclusi. Ma so anche, e non solo per esperienza personale, che un cosí alto grado di intimità tra consanguinei – «intimo», «profondo», «piú interno» è la traduzione che il mio vocabolario di latino fornisce del lemma intimus – non di rado determina l’effetto opposto: i membri di una famiglia sono portati a evitarsi, a cercare piú «spazio» (oggi si impiega questo termine indifferentemente nell’accezione letterale e metaforica).

Sospetto sia questa la ragione per cui io, i miei fratelli e mia sorella non abbiamo piú trascorso insieme le vacanze. Mentre scrivo, penso alla battuta amara e quanto mai rivelatrice pronunciata da mio fratello minore – quello che non si uní a noi, forse per un eccesso di intimità – riguardo ai legami che ci uniscono. «Sembriamo prigionieri in un campo di concentramento, costretti a stare insieme» se ne uscí una volta con voce stridula.

 

Sappiamo che Abele cambiò vita e si diede alla pastorizia,mentre Caino rimase un contadino – l’esegeta biblico Emes LeYa’akov si sofferma a lungo sulle diverse forme del verbo«essere» usate per ognuno dei fratelli – e Rashi ci esorta a chiedercene il motivo. In base alla sua spiegazione, il fratello minore «smette di lavorare la terra poiché è stata maledetta da Dio». In effetti in tutta la Torah si avverte una costante tensione tra gli agricoltori e i pastori – cosí com’è noto ricorre un motivo ancor piú sorprendente: il conflitto mortale tra fratelli. Quanto a quest’ultimo, va evidenziato che è sempre il fratello minore ad accattivarsi la predilezione del padre – vale a dire l’autorità – e quindi ad assicurarsi il mestiere piú prestigioso da un punto di vista sociale (la cura delle greggi,tanto per fare un esempio, o l’incarico di consigliere del Faraone), circostanza che, non possiamo fare a meno di pensare, contribuisce ad alimentare il risentimento nutrito dal fratello maggiore, e a provocarne l’ira fatale. (Sin dai primi passi della Genesi si rimane colpiti dal fatto che Abele, dimostrando una certa schizzinosità, scelga di fare il pastore con la consapevolezza – come suggerisce il commento di Rashi – di assicurarsi cosí il favore di Dio. Anch’io trovo che Abele cerchi di ingraziarsi Dio. D’altra parte, lo stesso Rashi sottolinea che l’offerta di Caino era «ben poca cosa» – deduzione,a dire il vero, non basata sul testo, poiché tale offerta non viene descritta, mentre quella di Abele è definita di primissima qualità. Rashi nota acutamente che Dio non solo manifesta una reazione di fronte a queste offerte, consistenti in prodotti agricoli e di pastorizia («Gradí... Non riguardò»), ma deve averla palesata ai due fratelli, poiché è chiaro che Caino è consapevole del rifiuto di Dio.

Mi sembra di particolare interesse la tensione esistente tra lavoratori legati a una terra maledetta – gli agricoltori – e coloro i quali traggono il loro sostentamento da beni mobili, come le greggi. Penso al risentimento di Caino – all’invidia che certi contadini nutrono verso coloro che, pur nati nello stesso luogo, appaiono piú fortunati, poiché possono permettersi il lusso di spostarsi, e le loro ricchezze, oltretutto non derivanti dai frutti della terra, sembrano aumentare senza alcuna fatica; alle inevitabili tensioni tra fratelli, cresciuti gomito a gomito e per questo cosí intimi, non di rado esacerbate da invidie e risentimenti di natura economica; a quelli che trascorrono l’intera esistenza in un luogo, cercando i propri mezzi di sussistenza in una terra avara, e a coloro che,lontani da casa, possono cogliere ben altre occasioni.

E penso a quei fratelli, cresciuti in spazi angusti, in grande promiscuità, gli uni costretti a lavorare la terra, gli altri,apparentemente privilegiati, liberi di vagare con le loro ricchezze che paiono moltiplicarsi. Penso, naturalmente, agli ucraini e agli ebrei.

 

Come ho già avuto modo di ricordare, il nostro viaggio nell’Europa orientale fu caratterizzato dalla pioggia – un’acquerugiola incessante, gelida, umida, esasperante, che non sfociò mai in un violento quanto benefico temporale. Nei mesi dedicati alla preparazione di quell’eccitante avventura familiare il ritorno nel villaggio degli avi era divenuto ormai un leitmotiv, tanto che ci scherzavamo su anche nel corso dei preparativi, non certo agevoli, visto che bisognava conciliare le esigenze di quattro adulti in carriera; il tempo fu sempre inesorabilmente deprimente, sin dal giovedì mattina in cui atterrammo a Varsavia, compiendo poi un breve tragitto in aereo fino all’aeroporto di Cracovia, dove ci aspettava il biondo, prestante e ilare Alex Dunai, che agitava un minuscolo cartello con la striminzita scritta MENDELSOHN, quasi a dileggiare l’intera impresa, l’idea del ritorno di una famiglia alle proprie origini, in una sorta di unione forzata, e soprattutto le speranze che nutrivamo.

Già prima della partenza avvertivamo il peso di tali aspettative. Ci furono non pochi battibecchi. Non avevamo la minima idea di quel che ci attendeva, e la sensazione inespressa, ma assai molesta, continua e fastidiosa come la pioggerella insistente, che quel viaggio costoso e irto di difficoltà in quei luoghi squallidi e tutt’altro che ridenti si rivelasse inutile, ci rendeva alquanto irritabili. Poiché a organizzare tutto ero stato io, colui che da sempre accarezzava il desiderio di «tornare» in quei luoghi, e che intratteneva l’idea – estremamente romantica, lo ammetto – del ritorno al villaggio avito come una faccenda di famiglia che doveva coinvolgere quanti piú fratelli possibile, visto che probabilmente un giorno avrei scritto di quel viaggio – per tutte queste ragioni sentivo non solo un’angosciosa responsabilità verso i miei cari ma, ancor piú, una tremenda tensione legata alla speranza di trovare qualcuno in grado di dirci cosa fosse accaduto, che potesse narrarci il drammatico racconto che speravamo di udire. E cosí quei primi tre giorni – durante i quali, dopo un tragitto di cinque ore di macchina, visitammo Auschwitz, ciò che resta dell’antico quartiere ebraico di Cracovia e L’viv, in cui trascorremmo un’intera giornata in cerca delle vestigia della comunità ebraica del luogo e della sua vita – furono avvilenti. Ogni decisione – dove mangiare, a che ora lasciare l’albergo, i luoghi da visitare e la scaletta delle cose da vedere – diveniva argomento di discussione. «Non capisco perché è sempre incazzato con me» sbottò esasperato Andrew una sera in albergo, riferendosi a Matt.Visto che nemmeno io ero mai riuscito a comprendere Matt fino in fondo – abbiamo pochi anni di differenza,ma per lungo tempo, quando ci ritrovavamo in famiglia, ci rivolgevamo a stento la parola – non seppi cosa rispondere.

Per ragioni diverse, sia io che Andrew avevamo deciso di cominciare il viaggio dalla Polonia invece che recarci direttamente a Bolechow, in Ucraina. Io desideravo attraversare tutta la regione un tempo denominata Galizia, terra di origine di numerosi ebrei americani. Partendo da Cracovia, la città piú occidentale della Galizia dov’era nata la mia nonna paterna, Kay (donna che, al pari di mia madre, aveva tirato su quattro figli,alcuni dei quali non si parlano tra loro), e puntando a est verso L’viv, avremmo attraversato tutto quel territorio. Ero interessato alla vita che si conduceva nella «terra dei padri», non solo ai suoi morti: desideravo osservare con i miei occhi la Galizia, la sua topografia, la flora e la fauna che la popolavano. Insomma, com’erano i luoghi da cui proveniva la mia famiglia.

Comunque iniziammo l’escursione da Cracovia anche perché dista solo un’ora da Auschwitz, che Andrew voleva vedere a ogni costo. Pur non essendosi mai interessato alle vicende familiari, Andrew aveva accettato di partecipare a quel viaggio con entusiasmo, e prima della partenza si era documentato per mesi leggendo libri sull’Olocausto, sugli ebrei dell’Europa orientale e sulla storia polacca e ucraina. Non c’è da meravigliarsi. Ha sempre avuto una molteplicità di interessi, piú di noi altri fratelli. Forse perché come tutti i primogeniti ha una curiosità sconfinata e non possiede il senso del limite, si è tuffato in ogni ramo dello scibile con invidiabile entusiasmo, dalla coltivazione dei rododendri, alla costruzione di mobili, alla collezione di stampe giapponesi. È un uomo alto, dai capelli scuri e la pelle chiara,e la descrizione che si trova su un vecchio passaporto di mio nonno, che reca la data del 1920, tutto sommato gli si attaglia bene: viso ovale, carnagione bianca, naso dritto. Suona molto bene il pianoforte, il clavicembalo, il flauto dolce, e gioca a tennis. Come spesso accade nelle famiglie numerose, sin da bambini ci venne affibbiata una sorta di «etichetta» per descriverci. Io, con i capelli scuri e crespi e gli occhi azzurri cerchiati, quello che andava male in matematica ma bene in inglese e francese; Matt, biondo, dagli occhi dorati, con un ampio sorriso, solitamente riservato, da adolescente scontroso qual era in particolare con gli estranei, e già una sorta di eroe ai tempi della scuola superiore per le foto scattate alla squadra di calcio, ai compagni e agli insegnanti, era il ribelle dall’animo sensibile; Eric, con la sua zazzera di capelli castani e gli occhi attenti, altrettanto castani, abile disegnatore di scene di macabra raffinatezza dai titoli inquietanti («Smettila di seguirmi o tifaccio strangolare dalla mia domestica»), che già all’età di dodici o tredici anni manifestava la sua creatività, era universalmente conosciuto come l’artista, o anche il piú simpatico della famiglia. E Jean, l’ultima nata, la femmina lungamente attesa, brillante, bruna, minuta, con occhi simili a nere ciliegie (come li definivano i vecchi parenti ebrei), la studentessa incaricata di pronunciare il discorso di commiato durante la cerimonia di chiusura dell’anno scolastico, violoncellista, scrittrice, era la stella. Ma per me, che nei primi quindici anni di vita ho dormito a mezzo metro da lui, che ascoltavo i suoi resoconti delle partite di hockey, chiedendomi come si potesse andare cosí bene in matematica, scienze, inglese, oltre a essere tanto portati per lo sport, per me Andrew era semplicemente quello bravo in tutto. Quindi non c’era da sorprendersi se, prima di partire per L’viv,si fosse documentato su Bolechow quanto me; dopotutto era stato lui a regalarmi il prezioso volume Le memorie di Ber di Bolechow. Nei mesi che precedettero la partenza, quell’agosto, mi bombardò di email per tenermi aggiornato sui libri che leggeva, consigliandomene l’acquisto: Raccolto amaro: vita e morte in Ucraina durante il regime nazista, o I signori della morte: le SS-Einsatzgruppen e l’invenzione dell’Olocausto. Ovviamente seguivo i suoi suggerimenti.

E cosí, poiché Andrew voleva visitare Auschwitz, e raramente chiedeva il permesso di fare qualcosa; poiché Matt desiderava scattare foto interessanti; poiché anche Jennifer manifestava un certo interesse, lei che negli ultimi tempi aveva approfondito la conoscenza della cultura e della religione ebraica, e che avrebbe presto sposato un ebreo, unica della nidiata: per tutte queste ragioni, appena arrivati in Polonia ci recammo ad Auschwitz.

In realtà io non volevo andarci da solo. Ero diffidente. Auschwitz non mi interessava minimamente e – come iniziai a rendermi conto quando vi giunsi – esulava del tutto dai motivi che mi avevano spinto a intraprendere quel viaggio. Auschwitz, la cui sola parola è assurta a imponente simbolo, a universale generalizzazione,a epitome di quel che accadde agli ebrei d’Europa, anche se ad Auschwitz in effetti non accadde quel che si verificò a milioni di ebrei originari di posti come Bolechow, allineati sull’orlo di fosse comuni e trucidati con raffiche di mitra, o deportati in altri campi di sterminio che, diversamente da quello, avevano una sola ragion d’essere, lager molto meno noti proprio perché non offrivano alcuna alternativa alla morte, e da cui nessuno uscí vivo, che non produssero memorie né storie. Ma,anche a voler considerare Auschwitz come l’emblema dell’Olocausto, rimuginavo mentre attraversavo i suoi prati sorprendentemente curati e silenziosi, non era questo che cercavo. Era stato per liberare i miei congiunti dalle astrazioni, dai simboli, dalle sintesi, per tentare di restituirli alla loro individualità e ai loro tratti distintivi, che avevo intrapreso quel viaggio singolare e impegnativo. Uccisi dai nazisti – sí, ma da chi esattamente? Mentre visitavo le famigerate stanze piene di capelli umani, di arti artificiali, di occhiali, di valigie destinate a essere spedite nel nulla, mi resi conto che la terribile ironia di Auschwitz è che essa mostra l’enormità di quel accadde a un tale livello che l’aspetto collettivo e quello personale, l’ambito entro il quale si compie il crimine, sono costantemente, paradossalmente affermati a scapito di ogni individualità. Naturalmente ciò ha un suo vantaggio, considerato che persino adesso, dopo che i sopravvissuti hanno raccontato le tragedie vissute in prima persona a gente come me, c’è,come sappiamo, chi minimizza l’enormità di quegli eventi al punto da spingersi a negare la storia; e quando si visita un posto come Auschwitz, attraversando l’enorme, sconfinata distesa dove vennero edificate le baracche, scarpinando fino ai forni crematori, e da lí verso il luogo in cui sorgono le lapidi commemorative,a testimonianza degli innumerevoli morti di tanti paesi, allora si comincia a comprendere come tanta gente sia potuta finire qui. Ma io, che mi ci ero spinto solo per scoprire il destino di sei persone su sei milioni, non potevo fare a meno di pensare che la vastità, lo scopo, la misura incarnati dal simbolo Auschwitz costituivano un impedimento piuttosto che un mezzo per recuperare il brandello di storia che mi interessava.

Esisteva inoltre (consideravo fra me nell’attraversare insieme a un gruppo di turisti scandinavi, in un’umida mattina in cui l’aria pullulava di fameliche zanzare,l’ampia entrata con il posto di guardia) il problema della sovraesposizione. Durante la visita notammo che tutto aveva un aspetto molto familiare: l’ingresso, il binario morto, le baracche, il filo spinato elettrificato coni segnali d’avvertimento in tedesco ancora intatti e, celeberrima icona, il cartello – che mi parve sorprendentemente piccolo, come spesso accade quando si osserva da vicino un monumento famoso – con la scritta ARBEIT MACHT FREI che, pur contenendo quel tipo di inganno beffardo tanto amato dai nazisti, ad Auschwitz si rivelò piú veritiera di altre insegne simili, per esempio quella di Belzec dove, una volta scesi dal carro bestiame, c’era un’unica destinazione. Tali immagini sono state riprodotte, fotografate, filmate, trasmesse e pubblicate tante di quelle volte che, quando si giunge lí, ci si ritrova a cercare quelle che fatalmente vengono considerate vere e proprie «attrazioni», l’esposizione di arti artificiali, di occhiali o di capelli, piú o meno come se si contemplasse la ricostruzione di un dinosauro al museo di storia naturale.

E cosí, camminando per il campo di Auschwitz, un interrogativo mi tormentava: perché i turisti visitano un luogo come quello? Non certo per scoprire cosa vi accadde; tutti coloro che si recano ad Auschwitz e in altri siti analoghi lo sanno già. E nemmeno per farsi un’idea piú realistica «di com’era», quasi che, esaminando l’architettura o le dimensioni del campo, misurando quanto tempo ci vuole per andare dal punto A al punto B, si possa comprendere meglio l’esperienza di quelli che vi giunsero non in pullman provvisti di aria condizionata ma in carri bestiame. No. Sarà che mio padre è uno scienziato e mia madre l’erede di una famiglia incline alla nostalgia, ma credo ci siano altre due ragioni per visitare un posto come Auschwitz. La prima è di carattere scientifico e giuridico: il sito rappresenta una prova schiacciante, e sotto questo aspetto osservare di persona i mucchi di occhiali o di scarpe, piuttosto che sapere che esistono per averli visti in fotografia o in video, è piú utile per comprendere quel che accadde. La seconda è di ordine sentimentale: si va ad Auschwitz come si va in un cimitero, perché tale è questo luogo: una sorta di riconoscimento nei confronti dei morti.

Questo rimuginavo uscendo dal museo dove sono raccolti i capelli, le scarpe, gli arti artificiali, sotto una pioggerella fine, aspettando i miei fratelli. Fuori dalle baracche delle donne si stava avvicinando un gruppo di persone alte e bionde – svedesi? norvegesi? – tutte con zaini in spalla da cui spuntavano bottigliette d’acqua; fu allora – mentre leggevo una targa rievocativa delle fucilazioni sommarie che avevano luogo in un cortile dall’aspetto non particolarmente minaccioso, come se ne trovano tanti nelle scuole elementari americane – che una ragazza accanto a me mormorò: «Se non bevo un po’ d’acqua svengo!».

Insomma, consideravo Auschwitz semplicemente un preludio. Mentre quel primo pomeriggio contemplavamo il tristemente noto filo spinato, con cui è possibile fare bellissime composizioni artistiche, e l’altrettanto noto binario morto che scompare nel nulla, con la stessa ragionevole inevitabilità dello spazio e della distanza tipici delle prospettive di celebri quadri del Rinascimento – La scuola di Atene, per citarne uno – attraverso una guardiola con il tetto e la porta aperta, verso un punto di fuga che in effetti era tale; mentre contemplavamo quei mucchi di scarpe, di occhiali e di arti artificiali, tutto accuratamente conservato dietro pannelli di vetro; e poi, il giorno seguente, nell’osservare le sinagoghe vuote del quartiere Kazimiersz a Cracovia, l’antico ghetto ebraico dove la madre di mio padre nacque in un altro mondo, brulicante di gente al di là di ogni immaginazione, dove oggi turisti tedeschi, americani e svedesi girovagano attenti tra sagome di ebrei ritagliate nel cartone a grandezza naturale, che si stagliano in rigidi atteggiamenti di pia devozione, mentre in sottofondo si odono le registrazioni di salmodianti preghiere ebraiche, scena che mi ricorda le gite scolastiche al Museo americano di storia naturale, durante le quali ci venivano mostrati i diorami di dinosauri; e infine il terzo giorno, intenti ad ammirare la compiaciuta e per certi versi decrepita architettura residenziale della città che ancora continuo a chiamare Lwów, talvolta Lemberg, ma non certo L’viv, i solidi caseggiati risalenti al periodo asburgico, in tutto simili agli edifici di Vienna, di Budapest odi Praga, con le finestre in stile neoclassico, alcune con i frontoni, altre con archi a sesto tondo e arricchite da massicci motivi a bugnato dalle forme smussate che, se le mie reminiscenze di storia dell’architettura non mi ingannano, erano destinati a dare maggiore imponenza ai palazzi; mentre contemplavamo tutto ciò, praticamente l’intera storia degli ebrei d’Europa condensata in due giorni e mezzo, il ghetto brulicante, la fallita integrazione, lo sterminio riuscito, sapevamo che per quanto interessante, commovente o noioso quello spettacolo potesse essere, in fondo stavamo solo aspettando la buona occasione, perché il fine ultimo di quel viaggio di seigiorni era proprio Bolechow: ogni suo aspetto – la preparazione, i costi, gli sforzi, i battibecchi, il libro che avrei scritto – avrebbe trovato una giustificazione nell’eventualità in cui avessimo scoperto qualcosa, trovato qualcuno che aveva conosciuto i nostri parenti scomparsi, che fosse in grado di dirci cosa era accaduto o, almeno, di raccontarci una storia plausibile. Era questo il vero scopo del viaggio, che si concretizzò la domenica in cui finalmente giungemmo a Bolechow.

E cosí il quarto giorno vi arrivammo. Quando parcheggiammo la macchina nella piazzetta maltenuta,non c’era anima viva.

 

Dal piccolo spiazzo sulla sommità della strada che scende a Bolechow, la città non sembra grande: un ammasso di case basse, con ripidi tetti a ghimberga, raggruppate intorno a un groviglio di vie cosí intricate che arrivare alla piazzetta centrale è un sollievo, il tutto affossato in una depressione circondata da alture. Mentre osservavo il panorama dal punto in cui ci eravamo fermati per scattare delle fotografie – Matt, che in macchina aveva battibeccato tutto il tempo con Andrew,era voluto scendere per fotografare un cavallo immobile vicino all’orrendo cartello con l’indicazione del nome ucraino della città, Bolekhiv – pensai a quanto apparisse vulnerabile e facile da conquistare, isolata com’era. Infine risalimmo in macchina e imboccammo la discesa.

A Bolechow conoscemmo tre persone che ci fecero sentire piú vicini a Shmiel e alla sua famiglia, per quanto fossimo consapevoli della distanza che ci separava da loro.

La prima fu Nina. Alex aveva parcheggiato la Passat station wagon nella piazzetta fatiscente, non lontano dalla chiesa ucraina dai colori vivaci, con la cupola emisferica, dove era in corso una funzione, proprio di fronte allo stabile eretto in luogo di quello in cui abitavano i miei parenti (un mese prima, Alex aveva trovato una carta topografica della città risalente al diciannovesimo secolo, che gli aveva permesso di individuare la «nostra» casa, la Casa 141). Sullo stesso lato della chiesa sorgeva il municipio, accanto al quale un tempo c’era il negozio di famiglia. Dalla parte opposta al municipio si innalzava la grande sinagoga dove mio nonno aveva celebrato il suo bar mitzvah; al termine della guerra, non essendoci piú ebrei, divenne luogo di riunione per i conciatori di pellami. Sarà stato perché erano tutti in chiesa,ma il posto appariva alquanto desolato, per quanto tranquillo. Mentre ci sgranchivamo le gambe, sull’erba umida e sul pietrisco, dall’edificio di culto giungevano canti liturgici. Una capra gironzolava liberamente.

D’un tratto passò una donna dall’aria gioconda, a passo spedito. Era sulla cinquantina, robusta come sono spesso le donne di origine slava, indossava un vestito a fiori stampati attillato sul petto prorompente, come si vede di frequente da quelle parti. Fermi davanti a quella casa, avevamo un’aria impacciata, e ci squadrò con quella sorta di divertita curiosità che il provinciale prova per il forestiero, chiedendoci chi eravamo e cosa stavamo facendo. Alex si diffuse in spiegazioni; deve averle detto che eravamo ebrei americani tornati nella città originaria della loro famiglia; mentre parlava in ucraino, mi tornò in mente la frase «erano gli ucraini i peggiori di tutti».

Il volto della donna s’illuminò in un sorriso, e dalla bocca uscí una sfilza di parole in quella lingua.

«Si chiama Nina» la presentò Alex. «Ci ha invitati a casa sua. È nata dopo la guerra – non ne ricaveremo nulla, pensai tra me – ma una sua vicina, Maria, è molto piú anziana, e forse lei si ricorda dei vostri cari».

Be’, mi corressi, non male come inizio, tutto sommato. E cosí andammo a casa della donna, che si trovava lí nei pressi, al primo piano di uno scialbo caseggiato di cemento, alle spalle della vecchia sinagoga. L’edificio mi ricordava gli alloggi di certe università americane. L’ingresso era sul retro e facendo il giro mi trovai davanti un giardino perfettamente curato, in quel periodo dell’anno pieno di rose, margherite e fiori di malva. Rimasi colpito dal netto contrasto tra quella vista e l’aspetto tetro dello stabile.

Salimmo i pochi gradini di cemento che conducevano all’appartamento di Nina. Fuori dalla porta, su un tappetino, erano allineate numerose paia di calzature. Con la coda dell’occhio Matt mi lanciò uno sguardo d’intesa.

«Ah, ecco da dove viene l’abitudine di mamma!» esclamò. Sapevo a cosa si riferiva. Da bambini, prima di entrare in casa eravamo costretti a lasciare fuori le scarpe, obbligo imbarazzante che ci mandava in bestia,non da ultimo perché ci seccava terribilmente chiedere agli amichetti che invitavamo a casa di togliersele anche loro. C’erano poi altre particolarità che agli occhi dei nostri compagni di scuola e dei vicini ci facevano apparire come persone alquanto strane. Quando avevo undici anni o giú di lí, un amico che abitava in fondo all’isolato aveva l’abitudine di venirmi a chiamare il sabato e la domenica di prima mattina, per giocare. Un giorno d’estate, quando mio nonno si fermava da noi,il campanello suonò verso le otto. Non poteva che essere Lonnie; mi fiondai giú per le scale per aprire la porta, temendo che il rumore potesse infastidire mio nonno intento a recitare le sue orazioni mormorando versetti in ebraico e misurando a piccoli passi l’immacolato soggiorno, ammantato dell’ampio, antiquato tallis, i tefillin di cuoio avvolti attorno al braccio e alla fronte. Era tutt’altro che insolito che mio nonno si lasciasse andare a qualche breve scambio di conversazione mentre pregava: per esempio gli si poteva chiedere se per colazione gradiva dei cereali e del succo di prugna, al che lui lanciava un’occhiata in segno di assenso,aumentando il tono del mormorio in modo da suggerire una risposta affermativa. Ne faccio qui menzione perché quando aprii la porta a Lonnie, mio nonno si avvicinò alla ringhiera della scala e, senza smettere di recitare le preghiere in ebraico, sollevò il braccio avvolto dal tallis in un gesto a un tempo incredulo e minaccioso, alzando la voce come a sottintendere che nessuna persona sana di mente si presentava a casa della gente alle otto di mattina. Quindi si voltò e tornò nel soggiorno, con grande divertimento del sottoscritto: il mio esotico, stravagante nonnino. Quando mi girai per parlare sottovoce con Lonnie, lui era già sparito giú perle scale del portico.

«E quella fu l’ultima volta che l’abbiamo visto!» ripeteva sempre mio nonno quando raccontava questa storia.

Insomma, in famiglia avevamo strane abitudini, come le preghiere mattutine di mio nonno, e l’ostinazione di mia madre a lasciare le scarpe su uno zerbino fuori dalla porta di casa. Fu questo il ricordo che ci tornò in mente davanti all’ingresso di Nina. Riflettei che probabilmente mia madre aveva ereditato quella consuetudine da suo padre, il quale a sua volta, cinquant’anni prima, era stato costretto a seguirla perché viveva, come Nina un secolo dopo, in un paese dove, se ci si allontana cento metri dal centro, ci si ritrova con le scarpe inzaccherate – di terra, fango o peggio ancora.

Era un piccolo appartamento. Quasi tutto lo spazio dell’angusto soggiorno era occupato da un divano, su cui tutti noi – i quattro Mendelsohn e Alex – cercammo in qualche modo di stringerci, le gambe rattrappite per non toccare il tavolino. Oltre a quella stanza c’era una piccola cucina e una specie di camera da letto, in cui era sistemato, mi parve, un pianoforte. Mentre eravamo seduti Nina, che armeggiava in cucina, conversava a voce alta in ucraino con Alex, che pareva divertito e anche lieto alla prospettiva che forse avremmo scoperto qualcosa. Finalmente la donna riemerse dalla cucina, recando un piatto con della salsiccia casereccia. Quindi si avvicinò alla credenza e tirò fuori una bottiglia impolverata, di champagne spiegò, risalente all’era sovietica. Commentammo stupiti che era alquanto strano immaginarsi i sovietici produttori di champagne, ma lei replicò che un tempo era un’industria fiorente, localizzata in uno di quegli stati dal nome impronunciabile con il suffisso «stan». Stappò la bottiglia e versò lo champagne nei bicchieri per un brindisi celebrativo. Poi ci preparò una tazza di Nescafé, evidentemente considerato una prelibatezza.

«È un grande onore» ci informò Alex, lanciandoci uno sguardo ammonitore.

Matt, che mi sedeva accanto, borbottò che il Nescafé non gli piaceva.

Io e Andrew digrignammo i denti e minacciammo all’unisono: «Bevi quel cazzo di caffè, Matt».

Mi chiedevo cosa stesse pensando Alex. È un uomo robusto, biondo, sui trentacinque anni, con un carattere socievole e sempre pronto al sorriso, che gli fa apparire delle fossette sulle guance. Dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica si è inventato la professione di guida agli ebrei americani, nei vecchi villaggi dell’Europa orientale, vicino alla sua città natale, L’viv, che ci mostrò pieno d’orgoglio (tra l’altro durante quella visita mi assicurò che nei dintorni di Bolechow non esistevano castelli appartenuti a un aristocratico polacco).Nell’ultimo decennio aveva maturato una conoscenza della storia degli ebrei della Galizia molto piú approfondita della maggior parte degli stessi ebrei. Fu il primo ucraino con cui intrecciai dei rapporti piú intimi, e quando infine ci incontrammo, il giorno del nostro arrivo all’aeroporto di Cracovia, fummo tutti conquistati dal suo calore umano e dalla sua socievolezza, che ci fece agevolmente superare l’inevitabile imbarazzo. Fu durante il lungo viaggio da Cracovia a L’viv, il giorno seguente alla visita ad Auschwitz, che gli chiedemmo di raccontarci come mai un giovane ucraino, ex soldato dell’esercito sovietico, fosse finito a fare da guida agli ebrei americani per accompagnarli nei villaggi originari delle loro famiglie; rispose, con una certa circospezione: «Non rivelo quasi a nessuno qual è la mia attività,non credo che capirebbero».

Comunque, Alex era visibilmente lieto che Nina ci stesse trattando con i guanti bianchi. Mentre la donna si affaccendava intorno a noi senza fermarsi un attimo, io e i miei fratelli ci lanciavamo delle occhiate, ed era chiaro che stavamo pensando tutti la stessa cosa: «Dopo tutto alcuni ucraini non sono poi cosí cattivi». Intanto il marito di Nina, un individuo smilzo, affabile, in costume da bagno e infradito ai piedi, prese a strimpellare delle canzoni al pianoforte decrepito situato nello stanzino che in realtà, ci fu spiegato, era il suo studio. A Feelings fece subito seguito – presumibilmente in nostro onore, oltre che per dimostrarci la sua apertura multietnica – Hava Nagilah. Ci scambiammo di nuovo degli sguardi. Poi attaccò con Yesterday.

 

Fu solo dopo aver bevuto lo champagne sovietico, sorseggiato il Nescafé e assaggiato la salsiccia casereccia – davvero squisita e, direi, quanto mai appropriata, visto che, dopo tutto, discendevamo da una lunga schiatta di macellai e grossisti di carne di Bolechow – che Maria fece la sua apparizione, sorridendo timidamente. Seguí di nuovo una lunga presentazione: chi eravamo,cosa stavamo cercando. Maria era una graziosa vecchietta sulla settantina, con soffici capelli bianchi, un viso largo, zigomi alti e obliqui; fattezze caratteristiche di quelle regioni, come mi avvidi in seguito. Quando pronunciammo il nome Jäger, annuí con espressione assorta. Sperai che fosse il preludio a qualche informazione specifica, dei fatti concreti come punto di partenza.

«Sí, sí» ci tradusse Alex, «conosce il nome. Lo conosce».

In quel momento mi sentii molto vicino a una rivelazione. Quella donna era una ragazzina durante la guerra; poteva davvero averli conosciuti. Io e i miei fratelli ci scambiammo delle occhiate.

Poi Alex pose fine alle nostre speranze: «Ma non li conosceva personalmente».

Sempre fiducioso – pur avvertendo d’improvviso l’assurdità di quella spedizione, consapevole di quanto tempo, quanto spazio e quanta storia congiurassero contro di noi, rendendo improbabile che qualcosa di loro fosse sopravvissuto – tirai fuori le fotografie che mi ero portato dietro e cominciai a mostrargliele. Ritraevano Shmiel a piú di trent’anni e sulla quarantina, quella in cui indossava un cappotto con il bavero di pelliccia,scattata nello studio fotografico di Stryj di proprietà del fratello della moglie; le istantanee di tre delle sue figlie bambine (impossibile dire quali) con vestitini di pizzo; il primo piano di una delle ragazze, un’adolescente con un sorriso radioso e, non posso fare a meno di notarlo, la stessa capigliatura crespa dei Mittelmarkche avevo anch’io alla sua età. Maria osservò attentamente le vecchie foto, una per una. Poi scosse il capo con un sorriso dolente, di quelli che increspano le labbra, e mi rammentò la mia nonna materna. Quindi disse qualcosa ad Alex.

«Non li ricorda» ci tradusse questi. «Durante la guerra era piccola, solo una bambina. Non li ha conosciuti. Peccato, suo marito era molto piú anziano di lei,probabilmente lui li conosceva, ma è morto tre anni fa».

Abbassai lo sguardo, mentre Alex scambiava qualche altra battuta con Maria. «Ah!» esclamò. Maria gli aveva detto che la sorella del marito, Olga, era ancora viva; abitava in fondo alla strada. Forse lei poteva rivelarci qualcosa.

Ci alzammo, con Nina che ci fece da anfitrione – ormai aveva preso a cuore noi e la nostra ricerca – e andammo subito a casa di Olga.

Come scoprimmo in seguito, la strada che dall’abitazione di Nina portava a quella di Olga era la via del cimitero, dove si trova il vecchio mulino di legno. Prima che Maria ci lasciasse, le chiedemmo di parlarci dei rapporti tra ucraini ed ebrei prima della guerra. Naturalmente ci eravamo documentati, sapevamo già dei secoli di antagonismo economico e sociale esistente tra le due etnie: gli ebrei, senza una nazione, politicamente vulnerabili, sottoposti agli aristocratici possidenti polacchi di quei borghi, ai quali inevitabilmente parecchi di loro prestavano denaro o di cui amministravano le proprietà; e gli ucraini, per la maggior parte agricoltori, che occupavano il gradino piú basso della società, un popolo la cui storia, ironicamente, per molti versi era una sorta di immagine speculare, o meglio di negativo,di quella degli ebrei: senza una nazione, indifesi, oppressi da crudeli padroni di questa o quella etnia – conti polacchi, commissari sovietici. In effetti, fu a causa di questa strana specularità che, se pur vissuti per secoli fianco a fianco in villaggi e cittadine, alla metà del ventesimo secolo si sviluppò, con la tremenda logica di una tragedia greca, l’idea che ciò che era buono per gli uni era male per gli altri. Quando nel 1939 i tedeschi cedettero la Polonia orientale ai sovietici in seguito al Patto Molotov-Ribbentrop, gli ebrei stanziati in quelle regioni si rallegrarono per non essere finiti sotto il dominio germanico; ma gli ucraini, gente fiera e fortemente nazionalista, soffrirono sotto il giogo sovietico che, allora come sempre, tendeva a soffocare l’indipendenza ucraina – e la stessa popolazione. Se si parla con costoro del ventesimo secolo, come abbiamo fatto spesso durante tutto il viaggio, vi racconteranno del loro olocausto, dei morti, negli anni Trenta, di cinque o addirittura sette milioni di contadini ucraini affamati dalla collettivizzazione forzata imposta da Stalin... Quindi la miracolosa buona stella degli ebrei della Polonia orientale nel 1939 si rivelò un disastro per gli ucraini della stessa regione. Al contrario, quando due anni dopo Hitler infranse il Patto Molotov-Ribbentrop e le sue truppe invasero le terre lasciate a Stalin fu, naturalmente, un disastro per gli ebrei ma una benedizione per gli ucraini,che festeggiarono l’arrivo dei nazisti liberatori dall’oppressione sovietica. È straordinario pensare che due gruppi vissuti cosí a lungo in assoluta contiguità possano essere tanto diversi, avendo sofferto o esultato per i rovesci della sorte in modo differente, anzi opposto.

Consapevoli di tutto ciò, pregammo Alex di domandare a Maria dei rapporti esistenti un tempo tra ucraini ed ebrei.

«Erano per lo piú buoni» ci tradusse dopo aver parlato brevemente con la donna. «Ha detto che spesso i bambini ucraini e quelli ebrei giocavano insieme nella piazza».

Poiché sapevo bene a quali conseguenze poteva condurre il giocare insieme, posi quella che ritenevo la domanda consequenziale: «Ci fu chi si rallegrò quando gli ebrei furono portati via?».

Parlottarono un altro po’. «Sí» tradusse Alex dopo una certa esitazione. «Certo, ve ne furono. Ma ci fu anche chi cercò di aiutarli, e per questo venne ucciso. Maria ribadisce che era una cittadina piccola. Qui si conoscevano tutti. Ebrei, polacchi e ucraini, un posto poco esteso ma affollato».

Maria sfoderò quel suo sorriso beato, luminoso, pieno di fiducia, e mormorò qualcos’altro ad Alex. Lui si voltò verso di noi e tradusse: «Ha detto che era come una grande famiglia».

 

Tutti gli esegeti della Bibbia si confrontano con il singolare problema di ciò che Caino disse, se disse qualcosa, ad Abele per convincerlo a seguirlo nel campo in cui aveva intenzione di ucciderlo. La traduzione letterale del versetto 8, vayomer Qayin el-Hevel ahchiyv vay’hiy..., è apparentemente priva di senso: «E Caino disse ad Abele. E quando furono nel campo...». In pratica l’autorevole testo ebraico riferisce solo che Caino disse qualcosa ad Abele, e che una volta nel campo Caino si ribellò e lo uccise; ma non viene riportato il dialogo. Solamente la versione dei Settanta, la traduzione ellenistica della Bibbia ebraica, risalente all’età alessandrina nel terzo secolo a.C., e la Vulgata, la traduzione in latino della Bibbia ebraica e aramaica a opera di Girolamo (in seguito canonizzato) tra il 382 e il 405 d.C., forzano l’originale per conferirgli un significato piú chiaro. Queste traduzioni, meno accurate ma piú efficaci, sono di gran lunga le piú diffuse: «E Caino disse ad Abele: “Andiamo nel campo...”». La tentazione di piegare il testo alle proprie esigenze non è certo una novità, sia – come abbiamo già visto – per quanto attiene all’esegesi biblica, che in qualsiasi altro campo.

La questione sembra preoccupare meno Friedman, il commentatore moderno, che non Rashi, e con il suo vivace e ottimista pragmatismo tipico del ventesimo secolo fornisce una spiegazione alquanto ragionevole della singolare sintassi del testo ebraico: «Le parole di Caino» scrive «sembrano essere state omesse nel manoscritto masoterico – copie di testi ebraici risalenti anche al decimo secolo – da un amanuense che saltò dalla prima frase, contenente la parola “campo”, alla seconda». Chiunque abbia cognizioni filologiche trova questa spiegazione abbastanza convincente: qualche antico copista,di fronte a un venerabile manoscritto della Torah che non è giunto sino a noi, mentre si apprestava a trascrivere la frase andata perduta «Andiamo nel campo», in un momento di stanchezza chiuse gli occhi; e cosí, quando, esausto, riprese a copiare, focalizzò l’attenzione sulla seconda frase, dove viene ripetuta la parola «campo» – cioè quella che riappare nel verso conservatosi: «E quando furono nel campo...». Per tale errore dovuto a stanchezza, visto che dopo tutto era pur sempre un essere umano, non trascrisse il versetto che recitava: «Andiamo nel campo» (o qualcosa di molto simile); e a causa di ciò quell’unico verso, che avrebbe reso intellegibile il piú autorevole dei testi, sparí irrimediabilmente. Eppure la sua perdita non sembra preoccupare piú di tanto Rashi, il quale ci fornisce una spiegazione altrettanto persuasiva – seppure di natura psicologica e non filologica. Il suo commento alla presunta frase mutila che traduciamo «E Caino disse a suo fratello Abele» è il seguente: «Inveí contro di lui con parole offensive al fine di trovare un pretesto per ucciderlo». È evidente che per il commentatore medievale le parole rivolte da Caino ad Abele sono irrilevanti, in quanto mendaci, essendo, appunto,un pretesto; tale commento ci fa capire come egli ben conosca le forze oscure e latenti che si annidano nei rapporti tra fratelli, alle quali basta una falsa giustificazione per affiorare in superficie ed esplodere in tutta la loro violenza. Il dato saliente è la presenza di tali forze, non il pretesto che le scatena.

 

Maria ci accompagnò non lontano da casa di Olga,affidandoci alle mani grandi e vigorose di Nina, ad appena duecento metri dalla piazzetta sull’angusta strada non lastricata, ai cui lati si innalzavano edifici di legno dai tetti spioventi tipici della regione, abitazioni cariche di storia, con poche, ampie finestre, non dissimili da quelle che mio nonno, usando la sua Parker con il pennino che umettava ogniqualvolta si accingeva a scrivere, disegnava quando gli chiedevo di mostrarmi com’era il luogo in cui viveva, nella terra dei padri. Raggiungemmo una vecchia casetta molto graziosa,che sorgeva sulla curva della strada che piega improvvisamente a destra, verso il cimitero. Alex bussò – a una finestra laterale, non alla porta. Dall’interno si udí uncagnolino abbaiare. L’abitazione era circondata da un vasto cortile con delle galline e altri cani che latravano,e prugni in fiore. Alex bussò di nuovo. Finalmente una donna anziana, dalla corporatura minuta ma solida,aprí la porta. Sbirciò oltre le spalle di Alex e posò lo sguardo su di noi, quindi tornò a guardare Alex. Molto in là con gli anni, era grassottella, ma con la pelle diafana per la vecchiaia. Per qualche ragione tutto in lei mi suggeriva l’idea del cibo: aveva il viso tondo come una pagnotta di pane, gli occhi azzurri lucevano tra le gote paffute come uva passa in un dolce. Alex cominciò a parlarle, e lei parve subito tranquillizzarsi – comunque non sorrise – facendoci poi segno di entrare.

Sfilammo di nuovo in uno strano soggiorno. L’abitazione era accogliente, con molte stanze areate da ampie finestre cui erano appese raffinate tende guarnite di merletti; le pareti erano coperte di arazzi elaborati. Da dietro le vetrine di massicce credenze si irradiava il luccichio di piatti e bicchieri. Anche stavolta ci fecero accomodare, ma le cose si svolsero in maniera differente (innanzitutto non ci fu offerto cibo, circostanza che mi sembrò alquanto strana). Alex cominciò a illustrare il motivo della nostra visita; lo sentii di nuovo pronunciare il nome Jäger. La donna ripeté due volte una frase, e prima ancora che Alex la traducesse intuii che stavolta la risposta sarebbe stata diversa, poiché lei stava esclamando, con una certa enfasi, «Znayu, znayu» accompagnando la parola con un gesto impaziente delle mani,come a significare che era chiaro quel che stava dicendo.

«Lo conosco, lo conosco».

Era l’unica parola di ucraino che sapevo, avendola appresa durante quel breve periodo, in quei giorni di pioggia, disillusione e battibecchi. Olga annuí convinta,ripeté le parole e prese a discutere in modo concitato con Alex, che faceva del suo meglio per starle dietro.

«Conosceva molto bene la famiglia Jäger» ci tradusse. «Non ne aveva solo sentito parlare: la conosceva molto bene. Avevano una... macelleria?».

Assentii, specificando con voce roca: «Un negozio di carni». A quel punto Alex ci garantí che non era stato lui a fornirle quel dettaglio. Sapeva bene quali frustrazioni avessimo patito, e voleva rassicurarci che quella donna ricordava effettivamente i nostri parenti.

«Li conosceva» ripeté. «Li ricorda».

Fu forse per l’improvvisa e vertiginosa sensazione di vicinanza con loro, avvertita in quel momento, che io e mia sorella scoppiammo in lacrime. Tale è la prossimità cui si può giungere ai morti: ce ne stavamo seduti in un soggiorno, durante un gradevole pomeriggio d’estate, sessant’anni dopo la scomparsa di quelle persone, a conversare con una donna pienotta che gesticolava animatamente e che, a pensarci bene, aveva la stessa età che avrebbe avuto la figlia maggiore di Shmiel,con la sensazione che fosse lí anche lei, a un metro da noi. Tanto vicino le eravamo giunti. In quel momento, i sei decenni trascorsi e i milioni di morti non apparivano un ostacolo cosí insormontabile, almeno quanto i cento centimetri che mi separavano dal braccio grassoccio di quella vecchia. Piangevo, perché mi sentivo piú vicino ai miei parenti defunti. Avvertii intensamente la presenza di mio nonno, l’ultima persona a me nota che li aveva conosciuti, e d’un tratto anche i venti anni dalla sua scomparsa parvero ridursi. E cosí rimasi lí,gli occhi colmi di lacrime, sollevato dal fatto che anche Jennifer stesse piangendo, mentre Olga parlava. Ripeté il nome, guardando le fotografie, sempre annuendo. Alex tradusse.

«Dice che erano molto simpatici, persone estremamente raffinate e gentili».

Per quanto commosso, risi tra me, consapevole che mia madre, con l’orgoglio che provava nei confronti della sua famiglia, la supponenza tipica degli Jäger, sarebbe stata felice di apprendere che a Olga erano rimaste impresse quelle loro qualità. Non si trattava di chissà quale rivelazione, ma erano caratteristiche che potevano suonare autentiche a delle persone propense a credere ai racconti.

Ma ancora una volta, per quanto vicini fossimo giunti, rimaneva un’incolmabile distanza.

«Non sa cosa capitò loro» proseguí Alex dopo aver scambiato qualche battuta con Olga. «Non a quella particolare famiglia. Sa solo che, come altri ebrei, hanno sofferto molto».

 

Naturalmente è possibile ricostruire le sofferenze patite dagli ebrei di Bolechow senza doversi recare in una cittadina che oggi si chiama Bolekhiv a rintracciare anziane signore che furono testimoni di tali eventi. Si può,per esempio, consultare l’Enciclopedia dell’Olocausto per apprendere che i tedeschi entrarono in quella città il2 luglio 1941, e che la prima Aktion 7, il primo sterminio di massa, ebbe luogo nel mese di ottobre di quell’anno,quando un migliaio di ebrei vennero catturati, radunati nel Dom Katolicki, il centro ricreativo della comunità cattolica e, dopo essere stati torturati per giorni nei modi piú svariati, condotti davanti a una fossa comune e abbattuti con raffiche di mitra. Vi si può leggere che la comunità ebraica della città, che all’inizio del decennio ammontava a tremila unità, si accrebbe di diverse migliaia perché vi furono deportati gli ebrei dei paesi e dei villaggi del circondario. Si viene a sapere, inoltre, che la seconda Aktion ebbe luogo circa un anno dopo, quando,al termine di una caccia all’uomo durata tre giorni, alcune migliaia di ebrei vennero riuniti nella piazza centrale davanti al municipio – là dove avevamo parcheggiato la nostra automobile all’arrivo a Bolechow, e avevamo incrociato quella capra – e che cinquecento persone furono uccise sul posto, mentre le rimanenti duemila furono caricate su treni merci e deportate al campo di Belzec. Secondo l’Enciclopedia dell’Olocausto, inoltre, molti degli ebrei rimasti in vita furono trucidati nel dicembre del 1942, e nel 1943 ne sopravvivevano solo un migliaio, la maggior parte dei quali venne assassinata, salvo i «pochi» che riuscirono a rifugiarsi nelle foreste circostanti unendosi ai partigiani.

Ma le notizie che si ricavano da questa enciclopedia sono, malgrado i dettagli, impersonali, e se si è cresciuti ascoltando storie sapientemente elaborate e piene di particolari, non soddisfano l’esigenza di conoscere quanti piú elementi possibile sul destino occorso ai propri parenti. Per questa ragione l’ultimo anno delle superiori scrissi allo Yad Vashem, il museo commemorativo dell’Olocausto in Israele, per chiedere informazioni sugli ebrei di Bolechow; mi spedirono una fotocopia della voce «BOLEKHOV» tratta appunto dall’Enciclopedia dell’Olocausto, da cui ho attinto i dati appena riportati. Per esempio, la fotocopia non avrebbe mai potuto fornire un particolare come quello rivelatoci da Olga quel giorno – erano aspetti non direttamente connessi alla morte dei miei parenti, è vero, ma di altra natura, dettagli che gettano una luce diversa sugli avvenimenti. Un quarto di secolo dopo la risposta ricevuta dallo Yad Vashem, sedevo nel soggiorno di quell’anziana donna,che stava contestualizzando con i suoi ricordi quelle altrimenti generiche informazioni. A diciotto anni mi ero chiesto cosa significasse «essere torturati per ventiquattro ore». Lei ci rivelò che gli ebrei erano stati radunati nel centro della comunità cattolica, nella zona settentrionale della cittadina, e che i tedeschi avevano costretto i prigionieri a formare una piramide umana, alla cui sommità avevano messo il rabbino capo, per poi scaraventarlo giú. Andò avanti cosí, a quanto sembra, per diverse ore (fu molto tempo dopo, in Australia, in Israele,e poi in Scandinavia, che appresi il resto, quel genere di dettagli che conosce solo chi ha vissuto gli avvenimenti in prima persona).

«Condotti davanti a una fossa comune e lí abbattuti»? Tutti gli ebrei che morirono nell’Aktion del Dom Katolicki nell’ottobre del 1941 furono uccisi a colpi di arma da fuoco nella foresta di Taniawa, un paio di chilometri fuori città. Ma durante una delle operazioni«minori» che ebbero luogo nel 1943 – quando ormai a Bolechow erano rimasti in vita solamente novecento ebrei, che lavoravano in campi di lavoro improvvisati – alcuni gruppi, radunati qua e là, furono portati nel cimitero, trucidati e gettati in fosse comuni, anche se queste non potevano certo competere in grandezza con quella di Taniawa dove, come ci fu riferito a distanza di due anni dall’incontro con Olga, la terra continuò a muoversi per giorni dopo l’eccidio, perché non tutte le vittime erano morte quando vennero sepolte. Comunque, mi è rimasto impresso un dettaglio fornitoci da quella donna riguardo alle operazioni «minori», forse perché riunisce in sé aspetti banali e quotidiani e altri di assoluta ed efferata barbarie, ed è grazie a questo bizzarro accostamento che riesco, seppur vagamente, a immaginare la scena. Olga ci riferí che il rumore delle mitragliatrici proveniente dal cimitero (che si trovava in fondo alla strada, non lontano dalla sua abitazione) era cosí spaventoso che sua madre, una donna di oltre quarant’anni, recuperò una vecchia macchina da cucire e si mise a lavorare, in modo che il cigolio del pedale coprisse il frastuono degli spari. Gli spari, la macchina da cucire. Quando Olga descriveva qualche particolare raccapricciante come questo serrava gli occhi e tendeva in basso le mani, in un eloquente moto di repulsione. Era il gesto che avrebbero potuto compiere mia nonna o mia madre, quando esprimevano la loro riprovazione pronunciando la parola nebuch.

 

Mi sorprende non poco la circostanza che Friedman,l’esegeta moderno, figlio del secolo di Freud, non si ponga il problema in chiave psicologica dell’assenza delle parole di Caino ad Abele, e al contrario si soffermi dettagliatamente su un particolare a prima vista non meritevole di un’analisi cosí profonda: «E quando furono nel campo...». «A che pro» si domanda Friedman «informarci che in quel momento si trovano nel campo?» Per giungere a una spiegazione soddisfacente, Friedman ripercorre la vasta tematica del violento conflitto tra fratelli che ricorre in tutta la Bibbia, dall’assassinio di Abele da parte di Caino all’esecuzione di Adonia ordinata da suo fratello Salomone, alla rivalità intestina, reale quanto metaforica, tra Giacobbe ed Esaú, tra Giuseppe e i suoi fratelli, tra Abimelec e i suoi (ne uccise settanta, come sottolinea Friedman), alle lotte tra le tribú che generarono il popolo d’Israele (quella tra Beniamino e tutte le altre; Israele e Giuda), il conflitto tra i figli di Davide, Assalonne e Amnone. Friedman prosegue con un’osservazione affascinante:in queste storie di violenza fratricida la parola «campo» ricorre con notevole frequenza, come una sorta di leitmotiv. Esau è «uomo del campo»; Giuseppe racconta un sogno che offende profondamente i fratelli, quello dei covoni legati «nel campo»; una donna cerca di persuadere re Davide a perdonare Assalonne per il fratricidio da lui perpetrato, fingendo che suo figlio abbia ucciso il fratello – crimine che ha luogo «nel campo»; nella storia del conflitto tra Beniamino e le altre tribú (narrata in Giudici 20 e 21) la parola «campo» ricorre due volte.

Friedman ne trae una deduzione certo corretta: «La ripetizione della parola è un espediente per mettere in relazione i vari esempi di fratricidio». Eppure trovo insoddisfacente questa spiegazione sin troppo empirica. In realtà, pur formulando congetture riguardo alle implicazioni psicologiche del fratricidio – riconosce che la rivalità tra fratelli è avvertita da quasi tutti gli individui e ci ammonisce a tenere a freno la nostra ostilità e a considerare i sentimenti dei nostri congiunti – mi sembra di cogliere una risonanza letteraria oltre che un risvolto psicologico rispetto al dettaglio che tutta quella violenza si perpetra nel campo, e l’incapacità di Friedman di cogliere questo aspetto fa sorgere in me il dubbio che sia figlio unico. Mi sembra infatti evidente che, se si è intenzionati a commettere un atto cosí terribile ai danni del proprio fratello, dando sfogo a un’ira a lungo repressa, è probabile che sideci da di farlo in un luogo dove nessuno possa vederci.

Venti minuti dopo il nostro arrivo, Pyotr, il marito di Olga, rincasò, proveniente dalla chiesa. Era un uomo di quasi novant’anni, basso di statura, dall’aspetto sorprendentemente energico e vigoroso; portava occhiali con la montatura spessa, un berretto da lavoro, un vecchio completo dal colore indefinito e un gilè attillato:un contadino vestito a festa. Anche lui ricordò immediatamente il nome della mia famiglia, e aggiunse altri particolari. Ci disse, per esempio, che chi cercava di aiutare gli ebrei veniva messo a morte, come ci avevano già spiegato Nina e Maria, e la stessa Nina lo aveva rammentato a Olga, all’inizio della conversazione. «Alcuni ebrei lavoravano nella conceria», avevo letto sull’enciclopedia. «In seguito, essi vennero adibiti alla lavorazione del legno in un apposito campo di lavoro».Pyotr precisò che quando lui vi lavorava aveva cercato di far assumere qualche ebreo per completare la quota di operai richiesta, ma i tedeschi lo avevano minacciato. «Hai proprio bisogno di ebrei? Vuoi delle grane?».Nell’udire questa storia, ero combattuto tra il desiderio di credergli, convincendomi che l’ospitalità e la cordialità dimostrateci durante quel viaggio dagli ucraini, che pur sapevano chi eravamo e cosa cercavamo, fossero state le stesse anche un tempo, e la volontà di essere obiettivo – sforzandomi di non dimenticare che, mentre le persone da noi incontrate affermavano che gli ucraini avevano cercato, o quanto meno desiderato, di aiutare gli ebrei, perfino mentre sedevamo di fronte a gente ospitale, anche troppo, come Maria e Nina, chi racconta una storia segue sempre un suo filo logico.

Ascoltavamo Olga e Pyotr, e per la prima volta fui lieto di non apprendere particolari relativi ai miei parenti, perché ormai non ero piú convinto che desiderassi davvero scoprire cosa avevano dovuto sopportare. Pensavo a quelle persone ammassate nel Dom Katolicki, costrette a formare una orrenda piramide umana. Chi erano? Chiunque fossero, non si trattava di una massa di individui anonimi; ognuno aveva la sua individualità, era un essere umano – per esempio una ragazza adolescente, con una famiglia, un passato, una cugina che viveva in America, i cui figli un giorno sarebbero tornati per capire cosa le fosse accaduto e cercare cosí di ricostruire la sua identità, se non per lei quanto meno per loro tranquillità d’animo...

Ormai sul punto di accomiatarci, mi resi conto che non eravamo venuti a conoscenza di alcun dettaglio specifico su Shmiel e la sua famiglia; malgrado ci fossimo spinti fin laggiú non avevamo scoperto alcun fatto o informazione che potesse confermare o meno le storie che da sempre conoscevamo. «C’era un castello nei dintorni?» chiedevo puntualmente a tutti quelli che incontravamo, ricordando i racconti di mio nonno ascoltati anni prima; ricevevo immancabilmente la stessa risposta, a riprova di quanto già sapevo: no, non c’era nessun castello, nessun posto dove nascondersi. Alla fine del colloquio apprendemmo un ultimo particolare. «Furono portati in una fossa comune e uccisi». Pyotr rievocò l’ultima Aktion, quando gli ebrei vennero condotti al cimitero e trucidati a raffiche di mitra, i cadaveri ammassati in una fossa comune.

«Da dove passarono?» domandò mio fratello.

Olga si alzò con impeto e indicando la finestra replicò: «Di qui!». Nina si portò le mani alla bocca per lo stupore, come se non fosse a conoscenza di quella storia,quasi non riuscisse a capacitarsi che un evento cosí remoto e straordinario potesse essere accaduto proprio . In effetti si trattava della strada che avevamo percorso per arrivare in quella casa, dove Maria ci aveva lasciato.

Pyotr ricordò anche che in quell’ultima Operazione,mentre gli ebrei di Bolechow (molti dei quali suoi vicini) venivano fatti sfilare seminudi – gli ultimi Freilich,Ellenbogen, Kornblüh, Grünschlag e Adler, o comunque si chiamassero, ancora in vita, i superstiti di quella generazione di ebrei di Bolechow, macellai, venditori ambulanti, commercianti di legnami, la cui presenza in quella città, per quanto adesso inimmaginabile, è tuttavia attestata nei registri vergati a mano dei censimenti e negli elenchi di attività commerciali da lungo tempo dimenticati e oggigiorno accessibili, circostanza alquanto bizzarra, a chiunque abbia un computer – e venivano condotti, due a due, verso una morte di cui non sono riportati in nessun documento ufficiale né il luogo né la data precisa, essi gridavano all’indirizzo dei vicini – cioè a Olga, che era ancora in piedi a indicare la finestra,e ad altri – frasi in polacco come: «Stammi bene», «Ciao,non ci rivedremo piú», «Non ci incontreremo piú».

Mentre Alex traduceva la descrizione di quella marcia di morte dei suoi vicini ebrei che Pyotr stava evocando, mi sovvenne in modo straordinariamente vivido di quando mio nonno mi salutava al telefono e del suo timbro di voce, di quel «Ciao» pronunciato con la «c»gutturale tipica degli ebrei polacchi, ormai scomparsa. Ma non fu questa la ragione per cui il piú orrendo dei dettagli che apprendemmo quel giorno, i saluti angosciosi dei condannati, si impresse nella mia mente. Solo in seguito, dopo il mio ritorno negli Stati Uniti, collegai quanto ci era stato raccontato in quell’occasione a Bolechow a un particolare che ricordai di aver letto in una lettera di Shmiel: il consapevole addio, l’improbabile commiato. «Vi saluto e vi bacio dal profondo del cuore».

Ciao, non ci rivedremo piú.

È storicamente accertato che molte delle efferatezze compiute contro gli ebrei dell’Europa orientale non vennero perpetrate dai tedeschi ma dalle popolazioni locali, polacchi, ucraini, lituani, lettoni; i vicini, persone con cui gli ebrei avevano convissuto intimamente per secoli, fino a quando quel delicato equilibrio si alterò ed essi si rivoltarono contro di loro. Alcuni trovano incredibile questo fenomeno – non da ultimo, gli stessi ebrei. Piú di un sopravvissuto con il quale ho parlato negli anni successivi a quel primo viaggio a Bolechowha espresso sconcerto, rabbia o ira all’idea che i loro conterranei si fossero trasformati in assassini.

«Cannibali!» esclamò con stizza una donna a Sidney.«Per me sono cannibali. Avevamo vissuto porta a porta per anni – e poi ecco cosa è successo».

Un altro australiano conosciuto in seguito in modo del tutto casuale definiva «macellai» gli ucraini collaborazionisti, con il tono in cui si qualifica un informatore della polizia segreta o una spia. Un pomeriggio mi disse: «Strutinski era un noto macellaio, uccise molte persone. E ce n’era un altro, Matwiejecki, che si vantava di aver ammazzato con le proprie mani quattrocento ebrei. C’era anche una famiglia, i Manjuk – erano ucraini, e parlavano perfettamente in yiddish, due fratelli che diedero la caccia agli ebrei durante l’Olocausto, uccidendone parecchi».

«Parlavano perfettamente in yiddish?» chiesi stupito. L’australiano annuí, e mi spiegò che parecchi cristiani di Bolechow, polacchi e ucraini, conoscevano molto bene l’yiddish: tanto stretti erano i loro rapporti con gli ebrei.

Con un mesto sorriso commentò: «Eravamo il primo esempio di società multietnica».

Avevo l’impressione che, al di là della dolorosa e amara disillusione, per non dire dello sconcerto, che molti manifestano di fronte al fatto che delle persone che hanno convissuto per lungo tempo in una certa intimità possano come niente fosse ammazzarsi a vicenda, appena se ne presenti l’occasione – evento cui abbiamo assistito in tempi ben piú recenti rispetto al 1941 – dietro l’amarezza e lo sconcerto si celasse la convinzione generica e forse ottimistica che sia piú facile uccidere dei perfetti estranei rispetto a chi conosciamo meglio. Io non ne sono cosí sicuro. Lo scettro e il flagello,il braccio spezzato, i tutori metallici per le gambe, l’orrendo matrimonio imposto, «Ti scrivo per dirti che hai perso il senno». L’unica volta che ebbi l’ardire di chiedere a mio padre perché non rivolgesse piú la parola al fratello, un silenzio annichilente che durò gran parte della mia vita, mi rispose: «A volte è piú facile avere a che fare con degli estranei».

In, interior, intimus. L’intimità può generare ben altre emozioni che non l’amore. Le persone con cui si è vissuto in grande intimità e promiscuità, che conoscono bene i tuoi sentimenti, soprattutto le tue debolezze: saranno proprio loro, nel momento cruciale, le prime a essere escluse, allontanate, scacciate, definitivamente cancellate.

 

Varrà forse la pena notare che mentre il nostro esegeta medievale Rashi è piú interessato a spiegare la famosa domanda posta da Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?», il commentatore moderno che stiamo citando focalizza la sua attenzione sull’altrettanto celebre risposta di Caino, che lui traduce: «Sono forse il custode di mio fratello?». Rashi si chiede per quale ragione Dio nella sua onniscienza ponga la domanda pur conoscendone la risposta. Anche in questo caso, ancora una volta, il suo interesse è psicologico piuttosto che letterario. Perché Dio pone una domanda a Caino? Eccola risposta di Rashi: «Per intavolare una conversazione pacata» in modo da indurre il colpevole alla confessione: «Per dargli la possibilità di pentirsi e rispondere: “L’ho ucciso e ho peccato contro di Te”». Per il commentatore francese, l’interrogativo di Dio non ha nulla a che vedere con la curiosità – potrebbe mai essere? – ma reca in sé una commovente sfumatura psicologica: il desiderio di Dio di concedere a Caino l’opportunità di ammettere la propria colpa. Tale interpretazione mi diede la conferma che, oltre a essere un grande saggio, Rashi era un padre.

Friedman giustamente non traduce le parole di Caino nella forma piú nota: «Sono forse il guardiano di mio fratello?». Il motivo è presto detto: nel sostantivo «custode» è sottinteso un motivo ricorrente nella cultura ebraica, che ritorna di continuo nella Genesi ed è alla radice del verbo che esprime il concetto di «custodire», «sorvegliare»: sh-m-r. L’uomo viene posto nel Giardino dell’Eden per curarlo e custodirlo, ul’sham’rahu; dopo la caduta di Adamo, ai cherubini viene assegnato il compito di «sorvegliare» (lish’m’or)il cammino che conduce all’Albero della Vita; e in seguito, Dio promette di mantenere la parola data ad Abramo e ai suoi discendenti perché Abramo «è stato il mio guardiano»(wayyish’mor). Quindi la frase è associata alla lealtà – e,ovviamente, alla slealtà. È in questo contesto, sostiene Friedman, che bisogna intendere la risposta di Caino a Dio: «Ora il primo omicida dell’umanità contesta cinicamente la responsabilità attribuitagli di badare al fratello». In altre parole, è solo considerando l’importanza che la Genesi annette all’idea del «sorvegliare», del «custodire», che si può apprezzare in tutta la sua portata la misura del fallimento di Caino quale fratello.

 

Dopo esserci congedati da Olga e Pyotr lasciammo Bolechow e tornammo a L’viv. Ero soddisfatto; avevamo appreso qualcosa di concreto, di specifico. Eravamo tutti esausti; quando, salendo in macchina, scorgemmo un gruppo di anziane ucraine che attraversava lentamente la piazza e Alex, mostrandosi solerte, gridò loro se per caso avevano conosciuto una famiglia di nome Jäger, avvertii una sorta di vago timore. Le donne si stagliavano minute sullo sfondo di un palazzotto a due piani che, secondo Alex, doveva essere indubbiamente appartenuto a un ebreo, come la maggior parte delle abitazioni che davano sulla Ringplatz. Tre di loro presero a discutere concitatamente, malgrado fossero a una decina di metri scorgevo il balenio delle capsule metalliche nelle loro bocche. Infine, dopo quel consulto, una si voltò e gridò qualcosa di rimando ad Alex, scrollandole spalle con gesto inequivocabile. Parlò per circa un minuto. Quindi Alex annuí e si girò verso di noi.

«Non conoscono nessuno Jäger» ci informò. «Ricordano solo una famiglia ebrea di nome Zimmerman. Vi dice qualcosa?».

«No» risposi io, che avevo in mente tutta la storia familiare con i suoi intricati alberi genealogici; a noi non diceva niente. Risalimmo in macchina, stranamente sollevati, e tornammo a L’viv.

Facemmo il viaggio in silenzio, cercando ognuno di assimilare le notizie acquisite e i dettagli finalmente rivelati, anche se non riguardavano direttamente i nostri parenti, particolari che, devo ammettere, d’un tratto perdevano d’importanza, alla luce di quanto avevamo appreso. Come per reazione, una volta tornati in albergo diventammo molto loquaci; ci sedemmo al bar intrattenendoci fino a tarda sera a commentare gli eventi del giorno. Una volta in camera, la conversazione con Andrew fu affatto diversa da quella della sera precedente, segnata dall’inquietudine, il nervosismo e la preoccupazione che a Bolechow non avremmo scoperto nulla. La notte prima, stesi sui lettini della nostra stanza, ci eravamo scagliati l’uno contro l’altro, prendendocela anche con gli altri fratelli per ogni contrattempo; Jean aveva detto qualcosa che mi aveva infastidito, e poi era evidente la cupa irritazione di Matt nei confronti di Andrew, tanto che a un certo punto questi aveva esclamato: «Forse tra di noi non esistono rapporti».

Adesso era intervenuto un cambiamento indefinibile, l’aria si era come schiarita. Eravamo tutti eccitati. Il viaggio a Bolechow, l’esuberanza e l’ospitalità di Nina,la splendida cortesia di Maria, che aveva cercato di riconoscere in una fotografia un volto, seppure mai visto,scomparso dalla faccia della terra due generazioni prima, la pacata espansività di Olga e di Pyotr – dopo tutto, avevamo scoperto qualcosa; forse non esattamente ciò per cui ci eravamo spinti fin laggiú, non i dettagli che cercavamo: ma avevamo stabilito un contatto.

E cosí, pervasi da rinnovata energia, decidemmo all’unanimità di tornarvi il giorno seguente – non per parlare con altre persone, dal momento che dubitavamo di rintracciare altri testimoni di quel periodo, ma per recarci al cimitero, una visita simbolica al luogo in cui, da trecento anni, riposavano i nostri avi. Non speravamo di trovare tombe di antenati. Sapevamo che le pietre tombali erano tutte in ebraico, erose dal tempo, difficili da decifrare, e inoltre che in quegli antichi cimiteri ebraici i cognomi si usavano di rado, poiché le iscrizioni seguivano ancora l’usanza biblica: qui giace il tal dei tali, figlio o figlia del tal altro. Alex, che era già stato lí, ci aveva avvertito che ve n’erano a centinaia. L’ennesimo ago in un pagliaio. Eppure andammo.

L’indomani il tragitto di un’ora e mezza da L’viv a Bolechow ci parve piú breve; tutti di buon umore, commentavamo ancora le scoperte del giorno precedente. La fortuna era mutata. Infatti, mentre cercavamo un posto per parcheggiare, lungo il fiumiciattolo che scorre di fianco all’antico cimitero, Matt si mise a gridare.

«Ferma! Ferma! Sima Jäger! Sima Jäger!» continuava a urlare, indicando un punto verso destra.

In quella direzione, sulla sommità della collina, c’era una lapide isolata. A caratteri romani, e non ebraici, viera incisa la scritta: SIMA JAGER. Io che studio l’albero genealogico della famiglia dall’età di tredici anni fui subito in grado di affermare che si trattava della prozia di mio nonno. Parcheggiammo e ci inerpicammo per la collina infestata di erbacce. Ci fermammo a lungo in quel luogo, scattando fotografie e riprendendo con la videocamera le lapidi; prima di andar via feci quel che fanno gli ebrei quando visitano i cimiteri: misi una pietra su una tomba. Ne raccolsi una e la posai sulla lapide di Sima; poi ne presi delle altre per deporle sulla tomba di mio nonno a New York. In lontananza, dove improvvisamente terminava la fila di lastre tombali, biondi bambini ucraini giocavano con un’altalena ricavata da un vecchio copertone appeso al ramo di una grossa quercia secolare. Erano bellissimi, e Matt, che adora fotografare i bambini – anche se durante quel viaggio e i molti altri che avremmo intrapreso insieme ritrasse per lo piú persone molto anziane – non resistette alla tentazione di immortalare i bimbi dai minuti volti affilati e dai capelli color paglia intenti a giocare tra le tombe di ebrei dimenticati. In una di queste foto si vede un bambino arrampicato su una imponente lapide in pietra massiccia – chiaramente il monumento di qualche personaggio importante. Solo molto tempo dopo notai il nome che vi era inciso: KORNBLUH. L’iscrizione recita: «Questa è la tomba di una ragazza morta prima delle nozze»...

Ce ne stavamo lí a osservare Matt che scattava foto. La zolla di terra piuttosto ampia lungo la quale il pneumatico descriveva il suo arco con il carico di bambini urlanti era leggermente sbiadita e piuttosto compatta,come fosse stata battuta, chissà quanto tempo prima.

La storia di Caino e Abele presenta un ben noto problema di traduzione. A un certo punto, il testo ebraico recita testualmente: «La voce/suono dei sangue di tuo fratello gridano dalla terra fino a me». Poiché kol, «voce» o «suono» è singolare, mentre sia la parola che si traduce con «sangue»,d’mây, che la forma del verbo «gridare», tso’akiym, sono al plurale, la frase pronunciata da Dio pone una difficoltà di ordine grammaticale. La maggior parte dei traduttori sceglie di ignorare la mancata concordanza, e rende cosí la frase: «La voce del sangue di tuo fratello grida...». Nella traduzione di questo passaggio, gli editori del commentario di Rashi riportano alla lettera la strana sintassi cercando di darvi un senso: «La voce dei sangue di tuo fratello gridano a me dalla terra!». In altre parole, la frase «La voce dei sangue di tuo fratello» diventa, sostanzialmente, un’interlocuzione scorretta, comunque sconnessa da un punto di vista sintattico rispetto al significato effettivo, secondo il quale qualcosa grida dalla terra (Rashi spiega lo strano plurale della parola «sangue» in due modi, uno allegorico e l’altro letterale. La prima interpretazione è in chiave poetica: egli ipotizza che i plurali si riferiscano «al suo sangue e a quello della sua stirpe». Poi,piú concretamente, si pone nei panni di chi abbia in animo di compiere un delitto: «Oppure, perché [Caino] inferse molte ferite [ad Abele], non sapendo da dove si sarebbe dipartita la sua anima»).

La traduzione di Friedman è ben piú audace e, bisogna sottolineare, di gran lunga piú efficace: «La voce! Il sangue di tuo fratello grida dalla terra fino a me!». Non si fa cioè scrupolo di estrapolare quel nome singolare, «La voce!», dal resto della frase: lo lascia isolato, come una pura esclamazione di orrore. L’effetto è duplice. In primo luogo, causa a un tempo commozione e turbamento pensare che il sangue versato di un omicidio produca un suono cosí tremendo che persino Dio è costretto a gridare come farebbe un essere umano,quasi coprendosi le orecchie con le mani: «La voce!». Ma quel che è davvero inquietante in questa traduzione dall’originale ebraico è la rappresentazione alquanto icastica delle grida delle vittime innocenti che, persino dopo l’omicidio, non smettono di levarsi dalla terra dove il sangue fu versato.

Ci lasciammo alle spalle il cimitero per recarci a piedi nel centro del paese. Ci fermammo davanti all’abitazione che un tempo era appartenuta a Shmiel per scattare qualche fotografia. Mentre eravamo lí, un giovane e aitante ucraino, dai corti capelli biondi e un viso affilato come quello delle icone cosí diffuse da quelle parti, uscí da casa e ci chiese, non senza una certa aggressiva diffidenza, chi eravamo e cosa stavamo facendo. Alex raccontò di nuovo tutta la storia. E ancora una volta ricevemmo un’accoglienza inaspettata. Il giovane – non avrà avuto piú di venticinque anni – si aprí in un sorriso smisurato, facendoci segno di entrare.

«Ha detto che per lui è un grande onore» tradusse Alex, frase che avremmo sentito ancora. «Vi invita a entrare».

E cosí procedemmo in fila indiana; il giovane, che si chiamava Stefan, ci fece cerimoniosamente accomodare nel soggiorno, sobriamente arredato, con una modesta riproduzione dell’Ultima cena appesa alla parete. Quindi scomparve in cucina, da dove sentimmo provenire un insistente chiacchiericcio tra lui e sua moglie, Ulyana, una ragazza bionda molto carina. Poco dopo tornò con una bottiglia di cognac e parlottò con Alex.

«Vuole offrirvi da bere» spiegò la nostra guida. Declinammo educatamente l’invito, ma ci rendemmo presto conto che sarebbe stato interpretato come un atto di scortesia. I bicchieri vennero riempiti, e brindammo a mio nonno, che era nato lí da qualche parte, in un punto molto vicino al luogo in cui eravamo seduti, all’America e all’Ucraina. Non era ancora mezzogiorno. Cominciavamo ad avvertire la forte emozione accumulata in quell’interminabile mattino. Ci sentivamo tutti un po’ storditi. Ulyana trafficava in cucina, e ben presto Stefan rientrò esibendo due lunghi coregoni essiccati che, secondo quanto comunicò ad Alex, intendeva regalarci. Insisté per un altro giro di cognac e brindammo di nuovo. Stefan osservò che noi fratelli ci assomigliavamo tutti, al che replicai che questo tornava a onore di nostra madre. E giú risate e un altro brindisi.

Poi, pensando alla vasta proprietà che si stendeva intorno alla dimora per un buon tratto di strada verso il cimitero, dove fiorivano meli, alberi di prugne e di mele cotogne, pregai Alex di chiedergli di raccontarci le vicende che li avevano portati a stabilirsi in quella casa. Stefan sorrise, e rispose che l’abitazione era appartenuta al suocero, che l’aveva acquistata dopo la guerra. «E da chi l’ha acquistata?» domandammo in coro. Il giovane agitò le mani in segno di sconcerto, e ci lanciò lo stesso sorriso enigmatico di Maria ventiquattro ore prima, quando le avevamo chiesto del castello.

«Non lo sa» tradusse Alex, anche se ormai conoscevo il significato di nye znayu. Se pure non avessi capito cosa stava dicendo quel giovane dai capelli color paglia e dal viso allungato, simile a una splendida icona ortodossa, mi sarei aspettato una risposta del genere. Manon importava: se da un punto di vista temporale Olga era la persona piú vicina ai fatti che stavamo cercando di ricostruire, di certo la nostra permanenza di mezz’ora in quella casa fu l’evento piú significativo da un punto di vista spaziale. Quella era la loro casa e, per quanto ne sapevamo allora, vi erano anche morti. Fusolo a Sidney che scoprimmo quanto ci sbagliavamo.

Ci stavamo avviando verso la macchina, quando Stefan uscí di corsa dall’abitazione con un cesto pieno di me lette verdi ancora acerbe, appena colte dall’albero. Le indicò e gridò qualcosa ad Alex.

«Sono per vostra madre» spiegò Alex. «Cosí mangerà la frutta della casa che un tempo apparteneva alla sua famiglia!».

Fu un gesto davvero gentile e commovente, anche se la dimora dove era vissuta la mia famiglia e dove era nato mio nonno non era quella a cui Shmiel alludeva nelle sue lettere. Ci avevano detto che era stata abbattuta durante la guerra per ordine dei tedeschi, o subito dopo per fare posto a una costruzione piú grande e moderna edificata dagli ucraini che, una volta sbarazzatisi dei polacchi e degli ebrei, considerati da alcuni i dominatori di sempre, oppressori e sfruttatori, alla fine,quando venne il loro turno, erano rimasti gli unici abitanti della città.

Quando il crimine di Caino viene scoperto, Dio annunciala sua punizione: Caino sarà ancor piú maledetto della terra su cui aveva versato il sangue del fratello; la terra non sarà piú generosa con lui, ed egli sarà costretto a vagare in un perpetuo esilio. La reazione di Caino a questa spietata sentenza è ambigua: «La mia iniquità è tanto grande che io non posso sopportarla». La frase va interpretata in senso dubitativo o come un’asserzione? Lo stesso dicasi per l’affermazione: «Io sarò nascosto al tuo cospetto». Friedman, che si rivolge al lettore moderno, le attribuisce una connotazione spregevole, che è poi il giudizio che se ne ricava: Caino teme di non poter sopportare la sua colpa e l’esilio. Al contrario Rashi, come sempre, si interroga sulle implicazioni insite nel testo.

Per il commentatore medievale francese, appresa la punizione il rassegnato Caino formula una domanda retorica che presuppone una risposta negativa: sa bene che il crimine commesso non è piú grande di quel che può sopportare, cosí come sa che in qualche modo riuscirà a tollerare il suo fardello, poiché se Dio sostiene «i regni eccelsi e quelli infimi», un uomo può ben sopportare la punizione comminatagli. Inoltre è ben consapevole che non potrà nascondersi a Dio: conoscendo l’onnipotenza del Creatore, come potrebbe mai nascondersi da Lui? (Domanda che naturalmente implica un interrogativo dalla risposta ancor piú ardua: se nessun crimine è sconosciuto a Dio, perché Egli permette che se ne commettano?). È difficile non propendere per questa lezione piú antica, perché essa suggerisce, per lo meno in retrospettiva, la consapevolezza di Caino che, per quanto lontano egli possa fuggire, in qualsivoglia remoto campo o luogo nascosto, l’intento delittuoso non rimarrà celato agli occhi di Dio.

 

C’era un’altra casa a cui avevo pensato parecchio durante il nostro viaggio.

Questa abitazione, che si trova a Striy, un tempo Stryj, cittadina tra L’viv e Bolechow, era ancora in piedi; il problema era trovarla. Era appartenuta alla signora Begley, la madre del mio amico, colei che aveva corretto la mia pronuncia dei nomi delle città polacche. In ogni modo, malgrado il mio pessimo accento in quella lingua, era rimasta incuriosita dall’interesse che avevo palesato per il suo mondo scomparso, e subito dopo quel primo incontro mi aveva invitato a prendere un tèda lei, nell’Upper East Side. Inizialmente manifestò un certo scetticismo riguardo al mio reale interesse, ma poi cominciò a mostrami degli oggetti: vecchie fotografie e il libro Yizkor di Stryj. La signora Begley non era certo una donna sentimentale – dopo quel primo invito, nel gennaio del 2000, mi proibí di portarle dei regalini;malgrado ciò la volta seguente mi presentai con un mazzo di fiori, cosa che la seccò non poco, o almeno cosí mi parve, poiché non avevo ancora imparato a interpretare i suoi complicati atteggiamenti – ma quel primo sabato in cui mi recai da lei, mentre mi mostrava il libro Yizkor le sfuggí qualche lacrima.

«Diciassette» commentò con un certo imbarazzo, infastidita che l’avessi vista piangere, indicando la fotografia scolorita di un ragazzo scomparso, un nipote o un cugino, non ricordo. «Aveva diciassette anni, ce l’aveva quasi fatta».

Poi, con gesto impaziente, mi fece segno di sedermi a una tavola imbandita con una tovaglia bianca fresca di bucato, piattini colmi di sottaceti, un vassoio con fette di pane nero e salmone affumicato, un piatto bianco pieno di biscotti e pasticcini. La domestica, Ella, una gentile polacca bionda, si avvicinò timidamente con una teiera.

«Non doveva disturbarsi, signora Begley!». Mentre pronunciavo quella frase, mi sentii come un dodicenne che ripetesse pedissequamente educate frasi di circostanza.

Mi lanciò uno sguardo non esattamente amabile.«Disturbami?» si stupí, con un tono tra l’irritato e l’indulgente. «Sono un’ebrea polacca di buona famiglia. Non saprei comportarmi altrimenti».

Mangiai il salmone e i biscotti.

Andò avanti cosí per qualche mese. C’era qualcosa di estremamente formale, quasi ritualistico, in quelle visite; per lungo tempo mi chiamò solo Signor Mendelsohn. Mi telefonava per invitarmi: «Signor Mendelsohn,le va di venire a prendere un tè la settimana prossima? Venerdí andrebbe bene? Sí, venerdí, d’accordo, la saluto dunque». Mi aspettava nell’angusto ingresso, impettita e agghindata, con indosso uno dei suoi abiti preferiti di velluto blu scuro. Le porgevo il mazzo di fiori, che immancabilmente ignorava, e mi stringeva la mano dicendo, mentre Ella portava via il bouquet: «Venga a mangiare qualcosa». Attraversavamo lentamente il corridoio e ci accomodavamo nella sala da pranzo, gustando biscotti e salmone accompagnati da tè, bollente

o freddo a seconda della stagione, e discorrendo dei miei bambini, dei suoi figli, di nipoti e pronipoti. A volte, dopo aver pasteggiato, ci spostavamo nel soggiorno,arredato con un alto sofà, fiori freschi e decine di fotografie incorniciate del figlio e dei nipoti. Vi si respirava quell’aria lievemente stantia caratteristica delle stanze poco frequentate, un’atmosfera di contemplazione piú che di attività, quella di un museo o della casa natale di qualche personaggio illustre; lei sedeva sulla poltrona sistemata in un angolo, impettita e imponente, mentre io mi appollaiavo sul bordo dell’alto divano morbido, e conversavamo ancora un po’. Dopo qualche minuto afferrava il bastone e si alzava, simile a una regina o a un primo ministro che con ferma cortesia ponga termine all’udienza, e si accomiatava: «Bene, dunque, la ringrazio per la visita e la saluto». Mi porgeva la mano nodosa,fredda e incartapecorita, come un’imperatrice deposta che congedi un vecchio cortigiano che l'aveva conosciuta prima della rivoluzione, e andavo via.

Al tempo di quelle visite, mio nonno, del quale avevo trascorso buona parte della mia vita a preservare, riportare alla luce e dipanare storie, segreti e bugie, era passato a miglior vita ormai da un quarto di secolo, e con lui tutti gli altri. Ed eccomi lí, una volta al mese, a prendere il tè in compagnia di una signora di appena otto anni piú giovane di mio nonno, appartenente quindi alla sua generazione, della stessa estrazione culturale. Frequentandola, avevo la sensazione che qualcosa mi fosse stato inaspettatamente restituito, quasi avessi ingannato la morte, proprio come aveva fatto lei. Da bambino non avevo colto la grande occasione che mi veniva offerta, la possibilità di parlare con quei vecchi ebrei che popolavano la mia infanzia e conoscevano tanto di quel che desideravo sapere. Questa volta, mi ripetevo in quei primi mesi durante i quali andavo approfondendo la conoscenza della signora Begley, all’inizio del nuovo millennio, non avrei commesso lo stesso errore, sarei stato attento a ogni parola, non avrei trascurato alcun dettaglio. Consideravo quell’amicizia un po’ come una nuova opportunità, dopo quella persa per aver ignorato quelle persone, per stoltezza o perché ero troppo giovane, o per entrambi i motivi.

E cosí, alla vigilia della partenza per l’Ucraina, in quell’estate del 2001, le promisi che saremmo andati a Striy a vedere la sua antica casa. Andai a farle visita all’incirca una settimana prima dell’appuntamento fissato con i miei fratelli all’aeroporto Kennedy. Desiderava parlarmi prima che partissi, mi aveva comunicato al telefono. Era un venerdí. Mi aspettava in soggiorno, seduta sulla poltrona, con un lungo abito di velluto, lamano sul bastone. Quel giorno fummo molto impegnati: prendemmo solo del tè freddo mentre mi dettava i nomi dei luoghi che dovevo visitare quando fossi arrivato laggiú. «Morszyn» mi suggerí, riferendosi a una località termale di cui conservava ancora degli opuscoli pubblicitari, in polacco e in francese, risalenti a sessant’anni prima. «Skole». Poi, con lieve tremito della mano, disegnò su un foglio di carta una piantina per mostrarmi dove sorgeva la vecchia casa in cui aveva vissuto da bambina, a Rzeszów, una cittadina a metà strada tra Cracovia e L’viv (l’ho qui davanti a me, mentre scrivo).

Quindi mi fece annotare l’indirizzo della casa di Striy dove aveva abitato con marito e figlio, il mio amico. Sedeva austera, in tutta la sua vecchiezza, felice di darmi quelle informazioni, dissimulando l’eccitazione.

«Davanti alla nostra casa c’erano i lillà piú belli che si fossero mai visti» rievocò. «Erano meravigliosi, da non credere».

Ripeteva spessa la locuzione da non credere quando richiamava alla mente qualche vivido ricordo piacevole del suo passato, come se ritenesse inutile cercare aggettivi piú specifici per descrivere le bellezze di un mondo ormai scomparso. Quando mi parlò dei lillà, mi riproposi di portarle dei fiori colti nel giardino della casa dove aveva abitato tanto tempo prima. Quei fiori li avrebbe certo accettati, pensai tra me. Il giorno in cui visitammo il cimitero di Bolechow annunciai ai miei compagni di viaggio che ci tenevo molto a fare una tappa a Striy. In un primo momento l’idea di trovare la casa della signora Begley piacque a tutti: naturalmente era impossibile resistere alla tentazione di fare un favore a un’anziana signora ebrea sopravvissuta all’Olocausto,ora stabilitasi a New York (loro non la conoscevano di persona: mi divertiva non poco immaginare come avrebbero reagito davanti a quella donna cosí particolare, tanto diversa dalle espansive e affettuose vecchiette che avevano popolato la nostra infanzia). Ma durante la ricerca l’entusiasmo degenerò presto in frustrazione. Il problema era per certi versi opposto rispetto a quello della casa di Bolechow che attualmente sorge sull’antico lotto n. 141. In questo caso ne avevamo scoperto l’ubicazione, ma l’edificio non esisteva piú. Invece l’edificio di Striy – «una grande casa sulla strada principale della città, la conoscevano tutti» mi aveva spiegato la signora Begley – non riuscivamo a trovarlo. «Via 3 Maggio numero 5» aveva specificato quando mi aveva consigliato i luoghi da visitare in Galizia; ma la storia, come ho imparato, spesso altera la geografia, e quella che un tempo era via 3 Maggio aveva cambiato nome tante di quelle volte che non era certo facile rintracciare la strada corrispondente sulla piantina di Stryj a nostra disposizione, risalente al periodo prebellico...

 

... Ce la procurammo cosí: quando gli comunicai che desideravo fare una tappa a Striy, Alex ci informò che lí viveva qualcuno che avremmo sicuramente desiderato conoscere, visti i nostri interessi – Josef Feuer, noto come l’ultimo ebreo di Striy. Lo stesso giorno dedicato alla ricerca della casa della signora Begley, Alex ci condusse in un condominio decrepito che sorgeva in periferia; scendemmo dalla macchina e imboccammo l’umida scalinata di cemento che portava all’appartamento di Feuer. L’anziano ebreo, un uomo curvo per l’età, dai modi distinti, con una barbetta bianca e l’aria da studioso, ci fece accomodare; io e i miei fratelli sfilammo in una stanzetta e prendemmo posto davanti a un tavolo di legno al centro della camera. In un misto di tedesco, yiddish e russo, che cercai di tradurre alla meglio ai miei fratelli,Josef Feuer ci raccontò come era scampato all’Olocausto. La storia ricordava quella di Eli Rosenberg, narratami all’inizio di quell’anno: la rocambolesca fuga in Unione Sovietica, l’arruolamento nell’esercito sovietico, il ritorno in una città desolata. Come Rosenberg, Feuer si era sposato ed era rimasto nel suo paese d’origine, ma non si era limitato a questo. Ascoltammo sbalorditi la sua storia, impressionati da quell’appartamento trasformato in una sorta di museo privato, vero e proprio archivio di una civiltà scomparsa, dove Feuer aveva raccolto tutti i frammenti della perduta comunità ebraica di Striy su cui era riuscito a mettere le mani: antichi libri di preghiera, piantine topografiche, carte ingiallite, documenti relativi a ispezioni comunali, fotografie di amici e sconosciuti, libri Yizkor, scatole traboccanti di corrispondenza con lo Yad Vashem e con il governo tedesco. Quando gli rivelammo il motivo della nostra visita a Striy, da quell’archivio fatiscente trasse diverse grosse,antiche mappe della città, e dall’enorme massa di carte recuperò un recente scambio di corrispondenza: intendeva rivelarci, ci assicurò, una storia divertente. Qualche tempo prima aveva scritto al governo tedesco per chiedere che erigessero un monumento nella foresta di Holobutow, fuori città, nel luogo in cui aveva avuto luogo la grande Aktion durante la quale avevano trovato la morte un migliaio di ebrei; ci spiegò che il sito era pieno di erbacce e versava in uno stato di totale abbandono: dalla terra venivano ancora alla luce delle ossa.

Ci mostrò una copia della lettera scritta in tedesco e inviata a Berlino. Poi ne prese un’altra, recante un sigillo ufficiale governativo. Ci disse che i tedeschi avevano risposto con grande sollecitudine, con una proposta: se il signor Feuer e gli altri membri della comunità ebraica di Striy avessero raccolto una somma di denaro perla bonifica del sito della foresta di Holobutow e la costruzione del monumento, il governo tedesco avrebbe volentieri sostenuto la metà delle spese.

A quel punto Feuer sventolò una terza missiva, la sua replica a quella proposta. Non mi è facile ricordarne il contenuto, perché rimasi colpito dall’inizio agghiacciante: «Gentili signori, tutti gli altri membri della comunità ebraica di Stryj si trovano nella foresta di Holobutow». Questo fatto, della cui veridicità non avevamo ragione di dubitare, chiarisce la frase che quell’uomo dotto e cortese rivolse a Matt, che gli stava scattando una fotografia, mentre ci accompagnava giú perla grigia scalinata, per accomiatarci: «Ditegli che sono l’ultimo dei Mohicani»...

... Cosí per trovare via 3 Maggio ci servimmo della mappa regalataci da Josef Feuer. Lungo una strada indiziata, Alex fermò una donna molto anziana con un fazzoletto avvolto intorno al capo. Le spiegò in ucraino cosa cercavamo, poi si interruppe, e con un’espressione quasi mortificata del faccione bonario mi chiese:«Mi può ripetere il nome della sua amica di New York?».

«Begley» risposi, ma subito scossi il capo e mi corressi: «Begleiter».

«Ah, il dottor Begleiter!» esclamò la donna: compresi quella frase prima ancora della traduzione di Alex. Si aprí in un ampio sorriso e pronunciò concitatamente qualche parola in ucraino. Alex tradusse: «Ha detto che era un medico molto in vista qui».

Erano trascorsi sessant’anni, pensai tra me, avevamo percorso migliaia di chilometri, ci eravamo imbattuti in quella donna, che inaspettatamente ricordava proprio il particolare che ci interessava. Tuttavia non eravamo riusciti a individuare l’oggetto della nostra ricerca, la casa dove aveva vissuto quel dottore. Per quasi un’ora camminammo su e giú lungo quel viale; a un certo punto riprendemmo con la videocamera una casa al civico numero 5, anche se in seguito ci fu detto che quella parte della strada prima della guerra non apparteneva a via 3 Maggio. Dopo un po’ i miei fratelli cominciarono a brontolare, e cosí, invece di continuare le ricerche, presi a fotografare tutti gli edifici che sorgevano su quella che, come ci era stato assicurato,era via 3 Maggio. Quando, appena rientrati dal viaggio in Ucraina, non senza imbarazzo mostrai le foto alla signora Begley, lei fece una smorfia e scosse stancamente il capo.

«Achhh, che gran delusione» mi confidò mentre consumavamo le pietanze elaborate fatte preparare appositamente per festeggiare il mio ritorno. Osservò con attenzione le diapositive, continuando a ripetere: «No,le dico che questa non è la mia strada».

Tuttavia divorò con gli occhi ogni fotografia, ogni diapositiva, ogni fotogramma del filmato girato per le vie di Striy, comprese le sobrie immagini della grande sinagoga della città, ora in rovina, senza piú copertura e con alberi di grosso fusto che fuoriescono dal suo interno distrutto. «Guardate» ci esortò la signora Begley,mentre Ella e io eravamo scomodamente appollaiati accanto a lei sul bordo del letto davanti al televisore. Indicò le immagini e aggiunse: «Quella era la mia vita». Quando il video terminò tornammo in sala da pranzo, e la vecchia signora osservò ancora una voltale diapositive, scuotendo la testa con aria severa, mentre Ella portava un’enorme zuppiera. «L’ho preparato con le mie mani!» annunciò la signora Begley. Quindi mi offrí dei cavoli farciti, ammonendomi che ero troppo magro.

Il giorno successivo all’infruttuosa ricerca della casa della signora Begley lo impiegammo a visitare L’viv.Quella sera, la vigilia della partenza, fummo ospiti di Alex e di sua moglie, Natalie, una dottoressa, che ci offrirono un cena sontuosa. «Erano gli ucraini i peggiori di tutti» ci aveva sempre ripetuto mio nonno. «Cannibali!» aveva sibilato quella signora di Sidney, molto tempo dopo. «Con voi sono stati cortesi perché siete americani, vi considerano tali piú che ebrei» avrebbe commentato una persona che conobbi molto bene in Israele, quando gli descrissi come si erano mostrati ospitali, affabili e gentili tutti gli ucraini conosciuti durante il viaggio di seigiorni nella vecchia madrepatria. A giudicare dalle informazioni allora in nostro possesso – ben poca cosa rispetto a ciò che avrei scoperto in seguito – e da quel che avevo visto (le fosse comuni a Bolechow, la sinagoga diroccata a Striy), ero tentato di dar credito a quelle parole. Tuttavia ero a conoscenza di altri particolari e avevo visto anche dell’altro. Naturalmente rimaneva la gravissima macchia dei tradimenti; ma vi erano state anche offerte di aiuto, atti di straordinaria umanità. In fondo, come si può prevedere il comportamento delle persone?

Il giorno seguente, un mercoledí, tornammo a New York. Il volo fu lungo, ci sentivamo esausti, ma tutto sommato avevamo fatto e visto parecchio, ed eravamo convinti di aver scoperto diverse cose: in fin dei conti il viaggio poteva considerarsi un successo. Appena sbarcati ci ficcammo in un taxi e ci precipitammo a Manhattan. Andrew avrebbe passato la notte in città, l’indomani sarebbe tornato a casa, in California, ma Matt e Jean, che vivevano a Washington, speravano di riuscire a prendere il treno delle ventitré. Il traffico verso la città era intenso, e arrivammo alla Penn Station quando mancava suppergiú un minuto alla partenza del treno. Non so se fu per il sollievo di avercela fatta o per qualche altra ragione, ma prima di correre a prendere il treno Matt si voltò all’improvviso, e mentre il taxi stava per ripartire ci gridò: «Ciao, vi voglio bene!». Quindi lui e Jean scomparvero nella notte.

 

Fu solamente molti mesi dopo il viaggio in Ucraina che finalmente cominciammo a scoprire i dettagli di quanto era accaduto a Shmiel Jäger e alla sua famiglia.

Una fredda sera di febbraio del 2002 me ne stavo tranquillamente seduto nel mio appartamento di New York. Quel pomeriggio avevo preso il tè dalla signora Begley, che si ostinava a chiamarmi signor Mendelsohn; le avevo mostrato un altro pacco di fotografie scattate durante il viaggio, appena ritirate. Per questo, quando quella sera il telefono squillò nemmeno tre ore dopo il mio ritorno a casa, e una voce calda dall’accento dell’Europa centrale esordí: «Il signor Mendelsohn?», risposi immediatamente «Signora Begley?».

La voce ripeté: «Il signor Mendelsohn?» e a quel punto mi avvidi che non era lei. Innervosito e anche un po’irritato – in realtà ero imbarazzato – chiesi chi fosse.

«Mi chiamo Jack Greene» si presentò lo sconosciuto,«la chiamo da Sidney, Australia. Mi è giunta voce che lei cerca conoscenti della famiglia Jäger di Bolechow».Ci fu un lieve sibilo nella linea. Distanze immense.

«Sííí» replicai, cercando di guadagnare tempo mentre tutto trafelato afferravo una penna sulla scrivania;quindi cominciai ad appuntare su un foglio GREEN(E?). AUSTRALIA → BOLECHOW. GIUNTA VOCE?

Be’, quella persona dall’altra parte del pianeta, con il suo accento pieno che mescolava un polacco perfetto alle inconfondibili consonanti e vocali dello yiddish, mi comunicò: «Deve sapere che io frequentavo una delle figlie di Shmiel Jäger; sarei lieto di parlare con lei, signor Mendelsohn».

Fu cosí che infine cominciammo a trovarli. Non proprio durante il viaggio in Europa, ma comunque grazie a esso.

Al ritorno da Bolechow, scaricammo su videocassetta le immagini riprese nel corso del nostro soggiorno; vi erano anche le conversazioni con Nina, Maria e Olga, e ne spedimmo delle copie ai cugini del ramo Jäger ancora in vita, tra cui Elkana, che viveva in Israele. In questo modo cominciò il passaparola: Elkana aveva a sua volta inviato le cassette ai pochi sopravvissuti di Bolechow.Tra questi Shlomo Adler, il leader della comunità degli ex residenti di Bolechow stabilitisi in Israele. Fu lui, molto tempo dopo, in un frenetico scambio di email, e in seguito, quando venne a trovarci a New York, a disilludermi sulle parole di Pyotr, che a suo dire probabilmente si era convinto di aver cercato di aiutare gli ebrei,circostanza alquanto improbabile; ci consigliò anche di non darci pena per la realizzazione di un monumento per i morti sepolti in una fossa comune, poiché sarebbe stato oggetto di atti vandalici, e a suo parere vi era il rischio che venissero trafugati persino i materiali da costruzione. Ci chiese anche se non avessimo notato che nel piccolo museo di Bolechow non c’era alcun riferimento agli ebrei della città. Comunque, fatto piú importante, era stato lui a parlare del nostro viaggio a Jack Greene, il cui vero cognome era Grünschlag. Ora viveva a Sidney, vicino al fratello minore, come lui miracolosamente scampato alla guerra. Jack aveva frequentato una delle figlie di Shmiel, ne conosceva la famiglia, e fu il primo dei dodici ebrei di Bolechow superstiti da cui apprendemmo, negli anni a venire, cosa era accaduto.

Quando Jack Greene mi rivelò: «Frequentavo una delle figlie di Shmiel Jäger» provai la stessa vertiginosa emozione di quando a Bolechow Olga aveva esclamato: «Znayu, znayu!». Quell’immensa distanza, tutti quegli anni; ed eccola, di fronte a me, eccolo lí, che mi parlava al telefono: esistevano ancora, da qualche parte. Bastava solo trovarli: richiamarli alla memoria.

Quella telefonata notturna mi aveva colto di sorpresa; dopo alcuni minuti in cui ero rimasto letteralmente senza fiato, chiesi a Jack Greene se potevo richiamarlo con calma, in modo da avere il tempo di prepararmi delle domande.

«Certo» mi tranquillizzò. «Mi chiami quando vuole. Per me è importante quanto lo è per lei».

Il giorno dopo gli telefonai; parlammo a lungo. Fu grazie a lui, in realtà, che cominciai ad apprendere particolari su Shmiel e la sua famiglia, come vivevano e come erano morti, e anche dettagli di minor rilevanza. Durante quella conversazione venni a sapere che «Ruchatz», nome che avevo decifrato nelle lettere di Shmiel, era in realtà Ruchele, a volte scritto Ruchaly. «Senta» aveva esordito Jack quella notte, «per prima cosa devo dirle che la terza figlia di Shmiel si chiamava Ruchele, si scrive R-U-C-H-E-L-E».

Quando obiettai di essere sicuro che Shmiel avesse scritto R-U-C-H-A-T-Z, Jack scoppiò a ridere. «No, no» ribadí, «a volte sulla l si fa una lineetta, intendendo una y, non una z». Mi sentii uno stupido per la mia insistenza, e provai vergogna. In fondo ero stato educato a mostrarmi deferente verso gli ebrei anziani.

Ma lui si limitò a ridere e aggiunse: «Ascolti, io uscivo con lei, quindi so bene che si chiamava Ruchele».

ROOKH-eh-leh, ripetei dentro di me. Mentre mi correggeva, pensai: «Come ho fatto a interpretare male una cosa importante come un nome?». Tuttavia, malgrado la vergogna e l’imbarazzo quasi adolescenziale, mi resi conto di aver acquisito un’ulteriore preziosa informazione: Ruchele era la terza figlia. Non eravamo mai stati certi dell’ordine di nascita delle quattro sorelle.

Rimasi incollato al ricevitore, assicurandomi che la spia rossa del registratore portatile fosse accesa, e annotando di quando in quando sul computer qualche particolare interessante. Molto di quel che Jack mi rivelò quella sera non riguardava eventi drammatici – tanto per fare un esempio, mi spiegò che a Bolechow le ragazze andavano al cinema nel centro ricreativo della comunità cattolica, il Dom Katolicki (a dire il vero la considerazione che non ci si riferiva a eventi drammatici è solo in parte appropriata, se si pensa che qualche anno dopo fu proprio lí che quelle stesse ragazze vennero costrette ad atti ignominiosi per il divertimento dei loro carnefici, prima di essere uccise). Mi parlò dei film americani proiettati all’epoca (ricordava Wallace Beery), e degli incontri dell’organizzazione sionista che frequentava per vedere Ruchele, dell’attività commerciale di Shmiel, e di come Bronia e la madre «si somigliassero come due gocce d’acqua», mi rivelò che Shmiel era stato il primo cittadino ad avere il telefono, che i giovani la sera andavano a passeggio nel parco, e che Ruchele non aveva la stessa personalità brillante del padre.

«Era una ragazza molto tranquilla» mi disse. «Aveva i capelli biondi. La trovavo bellissima».

A quel punto tacque; poi, come riscuotendosi, aggiunse: «Frydka era una ragazza davvero incantevole».

Per motivi che avrei appreso di lí a breve, il ricordo di Frydka portò Jack Greene a rievocare gli anni della guerra; fu allora che mi rivelò le voci giuntegli sul destino cui erano andati incontro i miei parenti, anche se tenne a sottolineare che si trattava solo di dicerie, poiché, naturalmente, a un certo punto era stato costretto a fuggire e a nascondersi.

«Le posso dire» cominciò «che Ruchele morí il 29 ottobre 1941».

Rimasi impressionato e commosso dalla precisione di quel ricordo.

«Senta, perché... voglio dire, come fa a ricordare cosí esattamente la data?» gli chiesi.

Mentre appuntavo RUCHELE → 29 OTT 1941, pensai tra me: «Doveva davvero amarla molto».

«Perché mia madre e mio fratello maggiore morirono lo stesso giorno» fu la risposta.

Non replicai nulla. In quel momento mi resi conto di quanto siamo tutti miopi, irrimediabilmente persi dietro le nostre vicende personali.

Intanto Jack proseguiva il suo racconto.

Poteva soltanto ipotizzare che Shmiel, la moglie e la figlia piú piccola fossero stati catturati nella seconda Operazione, all’inizio di settembre del 1942, ma era certo che Frydka, la seconda figlia, in merito alla quale, in una lettera inviata a mio nonno, Shmiel aveva espresso preoccupazione per le prospettive di lavoro, fosse riuscita a farsi assumere nella fabbrica di barili – una delle industrie locali requisite per far fronte agli sforzi bellici della Germania – e dopo quell’Operazione fosse ancora viva.

Trent’anni dopo aver cominciato a porre le mie domande e ad accumulare informazioni su schede d’archivio, fui finalmente in grado di scrivere: SHMIEL, ESTER, BRONIA, UCCISI NEL 1942.

«Lo so perché vidi Frydka in fabbrica dopo l’Operazione» affermò Jack. «Quelli reclutati per i lavori forzati almeno avevano qualche possibilità di sopravvivere»spiegò.

Scrissi, FABBRICA DI BARILI, LAVORO FORZATO → SOPRAVVISSUTI.

«L’obiettivo era trovare forza lavoro per l’industria bellica tedesca» scandí al telefono quella voce, cosí simile a quella di mio nonno. «Almeno ti dava uno straccio di sicurezza – che l’indomani non ti avrebbero portato via. Sarebbe accaduto dopo tre mesi, ma non subito».

Quando apparve evidente che le poche centinaia di ebrei rimasti in vita sarebbero stati liquidati, Frydka e la sorella maggiore Lorka erano fuggite da Bolechow,unendosi a un gruppo di partigiani che operavano nella foresta nei pressi del villaggio di Dolina, o almeno questo aveva sentito dire. Diversamente da altre unità di guerriglia, mi spiegò, quel gruppo era ben lieto di reclutare ebrei. A capo vi erano due fratelli ucraini, che si chiamavano Babij.

Jack compitò il nome, B-A-B-I-J, e io scrissi, FRYDKA/LORKA → PARTIGIANI BABIJ.

Poi aggiunsi DOLINA e TAUBE. I Mittelmark erano di Dolina; la mia bisnonna Taube era nata lí. In quel paese aveva giocato, e forse litigato aspramente, con il fratello maggiore.

«Vede» continuò Jack, «c’erano tre polacchi non ebrei che collaboravano con i partigiani, o erano in contatto con loro. Una notte – non ero a Bolechow, stavo nascosto, ma lo venni a sapere in seguito – quei ragazzi furono scoperti, i tedeschi li catturarono, li portarono in città e li uccisero. Questo avvenne esattamente... be’, piú o meno nello stesso periodo in cui annientarono il gruppo dei fratelli Babij nella foresta. Forse si salvarono solo in quattro».

«In quattro?» ripetei.

All’altro capo del filo Jack emise una specie di grugnito, dal tono lievemente ironico, probabilmente perla mia ingenuità. «Be’» rispose «pensi un po’ a quel che accadde a Bolechow. Su seimila ebrei ne sopravvissero quarantotto».

Tacqui di nuovo. Fissavo lo schermo del computer. FRYDKA/LORKA → PARTIGIANI BABIJ.

Digitai sulla tastiera, I RAGAZZI CHE AIUTARONO GLI EBREI FURONO UCCISI.

Quella notte di febbraio del 2002, non immaginando dove mi avrebbe portato quella storia, quanti chilometri e continenti avrei percorso per scoprire cosa era realmente accaduto, chi aveva davvero aiutato gli ebrei e chi era stato scoperto e ucciso, quella notte ero molto piú interessato alle figlie di Shmiel che non a quei giovani, e cosí mi limitai a dire: «Capisco. Ma in quel periodo le ragazze si trovavano nella foresta, giusto?».

«Esatto» confermò Jack. «Quei giovani erano in contatto con i rifugiati nella foresta, si incontravano spesso, portavano loro i rifornimenti, non so se viveri o munizioni. Per questo furono uccisi».

«Già» risposi. Digitai, RIFORNIVANO I PARTIGIANI DI VIVERI O MUNIZIONI.

«Vede, i tedeschi si servivano di informatori» proseguí Jack. «Erano ebrei fuggiaschi che spiavano il gruppo partigiano e ne rivelavano i movimenti. Immagino che fossero ricattati o costretti a tradire, in un modo o nell’altro».

A quella notizia sobbalzai sulla sedia. Mentre digitavo le parole EBREI → TRADITI, ebbi una sorta di folgorazione riguardo a quel che doveva essere accaduto, intuendo il legame tra quanto stavo apprendendo e i frammenti di storie uditi tanti anni prima. Mi apparve evidente che la vicenda del tradimento dei fratelli Babij era giunta alterata a mio nonno e ai suoi fratelli nelle varie versioni che circolavano sul destino di Shmiel e dei suoi congiunti; e in qualche modo quel singolo aspetto, il tradimento, nel tempo si era insinuato nelle storie personali della mia famiglia. Mio nonno, i miei prozii e tutti gli altri avevano creduto ciecamente a questa versione, come del resto avevamo fatto noi stessi per tutto quel tempo. In fondo, io e i miei fratelli avevamo intrapreso viaggi in tutto il mondo per trovarne conferma; volevamo credere che esistesse una storia, fosse anche di avidità, ingenuità ed errori di valutazione: era comunque meglio di niente.

Nell’attimo in cui Jack Greene mi rivelò la notizia delle spie che avevano tradito il gruppo dei fratelli Babij, mi resi conto di quali erano state le origini della nostra storia familiare; rammentai quel che mi aveva detto quel giorno a Chicago la cugina di mia madre,Marilyn, le reazioni suscitate dalla morte di Shmiel – aveva usato la parola gridare – e compresi che mi ero recato a Chicago anche nella speranza di scoprire un episodio drammatico. Mi accorsi che desideravo portare alla luce un elemento spiacevole nelle relazioni tra mio nonno, i fratelli e le sorelle e Shmiel, che avrebbe dato corpo all’ambigua vicenda che stavo elaborando, quella di un tradimento verificatosi in un ambito molto intimo, ben piú terribile, quello tra fratelli, un evento le cui dinamiche, in fin dei conti, conoscevo e che poteva fornire una motivazione logica alla loro incapacità di salvare Shmiel – sempre che, naturalmente, di incapacità si fosse trattato. La mia volontà di svelare questo mistero era analoga a quella di mio nonno di dar credito alla versione del tradimento da parte del vicino ebreo o della domestica polacca. In entrambi i casi erano motivate dalla necessità di una storia che, per quanto spaventosa, avrebbe fornito una spiegazione alle loro morti – conferendo loro un significato. Quella notte Jack Greene mi rivelò anche qualcos’altro: esattamente come Shmiel, i suoi genitori avevano cercato di mettere in salvo i propri figli, cercando di procurarsi dei visti di espatrio; ma nel 1939 la lista di attesa per il rilascio di tali documenti era lunga sei anni (al termine dei quali, sottolineò Jack, erano tutti già morti). Da buon sentimentale, mi piace credere che mio nonno e i suoi fratelli fecero tutto il possibile per salvare Shmiel e la sua famiglia, ma naturalmente non lo sapremo mai. Quel che è certo è che nel 1939 era troppo tardi per agire.

Durante tutto il viaggio avevo provato un costante senso di frustrazione perché nessuna delle vicende di mia conoscenza aveva trovato una qualche conferma da ciò che vedevamo o venivamo a sapere; per tutto il tempo sperai invano di imbattermi in una storia avvincente. Fu solo dopo aver parlato con Jack Greene che miresi conto di aver seguito la pista sbagliata – voler scoprire com’erano morti invece di come erano vissuti. Inevitabilmente, sono i dettagli relativi alla vita di tutti i giorni, i particolari banali, a costituire la vera essenza delle persone. Solamente quando il quotidiano perde di significato – quando la consapevolezza che si morirà fra tre mesi e non l’indomani appare quasi come un’oasi di «serenità» – tali dettagli ormai perduti diventano rari e preziosi. La verità era che avevano condotto esistenze ordinarie, vivendo e morendo come molti altri. E ancora una volta scoprimmo che anche delle vite di persone comuni si trovano ancora, sorprendentemente,molte piú tracce di quanto si immagini.

Gongolavo all’idea di quale inaspettata miniera di informazioni fosse quell’uomo, quando all’improvviso,quasi mi avesse letto nel pensiero, Jack mi invitò calorosamente ad andare a Sydney per conoscere lui, il fratello e un altro paio di sopravvissuti di Bolechow che vivevano lí. Non esitai ad accettare l’invito. Quelle persone avevano vissuto in quei luoghi, avevano conosciuto i miei congiunti, non potevo farmi sfuggire una simile occasione. Quell’uomo apparso dal nulla, che in una telefonata mi aveva rivelato molto piú di quanto tutta la mia famiglia sapesse dei parenti scomparsi, e la cui voce mi ricordava tanto quella di mio nonno, un tempo usciva con Ruchele; e sua madre era stata uccisa nello stesso giorno. Ormai io e Jack eravamo legati da vincoli di vita e di morte.

E poi c’era un’altra questione:

«Quindi potrei venire in Australia?» gli chiesi quella notte, mentre la conversazione volgeva al termine.

«Non perda tempo...» aveva cominciato a dire.

«D’accordo, verrò!» lo interruppi. Volevo accontentarlo, cosí come facevo con mio nonno.

«... non mi resta molto».

E cosí l’Australia fu il viaggio successivo. Incontrammo Jack Greene e i quattro ebrei di Bolechow sopravvissuti, dopo la guerra avevano deciso di stabilirsi in quel lontano continente, e fu laggiú che i contorni della storia iniziarono a delinearsi. Venimmo a conoscenza dei dettagli minuti che ci interessavano, i particolari grazie ai quali le mere date e le mere informazioni statistiche assumono la consistenza di una storia, per esempio di che colore era la casa, il modo in cui Frydka portava la borsetta. Negli anni seguenti, dopo l’Australia andammo in Israele, e da lí a Stoccolma, dove incontrammo la signora Freilich, e da Stoccolma di nuovo in Israele, quindi in Danimarca, dove conoscemmo Kulberg, che aveva in serbo per noi un racconto straordinario.

Alla fine ricostruimmo la nostra storia.

Ma c’era un particolare sugli Jäger di Bolechow, un fatto concreto che già sapevo prima ancora di intraprendere quei viaggi e conoscere tutte quelle persone. Come ho anticipato, ci risultava che Ruchele Jäger, la terza figlia di Shmiel, era morta nella prima Operazione, il 28 o il 29 ottobre 1941. Non possiamo determinare con esattezza la sua età: chissà per quale ragione,l’Archivio nazionale polacco di Varsavia possiede solo il certificato di nascita delle due sorelle maggiori, mentre sono andati perduti quelli di Ruchele e della sorella minore, Bronia. Jack Greene ritiene che avesse sedici anni, e probabilmente ha ragione. Ma una cosa è certa;è un dato di fatto, non serve consultare un archivio: Ruchele era nata dopo il 3 settembre 1923.

Questo perché quel giorno morí un’altra ragazza di nome Rachel, Ruchele. Dal momento che gli ebrei dell’Europa orientale impongono ai propri figli i nomi di familiari scomparsi – io e i miei quattro fratelli portiamo quelli di parenti defunti, proprio come mio nonno ei suoi sei fratelli; grazie a tale pratica, quanti sono interessati alle genealogie delle famiglie ebraiche hanno a disposizione un metodo altamente attendibile per determinare alcune date, se non vi è altro modo di verificare l’informazione – so per certo che la figlia di Shmiel, Ruchele Jäger, deve essere nata dopo la morte della sorella di suo padre e di mio nonno, la prima Rachel Jäger, nata nel 1896, la promessa sposa destinata a morte prematura, la cui inattesa e tragica fine sarebbe diventata nel corso degli anni il cavallo di battaglia dei narratori della mia famiglia, nel cui nucleo, o almeno cosí credo, si cela una vicenda ancor piú remota, una storia di vicinanza e di distanza, intimità e violenza, amore e morte, fonte di ogni leggenda, principio di tutti i miti, che spiega come si possano uccidere coloro a cui piú siamo legati.

 

Per quanto severa sia la punizione comminata al primo omicida della storia, Dio annuncia che chiunque uccida Caino verrà punito sette volte tanto. Anche in questo caso l’esegeta medievale e quello moderno offrono interpretazioni del testo radicalmente differenti. Il punto cruciale è la natura della punizione che toccherà a chi ucciderà Caino, espressa dalla parola shiv’ahthayim, che letteralmente significa «sette volte tanto». Come al solito Rashi si lancia in un’analisi approfondita, non contentandosi della lettura piú ovvia del verso, che considera come composta di due elementi distinti. Il primo è la parte iniziale della frase «Dunque, chiunque uccida Caino...!». Citando paralleli sintattici tratti dalle scritture ebraiche, Rashi sostiene che essa può essere letta come un’implicita ma generica minaccia contro chiunque possa essere tentato di nuocere al primo assassino della storia: «Questo è uno dei versetti piú sintetici delle Scritture», argomenta, «allude ma non spiega. “Quindi, chiunque uccida Caino”esprime una minaccia – “lo stesso verrà fatto a lui!”. “Tale sarà la sua punizione!” Ma non specifica quale essa sia».

Questa manipolazione del testo fa sí che Rashi si ritrovi con un frammento di frase composto da due parole, shiv’ahthayim yuqqâm, «sarà punito sette volte tanto». Ma Rashi sostiene che il soggetto implicito di questa frase non è, come siamo portati a credere, chiunque uccida Caino, ma Caino stesso. Secondo Rashi, Dio sta dicendo: «Adesso non voglio vendicarmi di Caino. Al termine della settima generazione avrò la mia vendetta su di lui, quando Lamech nascerà dai figli dei suoi figli e lo ucciderà» – episodio narrato in Genesi 4,23.

Per quale ragione Rashi evita accuratamente una lettura del testo che suggerisca che l’uccisore di Caino sarà punito«sette volte tanto» – in altre parole, che soffrirà un dolore sette volte piú grande di quello che ha inflitto? (Tanto piú che Friedman accetta tranquillamente la lettura piú ovvia di questo versetto, come indica la sua traduzione: «Dunque: chiunque uccida Caino, sarà punito sette volte tanto», per di piú non corredandolo di alcun commento). Nella nota alla mia traduzione del commento di Rashi, a questo versetto spiego:«Il verso non significa che Dio lo punirà sette volte tanto quanto merita, poiché Dio è giusto e non punisce ingiustamente». A questo punto mi chiedo se le discrepanze tra l’analisi di Rashi e quella di Friedman non derivino dalle diverse epoche storiche in cui i due commentatori sono vissuti, l’undicesimo e il ventesimo secolo; se per noi moderni non sia piú facile accettare di quanto non fosse per Rashi l’idea che forse,in fondo, Dio possa punire ingiustamente.

 

Il peccato commesso tra fratelli è ormai definitivamente impresso a fuoco nella storia della nostra famiglia, un tema ricorrente del passato ormai innestato nel futuro. L’11 agosto del 2002, a quasi un anno esatto dal giorno in cui mettemmo piede a Bolechow, e precisamente sessant’anni dopo gli eventi che avrebbero condotto alla morte del fratello di mio nonno e della sua famiglia, mia sorella Jennifer convolò a nozze. Come ho già avuto modo di accennare, lei è l’unica dei miei fratelli ad aver sposato un ebreo. Naturalmente è una pura coincidenza – e piú poetica e artistica non avrebbe potuto essere, e altamente simbolica per il racconto che sto scrivendo – che il cognome di suo marito sia Abele.

7 La Aktion Reinhard, l’Operazione Reinhard, era il nome in codice dato dai nazisti al progetto di sterminio degli ebrei polacchi (N.d.T.).